giuliettaeromeo3^C

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giuliettaeromeo3^C
SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO
AUGUSTO CAPERLE
CLASSE
TERZA C
La forza e la capacità dell’Amore
Concorso nazionale
Giulietta e Romeo
Febbraio 2016
1
Ho scritto lettere
Piene d’Amore
Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita
(Veglia di Ungaretti)
2
Elisa Rose Arcosti
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
Estate. Una parola per dirne mille altre, come: sole, sorrisi, acqua. Insomma, per lei quella
parola non aveva un significato preciso, perché ne aveva a centinaia. Per qualcuno poteva
essere il caldo asfissiante, per altri la dolce mano sulla pelle che le cambia colorito.
Sulla sedia, nel giardino, al sole, pensava soltanto alla bellezza di quella stagione lasciando
da parte la sua vita. Non voleva ripensarci, voleva godersi il momento. Peccato che
sarebbe durato gran poco e ne era al corrente.
Mentre fissava l’azzurro più azzurro che avesse visto da parecchi mesi, molte immagini le
passarono di fronte agli occhi, coprendole il panorama e rimpiazzandolo con infinita
tristezza e preoccupazione. Si chiedeva spesso perché si fosse innamorata di lui, perché
l’avesse frequentato e perché la cosa la tormentasse tanto. All’ultima domanda aveva
trovato risposta: nessuno può incontrare quelli “dell’altra parte”.
Infatti, Fresno si divideva in parte Est e parte Ovest. Quelli della parte Ovest chiamavano
gli altri “dell’altra parte” in dispregiativo; infatti, quest’ultimi erano i poveri, che
abitavano in baracche che per clemenza divina (secondo Genette) stavano in piedi. Le
persone della parte Ovest venivano chiamati “salvasoldi” perché li definivano spilorci
egoisti e tirchi che tenevano il loro denaro da parte e non osavano spenderlo. Da
“salvasoldi” Genette poteva confermare che in un certo senso era vero, ma non proprio:
molti di loro risparmiavano per associazioni specializzate nell’istruzione dei poveri.
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Genny aveva commesso un errore madornale: conoscere un povero. Non è permesso
anche solo avvicinarsi a loro per questioni igieniche e sociali, figuriamoci addirittura
parlarci e andarci d’accordo.
Il flash dell’immagine di lei nella zona dei bassifondi, disorientata, che cercava
disperatamente di raggiungere la sua zona sicura, le balenò davanti agli occhi. Era sera e
lei si era incamminata per tornare a casa dal teatro; essendo curiosa si era inoltrata nella
terra proibita, ma era andata troppo in dentro. Ricordò un viso che la guardava dall’altra
parte della strada stagnante, gli occhi neri illuminati dalla luna, che la scrutavano. Si era
avvicinato a lei e si era offerto di accompagnarla fuori di lì. Aveva esitato, ma alla fine
aveva ceduto. Si era fidata, tutto qui.
Ben presto, arrivati ai binari, avrebbero dovuto salutarsi definitivamente, ma non lo fecero.
Lui proseguì al fianco di lei, chiacchierando del più e del meno, come fossero vecchi amici.
All’inizio, però, tra i due vi era stata un po’ di tensione: avevano passato la loro vita a
diffidare l’uno dell’altro. Durò poco. Andavano d’accordo e l’uno ricordò l’altro dopo
quell’incontro. Non avrebbero dovuto.
Dopo circa una settimana, uscendo da scuola, Genny, sentendosi particolarmente
osservata, si guardò attorno. Salutò le sue amiche e si incamminò giù per la strada. Aveva
guardato ovunque per poi soffermarsi su una figura in lontananza dietro un albero che
sbirciava. Era magra e il tronco la nascondeva del tutto.
Non appena tutti i ragazzi furono spariti dalla porta della scuola, uscì allo scoperto e
Genny riconobbe subito gli occhi neri. La pelle olivastra scura sembrava appena stata
tirata a lucido come pure i capelli e i vestiti sembravano quelli che rappresentavano nei
poveri la “ricchezza”: maglietta a maniche corte non bucata e pantaloni neri e corti puliti.
Si riprese mentalmente per l’analisi fatta. Insomma, l’abito non fa il monaco.
Il ragazzo si avvicinò e lei seppe subito che era agitato: non doveva trovarsi lì, i due mondi
non si potevano mischiare, per nessuna ragione.
-Ciao- Fece lui più disinvolto possibile.
-Sei pazzo? Ti fanno a pezzi se ti vedono! –
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-Se vuoi me ne vado. –Rispose tranquillo. Il suo cuore perse un colpo. Non voleva che se
ne andasse. La faceva ridere e con lui si sentiva… strana. Non in senso negativo, anzi.
-No…-Allora vieni. -.
Le prese la mano e la accompagnò giù per stradine e viuzze, attento ad evitare di attirare
su di sè sguardi curiosi. Arrivati in una zona disabitata sul confine le coprì il viso con le
mani e la spinse dolcemente avanti, poi glieli scoprì e i raggi le ferirono gli occhi. Poi
inquadrò un parco giochi piccolo, abbandonato e circondato da alberi, quindi nascosto.
Dentro, su un tavolo da pic-nic vide un fiore rosso. Doveva averlo rubato. Eppure la cosa
non la turbava. Sentiva il cuore gonfiarsi e gonfiarsi; temeva che scoppiasse.
-Qui potremo parlare senza che nessuno ci veda. -. Forse aveva notato gli sguardi nervosi
di Genny la settimana prima. Lei però non se ne dispiacque e anzi fu felice che avesse
trovato un bel posto riservato a loro. Voleva parlargli, raccontargli della scuola e i suoi
segreti. Se lo voleva accanto, senza occhi intorno ad osservarli e giudicarli.
Quel luogo era divenuto il loro giardino segreto.
La storia si ripeté per una settimana, poi due. Genette andava a scuola, andava al parco,
poi tornava a casa, svolgeva i compiti e accoglieva i suoi genitori. Cordell, il ragazzo, non
aveva detto nulla a lei delle sue scappatoie e bugie giornaliere. Non le aveva raccontato di
come ogni giorno dovesse inventarsi che andava a giocare coi suoi amici per spiegare il
suo mancato rientro a casa dopo scuola. Come risposta otteneva solo ciabattate da sua
madre.
La scuola era una baracca in legno e quando pioveva l’acqua cadeva sulla testa come se
nemmeno un soffitto ci fosse. Gli insegnanti erano tutti bianchi dalle intenzioni buone, ma
che non andavano a genio ai ragazzi: spilorci che venivano nel loro territorio
costringendoli a subire ore di discorsi! Come osavano?
La sua vita era abbastanza normale, per quelli come lui: suo padre era sparito nel nulla
quando era nato. Se ne faceva una ragione e nei suoi ricordi non aveva mai versato una
lacrima per quello; sua madre lo prendeva a ciabattate quando non tornava a casa, quando
rubava, quando non faceva i compiti o raccoglieva cicche sui binari che separavano la città
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in due e le fumava al parchetto vicino a casa, ma lui non sarebbe mai cambiato
esattamente come tutti gli altri suoi amici. Tutte le madri lo sapevano e piangevano giorno
e notte per quello. Loro cosa ci poteva fare? Rubavano per poter mangiare e fumavano
perché per lui era come un obbligo della gang e lui non tornava a casa per stare con Genny
che in qualche modo aveva catturato la sua attenzione in quel vicolo. Ci aveva parlato e si
era divertito. E le era piaciuta. Non poteva lasciar trapelare la notizia ai suoi amici che
aveva una ragazza: lo avrebbero fatto fuori. Non era concepibile frequentare una riccona.
Nemmeno lui avrebbe visto di buon occhio un suo amico fidanzato con una dei salvasoldi.
Avrebbe detto che la usava per i soldi e che era disgustoso: una perfettina con uno
straccione … ridicolo!
La sua gang aveva leggi severe che lui stesso con loro aveva fondato, ma che solo ora
capiva quanto fossero oppressive e quanto limitassero la loro libertà; una delle regole era
di stare alla larga dai salvasoldi: cosa che aveva fatto fino a quando non aveva incontrato
Genny. La amava e non ne capiva il perché. Non aveva nulla in comune con lui:
conducevano due vite esattamente opposte.
Da come lo trattava Genette non era una perfettina, era una ragazza stupenda dai capelli
rossi e dagli occhi verdi foresta, pelle pallida come la luna, il sorriso inseparabile e nessuna
traccia di razzismo e disprezzo nel suo carattere. Nulla. Nemmeno una macchia. Ed era
quello che lui trovava diverso dagli egoisti dal quale si era sempre tenuto alla larga.
Iniziò ad avere paura quando, tornando dal suo appuntamento, si era sentito osservato e,
al rientro nel suo mondo Cree e Davie lo avevano aspettato al parco per fargli una serie di
domande dove fosse stato. Rispose: -Ehi, fra, che avete? Da quando in qua vi importa
tanto? – Da quando esci con quella “sciupatrice”? – Rispose che voleva provarci con lei per
riuscire a, magari, trovare qualche informazione su campi appena al di fuori della loro
zona Est, così da consentire meglio la rapina e la fuga o a storcerle fuori denaro per vestiti
o cibo. Derubare ricconi non era insolito. Nella sua gang si stimava chiunque riuscisse a
scipparne uno senza finire in galera. Il suo cuore batteva forte mentre diceva quelle parole
che ferivano più lui di quanto non avessero mai potuto offendere Genny.
Lo lasciarono andare, ma seppe che le cose stavano peggiorando.
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Il giorno dopo la vide e le spiegò in modo che non si agitasse che era meglio smettere di
vedersi e le chiarì brevemente che la vita nei bassifondi era molto diversa dalla sua. Non
poteva comprendere, lo sapeva, ma ci provò. Così, per un po’ non si videro e la scuola
terminò.
Genny moriva dalla voglia di rivederlo e avrebbe pagato oro per farlo, ma, per quanto
poco potesse capire, sapeva che non sarebbe stato facile e non avrebbe giovato a lui.
Dopo un paio di giorni attese impazientemente la sera in cui sua sorella Sissi si esibiva a
teatro. Andò a vederla per poi dirle che sarebbe tornata a casa a piedi. Lei la ammonì di
non perdersi come l’ultima volta e Genny sorrise e si allontanò. Imboccò la viuzza in cui
l’aveva incontrato la prima volta col cuore in gola. Di certo, non si sarebbe mai aspettata di
vedere una scena simile.
Un lampione lampeggiava, unico lampione nell’arco di chilometri ed illuminava a scatti
due ragazzi minacciosi che circondavano un ragazzo, alto come loro, con un che di
familiare: Cordell. Si avvicinò restando silenziosamente nell’ombra per poter udire il
discorso.
-…per frequentarla. La devi piantare. O te la faremo pagare. –
-Volete o no del cibo? –
-Si, certo, ma chi ci dice che non ti terrai tutto tu e non lo condividerai? –
-Fra, ci conosciamo da quando eravamo dei microbi. –
-Giusto ed è per questo che non ci fidiamo. –
-Fratello facciamo così: tu ci trovi cibo da campi vicini e non parliamo di questo alla tua
mammina. Ci stai? –
-Sì. –rispose infine Cordell esausto. I due sorrisero e lo salutarono con strani giochetti con
le mani. Se ne andarono e lei capì che Cordell stava rischiando molto, per lei. Voleva
incontrarla, ma aveva quei due alle calcagna, quindi doveva trovar loro del cibo. La
situazione era critica e in qualche modo sapeva che lo avrebbe rivisto pochi giorni dopo,
forse a casa sua dato che erano iniziate le vacanze estive e lei non andava più a scuola e
Cordell sapeva dove abitava avendola accompagnata fin lì la prima volta, ma dubitava che
col buio ci avesse visto molto. Come aveva sperato nel profondo del cuore. Il suo desiderio
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egoista di rivederlo si avverò: Cordell si presentò davanti a casa sua senza però suonare il
campanello. Per fortuna quel giorno era a casa da sola. Andò ad aprire la porta e lui si
precipitò dentro, come avesse un fantasma alle calcagna. Restò stupita del fatto che si
ricordasse per davvero la strada fino a casa sua, ma durò poco. Non le disse nulla
dell’accaduto così prese lei la parola, nominandogli un immenso campo di alberi di mele
più a nord, sul confine di Fresno, il cui proprietario era un suo conoscente. Per molto
tempo non disse nulla e si limitò a fissarla sorpreso, come se gli avesse rivelato la sua vera
identità. Poi la abbracciò forte forte e fece scendere dalla guancia una lacrima che bagnò la
camicetta di seta di Genny, mentre le mormorava che non voleva sfruttarla e che gli
dispiaceva per tutto quello che stava passando a causa sua. Genette gli diede un bacio
sulla guancia e sorrise.
Erano passate solo quarantotto ore da quell’incontro, eppure lei iniziava ad essere
terrorizzata: aveva un cattivissimo presentimento. Guardò il cielo un ultima volta e tornò
in casa, aspettando agonizzante che le ore passassero. Il giorno dopo si rividero al parco,
dato che lei aveva insistito tanto per raccontargli meglio del campo (in modo che potesse
tornare dai suoi amici mantenendo la sua promessa di dar loro cibo), e si sedette sulla
panchina accanto a lui godendosi ciascuno il proprio momento di felicità. Gli disse che
poteva andarsene dai bassifondi e che i suoi genitori (che facevano parte di numerose
associazioni di volontariato) sarebbero stati più che felici di ospitarlo e di mandarlo a
scuola con lei. L’idea lo allettò molto. Forse voleva andarsene da casa sua.
Dal canto suo Cordell aveva pensato da parecchio tempo di andarsene, ma avrebbe
dovuto abbandonare sola sua madre e sarebbe stato scorretto nei confronti di Genette.
Aveva deciso così di aspettare che lei lo invitasse e quando lo fece si sentì più felice, nel
suo menefreghismo. Ma, avrebbe lasciato sua madre sola senza marito perché fuggito e
senza di lui che da anni era l’unica cosa rimasta a lei? E se l’avesse fatto cosa gli sarebbe
accaduto? I suoi amici lo avrebbero trovato e ammazzato? E a Genny che avrebbero fatto?
Lei notò la sua insicurezza e lo rassicurò. Magari doveva prendere i suoi averi ed
andarsene definitivamente lasciando la sua vita nei bassifondi alle spalle?
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Alla fine prese una decisione e sorrise. Le prese la mano e le disse che voleva andarsene; la
avvertì che non sarebbe stato facile e lei sembrò capire. Sorrise di rimando e giurò di fare
del suo meglio per aiutarlo.
Qualcosa si mosse negli alberi e i due ragazzi della sera prima sbucarono dal verde. Uno si
diresse da lei e la tenne ferma, mentre l’altro pestava a sangue Cordell gridandogli che lo
sapevano che sarebbe accaduto, che lo avrebbe abbandonato.
Davie era il ragazzo che la teneva ferma, mentre Cree era quello che picchiava il suo
amico, il suo “fratello” di poco prima. Genette gridò a pieni polmoni e si dimenò svariate
volte, ma la presa del giovane era salda. Lo morse e gli tirò svariate pedate sui piedi e
stinchi eppure lui non si mosse per tirarle magari un bel ceffone. Non le avrebbe storto un
capello perché sapeva che si sarebbe trovato contro numerosi ricconi potenti. Cordell
combatteva, ma la furia di Cree era incontrollabile. Tirò fuori da una tasca un pezzo di
ferro appuntito e, prima che Genny e Cordell se ne rendessero conto, finì nel petto di
quest’ultimo. Non si mosse. Genette si precipitò su di lui mentre Cree diceva: -Il cibo è vita
e la vita è cibo. Lealtà tra fratelli è squadra e squadra è lealtà tra fratelli, ricordi? Chi non
rispetta la parola d’ordine è morto. L’abbiamo stabilito assieme ricordi? -.
Il sangue sgorgava dal petto come un fiume in piena e lui le sorrideva. Aveva occhi solo
per lei. Le disse che era bellissima, mentre lei singhiozzava. Gli occhi si chiusero e lui
sorrideva felice. Genny si guardò attorno ma i due erano spariti. Fissò Cordell e si rese
conto che, anche se aveva solo quindici anni, si sentiva come se avesse perso il ragazzo
della sua vita. Aveva perso Cordell. Per sempre. Ed era solo colpa sua.
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Matteo Ballini
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
Quella che voglio raccontare non è un racconto falso o una storia inverosimile, ma vera di
un male che ha colpito mio papà come una spada conficcata nel cuore che non ti lascia via
di scampo. Il cancro, una malattia peggiore della peste, più brutta del più oscuro dei nostri
incubi, il più brutto ricordo che qualcuno abbia mai vissuto. È difficile per me raccontare
questa storia segregata in me, ma cercherò un modo per esprimermi al meglio.
Mio papà e mia mamma si sono conosciuti e si sono sposati e hanno avuto tre figli: io per
primo e altri miei due fratelli gemelli, maschio e femmina ora di nove anni. Qualche anno
dopo dalla nascita dei miei fratelli ha iniziato a sentirsi male e gli hanno diagnosticato un
tumore all'esofago. Non ho le parole per esprimere come mi sono sentito anche se non
pensavo tanto sei anni fa. Il mondo mi è caduto addosso e quando è morto è stato
infinitamente peggio di come può sentirsi un uomo perso nel deserto senza viveri e acqua
e lasciato nel suo mondo di cui non si sente di appartenere.
Ma la vera magia dell'amore è stata quella di mia mamma che non si data per vinta e che
ha continuato a mandare avanti la sua vita e la mia superando abbondantemente la morte
che cercava di fare cadere la vita mia, sua e di tutta la mia famiglia vita in disperazione e
l'ha vinta. In questo paradiso di disperazione ha visto la luce e, nonostante tutti i problemi
che ci colpivano, lasciando il segno io e la mia famiglia siamo ancora qui grazie solo e
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soltanto a lei. Non so dove abbia trovato questa forza mentre il mondo ci voltava le spalle
e ci chiedeva se era bello restare isolati. Mia mamma ha fatto un miracolo, cioè ha creato la
forza per andare avanti e questo non è l'amore classico tra una coppia, ma un amore vero
per la vita perché mia mamma ci vuole troppo bene e senza lei ci saremo persi. È stata più
di una roccia: La mia roccia. Devo tanto a lei e sono sicuro che mio papà da lassù è fiero di
lei. Questa è la storia tra due amori: quello immensamente profondo che ha per mio papà e
quello vitale che ha per noi che sono capaci di superare la morte in tutti i modi.
Nonostante mia mamma e io e i miei fratelli non rivedremo mio papà nella vita terrena
forse in una vita ultraterrena avremo qualche speranza di ritrovarlo e comunque viveva,
vive e vivrà nei nostri cuori perché è questa la forza e la magia dell'amore che ci fa restare
a galla, non ci fa affondare come un sommergibile colpito, ma crea una forza unica e
speciale che ci fa vivere e sopravvivere in un modo migliore, che ci fa superare in un modo
migliore tutte le evenienze e avversità che si riscontrano bruscamente dentro questo
viaggio particolare, folle e spericolato. Tutto questo si può riassumere in un’unica e
spendita parola: VITA
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Viola Benatti
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
Questa dolorosa storia inizia con una profonda e toccante amicizia. I protagonisti sono
Amelie e Albert, due semplici bambini nati a Berlino nel 1920. Lo stesso asilo, la stessa
scuola elementare e, fino alla seconda, anche scuola media: erano dei grandissimi amici.
Molto particolare era la loro situazione familiare. Vivevano nella stessa casa perché
quando il padre di Amelie era deceduto e la sua famiglia non sapeva più dove andare, la
madre di Albert li aveva ospitati nella loro baracca. Albert era il classico bambino tedesco:
biondo, occhi azzurri e sempre un sorriso smagliante stampato sul volto. Amelie era una
bambina ebrea straordinariamente bella: capelli mori ed occhi grandi, verdi, in cui viveva
uno sguardo vispo e astuto. I sentimenti che i due bambini avevano provato tra loro fino
ai dodici anni furono solo amicizia e simpatia, poi iniziarono a sentire qualcosa di strano.
Quando stavano assieme non c’era più solo amicizia ma anche affiatamento e affinità, tra
loro tutto andava sempre bene ma c’era sempre più attrazione. Non giocavano più, ma
passeggiavano insieme con la mano, non parlavano di giocattoli, ma di sentimenti che
provavano l’uno per l’altra.
Andò tutto bene fino al 1935, quando furono promulgate le leggi raziali. Fatto tremendo e
terribile che sconvolse le vite dei due ragazzi; avevano tutti e due quindici anni quando
vennero separati. La madre di Amelie e lei stessa, ebree, furono chiamate in una casa
tedesca a lavorare per un uomo. A loro, però, avevano detto che avevano trovato dei loro
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parenti lontani e che le avrebbero portate ad incontrarli. “Ci rivedremo presto, giusto?”
disse Amelie ad Albert. “Quando tornerai io sarò qui ad aspettarti, Am” rispose affannato
il ragazzo. Questa partenza inaspettata stava mettendo in difficoltà questo amore che si
sarebbe poi rivelato davvero difficile. Amelie chiuse il portellone del treno salutando
Albert cercando di sorride, ma invano. Erano dirette ad una villa in campagna di un gran
signore tedesco dove avrebbero dovuto lavorare per lui. Erano ancora gli inizi del
nazismo, perciò gli ebrei erano disprezzati, ma non venivano portati ancora nei lager.
C’era buio e gli spifferi d’aria entravano di continuo dalla piccola finestra, Amelie e sua
madre erano vicine e si abbracciavano per tenersi caldo. Dopo due giorni di fame e freddo
arrivarono finalmente in questo piccolo paese in campagna, aprirono il portellone e
un’ondata di sole le travolse. Percorsero un vialetto portando le loro sacche in spalla, fino
ad arrivare davanti ad un grande portone. Bussarono e un signore cupo aprì la porta, le
prese per il colletto della giacca e le buttò in uno sgabuzzino dicendo: “Bene, da oggi
starete qui. Ubbidite a tutto ciò che vi dico e forse andrà tutto bene.” Amelie e la madre si
guardarono, erano frastornate non capivano cosa stesse succedendo: non avevano mai
visto un uomo così scortese con delle donne in più non vedevano nemmeno un parente.
L’uomo tornò e le riprese dal colletto facendole sedere in modo sgarbato su due sgabelli e
lanciando per terra una ciotola e un sacco di patate. “Sbucciatele tutte e poi preparate
qualcosa di decente per il mio pranzo.” Per la prima settimana fecero lavori in cucina e in
giardino, senza lamentarsi e senza chiedere niente all’uomo impaurite. Passata una
settimana la madre di Amelie si fece coraggio e disse: “Mi scusi, penso che ci abbia
scambiato per altri. Noi siamo dirette nella casa dei nostri parenti e non possiamo
rimanere qui a lungo.” Lui rispose, indignato: “Voi starete qui fino a quando io lo vorrò,
capito?”. Le due, impaurite, annuirono e corsero in cucina per preparare il pranzo.
Intanto, a Berlino, Albert aveva iniziato a lavorare per mantenere la famiglia. Il padre si
era ammalato e lui svolgeva dei compiti in un negozio alimentare. Il suo stipendio non era
alto, perciò era molto difficile mantenere i suoi genitori, lui ed il fratello con quei pochi
soldi. L’unico lavoro con cui sarebbe riuscito a guadagnare abbastanza sarebbe stato il
militare. Era contrario alla guerra, ma teneva alla sua famiglia. “Entro nell’esercito.
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Domani mattina mi vengono a prendere e mi portano nel campo d’addestramento.” Disse
il ragazzo con malinconia a pranzo. Non aspettò nemmeno la risposta di sua madre, andò
in camera da letto e si preparò una borsa con dentro il minimo indispensabile. Quella sera
non riusciva a dormire: la sua famiglia, la sua casa, tutti i suoi amici, AMELIE, doveva
lasciare tutti e andarsene. D’altronde era l’unico modo per far vivere bene la sua famiglia.
La luce accecante lo svegliò: si mise qualcosa addosso, prese il borsone e scese le scale.
Tutti erano lì ad aspettarlo sull’uscio: mamma, papà e il suo fratellino. Promise a se stesso
di non piangere e li abbracciò uno a uno. Aprì la porta e la richiuse velocemente per non
far vedere la lacrima che stava uscendo dal suo occhio. C’era una macchina che lo
aspettava, lui entrò dicendo buongiorno, i due iniziarono col dire che d’ora in poi avrebbe
dovuto chiamarli generale e altre cose che Albert non stava ascoltando. Stava guardando
la sua casa che si allontanava sempre di più e stava pensando se sarebbe mai tornato.
Uscendo dall’auto vide soldati che si allenavano con delle pistole e che marciavano,
odiava già quel posto.
Mentre Amelie era schiava, Albert era un soldato. Passarono gli anni e i due iniziarono a
dimenticare il loro passato. Amelie era trattata sempre peggio e lavorava sempre di più a
volte digiunando anche per più di una settimana. Una mattina nel piazzale della casa in
campagna arrivò un camion, da cui scesero due uomini che parlarono con il padrone,
indicando le due donne magre ed infreddolite. Lui annuì e le chiamò con voce burbera.
“Andate con loro senza esitare”. Uno dei due uomini le prese, mentre l’altro apriva il
portellone del camion e le buttarono dentro. C’erano altre persone di tutte le età, si
stavano muovendo. Amelie e la madre erano osservate da molteplici occhi, non capivano
chi fossero quelle persone. In quegli anni erano state schiave in quella casa, non sapevano
più cosa stesse succedendo al di fuori di quell’edificio. Il silenzio regnava su tutti quei
volti impauriti e malinconici. “Mamma dove ci stanno portando?” disse una bambina alla
madre. SBAM, uno schianto fece sobbalzare tutti i presenti; sembrava che si fossero
schiantati contro qualcosa. Uno dei due uomini scese dall’auto e fece scendere
velocemente tutte le persone che prima erano nel camion, “Sbrigatevi e seguitemi!” disse.
Li lasciarono in mezzo ad un piazzale recintato mentre andavano a parlare con un
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generale. “T6, dividili e portali in due baracche, subito!”. Un soldato si avvicinò a loro che
d’istinto indietreggiarono. Prese per un braccio una bambina e la divise da sua madre. Lei
piangeva, era assolutamente disperata, aveva circa sette anni. Il dolore che aveva provato
quella piccola bambina grazie al distacco con la sua mamma! Amelie cercò di nascondersi
il volto con il foulard e, stringendo la mano di sua madre, iniziò ad indietreggiare
cercando di scappare via, lontano. Tutto questo non fu più possibile perché non sentiva
più la mano di mamma. Sentì un urlo: l’avevano presa e non era nel suo gruppo. Un altro
soldato si occupò della madre di Amelie e dei suoi compagni, mentre il perfido di prima
disse a Amelie e agli altri di seguirli.
Amelie non voleva andare, non la voleva lasciare. Si inginocchiò per terra e,
singhiozzando, urlò di lasciar stare la madre. Il soldato le diede un calcio e la prese per la
spalla e la trascinò fino alla baracca. Lei non osò nemmeno guardarlo in faccia, era
disgustata dal suo comportamento e il dolore che provava alla gamba era davvero grande.
Si distese su della paglia e iniziò a svestirsi per poi infilarsi una tunica a righe bianche e
blu: ordine del generale. Il soldato era uscito per un secondo dalla baracca così Amelie si
nascose sotto ad un letto: c’era freddo, ma era riuscita a nascondersi. Tutti uscirono dal
capanno perché chiamati dal soldato che iniziò a contarli: “Ein, zwei, drei, acht... dov’è il
numero nove? Eravate in nove prima, luridi ebrei”. Suonò l’allarme e un sacco di soldati
iniziarono ad entrare nelle baracche a cercarla. Un ragazzo entrò nella baracca dove si era
nascosta, i suoi scarponi facevano cigolare il legno. Amelie lo guardò in faccia cercando di
non sporgersi troppo per non farsi vedere. “Albert, sei tu?” disse con voce impaurita. “Sei
Amelie? Amelie Rottginnen? Dove sei?”. Am sporse la testa da sotto il letto e lo vide, era
proprio lui, il suo Albert. L’insieme di sentimenti che stava provando in quel momento era
di felicità ed euforia. Vedere una piccola speranza in quell’inferno era davvero
rassicurante. Albert le tese la mano, Amelie le porse la sua senza esitare. Le sue mani
erano fredde come il ghiaccio, il suo sguardo era fisso negli occhi del ragazzo. “Esci,
andiamo via da qui”. C’era una stanza buia e lontana dalle baracche principali che quasi
mai veniva controllata, andarono lì. Parlavano a voce bassa per non farsi sentire, non
dovevano farsi sentire. I loro occhi si intrecciavano in uno sguardo profondo ed infinito. I
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loro corpi vicini mantenevano calore costante e si sentivano più uniti. “C’è un’uscita che
solo i soldati sanno. Dietro alla camera del comandante c’è una piccola porta che porta ad
un bosco. Bisogna attraversarlo verso nord e poi si arriva ad un grande faggio. Partirai
domani notte, aspettami sotto il faggio, io ti raggiungerò dopo per accertarmi che nessuno
ti abbia visto”. Am era piuttosto impaurita. “E mia madre?” disse la ragazza con voce
rattristata. “Ti ha sempre voluto bene, sarà per sempre nel tuo cuor e non se ne andrà
mai”. Amelie era distrutta, non aveva più nessuno eccetto Albert perciò doveva agire,
doveva combattere per lui. Il giorno seguente rimase dietro un enorme masso ad aspettare
che arrivasse la notte mentre Albert era fuori a lavorare per non far insospettire tutti i
soldati. Era mezzanotte, il cielo era scuro ed era il momento di scappare. Un passo falso
avrebbe potuto costarle la vita: doveva stare attenta a dove mettere i piedi, non doveva
fare nemmeno un piccolo rumore. Ecco la porticina: Albert era riuscito a prendere le chiavi
dalla camera del generale. “Ti aspetto sotto il faggio” disse Amelie porgendo le mani ad
Albert che le consegnò uno straccio con all’interno un tozzo di pane. Distolse lo sguardo
dal suo volto e iniziò a correre, più forte che poteva, l’unico suo pensiero era quello di
arrivare sotto l’albero per aspettare il suo amato. Si sentiva volare, niente poteva impedirle
di arrivare al suo obbiettivo. Saltava cespugli, spostava rami con le braccia. Il suo stato
d’animo passava da felicità ad un’immensa tristezza, era un barcollare di qua e di là. Iniziò
a vedere un albero, sì, era arrivata. Si sedette e riprese il fiato, aprì lo straccio e gustò il
pezzo di pane con gusto. Non si voleva addormentare, voleva aspettare Albert per poi
scappare insieme, ma dopo poco chiuse gli occhi dalla stanchezza. Intanto nel campo molti
soldati stavano cercando Amelie e Albert si preparava una borsa con dentro cibo per poi
sopravvivere con Am. Era pronto ad uscire dalla porticina, stava aprendo la porta con le
piccole chiavi argentate, quando una voce lo fermò. “Guardie, penso di aver capito chi è il
traditore, sparategli subito”. Presero Albert dal braccio e lo portarono in mezzo ad un
prato. Chiamarono tutti, anche i prigionieri per parli assistere alla tragedia. “Ecco cosa
succede ai traditori” disse il comandante sparando un colpo ecco sulla tempia di Albert.
Amelie era sotto l’albero che spettava, aspettava, ma Albert non arrivava. Aspettò giorni e
giorni fino a quando si rassegnò e piangendo corse via senza una meta precisa.
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Nicole Comerlati
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
Era il 12 marzo quando Fabio uscì per fare una passeggiata con il suo cane, nel parco sotto
casa sua. Il sole era splendente nel limpido cielo azzurro, il parco era pieno di persone che
si divertivano. Coppie che facevano pic-nic all'ombreggiar degli alberi e allegre famiglie
che giocavano insieme con dei palloni o degli aquiloni. Ad un certo punto uno di questi
attirò l'attenzione del cane, a tal punto che iniziò a tirare fortissimo il guinzaglio cosicché
Fabio cadde e quel terribile animale iniziò a correre per tutto il parco come se fosse
impazzito. Distrusse addirittura delle tovaglie stese sull'erba verde del prato, si fermò
soltanto quando l'aquilone si impigliò nei rami di un albero.
Andrea osservò da lontano tutta la scena e vedendo Fabio in difficoltà nel recuperare il
cane e l'aquilone decise di correre in suo aiuto. Fra i due scattò subito un intesa. Rimasero
a parlare nel parco per ore, fino a quando non fu sera e Fabio dovette andare... così i due si
scambiarono i numeri di telefono nella speranza che il giorno seguente uno dei due
chiamasse l'altro.
I giorni passarono e sia l’uno sia l’altro continuarono a pensare a quell'incontro, fino a due
settimane più tardi, quando si rincontrarono in un ristorante. Decisero così di pranzare
insieme e quell'incontro fu magico: scoprirono di avere punti in comune su molte cose.
Pensarono così di rincontrarsi il giorno dopo e quello seguente ancora... gli appuntamenti
diventarono sempre più seri, scoprirono così di provare un sentimento profondo l'uno
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verso l'altro nonostante le insicurezze verso questi pensieri. Passarono i mesi e entrambi si
dichiararono, si fidanzarono e trascorsero settimane tranquille e felici, mantenendo tutti
all'oscuro di questo segreto. Infine decisero di non potere più nascondere questo amore
agli amici e ai loro parenti, così una sera tornando a casa Andrea si fece accompagnare da
Fabio. Entrando in casa genitori di Andrea, iniziarono ad avere dei sospetti, che erano
assolutamente fondati. Purtroppo la famiglia non tollerava questa relazione.
I ragazzi così decisero di prendere tutti i soldi in loro possesso e di scappare.
Fabio sentiva molto la mancanza dei propri familiari e spesso soffriva piangendo, Andrea
provava a consolarlo, perché anche lui nel silenzio sentiva un vuoto dentro di sé, ma
comunque si amavano sempre. I mesi passarono e alla fine non potendo più sopportare le
critiche da parte delle persone, dei familiari e degli amici più cari e Fabio decise di buttarsi
sotto un tram, lasciando un biglietto ad Andrea che diceva:
“Il nostro amore non avrà mai fine, perdonami
ma non potevo più sopportare tutto ciò.
Ricordati che io ti amerò PER SEMPRE, OVUNQUE.”
Al funerale vennero i familiari di entrambe le famiglie che provavano rabbia e tenerezza
verso Andrea. Rabbia dato che per colpa del loro amore ora Fabio era scomparso dal
mondo, ma tenerezze perché pur sempre lui lo amava più di qualsiasi altra cosa...
Andrea spesso pensava che avrebbe voluto fare la stessa fine di Fabio, ma ripassando nei
luoghi in cui aveva passato i momenti migliori del sua vita non voleva rinunciare a tutto
ciò. Non voleva rinunciare al parco in cui si erano incontrati o al ristorante o ai raggi del
sole che ogni giorno baciava i loro incontri. Così continuò a svolgere la sua routine
quotidiana pesando sempre a Fabio e all'amore che c'era, c'è e ci sarebbe stato fra di loro.
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Giulia Corazza
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
C’erano una volta Chiara e Marco, due ragazzi sulla trentina che si amavano molto. Si
erano sposati qualche anno prima e da ormai qualche mese stavano tentato di aver figlio,
senza però riuscirci. Passato un po’ di tempo, quando ormai le speranze si erano esaurite,
Chiara scoprì di aspettare una bambina.
Nei mesi della gravidanza i due si diedero conforto l’un con l’altro e passavano intere
giornate a fantasticare su come sarebbe stato diventare genitori.
Finalmente venne il giorno del parto. La bambina, Matilde, era bellissima: aveva due occhi
enormi, blu come il mare e i capelli biondi.
Rientrati a casa Chiara e Marco, entusiasti, fecero di tutto per rendere l’infanzia della
piccola la più serena possibile, non le facevano mancare nulla.
Matilde con il passare degli anni divenne sempre più bella e solare. Praticava danza
classica da quando aveva cinque anni e ora, che ne aveva tredici, era diventata un’ottima
ballerina. Tutti i pomeriggi dopo le lezioni passava a trovare sua nonna, alla quale era
molto legata, e trascorreva un oretta in sua compagnia. Era molto vecchia ed era l’unica
adulta con cui si potesse confidare tranquillamente. Le raccontava della sua mattinata e, se
qualcosa che non andava (come ad esempio un litigio con l’amica del cuore), la nonna era
pronta a darle un consiglio su come rimediare.
I mesi passavano e la nonna si era ammalata. La ragazza però ogni giorno, nonostante non
fosse più in grado di darle consigli o chiacchierare, andava a trovarla trascorreva con lei
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quell’ora che un tempo la rendeva tanto allegra e felice. Ora invece la rattristava, non si
capacitava di come tutto potesse finire così in fretta, di come da un giorno all’altro le
persone possano cambiare o addirittura sparire, come successe qualche settimana dopo.
L’anziana signora infatti era morta e questo Matilde non lo poteva accettare.
Iniziò a non parlare più con i suoi genitori, cercava di evitarli e molto spesso, dopo scuola,
si fermava in uno dei parchi della città a pensare: se ne stava lì, da sola, a fissare il vuoto
per una trentina di minuti e poi si avviava verso casa.
Chiara e Marco erano molto preoccupati per tutto ciò. Cercarono di chiedere alla figlia
cosa avesse, ma l’unica risposta che ricevettero fu un semplice e freddo “niente”.
Un pomeriggio però a Matilde si avvicinò un ragazzo, più vecchio di lei di due anni, che
iniziò a parlarle. I due si piacquero subito e decisero che si sarebbero rivisti l’indomani.
Così fu. Ivan però non si presentò da solo: con lui infatti c’erano anche alcuni suoi amici.
Quest’ultimi erano tutti più grandi di lei e avevano una sigaretta in mano. Iniziarono a
parlare finché uno dei ragazzi non propose a Matilde di provare una sigaretta. Lei,
ingenuamente, accettò. Da lì a un mese il gruppo di amici iniziò a trovarsi tutti i giorni e
ognuno di essi invitava la ragazza a fare cose sbagliate. Le sigarette aumentavano sempre
di più, la danza non la affascinava come una volta e le parole scambiate con i genitore
erano sempre meno.
Chiara e Marco erano molti preoccupati per il suo comportamento e cercarono di parlarle.
La loro unica figlia, la cosa che più amavano al mondo, era cambiata totalmente e non la
riconoscevano più. Le volevano troppo bene per lasciarsela scappare così e quindi, dopo
aver tentato innumerevoli volte di farle capire che Ivan e la sua compagnia non volevano il
meglio per lei, iniziarono a impedirle di uscire. Matilde si sentì tradita per via di questo
gesto, non li ascoltò e continuò a vederli di nascosto. Certe mattine addirittura saltava la
scuola per vedere Ivan che ormai era diventato il suo ragazzo. Lui la faceva salire sul suo
motorino e la portava a fare un giro per il paese e qualche volta superava i limiti di
velocità di molto rischiando di fare un incidente. Tutto questo a Matilde piaceva, si sentiva
libera. Certe sere però si chiudeva in camera e iniziava a piangere: le mancava la nonna.
Sapeva che se lei l’avesse vista ora non sarebbe stata fiera della sua adorata nipotina e
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avrebbe fatto di tutto per impedirle di frequentare quella gente. In un certo senso si
sentiva in colpa, come se avesse deluso tutti. La mattina dopo però si alzava e aveva
dimenticato la tristezza della sera precedente, ricominciava tutto da capo.
I genitori iniziarono a pensare come farla ragionare: ogni fine settimana la portavano al
mare, il martedì pomeriggio l’avevano iscritta a un corso di danza, a cui non partecipava
quasi mai, e ogni sera cercavano di parlarle in modo gentile, come se fossero tre amici, ma
non ricevano altro che risposte a monosillabi.
Una mattina Matilde decise di non andare a scuola. Mandò un messaggio a Ivan
dicendogli di passarla a prendere alle otto davanti alla biblioteca. I due partirono con il
motorino di lui e andarono verso il centro città. Era una mattina di novembre e c’era molta
nebbia, era quindi difficile per il ragazzo vedere bene la strada. Infatti dopo poche
centinaia di metri una macchina travolse i due ragazzi. Furono portati subito all’ospedale.
Matilde, che non aveva allacciato il casco, era molto grave, mentre Ivan si era solo rotto il
braccio e procurato qualche graffio.
Chiara e Marco si precipitarono in ospedale il più in fretta possibile, ma quando
arrivarono era ormai troppo tardi. Matilde, la figlia che tanto avevano desiderato, che
tanto amavano e che con tanta cura avevano cresciuto se ne era andata. Non l’avrebbero
più rivista, quella mattina non la avevano neanche salutata bene, non erano pronti a
lasciarla.
Il giorno seguente era uno di quei giorni che consideriamo “vuoti”, uno di quelli dove alla
mattina ti alzi e non sai di preciso cosa fare perché qualcosa nella tua routine è cambiato,
qualcosa non va. E purtroppo quel qualcosa non potrà mai più tornare indietro.
Al funerale parteciparono quasi tutti i ragazzi e le ragazze della scuola che Matilde
frequentava, tutti i suoi amici di un tempo, ma di Ivan e la sua compagnia neanche una
traccia.
I mesi seguenti per Chiara e Marco furono molto difficili, ma non si abbatterono: ogni
weekend andavano comunque al mare e il martedì si erano iscritti a un corso di danza.
Facevano queste cose per far sì che il ricordo della loro piccola rimanesse vivo in loro.
Infatti, nonostante lei non potesse essere materialmente accanto a loro, in un certo senso
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c’era: era vicina al cuore. Continuarono così fino alla vecchiaia, come se si sentissero in
dovere di portare avanti i sogni che Matilde non aveva potuto realizzare. Quei pochi
quattordici anni passati insieme li avevano resi persone migliori e questo finale non felice
li aveva resi ancora più forti e innamorati. Si davano conforto a vicenda, facevano di tutto
per stare bene e sereni nonostante il dolore fosse molto. Non si sarebbero mai potuti
dimenticare di lei, la figlia adorata, unica e speciale che anche nei momenti più difficili non
avevano mai smesso di amare.
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Caterina de’Manzoni
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
-Aspetta, no, non ancora...- Che belle quando giocano così, penso che non mi stancherei
mai di guardarle. -Vai Vale: ora puoi aprire gli occhi! - -TANTI AUGURI ALLA VALE,
TANTI AUGURI A TE! - Gli occhi verdi di Valentina si spalancano di stupore sulla
crostata deforme alla confettura di ciliegia fatta unicamente (o quasi) da Alice. Quella
bambina di otto anni che non finisce mai di stare ferma, adesso sta prendendo tredici
candeline rosa che mette con moltissima cura sopra la torta per formare un cuore. -Dai
nonna Angela, accendi nonna, accendi! - Mi avvicino alla torta e con l’accendino illumino
tutta la stanza, perché intanto Valentina ha spento la luce.
-Posso soffiare adesso Alice? - Lei ha una voce più dolce e tranquilla rispetto a quella di
Alice, che al contrario è squillante e acuta. Valentina ha i capelli neri e ricci, con dei boccoli
molto grandi che le scendono dietro le orecchie, tutto il contrario della sorella che li ha
biondi e a caschetto, con una frangetta un po’ troppo lunga che le arriva a sotto le
sopracciglia. A prima vista, infatti, si direbbe che quelle non siano assolutamente sorelle,
poi però le guardi bene e vedi che hanno gli occhi identici, stesse sfumature di verde e di
marrone, quasi fosse la stessa anima in due corpi diversi. Poi le vedi passeggiare per il
quartiere mano nella mano e capisci, anche se non le conosci, che niente potrà mai
dividerle. Valentina soffia sulle tredici candeline e sorride, uno di quei sorrisi veri, che
poche persone al mondo si meritano, e io so che quel sorriso è solo per la sua adorata
sorellina. A quel punto Alice tira fuori da dietro la schiena un cartoncino incorniciato con
la pasta cruda che raffigura le due sorelle vicine con sopra scritto “Ti voglio bene Vale” e
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“Tanti auguri da Alice”. -Grazie mille piccoletta! - esclama la sorellona e si capisce che è
veramente felice di stare qui insieme a lei. Corre ad appenderlo in camera. Intanto Alice
mi ringrazia sussurrando “Grazie mille nonna!” Le accarezzo i capelli morbidi: “Figurati,
bambina mia.” Entrambe si sdraiano sul divano e si fanno il solletico ridendo a crepapelle.
-La torta ve la portate via dopo? - -Va bene. Grazie. - Alice e Valentina passano tutto il
giorno da me perché i genitori non sono a casa, quindi sanno che nessuno dei due le avrà
fatto una torta. A me fa molto piacere la loro compagnia, mi fa ringiovanire. Sono una
nonna vecchia e malconcia, ma queste scene di gioia mi fanno dimenticare tutte le
sofferenze di questo periodo. -Ciao nonna Angela e grazie per tutto! - -Ciao nonna!- Le
ragazze partono in bicicletta con i loro caschi blu e rosa, una più bassa e una più alta. Man
mano che si allontanano si affievoliscono le risate. E io le aspetterò ancora per un giorno.
Appena Valentina entra in casa molla la cartella per terra e sbatte la porta. Alice è già in
casa perché è andata dal dentista. -Tutto okay, Vale- le chiedo. Sbuffa: -Sì, sì, è solo che ci
ha dato un sacco di compiti di matematica perché nessuno ha fatto un problema...che non
era neanche da fare! - - Vale! - urla la sorella che le è saltata addosso. “Guarda cosa mi ha
fatto il robot!” Loro chiamano così il dentista perché tutti quegli strumenti metallici
sembrano fare parte del suo corpo. Sorride come uno di quei bambini che fanno la
pubblicità dei dentifrici e “mette in mostra” il suo buco sul lato destro della bocca. Accipicchia! Che grande! Beh, almeno la fatina ti porterà una sacco di soldini. - -Eh già! Afferma Alice con aria molto soddisfatta. Ci sediamo a tavola e mangiamo tutte assieme il
risotto con lo zafferano che ho preparato. Nel pomeriggio Valentina si chiude in camera e
svolge tutti i suoi compiti, mentre io leggo una fiaba ad Alice. -Sai nonna, sinceramente
non mi va tanto che la Vale sia più grande adesso. - Mi interrompe a metà storia. -Ah no?
E come mai? - Sospira:
-Perché ho paura che crescendo si dimentichi di me, e mi lasci da sola. - Lei è così:
all’apparenza può sembrarti una bambina superficiale, poco attenta e inaffidabile, ma
quando la conosci ti rendi conto che è una delle persone più profonde e comprensive che
hai mai incontrato. -Secondo me, Alice, non dovresti preoccuparti troppo, perché tua
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sorella è molto forte e non rinuncia alle cose a cui tiene e penso proprio che tu sia una di
quelle. - Sbadiglia. -Quindi non smetterà mai di volermi bene? - Questa è una vera
domanda, non retorica, una domanda che veramente uno si pone nella sua vita. -Esatto,
mai, mai e poi mai. - E mezza addormentata mi dice: -Va bene, però dopo glielo chiedo lo
stesso. - Sorrido: sono così belli i bambini.
-Evvai! Finito tutto! Ali, andiamo a saltare la corda? - -Va bene, ma prima facciamo
merenda! - Dice la sorella mentre con cura divide in due colonne i biscotti al cioccolato. –
Okay-. Mentre fanno merenda io metto a posto la cucina e ascolto le loro discussioni. Vale, ma tu mi vorrai bene per sempre? - Chiede Alice. -Certo! Perché non dovrei?!- Alice
torna subito felice, ma si vede un’ombra che passa veloce sul suo viso, un’ombra di
soddisfazione e felicità. -Forse perché ti ho rubato un biscotto! - Risponde ridacchiando la
sorellina, e tutte e due scoppiano a ridere. Dopodiché vanno giù a saltare la corda. Quando
tornano Alice si ferma a guardare la tv e a quel punto Valentina vien a parlarmi. -Sai, mi
ha molto colpito quello che ha detto Alice oggi. E ho deciso, proprio per quello che mi ha
chiesto, che le vorrò bene per sempre, qualsiasi, dico qualsiasi cosa accada. - -Siete
entrambe delle bellissime persone che in qualche modo si completano a vicenda, quindi, vi
aiuterete anche se sarete lontane, perché non potete stare l’una senza l’altra. - - Va bene.
Grazie mille nonna, ci sei molto d’aiuto, sai. - E va a guardare la televisione con Alice. Mi
stanno proprio simpatiche quelle due penso sorridendo.
Quando è il momento di tornare a casa le avviso di stare attente perché in strada c’è molta
nebbia.
-Sì nonna, tanto abbiamo le luci- -Va bene. Grazie mille nonna. Ci vediamo domani. - E
partono.
Il giorno dopo, quando la mattina vado a prendere il giornale trovo una notizia sulla
locandina che mi fa muovere qualcosa dentro lo stomaco: “Ragazza in bicicletta investita
da un guidatore ubriaco”
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Quando compro il giornale in prima pagina trovo la foto di Valentina e un articolo che
parla di come lei sia stata investita da una macchia rossa. Non riesco più a respirare e mi si
forma un nodo alla gola. Torno in fretta in casa e mi siedo sul divano, incapace di
realizzare, di comprendere, di continuare. Lacrime calde mi scendono lungo i solchi delle
rughe e cadono sulla carta sottile de giornale. Passo ore e ore in questa posizione incapace
di reagire. Quando, in qualche modo smetto di piangere la prima cosa a cui penso è Alice,
quella povera bambina a cui una ragazza che adesso non c’è più aveva promesso di volerle
bene per sempre. Sarà distrutta dal dolore.
Il pomeriggio, come sempre, la bambina torna da scuola ed entra in casa, appena varca la
soglia scoppia a piangere e corro ad abbracciarla, per consolarsi. Restiamo lì, da sole, in
due, a piangere per quello che dovevamo ancora fare assieme a Valentina e che non
avremo mai fatto.
Due giorni dopo la chiesa e colma di parenti e amici della ragazza defunta. Alice indossa
un vestito di velluto nero, molto semplice, con un cerchietto sempre nero sulla testa. Non è
assolutamente il suo stile, ma entrambi erano della sorella e ha voluto metterseli perché lei
potesse vedere che tutto quello che ha fatto in vita è stato bello e soprattutto che niente di
ciò che ha fatto andrà perduto. In mano tiene un foglio piegato e ripiegato su se stesso che
sta torturando ormai da ore. A volte lo apre, solo a metà e poi lo richiude, a volte lo tiene
aperto ma non lo legge. -Sei pronta? - Le chiedo. Lei mi guarda con così tanta
determinazione che per un momento dimentico che è una bambina di otto anni e il suo
sguardo parla da solo. Quando arriva il momento di leggere i propri discorsi Alice è
l’ultima ad andare. Si schiarisce la voce e comincia a leggere il foglietto stropicciato. Valentina mi aveva promesso che mi avrebbe voluto bene per sempre. Beh, non
aspettatevi che io mi sia arresa solo perché lei è morta, perché io so che lei mi vuole bene
anche adesso. Tutte le cose che ha detto, fatto e anche solo pensato io le renderò
formidabili, perché è questo che si merita Valentina. Lei, che era una ragazza così dolce e
generosa. Sapete qual è stato il nostro ultimo discorso? Stavamo pedalando e a un certo
punto mi chiede per quale motivo avrei dubitato che lei mi ricordasse sempre. Io risposi
che era perché quando saremo grandi magari non ci parleremo più perché saremo troppo
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impegnate con le nostre vite. “No, te lo prometto, non succederà mai. E ti dico anche il
perché: credo che al mondo esistano delle persone che per te diventano speciali e delle
persone che sono già speciali, proprio di natura, credo anche che di queste persone ce ne
siano poche, e credo che queste persone speciali, una volta che hanno trovato una persona
che, in qualche modo le completi, non se ne scordino più. Secondo me tu sei una persona
speciale e io quello che ti manca. Quindi, anche se non dovessimo più vederci, non
possiamo non sentirci, perché tu servi a me e io servo a te.” - Alice fa una pausa per
inghiottire il nodo che le impedisce di respirare. –Ecco perché io non posso, non devo e
soprattutto non voglio dimenticala. In tutta la chiesa cala il silenzio, il sacerdote conclude la celebrazione e tutti se ne vanno.
Oggi è il mio novantaseiesimo compleanno, Valentina è morta da quindici anni, Alice ne
ha ventitré. –Buon compleanno nonna Angela! - Mi ha portato una torta di mele fatta
esclusivamente da lei. –Grazie Alice- Ci sediamo e parliamo di come sta andando il mondo
e la vita, argomenti belli e brutti. Poi cominciamo a parlare di Valentina e lei si addolcisce:
–Ogni giorno, alla sera, racconto alla Vale ogni cosa, dalla più importante al gusto di
gelato che ho comprato alle tre del pomeriggio. Mi fa sentire bene. Lei era l’unica che mi
capiva veramente. Ho pensato che può capirmi anche se non mi vede e anche se non mi
sente, perché anche lei era una persona speciale, ma io al contrario di lei penso che né a me
né a lei manchi qualcosa, perché quel qualcosa ce lo portiamo dentro. Quando eravamo,
anzi, quando siamo insieme siamo più forti. Potremmo vivere anche da sole, ma visto che
insieme viviamo meglio tutto quello che ci circonda. - Sorrido: -Sono felice che finalmente
tu ci sia arrivata, io l’ho sempre pensato. Adesso che l’hai scoperto, conservalo bene nel
tuo cuore perché questa è la verità: niente e nessuno potrà mai separarvi, neanche la
morte. - Sospira.
Ma si vede che finalmente, dopo molti anni dalla morte di Valentina è riuscita a trovare la
pace con quello che c’è e quello che non c’è, ma quello che non vede, non vuol dire che
non lo sente, perché io la vedo. Due sorelle, una seduta sulla sedia vecchia della nonna e
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una in piedi con le mani sulle sue spalle, completamente diverse, ma che insieme formano
una forza della natura.
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Filippo Ferrante
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
La forza dell'amore è in grado di superare la morte è una frase che ha un significato molto
importante per tutte quelle persone che credono molto nei sentimenti, nei valori della vita
e che sono molto sensibili. Con il sentimento dell'amore si possono superare situazioni
molto brutte e tristi come la perdita di una persona molto cara, una litigata con il proprio
compagno... L'amore però è un sentimento che parte anche dalle piccole azioni che compie
una persona ad esempio (aiutare la mamma a sparecchiare la tavola). Però l'amore c'è
anche fra di noi, quando iniziamo a crescere cioè verso l'età di quindici anni noi ragazzi e
ragazze iniziamo ad avvertire un sentimento forte verso una persona che ci fa stare bene.
Questo sentimento profondo a quella età non è ancora amore, ma è la bellezza, la simpatia
e l'intelligenza. Però generalmente in una persona questi caratteri sono "superficiali"
perché il vero amore secondo me non è a questa età, è quando si diventa adulti che si
capisce che cos'è il vero amore. Ad esempio l'amore che aveva Romeo per Giulietta era un
amore che proveniva dal profondo del suo cuore e questo grande amore durò per sempre
fino al giorno della loro morte. Secondo me ami una persona non solo per la bellezza o per
altre sue caratteristiche, ma la ami solo se il cuore ti dirà che quella è la donna giusta per
te.
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Nicola Giarola
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
Era una normale mattina, un po’ come tutte le altre nella casa di Peter e Liesel Boston .
Ad un tratto suonò il campanello e Peter andò ad aprire. Subito vide il suo grande amico
Simon, il postino, che aveva una faccia triste e teneva tesa verso Peter una lettera
appartenente all’esercito. Tornato in casa e seduto a tavola con Liesel aprì la lettera
preoccupato: Peter sarebbe dovuto andare in un carcere di massima sicurezza per il
semplice motivo che lui era un ex soldato dell’esercito e che si era ritirato in battaglia.
C’era scritto anche che doveva rimanere in carcere per un anno, poi sarebbe stato rilasciato
e il suo passato da soldato sarebbe stato cancellato.
La mattina seguente verso le otto sentì bussare a casa sua, andò ad aprire e gli si
presentarono davanti due soldati di media altezza che chiesero di lui. Peter allora dopo
aver salutato Liesel, salì su un furgoncino e venne portato in carcere situato a Filadelfia.
Appena arrivò dopo qualche ora di viaggio, vide un campo pieno di pietre con molti
uomini costretti a spaccarle altrimenti venivano puniti a frustate oppure per chi si
ribellava veniva punito con la sua morte in pubblico. Dopo aver visto la sua cella e aver
posato le sue cose, venne scortato in mensa dove mangiò. Passarono mesi e Peter sentì
molto la mancanza di sua moglie Liesel. Un giorno Peter scoprì che il direttore del carcere
voleva rapinare una banca con l’aiuto di alcuni prigionieri. Peter quando vide che il
direttore stava per uscire dal suo ufficio, cercò di scappare, ma non vide che dietro di lui
c’era il capo delle guardie che lo aveva colto con le mani nel sacco mentre spiava il
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direttore. Dopo aver subito molte frustate, pugni e calci venne portato nelle segrete fino al
giorno in cui dovevano ucciderlo per fare in modo che non ci fossero testimoni a dire
quello che voleva fare il presidente. La condanna fu l’impiccagione, poi il corpo sarebbe
stato portato in un luogo lontano e bruciato. Lui però viste le sue amicizie con gli altri
carcerati, con l’astuzia si mise d’accordo con uno di loro per avviare un rissa nel parco al
momento dell’impiccagione, così un altro avrebbe potuto liberarlo in cambio della libertà
di entrambi. Il suo amico allora fece come pattuito e avviò una rissa quindi tutte le guardie
andarono a verificare l’accaduto ed entrarono pure loro nella rissa come vittime. Peter
allora dopo essersi liberato ed essere uscito dal carcere chiamò Liesel e le disse che si
sarebbero rivisti prima del dovuto. Peter dopo qualche giorno rivide Liesel e andarono ad
abitare in Italia ad Aosta, dove cambiarono completamente identità. Peter fu Lucas,
mentre Liesel diventò Elis. E per quanto riguarda il suo passato fu cancellato.
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Caterina Menegatti
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
Ero al penultimo anno del liceo, quando i miei genitori si separarono e io dovetti
trasferirmi tristemente con mia mamma a casa di mia nonna dall’altra parte d’Italia.
Dovetti abbandonare i miei amici e soprattutto Michele, il mio ragazzo, con cui stavo
ormai da un paio d’anni. Mi sembrava impossibile e non riuscivo ad accettare il fatto che
da un giorno all’altro la mia vita fosse cambiata in modo radicale.
Per mia fortuna trovai un’amica fantastica, Jennifer, con cui ebbi da subito un rapporto
stupendo, a dir poco bellissima, con dei lunghissimi capelli neri quanto il carbone, occhi
blu che evidenziava sempre con una linea spessa di eyeliner, che la caratterizzava.
Uscimmo insieme già da subito, ci dicemmo tutto, fidandosi l’una dell’altra.
In seguito mi presentò il suo ragazzo, bello quanto lei, con folti capelli biondo cenere e dei
meravigliosi occhi neri, che diventò presto migliore amico. Erano una coppia splendida, si
tenevano sempre per mano scambiandosi parole dolci.
All’arrivo della primavera Jennifer mancò da scuola per un intera settimana, non
rispondeva al telefono e per questo mi preoccupai moltissimo. Mi decisi ad andare a casa
sua per informarmi se stesse bene, quando arrivò un messaggio da Andrea che cambiò la
situazione “stasera nel locale all’angolo, io e Jenny ci siamo lasciati.” rimasi davvero
sconvolta, pensai che fosse quello il motivo per cui la povera Jennifer era mancata così
tanto da scuola e a bocca aperta mi preparai.
Trovai Andrea in piedi vicina al bancone che mi salutò con uno splendido sorriso, sereno
come se non fosse successo nulla, inaspettatamente mi baciò. Il rumore dello schiaffo che
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gli regalai rimbombò per il locale. Come poteva avere il coraggio di baciarmi dopo essersi
appena lasciato con la ragazza con cui stava da anni !?
Purtroppo ci accorgemmo che Jennifer era lì, che guardava incredula, che avevo invitato
per parlare tutti insieme su quello che era appena accaduto. Era visibilmente arrabbiata e
rossa in volto e mi rivolse uno sguardo minaccioso. “Come ti permetti! non vengo a scuola
per una settimana a causa di una maledettissima febbre e tu cosa fai? Mi rubi il ragazzo?!.
Ecco dove volevi arrivare” scoppiò in lacrime, prese per mano Andrea, che a bocca aperta
biascicò una specie di “lasciami spiegare”. Non capivo più niente e me ne tornai a casa
esterrefatta, consapevole del fatto di essere stata ingannata da Andrea e di aver perso
un’amica.
Da qui iniziò uno dei periodi più bui per me, dove mi sentii terribilmente sola, i rapporti
con Jennifer si interruppero e, come se non bastasse, le sue amichette ne approfittarono per
prendermi in giro ed insultarmi, divenni lo zimbello della scuola o meglio la “ruba
fidanzati”.
Poco dopo i due fidanzati si lasciarono e io provai un vago senso di felicità e proprio in
quel periodo mi accorsi di amarlo, di amare il suo carattere ed il suo modo di fare, ma non
avrei mai potuto stare con lui.
Ogni giorno mi scriveva la stessa medesima frase “Scusami. Ti amo” ed io ogni volta lo
ignoravo.
Un giorno qualsiasi mi recai nel supermercato vicino a casa e il destino volle che
incontrassi Andrea, lo ignorai più che potei, ma non resistetti a lungo. Andai a salutarlo,
iniziammo a parlare come un come se non fosse successo, dandoci appuntamento il giorno
dopo per una giornata in città.
Iniziammo ad uscire di nascosto, tante, tante volte, ogni giorno ed eravamo innamorati
“persi” l’uno dell’altro.
Un giorno decisi di sputare il rospo, di mollare il peso che mi opprimeva il petto, dissi a
Jennifer che avevo bisogno di lei, che mi mancava terribilmente, che non riuscivo a stare
senza di lei. Decisi di dirle di Andrea.
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Subito mantenne un atteggiamento un po’ distaccato, ma ritornammo subito come prima.
Passarono molti bellissimi anni in cui fummo inseparabili, in cui il nostro amore e la nostra
amicizia regnava su tutto.
Andrea ed io andavamo sempre d’accordo, amavo ogni dettaglio di lui, i suoi occhi, il suo
carattere dolce e premuroso, eravamo una cosa unica.
E poi parecchi anni dopo, ancora tutti uniti, più consapevoli del nostro legame, arrivò il
giorno che cambiò in modo indelebile la mia vita.
Mancava poco all’ora di cena, qui in ospedale pronta per dare luce al nostro primogenito,
in cui potevo ricevere visite e come sempre Andrea e Jennifer sarebbero venuti, per farmi
compagnia e regalarmi un po’ del loro tempo.
Essendo inverno il buio aveva già inondato le strade della città e la pioggia cadeva
costantemente da tutto il pomeriggio, mentre io aspettavo impaziente di trascorrere la
serata con loro.
“Signora, la disturbo?” Mi ero assopita un attimo sui soffici cuscini profumati di pulito,
appoggiata al lato destro del letto, emisi un flebile “sì”, e notai che la giovane aveva uno
sguardo molto serio e preoccupato, ma mai avrei immaginato quello che mi avrebbe detto
di lì a poco: “Purtroppo devo avvisarla di una cosa… suo marito e la sua amica sono stati
coinvolti in un incidente” il mio cervello reagì subito ed esclamai “Portami da loro, voglio
vederli!” Iniziai ad urlare e a dimenarmi. L’infermiera attonita disse: “Mi dispiace signora,
i medici non hanno potuto fare nulla, nulla che potesse salvarli …”
E un dolore immenso, un dolore indescrivibile mi avvolse completamente, le lacrime
iniziarono a scendere autonomamente, il mondo attorno a me scomparve, lasciando da
soli me e la disperazione.
Niente aveva più senso, non volevo più vivere un mondo in cui non ci fossero loro al mio
fianco, il dolore più grande che si potesse mai provare, un dolore che ti devasta.
Ci misi molto, davvero molto, ad accettare la morte di coloro che erano la mia ragione di
vita.
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E ora mi mancano, mi mancano da morire, ma in qualche modo li sento vicini, li
percepisco, li rivedo in tutto quello che faccio, e lui, la persona che amai più di tutti, lo
rivedevo in mio figlio, che possiede i suoi occhi così belli, con i suoi morbidi capelli biondi.
Darei qualunque cosa anche solo per rivederli un ultima volta, per salutarli, ringraziarli
per tutti i momenti felici.
Faccio fatica ad andare avanti, ma mi faccio forza, penso a loro, loro che mi vorrebbero
sempre felice, con la consapevolezza che un giorno potrò rivederli.
E ora sono qui, come quel giorno di tanti anni fa, il giorno in cui incontrai le persone più
importanti della mia vita, a guardare mio figlio crescere, percependo la loro presenza più
forte che mai.
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Anna Morando
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
Eric e Alicia erano fidanzati da dodici anni, quando il 24 giugno lui le chiese di sposarlo...
“E vi dichiaro marito e moglie! Ora può baciare la sposa!” esclamò il parroco; ed Eric posò
delicatamente le sue labbra su quelle di Alicia, creando un bacio strepitoso, che fece
commuovere tutti gli spettatori.
Gli invitati applaudirono incessantemente e, usciti dalla piccolo chiesetta, lanciarono riso e
coriandoli bianchi, urlando: “Viva gli sposi! Viva Eric e Alicia!”.
Arrivati al lussuosissimo ristorante “Beautifull” di Atlanta, iniziò il ricevimento.
I camerieri servirono piatti assai squisiti, con precisione: tre primi e due secondi.
Durante il banchetto un testimone dedicò una bellissima poesia in rima incatenata ai due
novelli sposi.
All'arrivo della torta nuziale gli ospiti si stupirono dalla meraviglia di quel capolavoro di
pasticceria e insieme brindarono con una bottiglia di champagne.
Alla fine del ricevimento gli sposi lasciarono il ricevimento per farsi le foto sotto alla
Statua della Libertà, sul Ponte di Brooklyn e a Central Park.
Passati alcuni giorni i due sposini partirono per la luna di miele a Venezia, offerta da i
propri genitori. In questa bellissima città si rilassarono e visitarono luoghi importanti. Il
“viaggio di nozze” si concluse a Verona, in Italia, per visitare la Casa e la Tomba della
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protagonista femminile della tragedia “Giulietta e Romeo” del celebre poeta inglese
William Shakespeare.
Tornati dalla luna di miele, Alicia ed Eric ripresero la loro routine: lui andava ogni giorno
a lavorare in un campo militare fuori città, mente lei le trascorreva al pronto soccorso di
Manhattan, come infermiera.
Il 5 settembre nacque Jonhatan, la più grande gioia di mamma e papà.
Dopo alcuni mesi dalla nascita del suo primogenito, Eric, fu costretto a partire come
militare per gli Emirati Arabi, per rafforzare la truppa Statunitense, lasciando il suo
piccolissimo bimbo, sua moglie e tutti i sui parenti e amici,
La data arrivò e il 30 gennaio partì con altri militari, in direzione Emirati Arabi.
Dopo alcuni giorni ad Alicia arrivò una lettera, la aprì e lesse l'orrore che la fece impazzire
di dolore. È sì! Purtroppo Eric era morto!
La vedova sprofondò in una rabbia totale mentre i suo vicini di casa, per la paura,
chiamarono i carabinieri.
Alicia fu ricoverata per due notti nell'ospedale psichiatrico di Brooklyn e quando riacquisì
coscienza chiese di suo figlio urlando: “Ho perso mio marito, ma non voglio perdere anche
mio figlio: l'unica gioia che mi rimane!”.
Alicia ritornò a casa e ogni giorno che passava, il bimbo diventava sempre più grande e
più simile al padre; quando questo le chiedeva del papà, lei gli rispondeva che era un
uomo forte, bello e unico, che un giorno...
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Lorenzo Ottaviani
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
A Roma abitava un ragazzo di nome Marco, che decise di andare a visitare Milano con gli
amici.
Passeggiando per la città, Marco vide seduta sulla fermata dell'autobus una bellissima
ragazza.
I suoi amici notarono che lui continuava a fissarla, così fecero una scommessa: se Marco
sarebbe riuscito ad avere il numero di cellulare di quella ragazza allora loro gli avrebbero,
pagato una bibita.
Non era molto, ma Marco aveva sete e accettò.
Corse dalla ragazza e le disse: “Ciao devo fare una chiamata di emergenza e ho il telefono
scarico mi puoi prestare il tuo?”
La ragazza rispose di sì e lui chiamò il suo stesso telefono, poco dopo squillò e chiese alla
ragazza il suo nome, lei rispose: Lucia.
Marco penso che ora aveva il numero della più bella di Milano, lo salvò e vinse la
scommessa.
Lei aveva capito la sua tecnica e pensò che più tardi si sarebbero chiamati per conoscersi
meglio.
Marco era in hotel quando arrivo una chiamata da Lucia.
Si parlarono per ore e alla fine decisero di andare a mangiare fuori insieme.
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Marco era ben vestito e scelse un buon ristorante. Era passata una mezz'ora e Lucia non
c'era, ora il povero ragazzo pensava di essere stato fregato, ma si aprirono le porte e tutti si
girarono a guardare la magnifica ragazza che entrava con un vestito molto elegante e i
capelli sciolti.
Marco era rimasto a bocca aperta, non pensando che la ragazza conosciuta alla fermata
dell'autobus fosse cosi graziosa.
Lucia si sedette e chiese scusa per il ritardo, così ordinarono subito da mangiare e
parlarono.
Lei scoprì che Marco era romano e che probabilmente non si sarebbero visti più, ma
entrambi provano qualcosa uno per l'altro.
Dopo cena andarono a fare un giro in città dove si diedero il loro primo bacio.
Marco non voleva più lasciare Milano, ma mancavano due giorni alla fine delle sue
vacanze.
Ormai i suoi amici rimanevano senza di lui perché era sempre da Lucia.
Marco decise così di stare un'altra settimana a Milano.
Il rapporto tra di loro cresceva sempre di più, volevano sposarsi e vivere a Parigi, ma
ormai Marco doveva andare e i suoi genitori che non volevano vederlo sposato ad una
milanese.
Al loro saluto Lucia gli diede un bacio di qui non si sarebbe mai scordato.
Entrambi sapevano che non si sarebbero mai separati, che avrebbero fatto di tutto per
ritrovarsi perché nessuno sconfigge l'amore, neanche la morte.
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Tommaso Zanotti
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
Nella sorridente cittadina di Comincio viveva Giovanni Battiferro.
Era un ragazzo di diciotto anni, alto e un po’ paffuto. Aveva capelli castani e occhi azzurri.
Era molto affezionato al suo gattino Felix. Il micio era di un bianco latte, ma aveva un
macchia marrone intorno all’occhio.
Giovanni amava molto andare al parco con il suo amico a quattro zampe perché c’era
un’area dedicata agli animali. Mentre il Felix correva per il parco, Giovanni giocava e
chiacchierava con i suoi amici.
Un giorno però andò al parco erano solo lui e Felix, quando si ricordò di aver lasciato il
forno acceso, in cui stava cuocendo una torta per sua sorella che doveva andare ad una
festa
Così scappo a casa a spegnerlo, dimenticandosi il quadrupede al parco.
Quando tirò fuori la torta si ricordò che si era dimenticato il felino al parco.
Corse come un gazzella e quando arrivò non lo trovò più.
Lo cercò per tutto l’isolato, ma non lo trovò. Ad un certo punto sentì uno sparo e poi un
miagolio. Era Felix, che, andando in giro per il quartiere si era addentrato nel bosco.
Là viveva la famiglia Boscaioli. Il padre, vedendo muoversi qualcosa muoversi tra i
cespugli e credendo che fosse un lupo, prese la carabina, mirò e premette il grilletto.
Andò poi a vedere a cosa avesse sparato e vide un gatto, con un collare su cui era riportato
la via dove abitava e il numero di cellulare di Giovanni.
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Allora telefonò e raccontò cosa fosse accaduto.
Giovanni pianse moltissimo, ma qualche giorno dopo, Francesco Boscaioli, il figlio del
padre che aveva sparato al gatto, comprò un nuovo gatto identico a Felix e glielo regalò a
Giovanni. Un po’ triste, Giovanni accettò il regalo.
Si promise di stare più attento e mise una pietra sul passato e vissero tutti felici e contenti.
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Carlo Zarattini
CONCORSO INTERNAZIONALE
“Giulietta e Romeo: la magia dell’amore”
V edizione 2015-16
Alida era sbarcata a Lampedusa il 20 giugno 2015 ormai nove mesi fa. Io mi presento, sono
Francesco un ragazzo volontario del “Centro Ritrovo Lampedusa”, gestisco questo piccolo
bar dato in mia gestione da Don Claudio. Alida è una ragazza di colore accolta in un
“centro profughi” poco lontano da qui ed è la prima volta che la vedo. Da come si presenta
mi sembra una ragazza molto timida ma, carina. Dopo essermi presentato la invito
domani sera alla serata “Galà” qua al bar, per farla ambientare un po’. Mi risponde con un
secco “NO!!” e se ne va. La mattina dopo mi presento al centro profughi e la segretaria,
dopo averle bussato al portone, mi fa entrare. Lascio il sacchetto che avevo in mano
proprio a Giusy, la segretaria, e me ne vado. Lei leggendo il biglietto lo consegna ad Alida.
Le ho preso un vestito da sera elegante nel miglior negozio di Lampedusa in Via Roma.
Sono arrivato al bar, adesso metto un po’ a posto, poi inizio a preparare per la serata. Vedo
con la coda dell’occhio arrivare Alida, ma faccio finta di non accorgermi del suo arrivo; ad
un certo punto vedo tutto nero, mi copre gli occhi con le mani e mi dà un bacio sulla
guancia, mi batte forte il cuore, credo proprio di essermi innamorato; se ne va dicendo:
“Guarda… ci sarò sta sera”. Sono le cinque del pomeriggio, adesso vado a casa per
cambiarmi ho deciso cosa indossare, smoking azzurro con camicia bianca. “Signor
Francesco, scusi…” ecco la principessa da me attesa, Alida. È uno schianto, rimango a
bocca aperta qualche secondo, quando mi prende a braccetto e mi dice: “Dai… andiamo”.
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Una serata favolosa e deve ancora venire il bello. Dico al DJ di mettere musica classica e di
calare le luci e: “Alida vuoi ballare?” Abbiamo ballato un’ora ed è come se avessimo
dormito, il tempo volava; lo diceva sempre mio nonno: “L’amore è come il tempo, vola”.
Dopo aver chiuso il bar la accompagno al centro profughi, ci diamo la buonanotte e vado a
casa. Ho appena fatto colazione ora guardo la cassetta della posta, poi mi cambio e vado al
centro profughi. Una lettera da Alida non vedo l’ora di leggerla, però non mi sarei mica
offeso se mi avesse ringraziato, a voce, per ieri sera...
“Caro Francesco,
volevo ringraziarti per la serata trascorsa mi hai fatto sentire un principessa. Ti volevo dire
una cosa, ora per motivi legali sono stata smistata e mandata al Nord a Milano, grazie di
tutto è stato un piccolo sogno.
Baci, Alida
Terrore. Scoppio in un mare di lacrime. Mi manca di già è una cosa incredibile, ma non ne
devo farmene una tragedia, del resto sono stato stupido a “fasciarmi” la testa perché lei
non mi amava veramente altrimenti mi avrebbe chiesto di andare con lei.
… Un anno dopo…
“Drin! Drin!” Mi suonano al campanello ed è da un po’ di tempo che quando qualche
persona suona al mio campanello spero sempre sia lei; dall’ occhiello vedo una signora di
colore, che effettivamente ha un po’ i lineamenti di Alida. “Sono la mamma di una persone
a cui vuoi bene, piacere sono la mamma di Alida Khumitru, mi guarda piangendo e io
penso a lei, non è stata sincera con me, non mi aveva mai raccontato avesse una famiglia,
lo sapevo che nascondeva qualcosa! “Allora signora cosa deve dirmi; piangendo mi cita il
nome di Alida e poi segue annunciandomi la sua morte, rimango stupito per un attimo e
poi una lacrima scende dalla guancia con delicatezza e offro un caffe alla signora. Mi lascia
sul tavolo una lettera. Riconosco la grafia della mia Alida, la apro e dopo la prima parola
non riesco ad andare avanti con la lettura, è più forte di me, ma prendo coraggio e leggo.
Caro Francesco,
Sono consapevole del fatto di non averti detto la verità riguardo mia madre e riguardo la
mia malattia, quando leggerai questa lettera io ti osserverò dall’alto e tu mi penserai e mi
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immaginerai come una sporca bugiarda che non aveva il coraggio di parlare al suo
ragazzo della sua malattia. Sai non è mai bello parlare di una malattia come il tumore ad
altre persone, con questo non voglio giustificarmi, ma voglio solo che mi perdoni per il
resto della tua vita. Voglio che tu mi possa ricordare come una bella persona gentile e
graziosa e non come starai pensando…
Baci Alida
Sua madre se ne va dopo aver bevuto il caffè, rattristata e in lutto e mi sdraio sul letto a
meditare come la morte possa vincere sempre. Penso, poi mi reco in cucina per scrivere
una lettera a Don Claudio per la mia chiusura temporanea del bar per tre giorni, poi scrivo
il cartello “CHIUSO PER LUTTO”, prendo lo zaino scendo le cale, pedalo fino ad arrivare
in canonica e imbuco la lettera. Pensando arrivo al bar attacco il biglietto “CHIUSO PER
LUTTO” e torno a casa mi sdraio sul letto vedo solo le travi di questa casa dove vive un
uomo depresso che pensava che la sua storia d’amore fosse una favola, ma poi si ricorda
che le favole hanno il lieto fine.
L’illusione era forte a sostenerci,
Ci reggevamo entrambi negli abbracci,
Pregando che durassero gli intenti.
Ci promettemmo il sempre degli amanti,
Certi nei nostri spiriti divini.
(Lettere di Alda Merini)
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