Matisse arabesque

Transcript

Matisse arabesque
Matisse arabesque Testo in catalogo di Ester Coen Nella duplice natura di questo titolo è compresa la forza di un’idea che, contemporaneamente, allude a una visione concettuale, all’interpretazione di una superficie pittorica, al richiamo di tradizioni culturali che nell’ornamentazione racchiudono il senso di una simbologia fondata sugli archetipi di natura e cosmo. Aspetti tra loro indissolubili perché germinati da un unico pensiero: trovare la misura che restituisca l’emozione di una sensibilità primitiva nell’incontro di tecniche e mondi carichi dei cromatismi e delle atmosfere d’Oriente. Il motivo della decorazione e dell’orientalismo è per Matisse la ragione prima di una radicale indagine sulla pittura, di un’estetica fondata sulla sublimazione del colore, della linea. Sull’identificazione di una purezza attraverso la semplificazione della forma, rafforzata dal confronto con la sintesi cromatico‐lineare dei crespi giapponesi, prima conferma dell’approfondimento della forza espressiva degli elementi della pittura: leggerezza ed essenzialità nipponiche presto modulate sul potere emotivo della pittura dei Primitivi del Louvre e dell’arte orientale, dalla bizantina alle forme di un decorativismo aulico e popolare allo stesso tempo. Nei motivi riccamente intricati e labirintici di civiltà antiche e lontane, Matisse coglie il senso di uno spazio diverso: “uno spazio più vasto, un vero spazio plastico” per “uscire dalla pittura intimistica”. La visita in Germania alla grande esposizione di arte maomettana nel 1910 – più di ottanta sale di tappeti, di ricami, di tessuti, di oggetti provenienti anche dalle raccolte Šˇcukin, dalla famiglia di uno dei più appassionati collezionisti di Matisse – rafforza il suo interesse per un’ornamentazione che gli ispira un impianto compositivo diverso da quello tradizionale. Per una superficie che possa aprirsi a “uno spazio di dimensioni che la stessa esistenza degli oggetti rappresentati non riesce a limitare”. L’Oriente e la Russia, nella loro essenza più spirituale e più lontana dalla visione puramente decorativa, schiudono a Matisse, ancor più dopo il viaggio a Mosca nell’ottobre 1911, la forza di schemi compositivi dai significati più elevati. Arabeschi, disegni geometrici e orditi di tessuti da cui riverberano sonorità di linee e di colori mistici, nello scorrere di forme in divenire sulla superficie – i due illuminati collezionisti di Matisse dal 1906, Šˇcukin e Morozov, erano i maggiori imprenditori‐mercanti tessili della Russia imperiale – divengono per Matisse il motivo strutturale dell’immagine nella sua misura simbolica. E dall’ordine di strutture matematiche e di ritmi semplici, il cui fascino era stato oggetto di importanti studi e teorie tra fine Ottocento e inizi Novecento, si consolida allora l’intuizione di un vero da rappresentare nella sua totalità. Quei motivi già presenti nel periodo tardoantico, nell’arte bizantina e nell’età rinascimentale, sono interpretati da Matisse con straordinaria modernità in un linguaggio che, al di là dell’esattezza delle forme naturali, tocca le punte del sublime. Temi ancor oggi di straordinario interesse esegetico, come attestano gli studi avviati da Edward Said sulla storia della fascinazione dell’Oriente per occhi educati a una visione occidentale: nella rappresentazione di un Levante inseparabile dai suoi soggetti esotici, riflesso di un’idea fantastica e fiabesca di cui Matisse riesce a mostrare con straordinaria sensibilità le forme purificate in una dimensione esornativa più astratta. Attraverso la suggestione e il rimando a oggetti di quelle fastose culture iconiche, a motivi di ibridazione e commistioni di generi e stili, “Matisse arabesque” rievoca lo splendore e insieme la delicatezza di un mondo antico e semplice, esaltato e trasformato dallo sguardo profondo del grande artista. Superfici “Una superficie dipinta può dare l’impressione di essere illuminata dall’interno: è un male, perché deve offrire all’occhio la resistenza di una superficie, o diventa insopportabile”. Matisse, già dalle prime dichiarazioni, difende il principio di superficie, quel principio che, con assoluta devozione e mirabile costanza, rimarrà la ragione esclusiva della ricerca di una vita. Ridurre gli elementi visivi, giocare con la linea forzando la potenza del colore alla massima saturazione timbrica, esaltare la natura piana della tela o dell’area da dipingere, senza mai rinnegare l’epidermide del supporto, la sola materia vitale per cui la pittura può esistere, in funzione di una unità dell’insieme. “Dall’arte classica ho appreso la tecnica del trompe‐l’œil, il sentimentalismo, la poesia, le convenzioni estetiche, tutti gli artifici intellettuali e gli espedienti tecnici solo e soprattutto per osservare ed esaltare la sensazione, la più pura delle cose, la più impermeabile alla ricercatezza, la più istintiva e primordiale, la più commovente in assoluto, per non dire la più emozionante tra tutte”. È davanti all’immagine della Musique, realizzata per Sergej Ivanoviˇc Šˇcukin, che Matisse si apre allo scrittore, pittore e caricaturista catalano Joan Sacs (alias di Felius Elias i Bracon). Caustico, in nome di un’estrema oggettivizzazione della realtà, e da sempre fermo oppositore delle avanguardie, l’intervistatore non riesce a trattenere il tono indispettito e contrariato di chi malvolentieri è costretto a relazionarsi con deformazioni stilistiche a lui insopportabili. Tuttavia proprio da questo senso di irritazione nasce una tra le testimonianze più preziose sulla personalità artistica di Matisse negli anni del fervore delle avanguardie. “Ma l’accrescimento di note più classiche non aggiungerebbe intensità” all’espressione pittorica? Alla domanda il pittore risponde opponendo la logica straordinaria e accesa di chi ha già esaurito la lezione classica e si muove in un mondo di rimandi e forme, nel quale la perizia ha di gran lunga superato l’abilità tecnica degli scultori greci o degli artisti del Rinascimento. Continuare per quella via e nello studio di quei valori, di quelle regole, significherebbe privilegiare una linea virtuosistica, vuota e priva di stimoli. Una linea imitativa, di maniera, che in quegli anni di rivoluzioni formali e sintattiche non avrebbe concesso audacie compositive, né aperto il campo a nuove scoperte. “È nell’eccesso di preziosismo e maestria che si è attenuato lo spirito dell’arte classica”, afferma ancora Matisse discostandosi da un’esperienza vissuta già attraverso il museo e lo studio dei grandi maestri. Quell’esperienza lo aveva educato alla visione, gli aveva insegnato a conoscere le tecniche, a studiare spazi e prospettive. Ma era già dal 1906 che Matisse si era ufficialmente costruito la fama di pittore audace, di capofila della nuova corrente in aperta opposizione alle tendenze tradizionali per i suoi colori acuti e squillanti, le linee sinuose, le superfici appiattite. La Joie de vivre, 1905‐1906 (Filadelfia, The Barnes Foundation), nell’assenza di peso delle figure accennate sulla tela e nelle vivide note cromatiche, appariva come il manifesto di un modo di sentire diverso, ancora carico della lezione postimpressionista ma del tutto proiettato verso un’altra sensibilità, libera da convenzioni o residui accademici. In quella dimensione aerea e incantata, irreale e magica, un grande senso di musicalità, orchestrato sulle note cromatiche più alte, orientava lo sguardo in una circolarità impalpabile come il suono emesso dai flauti o come il passo di danza ritmato in lontananza sugli andamenti curvilinei di uno sfondo ribaltato sul piano. In quella immagine quasi incorporea, la memoria di molti dipinti visti al Louvre, di concerti campestri, di muse e satiri, di bagnanti e paesaggi, devia affrancandosi dall’impronta di un insegnamento che riaffiora tuttavia dal profondo. Di quegli esempi, osservati con tanta intensità, indagati e copiati negli anni giovanili di pratica, persiste l’eco flebile di strutture e movimenti dall’impianto e dalla modulazione classica riletti alla luce di una storia ormai acquisita. Qui infatti non viene negata la misura di un’espressione classica che, al contrario, accorda i singoli elementi in un unico principio. Piuttosto, nessuna autorità formale sembra essere riconosciuta alla materia densa della pittura, al plastico chiaroscurare dei corpi, alla costruzione prospettica in profondità. La scena si apre con la quinta di alberi dagli accordi fantastici e dai tronchi sinuosi. E quella flessuosità si riverbera nell’atmosfera pastorale di proporzioni e rapporti insoliti nella scansione di uno spazio definito da una cadenza interna solo alla tela stessa. In uno spazio estraneo alle leggi illusionistiche, non più soggetto alle regole dell’accademia, ma alle affinità emotive tra linea e colore, tra artista e opera. Tra opera e spettatore. Dalla biblioteca “che tenesse chiuse a chiave le opere del passato” – così Matisse intende il suo rapporto con il museo, un immenso repertorio da consultare e sfogliare – alla realtà di una natura da interrogare in accordo con la propria esperienza e le proprie sensazioni: ed è qui il confine a sottolineare il necessario distacco per la verifica di altre realtà. Sensazioni ed emozioni “Decisi allora di lasciare da parte qualsiasi preoccupazione di verosimiglianza. Copiare un oggetto non m’interessava. Perché avrei dovuto dipingere l’aspetto esteriore di una mela, sia pure con la maggior precisione possibile? Quale interesse c’era a copiare un oggetto che la natura offriva in quantità illimitate e che si può sempre concepire più bello? Quel che conta è la relazione tra l’oggetto e la personalità dell’artista, la potenza che questo ha d’organizzare sensazioni ed emozioni”. Nessun artificio nella pittura. La pittura come entità a sé stante, come rapporto tra le cose del mondo e l’artista stesso, come dimensione di ritmi interni in sintonia con la sensibilità di chi ha la facoltà e l’intelligenza di ricrearla. La pittura come piano, come estensione di uno spazio da evocare, da suggerire, non da iterare né da simulare. Secondo un ordine – Guillaume Apollinaire nel 1907 aveva precisato il suo principio – “la cui misura sarà l’istinto”. Un istinto che, tuttavia, indirizza lo sguardo di Matisse verso la realtà della pittura stessa, verso il piano pittorico come luogo dell’accadere, verso la superficie come spazio della creazione. Alla domanda rivoltagli – un anno prima della scomparsa – sull’ascendenza di pittori o di forme artistiche del passato, alle fonti indicate dall’intervistatore l’artista aggiunge, con assoluta determinazione, il nome di Cézanne: “‘Che influenza ha segnato maggiormente la vostra arte: Giotto? Fra Angelico? I mosaici bizantini? Le miniature persiane?’ ‘Tutte queste che avete detto e sopra ogni altra, Cézanne’”. Giotto e Fra Angelico si ritrovano nella profondità degli azzurri, in quel blu di lapislazzulo che sulla tela compie una metamorfosi nei penetranti toni dell’oltremare e del cobalto. Si riconoscono anche e soprattutto nella tradizione di un “primitivismo italiano” che mutua dalla lingua bizantina l’iconica frontalità, affinandola in una dimensione spaziale più vicina alla natura. I mosaici bizantini per la raffinatezza cromatica e per l’uniformità della superficie animata dai minuti dislivelli delle tessere e dalla luminosa brillantezza degli ori; le miniature persiane per la magnifica follia delle pagine ornate, ricche e dense di una sottile ed elegante grafia. E per quella prospettiva a volo d’uccello dove ogni singolo elemento è riportato sul piano contro ogni idea di tridimensionalità, così figurando una dimensione spazio‐temporale continua, estranea a cesure, a successioni, a sequenze di ordine speculativo. In una logica mirata a enfatizzare il supporto, nello stordimento e nel fluire di figure, segni e colori, privi di sostanza e di volume. E Cézanne? Per aver spinto alla sua massima tensione la potenzialità del colore nei suoi valori costruttivi attraverso la pura pennellata. In una scia segnata da Delacroix, troppo “aneddotico” nella sua fantasia, in quella scia esplorata in seguito da Seurat e dai postimpressionisti sulla base di leggi scientifiche e di complementarità cromatiche. Cézanne quindi per aver tracciato la strada verso la modernità, costruendo l’immagine sulla struttura stessa della materia, su una materia “saporosa di colore e di mestiere” nella sobrietà dei suoi rapporti. Una volta assimilati gli insegnamenti dei grandi maestri grazie anche alla preziosa guida di Gustave Moreau, Matisse può rimuovere il patrimonio iconico che lo aveva rafforzato nei suoi principi sulla tecnica, guidandolo verso una sapienza talmente meditata da lasciarlo ora libero di accogliere altri influssi. Di quella lezione conserva tuttavia lo spirito e l’essenza originaria della materia, la ragione prima, intrinseca alla creazione stessa di una immagine pittorica. E forte di questa esperienza si abbandona a percorsi insoliti e a suggestioni carpite dalla singolarità di oggetti o manufatti di altre culture. Primitivismo “[…] notai in una vetrina una piccola testa africana scolpita in legno, che mi ricordò le gigantesche teste di porfido rosso delle collezioni egizie al Louvre. Sentivo che i metodi di scrittura delle forme erano gli stessi nelle due civiltà, per quanto estranee potessero essere l’una dall’altra per altri aspetti. Acquistata dunque per pochi franchi quella testina, l’ho portata a casa di Gertrude Stein. Là ho trovato Picasso che ne fu molto impressionato. Ne discutemmo a lungo: fu l’inizio dell’interesse di tutti noi per l’arte africana – interesse testimoniato, da chi poco e da chi molto, nei nostri quadri. Quello era un tempo di nuove conquiste”. In parallelo con le sperimentazioni plastiche, a partire dal 1906 i dipinti di Matisse restituiscono il senso di quel guardare a un esotismo spontaneo privo tuttavia di richiami o seduzioni scultoree. È piuttosto la dimensione mnemonica a incidersi sulla tela nel segno di una deformazione mossa da grafismi saldamente intonati a un ritmo modulato su analogie e contrasti. Secondo una logica tesa a escludere ogni indicazione di profondità o di costrutto architettonico. “Il primitivismo”, affermerà poco tempo dopo l’artista, “è il frutto di uno stato primordiale dello spirito che non si può rigenerare artificialmente”. La selezione di modi o sistemi dall’arte africana, di cui Matisse negli anni raccoglie un ampio numero di esemplari – come si può osservare dalle fotografie dei diversi studi e delle sue abitazioni –, avviene per un sentimento di istintiva attrazione parallela a una necessità. Una necessità dettata dall’organizzazione interna al suo spazio figurativo nel quale le linee, dalla chiara risonanza primitivistica, si dispongono in accordo con un insieme modulato su rapporti di forze ed equilibri tra forti opposizioni cromatiche. La fascinazione per l’arte incontaminata di questi popoli lontani si risolve in un dialogo ininterrotto, dove anche l’ammirazione per Cézanne si stempera, negli anni più maturi, in un recupero di graffiti geometrici lontani ormai dall’interesse più costruttivo esercitato su un’intera generazione di giovani avanguardisti. In Mademoiselle Yvonne Landsberg, ad esempio, il segno graffiato e scalfito non ricrea la dimensione volumetrica del volto o della figura; indica piuttosto lo studio di un nuovo idioma pur sempre saldamente strutturato al carattere intrinseco della superficie e del piano. Una ricerca, quella di Matisse, che, soprattutto nel decennio tra il 1906 e il 1917, indaga i principi elementari della linea attraverso forme grammaticali e sintattiche extraeuropee la cui scoperta, dalla seconda metà dell’Ottocento, era stata per gli artisti una grandissima rivelazione. Matisse quei principi li legge sempre e comunque in rapporto all’ordinamento e alla complessità della raffigurazione, all’assialità dell’impianto, alla contrapposizione tra toni chiari e scuri. E se, come afferma, “il primitivismo è stato fatalmente limitato dal suo intellettualismo”, il suo occhio ha avuto comunque una rapacità difforme da quella dei cubisti il cui scomporre e frammentare forme, di diretta derivazione dalla statuaria dell’Africa centrale, fa vivere l’oggetto spostandolo fuori dal suo supporto. Al contrario, quando indaga alcune tipologie di maschere, Matisse ne coglie il fondamento profondo, accorda quella sintetica riduzione al proprio sentimento. Come se quelle figurazioni fossero parte di una civiltà antichissima e contenessero il mistero dell’apparenza nascosto dietro a un visibile dalle sembianze primigenie. E potessero quindi ispirare una differente idea di classicità: “[…] visite al Louvre e influenze esotiche filtrate attraverso il museo etnografico del vecchio Trocadéro: tutte cose che hanno modellato il paesaggio in cui vivevamo, dove viaggiavamo e da cui siamo usciti tutti. Era un’epoca di cosmogonia artistica”. Classicità intesa dunque come armonia dettata da una nuova e composita totalità, in uno spazio senza artifici, esclusivamente concertato dagli elementi stessi della pittura. Uno spazio pittorico inseguito anche nella xilografia – allusiva al contrario a una profondità più plastica –, nella netta opposizione tra bianco del foglio e nero dai pochi tratti, larghi, diffusi sulla pagina come l’onda che si ripercuote nell’illimitata estensione oceanica. Arabeschi Dai primi viaggi in Algeria e Spagna l’interesse per la decorazione e gli arabeschi diventa motivo fondamentale per una sperimentazione sullo spazio, non certo lo spazio rinascimentale con le sue prospettive, ma sempre e comunque lo spazio dell’immagine e del suo supporto. I dipinti si riempiono di segni che sottolineano la planarità del supporto; sono segni che alludono a motivi vegetali, al mondo della natura che penetra e si imprime sul fondo intrecciandosi con figure e oggetti in un inestricabile viluppo lineare. L’ornamento, la decorazione, l’arabesco diventano lo splendido pretesto per rovesciare la visione sulla superficie e schiacciare la virtuale successione di piani alterando il senso di rapporti e proporzioni. “Le preziosità o gli arabeschi non sovraccaricano mai i miei disegni, perché quei preziosismi e quegli arabeschi fanno parte della mia orchestrazione. Ben collocati, suggeriscono la forma o l’accento di valori necessari alla composizione del disegno”, dirà molti anni dopo Matisse. L’amore per le sinuosità, le volute, i fregi, gli elementi puramente ornamentali, cromatici o calligrafici, oggetto di fascinazione per un gran numero di artisti e letterati, tra cui il romanziere Pierre Loti, che lo stesso Matisse cita nel ricordo di un paesaggio rivisto attraverso la descrizione della sua penna, diviene il presupposto per una meditazione sulla ragione dell’arte. Lo sguardo però è antitetico e l’angolatura lontana da quella esangue e malinconica dello scrittore, languido riflesso di un sentimento nostalgico per la perdita di mondi ormai scomparsi. La tavolozza di Matisse, al contrario, si accende ora delle tinte di un Mediterraneo non più solamente fantasticato o interpretato nelle forme di un Oriente distante ed eccentrico. La luce, quella luce che, dopo un primo identificarsi nei paesaggi e nei riverberi della costa francese al confine iberico‐
pirenaico, Matisse, uomo del nord, si era spinto ancora più a sud a esplorare, non emana ombre, viceversa accresce ed esalta la verità dei timbri. Blu e verdi nella massima quantità sono campiti fino a sciogliersi l’uno nell’altro, fin quasi a creare stupefacenti velature in un linearismo fortemente marcato dai contorni di figure calcate sulla superficie. Velature e non campiture che potrebbero far pensare a Gauguin anche per quella sua scelta finale di un diverso esotismo verso il quale si sente attratto anche Matisse che, nel 1930, si avventura in un viaggio di tre mesi in Polinesia. Ma non sono quelle campiture né saranno quegli esotismi a trasformare la sua pittura. Gauguin, pur molto ammirato, è in fondo un pittore “classico” che scompone i piani dell’immagine definendo in maniera netta i margini tra ogni colore, come se l’aderenza della costruzione fosse calcolata in funzione del quadro e le singole parti si ricomponessero in una sorta di mosaico dalle immense tessere irregolari. E la luce della Polinesia troppo seducente, troppo intensa, forse troppo reale, per essere trasferita in un’immagine. Sono dunque sempre le velature, le diafanità della materia che, come in una sovrapposizione di impressioni, misteriosamente si intravedono sotto l’involucro trasparente delle pennellate e diventano protagoniste dell’opera. Mediterraneo Ma i due viaggi in Marocco, tra il 1912 e il 1913, dopo un primo contatto nel 1906 con il mondo e la cultura andalusa e nordafricana – una rivelazione rafforzata dalla visita alla grande mostra di Monaco nel 1910, sono decisivi a cristallizzare i termini di quanto negli anni diventerà uno stile. La tela del famoso trittico marocchino con la giovane Zorah – appartenuto all’altro grande collezionista russo di Matisse, Ivan Abramoviˇc Morozov – assorbe i colori delle atmosfere maghrebine, articolando le superfici sulle semplici misure cromatiche in uno scivolamento di piani dove gli azzurri di muro e cielo e il taglio di luce in alto strutturano l’astratta dimensione del fondo. Azzurri amati e dipinti per il loro intrinseco valore cromatico, non per pura sensibilità estetica, ancor meno per una scelta meramente decorativa. L’elemento ornamentale, evocato da Matisse nelle sue diverse declinazioni – dall’arabesco all’ornato alla voluta curvilinea, geometrica o spiraliforme – assume la stessa funzione di ogni singola parte dell’opera; è motivo nel senso musicale più stretto di una frase che partecipa dello sviluppo del tema nella sua più ampia costruzione. Motivo e fondo, figura e dettaglio, come nell’insieme di trame di tessuti dalla compatta e uniforme superficie, formano l’immagine nella sua pienezza. L’universo di Matisse è quello familiare di antiche tradizioni da una regione famosa per la produzione tessile e in quegli anni nota per la lavorazione di scialli dai complicati motivi orientali. E la particolarità di quei manufatti, così articolati nell’ordito, ma allo stesso tempo distesi e bidimensionali, si imprime nello sguardo dell’artista pronto a cogliere nell’ibridazione di elementi incantevoli, per segno o tonalità, la giusta ispirazione in un amalgama sorprendente di flussi e correnti di energia e sintesi. Straordinarietà e intelligenza dello sguardo si appuntano allora nel ricreare uno spazio intuito attraverso la follia eterogenea di elementi in superficie, sulla traccia dei diversi stadi di un processo in sviluppo, secondo intensità e attraversamenti temporali multipli. I diversi livelli di intervento delle pennellate, pur segnando spesso con tratti forti parte dei profili di oggetti e figure, fanno contemporaneamente affiorare i singoli passaggi in un gioco di trasparenze ben distanti dall’idea di “pentimento”. Nello slittamento e nel differire dei piani, il senso di una durata, intesa come persistenza spazio‐temporale, si dispiega con assoluta chiarezza come se Matisse volesse far risaltare o non togliere comunque peso ai vari stadi della costruzione di un’immagine. Le mani di Zorah così si confondono con la veste dai motivi fiammati azzurri, come nelle maioliche marocchine e turche, e si accordano alla diagonale delle babbucce in una direttrice visuale che, a differenza di molte interpretazioni, non definisce profondità prospettiche ma guida all’interno dell’opera. E quelle mani filtrate e rielaborate, dapprima descritte, coperte da una coltre di oltremare in un timbro più sommesso del tappeto fino a svilupparsi in un braccio dai toni bruni, quelle mani mostrano quanto poco di realistico esista in questo dipinto. “Quando conoscete a fondo un oggetto”, affermerà anni dopo Matisse, “potete circondarlo con una linea esterna che lo definirà per intero. A questo proposito Ingres diceva che il disegno è come un paniere: non si può tirarne via un solo giunco senza fare un buco. Tutto, anche il colore, non può che essere creazione. Comincio a descrivere il mio sentimento prima di arrivare a quello che ne è l’oggetto. Allora si deve creare tutto daccapo, tanto l’oggetto come il colore. […] Il colore contribuisce a esprimere la luce, non in quanto fenomeno fisico, ma la sola luce che effettivamente esiste, quella del cervello dell’artista. Ogni epoca porta con sé una luce sua propria, il suo sentimento particolare dello spazio, come un bisogno. La nostra civiltà, anche per chi non è mai stato su un aereo, ha portato una nuova comprensione del cielo, dell’estensione, dello spazio. Oggi si arriva a esigere un possesso totale di questo spazio”. Linearismo Per identificare quello spazio Matisse sorvola luoghi e universi lontani per distanza e per cultura: “Con quale piacere scoprii le stampe giapponesi! Che lezione di purezza, di armonia, ne ricevetti. A dire il vero, quelle stampe erano riproduzioni mediocri, e tuttavia non dovevo rivivere la stessa emozione quando riuscii a vedere gli originali: questi non mi comunicavano più la freschezza di una rivelazione. Solo con lentezza giunsi a scoprire il segreto della mia arte. Consiste nel meditare in contatto con la natura, per esprimere un sogno sempre ispirato dalla realtà. Con maggiore accanimento e regolarità, imparai a spingere ogni mio studio in un certo senso”. La purezza e l’incanto delle xilografie e delle altre opere su carta, in circolazione già dalla seconda metà dell’Ottocento a Parigi, nella loro essenziale sospensione, rafforzano l’interesse per i tessuti giapponesi. L’esperienza del suo percepire la realtà e tradurla in immagine è dunque nuovamente, come negli anni giovanili, colta attraverso il piano. E forse per questa ragione accetterà di realizzare i costumi e le scene per Le Chant du rossignol di Stravinskij ispirato soprattutto dagli splendidi ricami cinesi, quasi a voler sfidare, ricalcandola, l’orma di una tradizione familiare nella traccia di un linguaggio contemporaneo. E negli anni più maturi l’intuizione dei rapporti tra cose e oggetti diventerà nota dominante per la composizione di una serie di opere degli anni quaranta, come Lierre en fleurs (1941) o Branche de prunier, fond vert (1948). L’unità del piano coniugata superbamente al colore e tutti gli elementi semplificati e armonizzati così da distillare il senso stesso dei nessi e delle loro proporzioni. Seppure nella planarità, come nelle antiche porcellane giapponesi dalla perfetta scansione e chiarezza, gli oggetti isolati si solidificano e creano uno spazio inconsueto, più spontaneo e fresco, dalla dimensione audace, non coercitiva. Matisse ritorna sullo schematismo della prima opera realmente libera da qualsiasi influenza e artificiosità, svincolata persino delle fragorose note timbriche “fauve”, il ritratto della figlia Marguerite, offerto all’amico Picasso nel 1907 in uno scambio di opere. Dipinto paradigmatico – se letto alla luce degli studi contemporanei dell’artista spagnolo intorno alle sue Demoiselles d’Avignon –, dove fissità e semplificazione rappresentavano una diversa analisi sui linguaggi della pittura, sulle nuove ipotesi interpretative del moderno. L’idea della virtualità del piano e dell’oggetto, ibridata ora alla prospettiva delle stampe orientali e di altri idiomi formali ancora, disloca definitivamente l’immagine in una dimensione senza rilievo. E l’innesto di suggestioni si chiarifica e decanta nella bellezza di note e ritmi temprati a un energico accordo melodico. A una distribuzione essenziale e più disadorna rispetto ai paesaggi dipinti tra il 1912 e il 1917 dove gli influssi del giapponismo, in un sorprendente eclettismo, si amalgamavano alle volute più mediterranee nella logica di una luce misurata su affinità e armonie. “Mi son servito del colore come mezzo d’espressione della mia emozione e non di trascrizione della natura. Uso i colori più semplici. Non sono io a trasformarli”, avrebbe affermato Matisse negli ultimi anni, “se ne incaricano i rapporti. Si tratta soltanto di far valere le differenze, di farle risaltare. Nulla vieta di comporre con pochi colori, come la musica che è costruita unicamente su sette note. È sufficiente inventare dei segni”. Nell’invenzione di segni, nella magia del loro intreccio cromatico, la grandezza dell’arte di Matisse si intesse con le suggestioni di quegli universi che della natura hanno colto il senso profondo della meraviglia. Nella paradossale profondità, in incessante divenire, di una ricerca sull’idea di superficie.