Famiglie malate. - Auto

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Famiglie malate. - Auto
Famiglie malate.
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PARTE 6
592
Indice.
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La battaglia tra SNOM e DEVI, tragedia in dieci o più battute.
Pag. 594
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Staccando l’ombra da terra.
Pag. 627
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La battaglia tra SNOM e DEVI,
tragedia in dieci o più battute.
SCHEMA GENERALE DELLE MOSSE IN SEQUENZA.
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1.
SNOM apre il gioco presentando una situazione irrilevante, la quale viene però proposta
a DEVI come un grave problema urgente da risolvere. La situazione da risolvere è enunciata
in maniera impersonale. (Talora il gioco viene aperto da un provocatore di secondo piano,
il quale tira la volata a SNOM adescando DEVI, il quale cade nella trappola).
2.
DEVI accetta, e con la risposta che fornisce si lascia coinvolgere,
e viene trascinato nel gioco perverso.
3.
SNOM ribatte con una contromossa provocatoria caratterizzata da un coinvolgimento personale
di DEVI, con carattere di svalutazione di questi.
4.
DEVI dà una seconda risposta, obbiettando sull’atteggiamento di SNOM,
in un tentativo di richiamarsi alla realtà.
5.
SNOM replica ancora, annullando il valore della precedente difesa di DEVI, la quale viene ignorata
grazie al fatto che SNOM presenta un altro e diverso problema. Questo secondo problema
è ancora sul piano della realtà concreta comune. La posizione attuale di SNOM è ancora
formalmente legata alla discussione originaria. (A questo punto, se vi era stato, esce
definitivamente di scena il provocatore secondario, il quale ha terminato la sua funzione).
(N. B. In queste prime tre mosse, SNOM tipicamente:
a. Non prende nessuna iniziativa concreta di risoluzione sul problema che ha denunciato.
b. Lascia, in forma ostentata, a DEVI l’obbligo di decidere che cosa fare per risolvere il problema.
c. Dopo che DEVI ha proposto una soluzione, SNOM la critica smontandola come non valida
per un qualche motivo).
6.
DEVI riesce ancora, sul piano cosciente, ad opporre una parata, obbiettando nuovamente
contro la posizione di SNOM, ma deve già giustificare le sue affermazioni con il supporto di fatti
della realtà, oppure con il richiamare alla memoria di SNOM fatti passati intercorsi tra loro.
7.
SNOM salta su un altro piano e sfugge alla stretta della risposta di DEVI cambiando di colpo
la logica del proprio attacco: incomincia ad accusare DEVI di causargli sofferenza (che ostenta).
Abbandonando il fittizio problema concreto iniziale, le sue battute sono ormai solo emozionali,
e rivolte personalmente contro DEVI, come sotto l’effetto di rabbia nascosta crescente e sempre
più distruttiva, come se la causa fosse il fatto che DEVI non cede. La gamma dei colpi è ampia:
• Credi che io abbia solo questo da fare?
• Tu dici questo di me, ma altri (imprecisati) la pensano ben diversamente.
• In giro si dice che sei prepotente, sei uno squilibrato, e che preferisci rovinarti
con le tue mani pur di non ammettere che hai torto.
• Tu credi sempre agli altri piuttosto che a me.
• Tu lo fai apposta a farmi soffrire e ad umiliarmi.
8.
DEVI è alle corde. Colto alla sprovvista dal cambio di attacco di SNOM, si difende ancora
disperatamente (talora in modo supplicante) ricordando:
a. L’argomento originario della discussione (che SNOM ormai ha abbandonato).
b. Il diritto della verità (dei fatti realmente accaduti) di prevalere su interpretazioni soggettive.
c. La sostanziale banalità dell’argomento, che non merita una lite.
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9.
SNOM contrattacca con violenza emotiva ancora maggiore, colpevolizzando direttamente DEVI
su sue asserite caratteristiche:
• Tu mi rovini sempre tutto.
• Tu non mi ami più.
• Tu mi umili.
• Tu mi odi.
• Mi fai schifo.
(Come sviluppo alternativo: SNOM si chiude in un silenzio glaciale e ostentato.
Si apre allora un nuovo ciclo: DEVI accetta la provocazione del silenzio di SNOM e risponde:
a. Cercando di farsi perdonare. Per DEVI è la sconfitta. SNOM ha vinto.
b. Chiedendo spiegazioni logiche del silenzio: si rientra nello schema generale,
con DEVI che esegue la mossa n° 2 o al massimo n° 4.
10. DEVI è sconfitto perché ha due sole forme di reazione possibili dinanzi alla violenza
dell’attacco di SNOM:
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a. Finale angosciato:
DEVI crolla in ginocchio, impotente, logicamente disperato e emotivamente angosciato,
sconfitto concretamente nella discussione. SNOM ha vinto.
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b. Variante esplosiva:
DEVI esplode in uno scoppio di violenza selvaggia, costretto infine anch’egli ad effettuare
un salto di piano, e dalla logica abbassarsi alla violenza rabbiosa.
SNOM (che non manca di farglielo notare trionfalmente) ha vinto.
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DIAGRAMMA TRA SNOM E DEVI.
TRAGEDIA IN DIECI O PIU’ ATTI.
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1.
SNOM
2.
DEVI
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APRE:
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 Talora il gioco viene aperto da un provocatore
secondario che tira la volata a SNOM,
adescando DEVI il quale cade nella trappola.
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
ACCETTA:
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
 Risposta di coinvolgimento
della futura vittima che si lascia trascinare
nel gioco perverso.
Situazione irrilevante proposta a DEVI
come grave problema urgente da risolvere,
ma enunciata in maniera impersonale.
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
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3.
SNOM
4.
DEVI
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
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RIBATTE:
RISPONDE:
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
 Contromossa provocatoria
 Obiezione della futura vittima
di coinvolgimento personale svalutante
con sforzo di richiamo alla realtà.
a carico di DEVI.
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5.
SNOM
6.
DEVI
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
REPLICA ANCORA:
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
 Uscita definitiva di scena
del provocatore secondario.
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PARATA SUL PIANO COSCIENTE:
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
 Cerca di parare giustificando però già
le sue affermazioni con il supporto
di fatti reali e storicamente provabili.

Annullamento del valore della risposta di DEVI
la quale viene ignorata grazie al formulare
l’esistenza di un altro e diverso problema
(per altro ancora reale, e mantenendo ancora
un legame formale con la discussione originaria).
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7.
SNOM
8.
DEVI
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
SALTA SU UN ALTRO PIANO E SFUGGE
ALLA RISPOSTA DI DEVI CAMBIANDO DI
COLPO LA LOGICA DEL PROPRIO ATTACCO.
ACCUSA DEVI DI CAUSARGLI SOFFERENZA
(CHE OSTENTA):
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 “Credi che io abbia solo questo da fare?”.
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E’ ALLE CORDE.
COLTO ALLA SPROVVISTA
SI DIFENDE DISPERATAMENTE
(TALORA SUPPLICA)
RICORDANDO:
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
 L’argomento originario della discussione
(ormai abbandonato da SNOM).


“Tu dici questo di me ma altri (imprecisati)
la pensano diversamente”.
“In giro si dice che tu sei prepotente,
sei uno squilibrato e ti rovini con le tue mani
pur di non ammettere che hai torto”.

Il diritto della verità
(dei fatti realmente accaduti) di prevalere.

La sostanziale banalità dell’argomento.
“Tu lo fai apposta a farmi soffrire
e ad umiliarmi”.
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
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9.
SNOM
10.
DEVI
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CONTRATTACCA CON VIOLENZA EMOTIVA
ANCORA MAGGIORE COLPEVOLIZZANDO
DIRETTAMENTE DEVI E LE SUE ASSERITE
CARATTERISTICHE:
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ESPLODE IN UNO SCOPPIO DI VIOLENZA
SELVAGGIO, COSTRETTO INFINE ANCH’EGLI
A UN SALTO DI PIANO DELLA LOGICA E AD
ABBASSARSI ALLA VIOLENZA RABBIOSA.
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

“Tu rovini sempre tutto”.

“Tu non mi ami più”.

“Tu mi umili”.

“Tu mi odi”.

“Mi fai schifo”.

VARIANTE ESPLOSIVA: SCONFITTA
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
CROLLA IN GINOCCHIO IMPOTENTE
RAZIONALMENTE DISPERATO.
ANGOSCIATO EMOTIVAMENTE E SCONFITTO
CONCRETAMENTE NELLA DISCUSSIONE.
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 VARIANTE DISPERATA: SCONFITTA
OPPURE COME SVILUPPO ALTERNATIVO:
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SNOM SI CHIUDE IN UN SILENZIO
GLACIALE E OSTENTATO
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SI APRE UN NUOVO CICLO
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DEVI
ACCETTA LA PROVOCAZIONE (SILENZIO) DI SNOM E RISPONDE
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CHIEDENDO
SPIEGAZIONI LOGICHE
DEL SILENZIO.
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oppure 
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CERCANDO
DI FARSI
PERDONARE.
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ALCUNE SOTTILI FORME DI FUNZIONAMENTO MENTALE DI SNOM.
Il funzionamento mentale di SNOM è caratterizzato da alcune forme tipiche, per così dire,
di sottigliezza mentale. Tali abilità dialettiche, nell’interazione con DEVI, scattano automaticamente
ed imprevedibilmente per spiazzarlo, con uno spostamento su altri piani di discussione o di logica,
rispetto all’inizio del discorso. Saranno ora riportati due spezzoni di dialogo tra SNOM e DEVI,
a illustrare altrettanti meccanismi del particolare funzionamento mentale di SNOM.
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LE PORTE FINESTRE.
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SNOM e DEVI, marito e moglie, abitano in una villa abbastanza isolata, in campagna.
La villa ha numerosissime finestre (non ancora protette da grate) e porte finestre.
La stagione volge verso l’inverno e imbrunisce presto. Il marito si offre di chiudere le imposte.
La moglie risponde:
“Sono tutte chiuse”.
Dopo cena la moglie dice al marito:
“Incomincia a chiudere le ante esterne”.
Il marito va all’esterno della casa per chiudere gli antoni e scopre che tutte le porte finestre
della casa (comprese quelle a pian terreno) sono aperte. Rientra in casa e dice alla moglie:
“Cara, ti chiedo scusa. Prima ti ho detto: ‘Vado a chiudere le porte finestre, se sono aperte’
e tu mi hai risposto che erano tutte chiuse.
Ora, tu sai che abbiamo sedici porte finestre in tutta la casa e se sono aperte,
qualcuno può entrare in casa 2-3 stanze più in là, arrivare alle spalle mentre guardiamo
la televisione senza farsi accorgere. Se le porte finestre sono chiuse a chiave,
devono rompere il vetro e il rumore sospetto mette all’erta”.
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La moglie risponde:
“Mah, avevo capito che parlavi delle finestre”.
“Ma come, ‘Mah!’? Un accidente! Tu hai equivocato e io mi sono preoccupato per i possibili
inconvenienti. Tanto più che io sono sceso dicendo testualmente: ‘Avevo chiesto
se le porte finestre erano chiuse’. In genere bisogna credere a quello che dici,
ma le porte finestre erano tutte aperte”.
“Perchè ci investi con la tua rabbia?”, chiede la moglie, inserendo nella discussione anche la figlia,
che si astiene dall’intervenire nonostante abbia assistito alla scena.
“Io non investo nessuno. Mi sono preoccupato per voi. Ero disposto ad andare
a chiudere prima, ma mi avevi detto che erano chiuse. E io mi irrito al vedere
che erano aperte, va bene?”.
“Uff! Vado a dormire”, e si sottrae dalla discussione ritirandosi in camera.
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DUELLO AL TELEFONO.
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SNOM: “Pronto?”.
DEVI:
“Pronto, ciao!”.
SNOM: “Ah, sei tu!”.
DEVI:
“Come va?”.
SNOM: “Sì, bene. Ho chiamato mia sorella e ho detto a lei l’orario del treno che prenderò domani”.
DEVI:
“Sì, lo so, ma non è l’orario che...”.
SNOM: “... così poi non c’è più stato bisogno di telefonare a te, perché sapevo che voi due
vi sareste sentiti. Scusami, ma tanto ci vediamo domani, no? Se vuoi, naturalmente!”.
DEVI:
“Ma sì, sai che sono sempre felice di venirti ad aspettare alla stazione.
E poi non ci vediamo da 20 giorni”.
SNOM: “Se hai da fare, dillo a mia sorella: forse fa in tempo a passarmi a prendere lei”.
DEVI:
“No, ho detto che vengo io. Comunque, una volta capito che non avresti chiamato,
l’ho fatto io perché avevo voglia di sentirti. Perché, per te è lo stesso sentire
me o tua sorella?”.
SNOM: “No, sai benissimo che non è lo stesso. Ma te l’ho già detto tante volte, e tu ogni giorno
trovi qualcosa di nuovo di cui incolparmi.
Non potevi aspettare fino a domani per parlarmi? Possibile che tu sia così debole?”.
DEVI:
“Scusa se sono stato aggressivo, ma non è una questione di debolezza.
Il fatto è solo che avevo piacere di parlare con te. Non cominciare a trovare dei significati
metafisici a un avvenimento insignificante come questo: ti ho telefonato per parlare un po’,
spero di cose piacevoli, e allora parliamo, no?”.
SNOM: “No, invece è un problema e quando tornerò a Torino ti dirò meglio cosa ne penso”.
DEVI:
“Dimmelo adesso”.
SNOM: “No, sai che non mi piace discutere al telefono. Avremo tempo a Torino”.
DEVI:
“Non puoi dirmi che mi devi parlare e poi non dire di che cosa. Mi fai star male.
Eppure ogni volta lo rifai”.
SNOM: “Hai finito di accusarmi? Io per te sono un mostro, sempre lì a pensare come tormentarti”.
DEVI:
“Sai che non è vero, non l’ho mai pensato. Altrimenti perché continuerei a cercarti?”.
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SNOM: “Appunto, che necessità c’è di sentirsi ogni giorno? Ti rendi conto che finiamo
per dire sempre le stesse cose e che alla lunga mi esasperi?”.
DEVI:
“Se mi metti alle strette così, mi costringi a ricordarti che quando stavi male e io non t’ho
chiamata per 3 giorni... che poi erano 2 perché la sera prima ti avevo cercata senza trovarti...
te la sei presa a morte. Hai detto che avevi bisogno di sentirmi, che non dovevo permettermi
una cosa simile, che quando uno ha bisogno l’altro deve capirlo e non fregarsene
in quel modo, più altri 10 minuti di insulti che non mi fa piacere ricordare”.
SNOM: “Era diverso”.
DEVI:
“Per favore, lasciami parlare. Così da quella volta io mi sono fatto un nodo al fazzoletto
e adesso ti chiamo tutti i giorni per non rischiare di assistere a una scena come quella.
Mi sembra normale: quando uno si è preso una bastonata perché ha sbagliato qualcosa,
cerca di non sbagliarsi più, perché le bastonate fanno male”.
SNOM: “Quella era una situazione diversa! Ma perché devi sempre rinfacciarmi tutto,
anche quello che dico quando sto male? Io adesso sono un po’ più tranquilla e tu cerchi
in ogni modo di esasperarmi. Ti inventi tutto! E poi senti, io adesso devo andare,
ho altro da fare, tanto ho capito che è sempre colpa mia. Salutami”.
DEVI:
“No, senti, un momento ancora, come sarebbe a dire che mi invento tutto? Io quelle frasi
le ho sentite e ti ricordi benissimo come ci ero rimasto male. non puoi dirmi questo”.
SNOM: “Io dico quel che mi pare. Ti stai inventando ogni cosa, stai facendo tutto da solo.
Stai rovinando tutto! Continua così e tra noi non rimarrà niente, lo capisci?
Adesso devo andare, salutami o metto giù”.
DEVI:
“No, ti prego”.
SNOM: “Metto giù. Salutami”.
DEVI:
“Ma perché tra noi deve sempre finire così? Io non volevo litigare!”.
SNOM: “Ciao”.
DEVI:
“Cazzo!!! Io cerco di parlare e tu mi sbatti il telefono in faccia? Tanto anch’io ho capito
com’è: io servo solo quando tu stai male, allora ho il potere di telefonarti, poi quando stai
meglio non ti servo più e subito divento un fastidio! Io ho solo doveri e nessun diritto.
Se ho il dovere di chiamarti quando va male, vorrei avere anche il piacere di farlo quando
va bene! Ti rendi conto? Tu credi di essere altruista, di pensare agli altri,
e invece sei la persona più egoista del mondo! Vedi solo te stessa, tutto dev’essere fatto
per te. Dovresti vergognarti!”.
SNOM: “Non ti perdonerò mai quello che hai detto”.
DEVI:
“Perdonami...”.
SNOM: “No, se pensi questo di me, non ti perdono. Adesso metto giù. Ciao”.
DEVI:
“Ciao”.
Questi esempi mostrano che il funzionamento mentale di SNOM ha quattro caratteristiche:
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1. Incapacità di accettare i propri limiti.
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2. Uso dello spostamento di piano.
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3. Uso di manovre trasversali (ritorsione di accuse diverse).
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4. Fuga.
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1. Incapacità di accettare i propri limiti.
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SNOM è incapace di ammettere un suo errore o limite. Non riesce a fare quello sforzo di superare
l’orgoglio personale ed ammettere di avere sbagliato, come la maggior parte delle persone.
Per negare la propria limitatezza, SNOM deve quindi alterare la realtà oggettiva dei fatti accaduti.
E deve farlo rigidamente, cioè tutte le volte che i fatti definirebbero il suo comportamento
come difforme rispetto all’idea di sè (un sè assurdamente disumano in una sua impossibile
perfezione) che SNOM vorrebbe avere.
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2. Uso dello spostamento di piano.
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Per sfuggire al vicolo cieco in cui questa incapacità lo mette, SNOM usa il meccanismo di difesa
di spostare il piano della discussione. Dal piano della realtà (ciò che ha fatto) salta al piano
delle motivazioni per cui l’ha fatto (“Mah, avevo capito che parlavi delle finestre”).
Con ciò SNOM cerca di creare in DEVI l’impressione emotiva di una reinterpretazione della realtà.
Ma è una reinterpretazione concettuale in malafede, perchè vengono nascostamente cambiati
i criteri in base ai quali prima si valutavano i fatti.
Grazie a questa reinterpretazione, la cosa che SNOM non ha fatto viene presentata
come rilevante, ma non più come cosa non fatta (quindi come una mancanza),
bensì come cosa che è accettabile e giustificabile se non è stata fatta, dal momento che è stato
spiegato perchè non è stata fatta.
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3. Uso di manovre trasversali (ritorsione di accuse diverse).
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Subito dopo, SNOM usa l’ulteriore mezzo di difesa di accusare DEVI per il tono emozionale
delle sue affermazioni (“Perchè ci investi?”), al fine di produrre l’effetto di distrarre l’attenzione
dal fatto che le affermazioni di DEVI corrispondono alla realtà dei fatti, alla verità.
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4. Fuga.
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Come ultimo mezzo di difesa SNON - messo alle strette - esce dal rapporto con DEVI, si allontana
dalla stanza e fugge (“Vado a dormire”). Per continuare ad evitare di ammettere il suo errore,
deve esercitare il suo potere in una forma che DEVI non possa controbattere: egli può continuare
a vincere sottraendosi al confronto. Solo così l’ultima parola resterà la sua.
Tuttavia il costo è terribile e insensato: al di sotto dell’apparenza di forza e di imperio di SNOM,
la sua ultima parola è in realtà una parola di sconfitta, di impotenza. Fuggendo dal rapporto,
SNOM ammette di non essere stato capace di reggere il confronto con DEVI.
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SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO
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AUTORE:
Hirigoyen, Marie France
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TITOLO:
Molestie morali.
La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro.
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EDITORE:
Giulio Einaudi Editore, Torino, 2000.
Titolo originale: “Le harcélement moral. La violence perverse du quotidien”,
Editions La Découverte & Syros, Paris, 1998.
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PAGINE:

259
INQUADRAMENTO GENERALE:  no
INDICE:

vedi
COMMENTO:

vedi
TEST DA COMPILARE:

no
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INDICE E COMMENTO.
UN LIBRO INGANNATORE.
COME IL VINO BIANCO FRESCO IN ESTATE.
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(A cura di QUATTRO - Editing a cura di 35).
Sarà ora presentata un’analisi del testo “Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia
e nel lavoro”, della psichiatra, psicoanalista e psicoterapeuta familiare Marie France Hirigoyen.
Data l’impostazione di supporto a un lavoro di auto-aiuto del sito, non verranno recensiti
i due capitoli sul mobbing aziendale, nonostante siano estremamente significativi per il lettore
e QUATTRO ne suggerisca uno studio approfondito a chi è toccato dal fenomeno.
Il campo di studio del libro è indicato dall’Autrice fin dalle prime righe, con le seguenti parole:
“Piccoli atti perversi sono quotidiani al punto da sembrare la norma. Tutto comincia con una semplice
mancanza di rispetto, con un po’ di falsità o un accenno di manipolazione. Ci sembra insopportabile
solo se ne veniamo colpiti direttamente. Poi, se il gruppo sociale in cui simili comportamenti
si manifestano non reagisce, subentrano gradualmente condotte apertamente perverse,
che hanno gravi conseguenze sulla salute psicologica delle vittime.
Poiché non sono sicure di venire capite, tacciono e soffrono in silenzio. La difficoltà delle trascrizioni
cliniche sta nel fatto che ogni parola, ogni intonazione, ogni allusione ha importanza.
Tutti i dettagli, presi separatamente, paiono insignificanti, ma nell’insieme danno origine
a un processo distruttivo. La vittima viene trascinata in questo gioco mortifero e può darsi che reagisca
a sua volta, di rimando, con perversione, perché ognuno di noi può servirsi di tale modalità relazionale
a scopo difensivo. È quello che a torto porta a parlare di complicità della vittima con il suo aggressore.
Le aggressioni sono sottili, non esistono tracce tangibili e i testimoni tendono a interpretare
come semplici rapporti conflittuali o passionali tra due persone quello che è un tentativo violento
di distruzione morale e addirittura fisico, qualche volta riuscito”. (Pagg. 5-7).
QUATTRO desidera mettere subito in guardia il lettore: “Molestie morali. La violenza perversa
nella famiglia e nel lavoro”, può dare l’impressione di un libro facile, perché è scorrevole nella lettura,
vivacizzato da moltissimi esempi clinici di grande interesse psicologico pratico, non oppresso
da troppe citazioni tecniche. Ma è un errore: il libro della Hirigoyen è tutt’altro che semplice
da assimilare. Leggere questo libro significa infatti assimilarlo, perché chi lo prende tra le mani
ha evidentemente interesse per l’argomento, ma anche necessità di impararne i principi fondamentali
per liberarsi dalla sua personale forma di molestia morale.
È un manuale di sopravvivenza, dunque. Quando si è soli, e si vuole sopravvivere, essere superficiali
può significare morire; essere attenti a sfruttare ogni elemento utile può voler dire la salvezza.
602
Il pericolo che il lettore può correre non è piccolo. Le prime 50 pagine (“La violenza privata”)
afferrano la sua attenzione, con il rischio di un progressivo allentarsi, pagina dopo pagina,
per la scorrevolezza dell’esposizione, la ricchezza di esempi che possono dare l’illusione di puri inserti
narrativi (anziché i drammatici resoconti di tristi storie cliniche).
Gli esempi di vita vissuta svolgono la funzione di illustrazione emotiva dei concetti teorici esposti
poco prima, che vengono fatti penetrare nella mente del lettore grazie alla loro forza emozionale,
cosicché - con un meccanismo di analogia - ognuno può ricondurli alla propria situazione.
Se, tuttavia, il lettore ha problemi personali all’interno della coppia e non ha esperienze di lavoro
in azienda può può pensare che la sezione “Molestie in azienda” non lo riguardi.
Invece è un’estensione macroscopica della violenza privata a due, e può fornire
al lettore insegnamenti importanti proiettando i problemi tra due individui sul grande schermo
di un’azienda. Anche più avanti, il lettore può continuare a leggere rapidamente le fluide pagine
della seconda parte (“Il rapporto perverso e i protagonisti”) senza rendersi conto di quanto
queste 80 pagine siano un’esposizione piana e lineare degli stessi concetti che altri precedenti testi
riferivano con linguaggio arduo da comprendere per l’uso di termini psicoanalitici oscuri al profano.
Eppure una semplice occhiata all’indice lo convincerebbe che i temi sono gli stessi:
1. La seduzione perversa.
2. La comunicazione perversa.
3. La violenza perversa.
4. L’aggressore.
5. La vittima.
È per questo che QUATTRO ha definito “Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia
e nel lavoro”, un libro ingannatore come un vino bianco fresco d’estate: il piacere del refrigerio
dissetato lo fa bere con una facilità che appanna poi la lucidità della mente. Infine, il lettore affrettato
può scorrere velocemente le ultime 60 pagine del testo della Hirigoyen pensando che ciò che legge
gli è già noto e non può essergli di particolare utilità.
Quindi può nuovamente trascurare i capitoli “Consigli pratici in azienda” e l’Appendice
(nella quale valenti esperti italiani parlano di violenza intrafamiliare, di mobbing lavorativo e di aspetti
giuridici delle molestie morali). Ma questo è l’ultimo, e forse il più grave, di una serie di errori
perché può portarlo a trascurare la profondità dell’osservazione che la Hirigoyen fa quasi
alla conclusione delle sezioni sulla violenza privata: “Con un perverso non la si ha mai vinta.
Tutt’al più si può imparare qualcosa su di sé. Allo scopo di difendersi è forte, per la vittima,
la tentazione di fare ricorso agli stessi metodi dell’aggressore.
Eppure, se ci si ritrova nella condizione di vittima, vuol dire che si è il meno perverso dei due.
Non si vede come la situazione potrebbe ribaltarsi. Usare le stesse armi dell’avversario
è decisamente sconsigliabile; in realtà, l’unico rimedio è la legge”. (Pag. 181).
Intenzionalmente QUATTRO ha voluto far concludere l’illustrazione del difficile ritratto del perverso
narcisista alle importanti considerazioni della Hirigoyen. Gli altri studi hanno illustrato meccanismi
inconsci complessi e sottili, permettendo al lettore di formarsi un patrimonio di concetti
per interpretare il comportamento del perverso.
Comprendere vuol dire potersi sottrarre poiché questi non più come misterioso, ma razionalmente
comprensibile. La Hirigoyen non si dilunga a parlare dell’inconscio del perverso, ma sceglie
di descriverne, con attenta precisione, le forme di comportamento nella vita di ogni giorno.
Questo ne fa un manuale di sopravvivenza di eccezionale valore pratico per chi sia stato catturato
come vittima. Per questo motivo QUATTRO ha scelto di lasciare alla Hirigoyen l’onore e l’onere
di dire sul perverso narcisista le ultime parole, quelle che restano nella memoria, penetrano nel cuore
e generano azioni nuove. Nel libro, il tessuto di osservazioni psicologiche significative è così esteso
da far correre il rischio che esse siano sottovalutate.
Per analizzare il libro, QUATTRO ha quindi deciso di seguire uno schema che permetta di avere
in immediata successione un’idea abbastanza chiara di due elementi opposti.
Sarà riportato l’indice del testo, citato per sezioni per sezione in modo da fornire il quadro generale
dell’opera; dopo ogni sezione sarà riportata una serie di citazioni prese dal testo del capitolo relativo
allo scopo è fornire un sondaggio attraverso lo spessore dei concetti illustrati.
Iniziamo l’esposizione con una serie di osservazioni introduttive, che comprendono anche riferimenti
al rapporto del perverso con i bambini, all’interno del nucleo familiare.
603
LA VIOLENZA PERVERSA NELLA VITA QUOTIDIANA. LA VIOLENZA PRIVATA.
La violenza perversa nella coppia:
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• IL CONDIZIONAMENTO.
• LA VIOLENZA.
• LA SEPARAZIONE.
La violenza perversa nelle famiglie:
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• LA VIOLENZA INDIRETTA.
• LA VIOLENZA DIRETTA.
• L’INCESTO LATENTE.
La violenza perversa nella coppia:
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• IL CONDIZIONAMENTO.
“All’interno della coppia il processo perverso si attiva quando manca l’elemento affettivo,
oppure quando l’oggetto amato è troppo vicino. L’eccessiva vicinanza può fare paura e, proprio
per questo, chi è più incline all’intimità diventerà oggetto della più grande violenza.
Un individuo narcisista impone il suo ascendente per trattenere l’altro, ma ha paura
che gli si avvicini troppo, che arrivi a invaderlo. Si tratta allora di mantenerlo in una relazione
di dipendenza o addirittura di proprietà, per verificare la propria onnipotenza.
Il partner, invischiato nel dubbio e nel senso di colpa, non è in grado di reagire.
Il messaggio non detto è “Io non ti amo”, ma viene nascosto perché l’altro non se ne vada;
a esso si ispira, però, il comportamento. Il partner deve restare dov’è per venire frustrato
in permanenza; contemporaneamente bisogna anche impedirgli di pensare, perché non prenda
coscienza del processo. Il condizionamento viene messo in atto da un individuo narcisista che vuole
paralizzare il suo partner mettendolo in uno stato di indeterminazione e di incertezza.
Ciò gli consente di non impegnarsi in un rapporto di coppia che lo spaventa.
Grazie a questo processo mantiene l’altro a distanza, entro confini che non gli paiono pericolosi.
Se non vuole venire invaso dall’altro, gli fa comunque subire quello che non vuole subire lui,
soffocandolo e tenendolo a disposizione. Una coppia guidata da un perverso narcisista costituisce
un’associazione mortifera: la denigrazione e gli attacchi sotterranei sono sistematici.
Solo l’eccessiva tolleranza da parte del partner rende possibile tale processo.
È una tolleranza che gli psicoanalisti spesso interpretano come dovuta ai vantaggi inconsci,
sostanzialmente masochisti, che la vittima può ricavare da legami di questo tipo.
Si tratta, come vedremo, di un’interpretazione parziale e pericolosa: parziale perché alcuni
non avevano manifestato in precedenza tendenze auto punitive e non ne avrebbero manifestate
in seguito; pericolosa perché, contribuendo a rafforzare il senso di colpa del partner, non lo aiuta
affatto a trovare i mezzi per uscire da questa situazione difficile. Molto più spesso l’origine
di tale tolleranza si rintraccia in una lealtà familiare che consiste, ad esempio, nel riprodurre
l’esperienza vissuta da uno dei genitori, oppure nell’accettare un ruolo riparatore del narcisismo
dell’altro, una sorta di missione alla quale ci si debba sacrificare”. (Pagg. 7-9).
• LA VIOLENZA.
“La violenza perversa si manifesta nei momenti di crisi, quando un individuo che ha strumenti
perversi di difesa non è capace di assumersi la responsabilità di una scelta difficile.
Essa è allora indiretta e consiste essenzialmente nel non rispettare l’altro.
Il rifiuto della responsabilità di un fallimento coniugale è spesso all’origine di un’altalena perversa.
Un individuo con un forte ideale di coppia presenta relazioni apparentemente normali con il suo
partner fino al giorno in cui deve scegliere tra questo rapporto e un nuovo incontro.
La violenza perversa sarà tanto più forte quanto più grande era l’ideale di coppia.
Non è possibile accettare la responsabilità, che è l’altro a dover portare interamente sulle proprie
spalle. Se l’amore viene meno, se ne considera responsabile il partner, per un errore che avrebbe
commesso e che non viene detto. Nella maggior parte dei casi si nega a parole che l’amore
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si sia spento, anche se ci si comporta come se lo fosse. Prendere coscienza della manipolazione
porta inevitabilmente la vittima in uno stato di terribile angoscia, che non può sfogare
perché non ha interlocutori. Oltre alla rabbia, le vittime a questo stadio provano vergogna
per non essere state amate, per avere accettato umiliazioni, per avere subito.
A volte non si tratta di un impulso perverso transitorio, ma di una perversità fino a quel momento
nascosta, che si rivela. L’odio mascherato viene in piena luce, molto simile a un delirio
di persecuzione. I ruoli così si invertono, l’aggressore diventa l’aggredito e il senso di colpa
rimane sempre dalla stessa parte. Perché la cosa sia credibile, bisogna screditare l’altro
spingendolo a comportarsi in modo condannabile”. (Pagg. 14-15).
In sintesi, i perversi che non riescono ad assumersi la responsabilità della rottura fanno in modo
che il partner prenda l’iniziativa cacciandolo via e diventando il responsabile del fallimento
della coppia, il capro espiatorio con ogni colpa possibile (le reazioni esagerate sono segno di pazzia,
la depressione è noiosa, ecc.). Invece il perverso riesce a non mettersi in discussione, mai.
E se ha avviato un’altra relazione, continua a massacrare il partner precedente, come se
nella propria perversione potesse amare qualcuno soltanto odiando qualcun altro.
L’idealizzazione del nuovo partner consente di proiettare tutto quanto è cattivo sul partner
precedente, che diventa l’odiato capro espiatorio. Il nuovo rapporto d’amore si fonda sull’odio
del partner precedente. Ma se quest’ultimo è stato aiutato ad accettare che, qualunque cosa faccia,
sarà sempre oggetto di odio per l’altro e che non può fare niente per cambiare il rapporto,
accettando così la propria impotenza, allora questa nuova immagine di sé sufficientemente buona
gli permetterà di non rimettere in discussione la propria identità dinanzi alle aggressioni
del perverso. Smettendo di avere paura del suo aggressore, esce dal gioco.
• LA SEPARAZIONE.
Nelle separazioni o divorzi si manifestano spesso aspetti perversi, anche in casi normali.
Si entra nella patologia se la perversione è ripetitiva o unilaterale, quindi distruttiva.
L’atto della separazione scatena l’impulso persecutorio nel perverso, prima controllato:
sentendo che la vittima si sta allontanando, scatena e intensifica la violenza.
Questa passa attraverso i figli (se ve ne sono), coinvolti ora in modo pesante.
Oppure si verificano appostamenti e pedinamenti assillanti verso l’ex partner (all’uscita dal lavoro,
con telefonate giorno e notte, spesso con minacce).
Il campo legale è trasformato dal perverso in un campo di battaglia (lettere raccomandate,
azioni legali attraverso avvocati, cause intentate soltanto per dare fastidio all’altro).
Il perverso non molla la sua vittima e la bracca attraverso gli strumenti della procedura legale.
Più il bisogno di appropriazione inconscio è forte, più forti sono il risentimento e la rabbia,
talora l’odio. La vittima si difende male, spesso è oppressa da errati sensi di colpa
per aver osato recuperare un po’ di pace con la libertà; usa male la protezione della legge;
spesso commette l’errore di essere tollerante con il perverso, sperando così di rabbonirlo.
Invece il perverso freddamente e spietatamente ne approfitta.
Anzi, spesso riesce a spingere l’ex partner a perdere il controllo e a sbagliare, volgendo tali errori
a proprio vantaggio. In queste situazioni estreme - anzi, se possibile, ancora di più in esse l’obiettivo del perverso è destabilizzare l’interlocutore e farlo dubitare di sé, degli altri, di ogni cosa,
usando ogni mezzo (dalle affermazioni più inverosimili alle menzogne più spudorate).
Per sopravvivere la vittima deve stare continuamente in guardia nei confronti del perverso,
non deve avere il minimo dubbio su di sé e sulle proprie decisioni e deve riuscire
a non tener conto delle aggressioni.
La violenza perversa nelle famiglie:
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L’aspetto tragico della violenza perversa nelle famiglie è la sua inafferrabilità, per cui essa tende
a trasmettersi da una generazione all’altra.
Questo non soltanto perché tale violenza sfugge alla vigilanza degli strumenti sociali e legali,
ma forse ancora di più per il fatto che assume la maschera dell’educazione.
La Hirigoyen fa riferimento al concetto di “pedagogia nera” (Alice Miller), cioè quel tipo di educazione
familiare che si propone di spezzare la volontà del bambino per farne una creatura docile
e obbediente. Giacché dinanzi alla forza e all’autorità dei genitori il bambino è indifeso,
605
questi non ribatte e addirittura perde coscienza della situazione traumatica che gli adulti gli hanno
creato attorno. La Hirigoyen cita le forme di maltrattamenti psicologici nei confronti dei minori,
elencati dalla “Convenzione internazionale dei diritti del bambino”, (vedi testo nella sezione
Non solo psicoterapia ma...):
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• Violenze verbali.
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• Comportamenti sadici e tesi a svalutare.
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• Rifiuto affettivo.
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• Pretese eccessive o sproporzionate rispetto all’età del bambino.
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• Compiti e obblighi educativi contradditori o impossibili da eseguire.
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Restando sempre nel campo del rapporto tra il perverso e la famiglia, questa violenza sul partner
e sui bambini che assistono può essere indiretta o colpirli direttamente.
• LA VIOLENZA INDIRETTA.
In assenza del partner, la violenza del perverso si trasferisce sui figli. I bambini sono presenti
in casa e non possono allontanarsi. Sono aggrediti in quanto figli del partner, subiscono
tutta l’ostilità destinata all’altro genitore.
Purtroppo può anche accadere che il partner ferito, non riuscendo a combattere con il perverso,
riversi sui figli l’aggressività che non ha potuto scaricare.
Comunque, in generale, quando il genitore perverso denigra l’altro, ai bambini non resta
che isolarsi. Perderanno così, sottolinea la Hirigoyen, ogni possibilità di individuazione
e di pensiero autonomo. E, cosa ancor peggiore, porteranno in sé una sofferenza incompresa
e inespressa, che tenderanno a scaricare in futuro su altri innocenti, con un trasferimento
di odio e di distruttività da una generazione all’altra.
Sulle devastanti ripercussioni psichiche che la violenza del perverso crea nell’ambiente
della famiglia attorno a sé, la Hirigoyen sottolinea alcuni punti, nel corso della sua esposizione:
“Come è possibile pensare rettamente quando un genitore ti dice che devi pensare in un modo
e l’altro ti dice esattamente il contrario? Se non viene eliminata da parole ispirate al buon senso
e pronunciate da un altro adulto, questa confusione può portare il bambino o l’adolescente
a una fatale auto distruttività.
Molto spesso, in quegli adulti che sono stati vittime della perversione di un genitore
(come nel caso delle vittime di incesto) si constatano alternanze di anoressia e di bulimia,
o altri comportamenti addizionali. Le allusioni e le osservazioni perverse sono un condizionamento
negativo, un lavaggio del cervello.
I bambini non si lamentano dei maltrattamenti subiti, sono anzi alla costante ricerca
di un improbabile riconoscimento da parte del genitore che li rifiuta.
Hanno interiorizzato l’immagine negativa di sé (“Non valgo nulla”) e l’accettano
come se l’avessero meritata”. (Pagg. 36-37).
“Il genitore ha sottomano un oggetto vivo, disponibile e manipolabile, a cui può fare subire
le umiliazioni che lui stesso ha subito in passato o che continua a subire. Non si sopporta
che il bambino sia felice. Lo si vessa qualunque cosa faccia, qualunque cosa dica.
C’è una sorta di necessità di fargli pagare la sofferenza che si è vissuta in prima persona”. (Pag. 38).
“Manipolare i bambini è facilissimo, per coloro che amano essi cercano sempre delle scuse.
La loro tolleranza non ha limite, sono pronti a perdonare tutto ai loro genitori, ad assumere
su di sé la colpa, a comprendere, a cercare di capire perché la madre o il padre è scontento.
Un metodo frequentemente usato per manipolare un figlio è il ricatto attraverso la sofferenza”.
(Pag. 39) (1).
606
“Il coniuge dell’aggressore, condizionato anch’egli, solo di rado può aiutare i figli, ascoltarne
le sofferenze senza giustificare l’altro, senza farsi suo avvocato. I bambini percepiscono molto presto
la comunicazione perversa ma, poiché dipendono dai loro genitori, non sono in grado di definirla.
La situazione si aggrava quando l’altro genitore, nel desiderio di proteggersi, si allontana
e lascia il figlio ad affrontare da solo il disprezzo o il rifiuto”. (Pag. 40).
La Hirigoyen fa qui verosimilmente riferimento implicito al concetto di terrorismo
della sofferenza, presentato già nel 1932 da Sandor Ferenczi nel notissimo studio
sul tema “Confusione delle lingue tra adulto e bambino. (Il linguaggio della tenerezza
e il linguaggio della passione)”.
(1)
• LA VIOLENZA DIRETTA.
“La violenza diretta è il contrassegno di un rifiuto, conscio o inconscio, del bambino da parte
di uno dei suoi genitori. Questi si giustifica spiegando che agisce nel suo interesse,
a scopo educativo, ma la realtà è che quel bambino gli dà fastidio e che deve distruggerlo
interiormente per preservare se stesso.
Solo la vittima può avvertirlo, ma la distruzione è reale.
Il bambino è infelice, ma non ha oggettivamente ragione di lamentarsi.
Se lo fa, si lamenta di gesti o di parole banali. Dice soltanto che non sta bene con se stesso.
Eppure, sussiste una reale volontà di annullarlo. Il bambino maltrattato viene considerato
un bambino persecutore. Si dice che è una delusione, che è responsabile delle difficoltà dei genitori:
“Questo bambino è difficile, non ne fa una giusta, rompe tutto, appena giro le spalle
fa delle sciocchezze”. Questo bambino deludente non corrisponde alle rappresentazioni
del figlio ideale che i genitori hanno nel loro immaginario.
Disturba perché occupa un posto particolare nella problematica parentale
(ad esempio: bambino non desiderato, responsabile di una coppia che non voleva essere tale),
oppure perché mostra una differenza (malattia o ritardo scolare).
La sua semplice presenza rivela e riattiva il conflitto parentale.
È un bambino bersaglio, di cui si devono correggere i difetti perché righi diritto.
È una spirale assurda: si bistratta il bambino perché è maldestro e non è come si deve;
lui diventa sempre più maldestro e sempre più lontano da come il genitore lo vorrebbe.
Non lo si svaluta perché è maldestro: è diventato maldestro perché lo si è svalutato.
Il genitore che rifiuta cerca, e trova inevitabilmente, una giustificazione (una pipì a letto, un cattivo
voto a scuola) alla violenza che sente dentro, ma a scatenare tale violenza è l’esistenza del bambino,
non il suo comportamento. Una maniera molto banale per esprimerla in modo perverso consiste
nell’affibbiare al bambino un soprannome ridicolo.
Quindici anni dopo, Sarah non può dimenticare che, quando era piccola, i suoi genitori
la chiamavano “pattumiera” perché aveva un grande appetito e svuotava sempre i piatti.
Per via del suo eccesso di peso, non corrispondeva alla figlia che i genitori avevano sognato.
Invece di aiutarla a regolare il suo appetito, avevano cercato di annullarla ancora di più.
Succede anche che un bambino abbia qualcosa di più rispetto a suo padre o a sua madre:
è troppo dotato, troppo sensibile, troppo curioso.
Si cancella quello che ha di meglio per non vedere le proprie lacune.
Le affermazioni assumono l’aspetto di predicati: “Sei un buono a nulla!”.
Il bambino finisce per diventare insopportabile, stupido o caratteriale, perché il genitore abbia
una buona ragione per maltrattarlo. Con il pretesto dell’educazione, si spegne nel proprio figlio
la scintilla vitale che non si possiede, si spezza la sua volontà, si distrugge il suo spirito critico
e si fa in modo che non possa giudicare il genitore. In tutti i casi, i bambini avvertono molto bene
di non corrispondere a quello che i loro genitori desiderano o, molto semplicemente,
di non essere stati voluti. Sono colpevoli di deluderli, di farli vergognare, di non essere abbastanza
bravi per loro. Se ne scusano perché vorrebbero riparare al narcisismo dei loro genitori.
Fatica sprecata”. (Pagg. 41-43).
“La perversione provoca danni considerevoli nelle famiglie; spezza i legami e distrugge
ogni individualità, senza che se ne acquisisca consapevolezza. I perversi sanno contraffare
così bene la loro violenza da riuscire spesso a dare di sé un’ottima immagine.
Il processo discreditante può venire attuato in modo ancora più perverso facendo agire un terzo,
in genere l’altro genitore, anch’egli condizionato, a sua insaputa”. (Pag. 44).
607
“Poiché non si può uccidere davvero il bambino fisicamente, si fa in modo che non sia niente,
lo si annulla psichicamente. Si può conservare così una buona immagine di sé, anche se in questo
modo il bambino perde ogni coscienza del proprio valore”. (Pag. 45).
“Anche quando la violenza dei genitori è ancora più evidente, non la si può denunciare
giuridicamente, perché essa non sempre viene riconosciuta”. (Pag. 46).
“I bambini vittime di aggressioni perverse hanno come unica via di uscita meccanismi di scissione
protettiva, e si ritrovano portatori di un nucleo psichico morto.
Tutto quanto non è stato metabolizzato durante l’infanzia, viene continuamente riprodotto
in età adulta. Anche se non tutti i bambini maltrattati diventano genitori che maltrattano,
si dà origine a una spirale distruttiva.
Ognuno di noi può arrivare a riprodurre sugli altri la sua violenza interiore.
Alice Miller ci dimostra che, con il tempo, i bambini o le vittime soggette a condizionamento
dimenticano le violenze subite - basta togliere loro la volontà di sapere -, ma le riproducono
su se stessi o sugli altri. I genitori non trasmettono ai loro figli solo qualità positive come l’onestà
e il rispetto per gli altri, possono anche insegnare loro a diffidare e ad aggirare leggi e regole
sotto la copertura della “capacità di cavarsela”. È la legge del più furbo.
Nelle famiglie in cui la perversione è la regola, non è raro che si trovi un antenato trasgressore,
che tutti conoscono anche se viene tenuto nascosto, che fa la figura dell’eroe grazie
alla sua furbizia. Se ci si vergogna di lui non è perché ha trasgredito la legge, ma perché non è stato
furbo abbastanza da non farsi prendere”. (Pag. 47).
• L’INCESTO LATENTE.
La Hirigoyen parla anche, tra le forme di violenza perversa, di quelle situazioni nelle quali
vi è un’atmosfera morbosa in famiglia (sguardi equivoci, toccamenti indiscreti, allusioni sessuali,
violazioni di privatezza a danno dei figli), come un’assenza di barriere tra i figli e i genitori invasivi
in maniera sottile ma pesante, sotto un’apparenza di banalità.
È il quadro che Racamier definisce di “incestualità” (un’atmosfera dove si respira aria di incesto
senza che vi sia materialmente l’incesto). I bambini non sono lasciati essere bambini, ma costretti
a essere testimoni o ascoltatori della vita sessuale degli adulti, senza rispetto del loro mondo
interiore. Le eventuali proteste del figlio/figlia sono bollate come falsità o pensieri morbosi
che male interpretano i “sani” atteggiamenti educativi del genitore, interessato unicamente
“al bene e all’educazione” del giovane.
Gli esempi sono infiniti:
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 La madre che racconta alla figlia i fallimenti o pochezze sessuali del padre.
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 Il padre che porta con sé la bambina quando va dall’amante.
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 Il padre che controlla la biancheria intima che la figlia indossa, “per vedere se le sta bene”.
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 Il padre che ha sfacciati atteggiamenti seduttivi verso le compagne di classe della figlia.
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 Il patrigno che dal mare invia alla figlioccia cartoline di donne nude e scrive “ti penso tanto”.
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 Madre o padre che - con la scusa di prendere un oggetto - entrano in bagno mentre il figlio
di sesso opposto sta espletando le proprie funzioni fisiologiche.
La giovane vittima, al sentire respinte le sue proteste, è obbligata ad accettare,
per non impazzire, atteggiamenti che sente come invasivi e violenti, e finisce per perdere
la capacità di percepire la realtà con chiarezza, di conseguenza sfuma per lei ogni possibilità
di porre fine alla violenza.
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Vediamo ora una presentazione molto più analitica e particolareggiata del rapporto perverso,
esaminando le caratteristiche dei due protagonisti. Le considerazioni riportate sono riferite
fondamentalmente al rapporto tra due individui adulti.
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La seduzione perversa:
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• LA SEDUZIONE.
• L’INFLUENZAMENTO.
• IL CONDIZIONAMENTO.
• L’ESERCIZIO DEL POTERE.
Le conseguenze del condizionamento per la vittima:
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• LA RINUNCIA.
• LA CONFUSIONE.
• IL DUBBIO.
• LO STRESS.
• LA PAURA.
• L’ISOLAMENTO.
Gli strumenti della seduzione:
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• IL RIFIUTO DELLA COMUNICAZIONE DIRETTA.
• IL LINGUAGGIO USATO.
• LA MENZOGNA LARVATA O ESPLICITA.
• SARCASMO, DERISIONE, DISPREZZO.
• IL PARADOSSO.
• LA SQUALIFICA.
• L’IMPOSIZIONE DEL POTERE.
La violenza perversa:
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• IL MANIFESTARSI DELL’ODIO.
• LA VIOLENZA DIVENTA AZIONE.
• LA VITTIMA ALLE STRETTE.
I due personaggi. L’aggressore:
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• LA PERVERSIONE NARCISISTICA.
• LA MEGALOMANIA.
• LA VAMPIRIZZAZIONE.
• L’IRRESPONSABILITA’.
I due personaggi. La vittima:
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• LA VITTIMA OGGETTO.
• PERCHE’ ACCETTANO LA LORO SORTE?
• GLI SCRUPOLI.
• LA VITALITA’.
• LA TRASPARENZA.
Le conseguenze a lungo termine:
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• LO CHOC.
• LO SCOMPENSO.
• LA SEPARAZIONE.
• L’EVOLUZIONE.
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La seduzione perversa:
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• LA SEDUZIONE.
Per effetto della seduzione, la vittima è attratta irresistibilmente, ma è anche corrotta e fuorviata.
Distolta dalla realtà, nascostamente destabilizzata, raggirata mai frontalmente ma sempre in modo
indiretto, perde poco a poco la fiducia in se stessa e progressivamente viene influenzata
fino a essere privata di ogni libertà. Il perverso seduce la vittima sfruttandone gli istinti protettivi.
La seduzione è a senso unico: il perverso esercita il suo fascino senza lasciarsi coinvolgere.
La seduzione non è veramente una cosa reale, concreta, ma appartiene al mondo dei segnali,
dei rituali, usati a scopo malefico. Infatti confonde, cancella i limiti tra ciò che è “sé” e ciò che
è “altro”, a scopo distruttivo (il perverso mira a incorporare l’altro, che sente come una minaccia).
• L’INFLUENZAMENTO.
Influenzare è indurre qualcuno a pensare, scegliere o fare diversamente da come avrebbe fatto
spontaneamente. Per mezzo della seduzione e della manipolazione la vittima viene in realtà
assoggettata, perché è prima privata della sua capacità critica e della sua libertà, poi è privata
di ogni difesa, a opera del perverso, la cui abilità manipolativa fa sì che la vittima creda di essere
libera. In realtà invece le viene sottilmente precluso di prendere coscienza del processo,
le viene impedito di discutere e di ribellarsi. Tutto ciò avviene a sua insaputa, con una manovra
che si svolge sul piano inconscio, destabilizzandola e confondendola.
È un vero e proprio inganno morale.
• IL CONDIZIONAMENTO.
Il condizionamento avviene nell’ambito di un rapporto di dominio: il potere del perverso
(fatto non soltanto di ascendente psicologico, ma anche di intimidazioni) induce la vittima
a ubbidire per dipendenza o acquiescenza o sottomissione, indebolendola per farle accettare
le idee del dominatore. Spesso è un vero e proprio lavaggio del cervello realizzato mediante
prolungate manovre di continue correzioni e indottrinamenti. È una violenza che si esercita soltanto
là dove vi è una relazione. “La vittima viene immobilizzata in una tela di ragno, tenuta
a disposizione, psicologicamente incatenata, anestetizzata. Non è consapevole dell’effrazione
avvenuta”. (Pag. 99). I desideri della vittima sono annullati, essa non ha più un’identità sua:
il condizionamento è quindi, senza alcun dubbio, un atto di distruzione.
“La vittima vede ridursi a poco a poco, per erosione, la sua resistenza e la sua capacità
di opposizione. Perde ogni possibilità di critica. Non essendo in grado di reagire, letteralmente
“sbalordita”, finisce col diventare complice di chi la opprime.
Ciò non costituisce in alcun caso un consenso: la vittima è “cosificata”, trasformata
in un una cosa, non è più capace di avere un pensiero autonomo, deve pensare
come il suo aggressore. Non è più altro in tutto e per tutto, non è più un alter ego.
Subisce senza acconsentire, ossia senza partecipare”. (Pagg. 99-100).
• L’ESERCIZIO DEL POTERE.
Il perverso non distrugge la vittima all’inizio, la tiene a portata di mano e la sottomette
a poco a poco, con manovre dapprima insignificanti poi sempre più violente se la vittima si oppone.
L’altro è soltanto un oggetto, che deve restare al suo posto ed essere utilizzato, senza mai reagire.
Quando il perverso è nei paraggi (e spesso anche quando è distante, ma in qualche modo
ha a che fare con la vittima) tutte le vittime hanno difficoltà a concentrarsi, non riescono a pensare,
provano un forte malessere, si sentono oppresse, sono in uno stato di tensione penosissimo.
Il perverso invece sembra essere perfettamente a suo agio. All’inizio le vittime obbediscono
per fare piacere al persecutore (quindi per amore, o per consolarlo oppure aiutarlo).
Ma il perverso dà poco e pretende molto, colpevolizzando ricattatoriamente l’altro se non riceve
(ed è un processo senza fine perché la sua perversione lo rende mai appagato).
Alla fine quindi la vittima obbedisce perché ha paura dell’abbandono e dà sempre di più per essere
(almeno spera) un poco amata. Ma - con apparente paradosso - proprio questa forza interiore,
questa generosità che è capace di dare senza limiti fanno sentire al perverso che la sua vittima
gli è superiore per natura, e ne scatenano l’invidia e con essa la violenza dell’odio distruttivo.
All’inizio della relazione, e per un certo periodo di tempo, il rapporto tra i due è come bloccato,
congelato in un equilibrio di forze tra lottatori che si afferrano e si spingono con pari forza.
Ciò, beninteso, appare in superficie, e solo nei casi in cui la vittima resta tranquilla, non si ribella,
si lascia avvolgere nella ragnatela della dipendenza. Ma la vittima è mantenuta dal perverso
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in uno stato di tensione permanente a causa della situazione terribilmente stressante.
All’esterno non si vede nulla, gli osservatori estranei non colgono nessun segnale (anche quelli
per altro evidenti agli occhi di chi è esperto di queste situazioni). Solo la vittima comprende
il valore delle continue allusioni destabilizzanti, conoscendo a fondo la situazione e i sottintesi.
Se reagisce, non solo il perverso, ma anche gli estranei, la giudicano negativamente.
Le conseguenze del condizionamento per la vittima:
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• LA RINUNCIA.
Nella fase di condizionamento entrambi i personaggi rinunciano a scatenare un conflitto aperto,
per motivi inconsci differenti. Il perverso lancia stoccatine indirette e sottili per destabilizzare l’altro,
ma senza provocare uno scontro aperto.
La vittima si sottomette per paura di un contrasto che condurrebbe alla rottura con il perverso
(con il quale è da subito chiaro che non si può trattare perché non cede).
In un illusorio impulso altruista, la vittima si rassegna a sottostare agli abusi del perverso,
e - pur lamentandosi dei suoi comportamenti - deve continuare a idealizzarne altri aspetti
(onestà, intelligenza, ecc). Grazie a questa tacita alleanza, il rapporto si stabilizza definitivamente:
uno è sempre più dominante e sicuro del potere, l’altro sempre più spento e depresso.
• LA CONFUSIONE.
“Quando il condizionamento è in atto le vittime sono confuse; non osano e non sono in grado
di lamentarsi. Sono come anestetizzate, si lamentano di avere la testa vuota e difficoltà a riflettere,
descrivono un vero e proprio impoverimento, un parziale annientamento delle loro facoltà,
un’amputazione di quanto di vivo e spontaneo avevano.
Anche se qualche volta hanno la sensazione di subire un’ingiustizia, sono confuse al punto
di non poter reagire in alcun modo. Infatti di fronte a un perverso narcisista,
se non si è nello stesso registro, non è possibile avere l’ultima parola; l’unica via di uscita
consiste nel sottomettersi. Nel corso di questo conflitto psichico le vittime sono svuotate
della loro sostanza e rinunciano alla propria identità. Perdono ogni valore ai propri occhi,
ma anche a quelli del loro aggressore, che non deve far altro che “buttarle via”,
perché non c’è più niente da perdere”. (Pagg. 164-165).
• IL DUBBIO.
“Quando la violenza (che era mascherata dal condizionamento) si manifesta apertamente,
compie una sorta di effrazione nello psichismo, il quale non era preparato perché lo stato
di soggezione lo anestetizzava. Si tratta di un processo che per la vittima è impensabile.
Le vittime e gli eventuali testimoni non riescono a credere a quello che avviene sotto i loro occhi
perché, se non si è a propria volta perversi, non si può immaginare una violenza del genere,
senza traccia di compassione. Si tende ad attribuire all’aggressore sentimenti (senso di colpa,
tristezza, rimorsi) di cui è del tutto privo.
Non potendo capire, la vittima si ritrova - sbalordita - a negare che esista ciò che non è in grado
di vedere. Non è possibile che sia successo, non può essere.
Di fronte a questo rifiuto violento, avvertito ma negato a parole, le vittime cercano invano
di capire e di darsi spiegazioni. Cercano delle ragioni per ciò che succede e, poiché
non le trovano, perdono sicurezza, diventano irritabili o sempre aggressive e chiedono
in continuazione: “Che cosa ho fatto per essere trattata così?”.
Ci sarà pure una ragione. Cercano spiegazioni logiche, mentre il processo è autonomo,
non ha più nulla a che vedere con loro. Dicono spesso al loro aggressore:
“Dimmi che cosa mi rimproveri, dimmi che cosa devo fare perché il nostro rapporto
migliori”, e questi risponde invariabilmente: “Non c’è niente da dire, è così.
Comunque, tu non capisci niente!”. L’impotenza è la peggiore delle condanne.
Anche se le vittime sanno di avere una parte di responsabilità nell’instaurazione della violenza,
vedono anche che innescano il processo distruttivo per il solo fatto di essere come sono.
Solo loro hanno colpa, l’altro è sempre scagionato. Liberarsi da questa relazione è difficile,
perché i colpi inferti all’inizio hanno scatenato un alienante senso di colpa.
Una volta assunto il ruolo di colpevoli, le vittime si sentono responsabili della natura del rapporto.
Il loro senso di colpa non tiene affatto conto della realtà.
Hanno interiorizzato ciò che le aggredisce”. (Pagg. 165-166).
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• LO STRESS.
La vittima sopporta questa sottomissione (non scontentare il perverso, calmarlo quando è nervoso,
sforzarsi di non reagire) a prezzo di una tensione interiore molto forte, che causa stress.
Lo stress, a sua volta, causa alterazioni ormonali e nei trasmettitori degli impulsi nervosi, deprime
il sistema immunitario indebolendo le difese generali dell’organismo. I primi disturbi che compaiono
come conseguenza di queste alterazioni globali sono palpitazioni, senso di oppressione e di affanno,
stanchezza, disturbi del sonno, nervosismo, irritabilità, mal di testa, disturbi di stomaco
e di intestino, e spessissimo ansia. Mentre il perverso aggressore resta apparentemente tranquillo
perché scarica la sua tensione sulla vittima alla quale attribuisce la responsabilità di ogni suo
problema, “le vittime non hanno via d’uscita, perché non capiscono il processo in corso.
Niente ha più senso, si dice una cosa e poi il suo contrario, si negano le evidenze.
Le vittime si sfiniscono nel dare risposte inadeguate che esasperano la violenza, logorano
e infine causano una disfunzione neurovegetativa”. (Pagg. 167-168).
• LA PAURA.
“Le vittime descrivono tutte una sensazione di paura. Sono costantemente sul chi vive, a spiare
lo sguardo dell’altro o una rigidità dei gesti, un tono gelido, che potrebbero mascherare
un’aggressività non espressa. Temono la reazione del partner se non sono conformi alle sue attese,
la sua tensione o la sua freddezza, osservazioni offensive, sarcasmi, disprezzo, derisione.
Che le vittime, terrorizzate, si sottomettano oppure reagiscano, hanno torto comunque.
Nel primo caso i perversi, e forse anche l’ambiente circostante, diranno che sono proprio
delle vittime nate. Nel secondo, se ne sottolineerà la violenza, le si accuserà di essere responsabili
del fallimento del rapporto e anche di tutto quello che non va, a dispetto di ogni verosimiglianza.
Per sottrarsi a questa violenza, le vittime tendono a essere sempre più gentili, più concilianti.
Si illudono che l’odio possa, magari, dissolversi nell’amore e nella benevolenza. Il che non accade,
perché più si è generosi nei confronti di un perverso, più lo si destabilizza. Sforzandosi di sembrare
benevoli, non gli si fa altro che fargli vedere quanto gli si è superiori, il che - naturalmente ne riattiva la violenza. Quando l’aggredito, per reazione, comincia a odiare, i perversi sono contenti.
Ciò li giustifica: “Non sono io che lo/la odio, è lui/lei che mi odia”. (Pagg. 168-169).
• L’ISOLAMENTO.
“Nell’affrontare tutto ciò, le vittime si sentono sole. Come parlarne all’esterno?
La distruzione sotterranea è indicibile. Come descrivere uno sguardo carico d’odio, una violenza
che si manifesta solo con sottintesi non detti? La violenza è evidente solo agli occhi del partner
perseguitato. Come potrebbero gli amici immaginare quello che succede? Quand’anche venissero
a conoscenza della realtà delle aggressioni, non farebbero che rimanerne turbati e inorriditi
a loro volta. In genere, i conoscenti e gli amici, anche i più stretti, si tengono a distanza:
“Non vogliamo immischiarci”. Le vittime dubitano delle proprie percezioni, non sono sicure
di non esagerare. Quando le aggressioni si vedono di fronte a testimoni, succede che le vittime,
che proteggono sempre il loro aggressore, considerino eccessive le proprie reazioni e si trovino
nella situazione paradossale di difendere chi le aggredisce, per non soffiare sul fuoco”. (Pagg. 169).
Gli strumenti della seduzione:
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Per condizionare la vittima, il perverso usa tecniche che danno l’illusione della comunicazione,
ma in realtà confondono e paralizzano l’altro, allo scopo di usarlo.
La manipolazione avviene principalmente (ma non soltanto) verbalmente, attraverso sottintesi,
accenni e reticenze. Proprio perché è nascosta e sotterranea, questa violenza è portatrice di angoscia.
• IL RIFIUTO DELLA COMUNICAZIONE DIRETTA.
Quando si pone loro una domanda, i perversi la eludono. Dato che non si espongono mai,
fanno la figura di sapere e di essere importanti. Attorno a loro non c’è comunicazione, essi danno
solo stoccatine destabilizzanti, lasciando tutto sottinteso.
Un’alzata di spalle, uno sguardo al cielo, un sospiro, una smorfia alla bocca.
La vittima tenta invano di capire, chiedendosi che cos’ha fatto di sbagliato.
Qualunque cosa dica poi, il perverso la critica e la rinfaccia, dato che non aveva detto nulla
di preciso. Il perverso aggredisce la vittima, ma nega di aggredirla; non solo rifiuta
di parlare chiaramente, ma rifiuta di ammettere il conflitto; rifiuta di discuterne e di trovare
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una soluzione comune. Lo scopo è di impedire all’altro di pensare, quindi di capire, e poi reagire.
Con ciò paralizza la vittima, la quale non può difendersi.
Astutamente il perverso, non parlando, si sottrae al conflitto e lo scarica sull’altra persona
(alla quale, senza parlare, proclama in faccia: “Io non ti ascolto nemmeno.
Non mi interessano né le tue idee né te stesso. Per me tu non esisti!”.
• IL LINGUAGGIO USATO.
“Quando si rivolge alla sua vittima, il perverso le parla con una voce piatta, incolore, fredda,
senza tono affettivo. È una voce che raggela e inquieta, o addirittura scatena la paura;
è una voce che lascia affiorare nelle parole più insignificanti il disprezzo o la derisione.
Molto spesso il perverso non fa lo sforzo di articolare le parole, oppure mormora qualcosa
quando l’interlocutore si trova in un’altra stanza, costringendolo così a spostarsi; oppure a trovarsi,
domandandogli di ripetere, nella condizione di chi deve chiedere.
È facile, poi, fargli notare che non ascolta. Il messaggio di un perverso è deliberatamente vago
e impreciso, tale da alimentare la confusione. Può dire “Non ho mai detto questo”
ed evitare qualunque rimprovero. Servendosi di allusioni, lancia messaggi senza compromettersi.
Oppure invia messaggi oscuri e rifiuta di esplicitarli. A una suocera che chiede al genero
un piacere insignificante: “No, non è possibile” - “Perché?” - “Dovrebbe saperlo” “No, non capisco” - “Allora ci pensi”. Sono parole aggressive, ma pronunciate con un tono
normale, calmo, quasi disteso. L’interlocutore - di cui viene disinnescata la risposta violenta ha l’impressione di reagire “in margine”. Di fronte a insinuazioni del genere, è logico andare
in cerca di che cosa si sia detto o fatto di male e colpevolizzarsi, sempre che non ci si arrabbi
e si apra il conflitto. È una strategia che raramente fallisce, perché non si sfugge al senso di colpa,
a meno che non si sia a propria volta perversi. In quello che il perverso dice, importa più la forma
della sostanza, dare l’impressione di sapere per stancare l’avversario.
Spesso viene usato un tono dottorale. Queste interpretazioni psicanalitiche selvagge raggiungono
lo scopo di disorientare l’interlocutore, che raramente è in grado di replicare per ribaltare
la situazione a proprio vantaggio. Le vittime dicono spesso che gli argomenti del loro aggressore
sono talmente incoerenti che dovrebbero riderne, ma una malafede così grande le fa arrabbiare.
Un altro procedimento perverso consiste nel parlare delle intenzioni dell’altro o nell’indovinare
i pensieri nascosti, come se si sapesse meglio di lui cosa pensa: “So perfettamente che detesti
i Tali e che cerchi un modo per non incontrarli!”. (Pagg. 105-108).
• LA MENZOGNA LARVATA O ESPLICITA.
“Più che una menzogna diretta, il perverso utilizza innanzitutto un insieme di sottintesi, di non detti,
volti a costruire un malinteso, da sfruttare poi a proprio vantaggio.
Si dice senza dire, sperando che l’interlocutore abbia capito il messaggio senza bisogno
di chiamare le cose con il loro nome. Nella maggior parte dei casi questi messaggi possono essere
decodificati solo a posteriori. Dire senza dire è un modo ingegnoso per far fronte a qualunque
situazione. Questi messaggi indiretti sono insignificanti, generici o larvatamente aggressivi
“Le donne sono pericolose”, “Le donne che lavorano non fanno granché in casa”,
cosa che viene poi corretta se il partner protesta: “Non lo dicevo per te. Ma quanto
sei suscettibile, a volte!”.
Un altro tipo di menzogna indiretta consiste nel rispondere in modo impreciso o marginale,
o con un attacco diversivo. A una donna che esprimeva dei dubbi sulla sua fedeltà, il marito rispose:
“Per dire una cosa del genere bisogna che tu abbia qualcosa da rimproverarti”.
La menzogna può anche attaccarsi ai dettagli: alla moglie che gli rimproverava di essere andato
otto giorni in campagna con una ragazza, il marito risponde: “Sei tu la bugiarda. Innanzitutto
non erano otto giorni ma nove, e poi non si trattava di una ragazza ma di una donna!”.
Qualunque cosa si dica, i perversi trovano sempre un modo per avere ragione, tanto più
che la vittima è già destabilizzata e non prova, a differenza del suo aggressore, alcun piacere
a polemizzare. Il turbamento indotto nella vittima è conseguenza della confusione permanente
tra verità e menzogna. La menzogna, nei perversi narcisisti, si fa diretta solo nella fase distruttiva.
Si tratta allora di una menzogna a dispetto di ogni evidenza.
È soprattutto e prima di tutto una menzogna convinta che convince l’altro.
Per quanto sia enorme, il perverso vi si aggrappa e finisce con il persuadere l’interlocutore.
Verità o bugia, ai perversi poco importa: è vero quello che dicono in quel dato istante”.
(Pagg. 108-109).
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• SARCASMO, DERISIONE, DISPREZZO.
“Il disprezzo si scarica sul partner odiato, su ciò che pensa o fa, ma anche su quelli
che lo circondano. Disprezzo e derisione sono spessissimo rivolti contro le donne, sia come individui
singoli, sia come genere femminile, con battute che le ridicolizzano (anche facendo leva
su ascoltatori compiacenti). Nella derisione, con la quale il perverso si fa beffe di tutto,
la comunicazione viene portata su un piano non più autentico e non umano.
Inoltre chi usa la derisione mira a dare l’impressione di sapere tutto sull’argomento; ha dunque
il diritto di farsi beffe di qualcuno o qualcosa; trasforma il suo interlocutore in un alleato.
Può agire in modo diretto (“Ma andiamo, non sai che...!”) o indiretto (“Hai visto com’era...?”).
Non è raro che la vittima prenda in senso letterale le critiche del perverso sulle persone
che la circondano e finisca per credere che siano giustificate. I sarcasmi o i rilievi aspri sono accettati
come il prezzo da pagare per conservare il rapporto con un partner affascinante ma difficile.
Per tenere la testa fuori dall’acqua, il perverso ha bisogno di affondare l’altro.
A tale scopo procede con stoccatine destabilizzanti, preferibilmente in pubblico, a partire
da un dettaglio insignificante, talvolta intimo, descritto con esagerazione, magari prendendo
un alleato tra i presenti. Quello che conta è mettere l’altro in imbarazzo.
Si percepisce l’ostilità, ma non si è sicuri che si tratti di uno scherzo. Sembra che il perverso
stuzzichi, mentre attacca nei punti deboli: il naso grosso, i seni piatti, la difficoltà ad esprimersi.
L’aggressione si compie facendo poco rumore, con allusioni, sottintesi, senza che si possa dire
in quale momento sia cominciata e se ci sia veramente. Chi attacca non si compromette,
spesso anzi ribalta la situazione additando le intenzioni aggressive della sua vittima:
“Se pensi che io ti aggredisca è perché sei aggressivo tu!”. Come abbiamo già visto prima,
un comportamento perverso usuale consiste nell’affibbiare all’altro un soprannome ridicolo,
che si fonda su un difetto o una difficoltà: la cicciona, la checca, la lumacona, il polentone.
Questi soprannomi, per quanto offensivi, vengono spesso accettati da amici e conoscenti che,
complici, ne ridono. Tutti i rilievi sgradevoli costituiscono ferite non compensate da manifestazioni
di gentilezza. Il dispiacere che ne deriva viene stornato dal partner, che lo volge in ridere.
Il perverso narcisista, come abbiamo detto, ama la controversia.
È capace di sostenere adesso un punto di vista e difendere le idee opposte domani, giusto perché
la discussione si ravvivi o nell’intento deliberato di scioccare. Se il partner non reagisce abbastanza,
è sufficiente esagerare un po’ con la provocazione. Il partner vittima di questa violenza non reagisce
perché tende a scusare l’altro, ma anche perché la violenza si instaura in modo ingannevole.
Se un atteggiamento aggressivo del genere sopraggiungesse all’improvviso,
potrebbe suscitare solo rabbia, invece il fatto che sia messo in atto a poco a poco smorza
ogni reazione. La vittima riconosce l’aggressività del messaggio solo quando è diventato
quasi un’abitudine”. (Pagg. 110-113).
• IL PARADOSSO.
“In un’aggressione perversa si assiste a un tentativo di far vacillare l’altro, di farlo dubitare
dei suo pensieri, dei suoi sentimenti. La vittima perde così la sensazione della propria identità.
Non è capace di pensare, di capire. Lo scopo è di negarla paralizzandola, in modo
da evitare l’insorgere di un conflitto. È possibile attaccarla senza perderla. Rimane a disposizione.
Si raggiunge questo obiettivo con una sollecitazione duplice: si dice una cosa a livello verbale
e si esprime quella opposta a livello non verbale. Il discorso paradossale è costituito
da un messaggio esplicito e da uno sottinteso, di cui l’aggressore nega l’esistenza.
È un mezzo molto efficace per destabilizzare l’interlocutore. Un tipo di messaggio paradossale
consiste nel seminare il dubbio su fatti più o meno insignificanti della vita quotidiana.
Il partner finisce per vacillare e non sa più chi ha torto e chi ha ragione. Basta dire, per esempio,
che si è d’accordo su una sua proposta e contemporaneamente dare a intendere, a gesti,
che si tratta solo di un accordo di facciata. Si dice qualcosa che immediatamente si nega,
ma la traccia resta, sotto forma di dubbio: “Ha voluto dire questo o sono io che interpreto
tutto male?”. Se la vittima cerca di parlare dei suoi dubbi, viene trattata da paranoica
che interpreta tutto per inverso sbagliato. Il paradosso nasce, il più delle volte, dal divario
tra le parole dette e il tono con cui le si pronuncia.
Questa sfasatura induce i testimoni a fraintendere completamente la portata del dialogo.
Il paradosso consiste anche nel fare avvertire all’altro tensione e ostilità senza che nulla venga
espresso in proposito. Si tratta di aggressioni indirette, in cui il perverso se la prende con delle cose.
Magari sbatte porte, lancia oggetti, e poi nega l’aggressione. Un discorso paradossale fa rimanere
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l’interlocutore perplesso. Non è più sicuro di ciò che prova e tende allora a ridere del proprio
atteggiamento, o a scusarsi. Non è facile riconoscere i messaggi paradossali.
Chi li lancia ha lo scopo di destabilizzare confondendo, in modo da conservare il controllo
invischiando l’interlocutore in sensazioni contraddittorie: lo si mette in una situazione precaria
e ci si assicura di potergli dare torto.
Nella maggior parte dei casi, i partner dei perversi, per spirito di conciliazione, scelgono
di accettare tutto quello che viene detto in senso letterale, negando i segnali non verbali
contraddittori: “Quando minaccio di andarmene, mio marito dice che tiene al nostro
rapporto di coppia. Anche se è offensivo, umiliante, deve pur essere vero in qualche
modo”. A differenza di un conflitto normale, con un perverso narcisista non c’è vero scontro,
ma neanche riconciliazione possibile. Non alza mai il tono, mostra soltanto una fredda ostilità,
che nega se gliela si fa notare. L’altro si innervosisce o grida.
Allora è facile farsi beffe della sua collera e renderlo ridicolo. Anche nei casi di conflitto
apparentemente aperto, non si menziona mai l’argomento reale della discordia, perché la vittima
non sa in che situazione si trova. Si sente sempre messo da parte e accumula rancore.
Come parlare di impressioni vaghe, di intuizioni, di sensazioni? Nulla è mai concreto.
Bloccando la comunicazione con messaggi paradossali, il perverso narcisista mette il soggetto
nell’impossibilità di dare risposte appropriate, dato che non capisce la situazione.
Si sfinisce nella ricerca di soluzioni, in ogni caso inadatte, e - quale che sia la sua resistenza non può evitare l’emergere dell’angoscia o della depressione.
Altro punto: il trasferimento del senso di colpa. Tramite un fenomeno di transfert,
il senso di colpa viene fatto proprio dalla vittima, che lo introietta (“È tutta colpa mia”),
mentre il perverso narcisista lo proietta al di fuori di sé, riversandolo sull’altro (“È colpa sua”)”.
(Pagg. 113-117).
• LA SQUALIFICA.
“Squalificare consiste nel togliere a qualcuno ogni qualità, nel dirgli e ripetere che non vale niente,
fino a indurlo a pensare che sia davvero così. Come abbiamo visto, ciò accade dapprima in modo
latente, sul piano della comunicazione non verbale: sguardi di disprezzo, sospiri esagerati, sottintesi,
allusioni destabilizzanti o malevole, osservazioni scortesi, critiche indirette dissimulate
in una battuta, pettegolezzi. Nella misura in cui si tratta di aggressioni indirette, è difficile
considerarle chiaramente come tali e quindi difendersene.
Per poco che le parole facciano eco a una identità fragile, a una preesistente mancanza di fiducia,
o che si rivolgano a un bambino, vengono incorporate dalla vittima, che le accetta come verità:
“Sei solo un buono a nulla”, “Sei una tale nullità (o “Sei così meschino”) che nessuno,
a parte me, vorrebbe saperne di te. Senza di me resteresti completamente solo!”.
Il perverso travolge l’altro e gli impone la propria visione falsata della realtà. A partire da questa
frase espressa direttamente o sottintesa: “Tu sei una nullità”, la vittima assorbe questo dato
(“Sono una nullità”), e diviene effettivamente tale. La frase non viene criticata in se stessa.
Si diventa una nullità perché l’altro ha decretato che lo si è.
La squalificazione attraverso l’uso del paradosso, della menzogna e di altri procedimenti,
si estende dal bersaglio designato al suo ambiente, a famiglia, amici e conoscenti:
“Conosce solo fessi”. Tutte queste strategie sono destinate a fare cadere in basso l’interlocutore
per mettersi meglio in risalto”. (Pagg. 117-118).
• L’IMPOSIZIONE DEL POTERE.
“Siamo nell’ambito di una logica di abuso di potere, in cui il più forte sottomette l’altro.
Il potere si prende con la parola. Dare l’impressione di saperne di più, di detenere una verità,
La Verità. Il discorso del perverso è totalizzante: enuncia proposizioni che sembrano universalmente
vere. Il perverso “sa”, ha ragione, e cerca di trascinare l’altro sul suo terreno, inducendolo
ad accettare quello che dice. Ad esempio, invece di dire “Tizio non mi piace”,
dice: “Tizio è un fesso, lo sanno tutti e tu non puoi non pensarlo”.
Poi generalizza, cioè trasforma questo discorso in una premessa universale. L’interlocutore pensa:
“Deve avere ragione, ha l’aria di sapere quello che dice”. In questo modo i perversi narcisisti
attirano partner insicuri di sé, che tendono a pensare che gli altri ne sappiano di più.
I perversi sono rassicuranti per partner più fragili. Si instaura un processo di dominazione:
la vittima si sottomette, è soggiogata, controllata, travisata. Se si ribella, ne verrà sottolineata
l’aggressività e la cattiveria. In ogni caso si aziona un meccanismo totalitario, fondato sulla paura
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e che mira a ottenere un’obbedienza passiva: l’altro deve agire come vuole il perverso, deve pensare
secondo le sue regole. Non è più possibile alcuno spirito critico. L’altro esiste solo nella misura
in cui resta nel ruolo assegnato di doppione.
Si tratta di annullare, di negare qualunque differenza. L’aggressore stabilisce questo rapporto
condizionante a proprio vantaggio e a detrimento degli interessi altrui.
La relazione si colloca nel registro della dipendenza: la si attribuisce alla vittima, ma è il perverso
a proiettarla fuori da sé. Ogni volta che il perverso narcisista esprime consciamente bisogni
di dipendenza, fa in modo che non li si possa soddisfare: o la richiesta supera le capacità dell’altro
e il perverso ne approfitta per sottolinearne l’impotenza, o la richiesta è fatta in un momento
in cui non vi si può rispondere. Il perverso sollecita il rifiuto perché lo rassicura vedere che la vita
è proprio come aveva pensato che fosse”. (Pagg. 120-121).
La violenza perversa:
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• IL MANIFESTARSI DELL’ODIO.
L’odio si manifesta scopertamente quando la vittima reagisce e cerca di conquistare un po’
di libertà (con uno scatto di protesta perché in qualche modo si è resa conto della propria schiavitù).
Quando la vittima incomincia a esistere come individuo e tenta di dire ciò che pensa, il perverso preso dal panico perché la sua preda sta sfuggendogli - è invaso dalla rabbia e si scatena:
la vittima deve essere fatta tacere. È una fase di odio allo stato puro estremamente violenta,
dice la Hirigoyen, fatta di colpi bassi e di ingiurie, di parole che sminuiscono, umiliano,
si beffano di tutto ciò che l’altro ha di più intimo. L’Autrice sottolinea che non si tratta di amore
che si muta in odio: è invidia che si trasforma in odio. Il meccanismo ha richiesto del tempo:



All’inizio, vi era non-amore camuffato da desiderio, non per la persona in sé,
ma per quello che ha in più e di cui il perverso vorrebbe appropriarsi.
Poi vi è stata la fase dell’odio nascosto, che nasce dalla frustrazione
di non ottenere dall’altro quanto si vorrebbe.
Quando l’odio si esprime apertamente, si accompagna al desiderio di distruggere la vittima,
di annientarla. Neanche col tempo il perverso vi rinuncerà.
• LA VIOLENZA DIVENTA AZIONE.
“Si tratta di una violenza fredda, verbale, fatta di denigrazione, di sottintesi ostili, di manifestazioni
di condiscendenza e di ingiurie. L’effetto distruttore deriva dalla ripetizione di aggressioni
apparentemente insignificanti ma continue, che non avranno mai fine. Si tratta di un’aggressione
a vita. Ogni ingiuria fa eco alle ingiurie precedenti e impedisce di dimenticare, cosa che le vittime
vorrebbero, ma che l’aggressore rifiuta. In superficie non si vede niente o quasi niente.
È un cataclisma che fa implodere le famiglie, le istituzioni o gli individui. Raramente la violenza
è fisica, e in tal caso è la conseguenza di una reazione troppo vivace da parte della vittima.
Da questo punto di vista si tratta di un delitto perfetto. I segnali di ostilità non compaiono
nei momenti di irritazione o di crisi. Sono costantemente presenti in forma di stoccatine,
tutti i giorni o più volte alla settimana, per mesi, addirittura per anni.
Non vengono espressi con tono irto, ma con un tono freddo, che enuncia una verità o un’evidenza.
Un perverso è in grado di misurare la propria violenza: se capisce che di fronte a lui c’è chi reagisce,
fa abilmente marcia indietro. L’aggressione viene distillata a piccole dosi quando ci sono testimoni.
Se la vittima reagisce e cade nella trappola della provocazione alzando la voce, sembra violenta
lei e l’aggressore si atteggia a vittima. I sottintesi fanno riferimento a situazioni precedenti,
a ricordi di fatti passati che solo le vittime sono in grado di individuare.
Si tratta di quella che il professor Emil Concaro, in uno studio sulla biologia dell’aggressività,
ha definito aggressività predatrice. Riguarda individui che scelgono la loro vittima e premeditano
l’attacco quasi come un animale predatore fa con la sua preda. L’aggressione è solo lo strumento
che permette all’aggressore di ottenere ciò che desidera. È anche in questo caso una violenza
asimmetrica. In quella simmetrica i due avversari accettano il confronto e la lotta; qui, al contrario,
chi la pratica si definisce esistenzialmente superiore all’altro, cosa accettata in genere da chi subisce.
Questo tipo di violenza insidiosa è stata definita da Reynaldo Perrone violenza punitiva.
Non ci sono pause e non c’è riconciliazione che mascherano questa violenza intima.
Nessuno degli attori parla con l’esterno. Chi infligge la sofferenza pensa che l’altro la meriti
e che non abbia il diritto di lamentarsi. Se la vittima reagisce e cessa così di comportarsi
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come un docile oggetto, viene considerata minacciosa o aggressiva. Chi all’inizio ha dato avvio
alla violenza si atteggia a vittima. Il senso di colpa interrompe allora la reazione difensiva
della vittima vera. Ogni reazione emotiva o di dolore, induce nell’aggressore una escalation
di violenza o una manovra di diversione (indifferenza, finta sorpresa).
Quando un perverso ha designato una preda, non la molla più. Molto spesso lo dichiara
apertamente: “Ormai il solo scopo della mia vita sarà di impedirle di vivere”.
E si impegna perché il suo scopo diventi realtà. Il processo circolare, una volta innescato,
non può fermarsi da solo, perché il registro patologico di ciascuno si amplifica: il perverso diventa
sempre più umiliante e violento, la vittima sempre più impotente e ferita. Nulla interviene a provare
ciò che si è realmente subito. Quando c’è violenza fisica, gli elementi esterni sono lì a testimoniare:
referti medici, testimoni oculari, accertamenti della polizia. In un’aggressione perversa non c’è
alcuna prova. È una violenza pulita. Non si vede niente”. (Pagg. 125-128).
• LA VITTIMA ALLE STRETTE.
“Nella fase di condizionamento, l’azione del perverso narcisista sulla sua vittima consiste
sostanzialmente nell’inibirne il pensiero. Nella fase successiva suscita in lei sensazioni, atti, reazioni
attraverso meccanismi di ingiunzione. Se l’altro ha difese perverse sufficienti per giocare
al rilancio, si scatena una lotta perversa che avrà fine solo con la resa del meno perverso dei due.
Il perverso cerca di spingere la sua vittima ad agire contro di lui, per poi denunciarla
come “cattiva”. L’importante è che la vittima sembri responsabile di quello che le capita.
L’aggressore si serve di una sua debolezza - una tendenza alla depressione, all’isteria
o alla caratterialità - per farla cadere nel ridicolo e indurla a discreditarsi da sola.
Spingere l’altro all’errore consente di criticarlo e di sminuirlo, ma soprattutto ciò gli dà una cattiva
immagine di sé e rafforza così il suo senso di colpa.
Quando la vittima non ha sufficiente controllo, basta esagerare con la provocazione
e il disprezzo per ottenere una reazione che le si potrà rimproverare in seguito.
Ad esempio, se la reazione è la collera, si fa in modo che questo comportamento aggressivo
venga notato da tutti, al punto che anche un osservatore estraneo possa essere indotto a chiamare
la polizia. Si vedono anche perversi incitare al suicidio:
“Povera ragazza mia, non hai da aspettarti niente dalla vita, non capisco perché non ti sei
buttata giù dalla finestra!”. Per l’aggressore è facile, dopo, presentarsi nel ruolo della vittima
di un malato mentale. Di fronte a una persona che blocca qualsiasi tipo di comunicazione,
la vittima si trova costretta ad agire. Ma, impedita dal condizionamento, può farlo solo
in un soprassalto violento allo scopo di recuperare la propria libertà.
Un osservatore esterno considera patologica ogni azione impulsiva, soprattutto se è violenta.
Chi reagisce alla provocazione sembra responsabile della crisi.
L’aggredito, già colpevole per il perverso, agli osservatori esterni sembra essere l’aggressore.
Ciò che essi non vedono è che la vittima viene messa in una condizione tale per cui non ha più
la possibilità di rispettare un modus vivendi che per lei è una trappola.
Tra due fuochi, qualunque cosa faccia, non può cavarsela.
Se reagisce accende il conflitto; se non reagisce, lascia che la distruzione mortifera si espanda.
Il perverso narcisista prova un piacere tanto maggiore nel sottolineare la debolezza dell’altro
o nell’innescarne la violenza, quanto più lo induce a rinnegare se stesso: lo porta a non essere fiero
di sé. A partire da una reazione specifica gli affibbia l’etichetta di caratteriale, di alcolizzato,
di suicida. La vittima si sente disarmata, cerca di giustificarsi come se fosse effettivamente colpevole.
Il perverso prova doppio piacere: nel mistificare o umiliare la sua vittima, poi nel ricordarle
in seguito l’umiliazione. Poiché non è stato detto nulla e non è stato mosso nessun rimprovero,
allora non è possibile alcuna giustificazione.
Per trovare una via d’uscita a questa situazione impossibile, può accadere che la vittima ceda
alla tentazione di reagire anch’essa con non detti e manipolazioni.
La relazione si fa equivoca: chi è l’aggressore e chi l’aggredito?
Per il perverso, l’ideale è far sì che l’altro diventi il cattivo, trasformando la malignità
in una condizione normale, condivisa da tutti.
Cerca di iniettare nell’altro quello che di cattivo vi è in lui. Corrompere è lo scopo supremo.
Non c’è per lui soddisfazione più grande di quando induce il proprio bersaglio a diventare
distruttivo a sua volta, o quando spinge più individui ad annientarsi a vicenda.
Tutti i perversi, che siano sessuali o narcisisti, cercano di portare gli altri nel loro registro,
poi di indurli a sovvertire le regole”. (Pagg. 128-130).
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I due personaggi. L’aggressore:
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• LA PERVERSIONE NARCISISTICA.
Precisiamo anzitutto che la nozione di perversione implica una strategia di sfruttamento
e poi di distruzione dell’altro, senza alcun senso di colpa.
“I perversi narcisisti sono considerati psicotici senza sintomi, che trovano il loro equilibrio scaricando
su qualcun altro il dolore che non provano e le contraddizioni interiori che si rifiutano di percepire.
Non lo fanno apposta a ferire, ma non sanno fare altro per esistere. Sono stati feriti a loro volta
da piccoli e cercano di mantenersi in vita così. Questo transfert di dolore permette loro
di valorizzarsi a spese altrui”. (Pag. 133).
“Un Narciso, nel senso del Narciso di Ovidio, è una persona che crede di trovarsi guardandosi
allo specchio. La sua vita consiste nel cercare il proprio riflesso nello sguardo degli altri.
L’altro non esiste in quanto individuo, ma in quanto specchio.
Un Narciso è un guscio vuoto che non ha esistenza propria; è uno “pseudo”,
che cerca di ingannare per mascherare il suo vuoto.
Il suo destino è un tentativo di evitare la morte. È qualcuno che non è mai stato riconosciuto
come essere umano e che è stato obbligato a costruirsi un gioco di specchi per darsi l’illusione
di esistere. Come un caleidoscopio, questo gioco di specchi ha un bel ripetersi e moltiplicarsi,
ma quell’individuo resta costruito sul vuoto.
Il passaggio alla perversione.
Il Narciso, poiché non ha sostanza, si “innesta” sull’altro e - come una sanguisuga cerca di aspirarne la vita. Essendo incapace di una relazione vera, può farlo solo in un registro
“perverso”, deviato, di cattiveria distruttiva. Incontestabilmente i perversi provano un piacere
estremo, vitale, di fronte alle sofferenze dell’altro e ai suoi dubbi, così come prendono gusto
ad asservirlo e umiliarlo. Tutto comincia e si spiega con il “Narciso vuoto”, costruzione di riflesso,
al posto di se stesso e con niente dentro.
Come un robot, è costruito per imitare la vita e averne tutte le apparenze e prestazioni,
senza però la vita. La sregolatezza sessuale o la cattiveria sono solo le conseguenze ineluttabili
di questa struttura vuota. Come i vampiri, il Narciso vuoto ha bisogno di nutrirsi
della sostanza altrui. Quando non si ha vita, si deve cercare di appropriarsene o, se è impossibile,
di distruggerla perché non ve ne sia in nessun luogo.
I perversi narcisisti vengono invasi da un altro, di cui non possono fare a meno.
Questo non è un doppione, con un’esistenza: è solo un riflesso di se stessi. Ecco perché le loro
vittime hanno la sensazione di venire negate nella loro individualità. La vittima non è un individuo
diverso, ma soltanto un riflesso.
Qualunque situazione in grado di rimettere in discussione questo sistema di specchi,
che maschera il vuoto, non può che suscitare una reazione a catena di furore distruttivo.
I perversi narcisisti sono soltanto macchine che funzionano per riflessi, che cercano invano
la loro immagine nello specchio degli altri. Sono insensibili, privi di affetti.
Come potrebbe una macchina, che funziona per riflessi, essere sensibile? Così non soffrono.
Soffrire presuppone una carne, un’esistenza. Essi non hanno storia perché sono assenti.
Solo chi è presente al mondo può avere una storia. Se i perversi narcisisti si rendessero conto
della propria sofferenza, comincerebbe qualcosa per loro. Ma sarebbe qualcosa di nuovo,
la fine del modo in cui funzionavano prima”. (Pagg. 131-136).
• LA MEGALOMANIA.
I perversi narcisisti sono megalomani che si presentano come campioni della verità
e della valutazione del bene e del male, traendo in inganno gli altri, con il presentare una buona
immagine di sé, nel mentre che giudicano tutti come malvagi.
Quindi, anche se essi non dicono nulla, l’interlocutore si sente sempre colto in fallo.
“Manifestano una totale mancanza di interesse e di empatia per gli altri, ma desiderano
che ci si interessi di loro. Tutto è loro dovuto. Criticano chiunque, ma non ammettono di essere
messi in causa o di venire rimproverati. Di fronte a questo universo di potere la vittima è per forza
di cose in un universo di debolezze. Mostrare quelle degli altri è un modo per non vedere le proprie,
per difendersi da un’angoscia di ordine psicotico. I perversi entrano in relazione con gli altri
per sedurli. Spesso li si descrive come persone affascinanti e brillanti.
Una volta preso il pesce si deve solo tenerlo all’amo finché se ne ha bisogno. L’altro non esiste,
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non viene visto o ascoltato, è solamente utile. Nella logica perversa non esiste la nozione
di rispetto per il prossimo. La seduzione perversa non comporta nessuna affettività,
perché il principio stesso del funzionamento perverso è di evitare ogni affetto.
Lo scopo è non avere sorprese. I perversi non si interessano delle emozioni complesse altrui.
Sono impermeabili al prossimo e alla sua diversità, a meno che non abbiano la sensazione
che li possa danneggiare. È la totale negazione dell’identità dell’altro, che deve avere atteggiamenti
o pensieri conformi all’immagine che loro, i perversi, si fanno del mondo.
La forza dei perversi è l’insensibilità. Non conoscono alcun scrupolo di ordine morale. Non soffrono.
Ogni loro attacco avviene nella totale impunità perché anche se - di rimando - i partner usano difese
perverse, sono stati scelti per non raggiungere mai quella virtuosità che potrebbe proteggerli.
Può accadere che i perversi si appassionino a una persona, un’attività o un’idea, ma si tratta
di fiammate che restano molto in superficie. Ignorano i sentimenti veri, in particolare
quelli di tristezza e di dolore. I fallimenti suscitano in loro collera o risentimento e un desiderio
di rivalsa. Questo spiega la rabbia distruttiva che si impadronisce di loro in caso di separazione.
Quando un perverso subisce una ferita narcisistica (sconfitta, rifiuto) avverte un desiderio sconfinato
di prendersi una rivincita. Non si tratta, come in un individuo collerico, di una reazione passeggera
e disordinata, è un rancore inflessibile al quale il perverso applica tutte le sue capacità
di ragionamento”. (Pagg. 136-137).
• LA VAMPIRIZZAZIONE.
“Il partner esiste non in quanto persona, ma in quanto supporto di una qualità di cui i perversi
cercano di impadronirsi. Essi si nutrono dell’energia di chi subisce il loro fascino.
Tentano di fare proprio il narcisismo gratificante dell’altro, invadendo il suo territorio psichico.
Il perverso narcisista ha il problema di ovviare al proprio vuoto. Per non doverlo affrontare
(cosa che coinciderebbe con la sua guarigione), i Narciso si proiettano nel suo opposto.
Diventa perverso nel senso originario del termine pervertire (cambiare o far cambiare direzione):
si distoglie dal proprio vuoto (mentre chi non è perverso lo affronta).
Di qui il suo amore e il suo odio per una personalità materna, l’immagine più esplicita della vita
interiore. Il Narciso ha bisogno della carne e della sostanza altrui per riempirsi, ma è incapace
di nutrirsene, perché non ha neanche un briciolo di sostanza, che gli permetterebbe di accogliere,
di aggrapparsi e di fare propria quella dell’altro. Tale sostanza diventa il suo più pericoloso nemico,
poiché gli rivela che è vuoto. I perversi narcisisti nutrono un’invidia intensissima nei confronti
di chi sembra possedere le cose che loro non hanno o di chi, semplicemente, trae piacere dalla vita.
L’appropriazione può essere sociale, e consistere a esempio nel sedurre un partner che introduce
in un ambiente ambito: alta borghesia, circolo intellettuale o artistico. Il vantaggio di un’operazione
del genere è che si ha un partner che permette di accedere al potere. Si attaccano poi all’autostima,
alla fiducia che l’altro ha di sé, allo scopo di incrementare il proprio valore.
In una parola si appropriano del narcisismo altrui. Per ragioni attinenti alla loro storia, nei primi stadi
della vita i perversi non hanno potuto realizzarsi. Notano con invidia che altri hanno ciò di cui si ha
bisogno per realizzarsi. Quando una persona soddisfatta passa loro accanto, cercano di distruggere
la felicità che li sfiora. Prigionieri delle loro rigide difese, tentano di distruggere la libertà.
Non essendo capaci di godere pienamente del proprio corpo cercano di impedire agli altri - anche
ai propri figli - di godere del loro. Poiché non sono capaci di amare, cercano di distruggere
col cinismo la semplicità di un rapporto naturale. Per accettarsi, i perversi narcisisti devono trionfare
su qualcun altro, sentendosi superiori. Gioiscono della sofferenza altrui. Per affermarsi, devono
distruggere. In loro vi è una esacerbazione della funzione critica, la quale fa sì che trascorrano
il loro tempo a biasimare tutto e tutti. In questo modo si mantengono in posizione di onnipotenza:
“Se gli altri sono nullità, io sono per forza migliore di loro”. Il motore del nucleo perverso
è l’invidia, lo scopo è l’appropriazione. L’invidia è un sentimento di cupidigia, di irritazione venata
d’odio alla vista della felicità e dei vantaggi altrui. Si tratta di una mentalità subito aggressiva,
che si basa sulla percezione di quello che una certa persona ha e che l’invidioso non possiede
e vorrebbe. La percezione dell’invidioso è soggettiva, può essere addirittura delirante.
L’invidia comporta due atteggiamenti opposti: da un lato l’egocentrismo, dall’altro la malevolenza,
accompagnata dal desiderio di danneggiare la persona invidiata.
Questo presuppone una sensazione di inferiorità nei confronti di chi possiede ciò che si desidera.
All’invidioso dispiace vedere che l’altro ha beni materiali o morali, ma più che acquisirli, desidera
distruggerli. Se li avesse, non saprebbe che farsene: non ha risorse per questo.
Per colmare lo scarto che separa l’invidioso dall’oggetto desiderato, basta umiliare l’altro, avvilirlo,
fargli assumere le sembianze di un demonio o di una strega. Ciò che i perversi invidiano
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nel prossimo è, prima di tutto, la vita. Invidiano la riuscita degli altri, che li mette di fronte
alla propria sensazione di fallimento, poiché non sono più contenti degli altri di quanto lo siano di se
stessi; niente va mai bene, tutto è complicato, tutto è una prova. Impongono agli altri la loro visione
pessimista del mondo e la loro cronica insoddisfazione della vita.
Smorzano ogni entusiasmo intorno a sé, cercano prima di tutto di dimostrare che il mondo
è cattivo, che la gente è cattiva, che il partner è cattivo. Con il loro pessimismo, inducono chi hanno
accanto a deprimersi, per poi rimproverarglielo. Il desiderio dell’altro e la sua vitalità mettono in luce
le loro mancanze. Ritroviamo qui l’invidia, comune a molti esseri umani, del legame privilegiato
della madre con il suo bambino.
Per questa ragione, nella maggior parte dei casi, i perversi scelgono le loro vittime tra persone
piene di energia e che hanno gioia di vivere, come se cercassero di accaparrarsi un poco
della loro forza. Lo stato di servitù, di soggezione della vittima alle loro esigenze, la dipendenza,
testimoniano in modo incontestabile che l’appropriazione è avvenuta davvero.
L’appropriazione è la conseguenza logica dell’invidia.
I beni di cui qui si tratta sono raramente beni materiali. Sono qualità morali, difficili da sottrarre:
gioia di vivere, sensibilità, qualità comunicative, creatività, doti musicali o letterarie.
Quando il partner esprime un’idea, le cose vanno in modo tale per cui l’idea non resta più sua,
ma diventa del perverso. Se l’invidioso non fosse accecato dall’odio potrebbe, in un rapporto
di scambio, imparare come acquisire una parte di queste doti.
Ma ciò presuppone una modestia che i perversi non hanno. I perversi narcisisti fanno proprie
le passioni dell’altro nella misura in cui si appassionano per lui o, più esattamente,
si interessano a lui nella misura in cui ha qualcosa che potrebbe appassionarli.
Li si vede appassionarsi, poi respingere con brutalità e irrimediabilmente.
Amici e conoscenti non capiscono come una persona possa essere portata alle stelle un giorno
ed essere demolita il giorno dopo senza nessun apparente motivo di risentimento.
I perversi assorbono l’energia positiva di quanti li circondano, se ne nutrono e rigenerano,
poi fanno ricadere su di loro tutta la propria energia negativa.
La vittima dà molto, ma non è mai abbastanza. Non essendo mai contenti, i perversi narcisisti
sono sempre nella posizione di vittime e la madre (o l’oggetto su cui hanno proiettato la madre)
è sempre considerata responsabile. I perversi aggrediscono l’altro per uscire dalla condizione
di vittima che hanno conosciuto da piccoli. In una relazione, fare la vittima seduce un partner
che vuole consolare, riparare, prima che gli si affibbi il ruolo del colpevole.
Nel caso di separazioni, i perversi si atteggiano a vittime abbandonate, il che permette loro
di recitare la parte di maggior prestigio e di sedurre un altro partner, propenso a consolare”.
(Pagg. 138-141).
• L’IRRESPONSABILITA’.
“I perversi non si considerano responsabili perché non hanno una vera soggettività.
Assenti a sè stessi, lo sono altrettanto agli altri. Se non sono mai dove li si attende, se non vengono
mai catturati, è semplicemente perché non ci sono. In fondo, quando accusano gli altri di essere
responsabili di quello che succede, fanno una constatazione. Poiché loro non possono essere
responsabili, allora lo è l’altro. Gettare la colpa su di lui, parlarne male facendolo passare
per malvagio, permette non soltanto di sfogarsi, ma anche di scagionarsi.
Mai responsabili e mai colpevoli: tutto ciò che va male è sempre colpa degli altri.
Si difendono con meccanismi di proiezione: addossare al prossimo ogni loro difficoltà e ogni loro
fallimento e non chiamarsi in causa. Si difendono anche negando la realtà o eludono il dolore
psichico trasformandolo in negatività.
È un rifiuto costante, anche nelle piccole cose della vita quotidiana, anche se la realtà prova
il contrario. La sofferenza è bandita, il dubbio anche. Sono gli altri a doverne portare il peso.
Aggredire è il loro mezzo per evitare il dolore, la sofferenza e la depressione.
I perversi narcisisti hanno difficoltà a prendere decisioni nella vita di tutti i giorni e hanno bisogno
di qualcuno che si assuma la responsabilità al loro posto.
Non sono assolutamente autonomi, non possono fare a meno degli altri, infatti assumono
comportamenti appiccicosi e temono la separazione; oppure pensano che sia il partner a sollecitarla.
Rifiutano di vedere che il loro modo di rapportarsi è cannibalesco poiché potrebbero percepire
la propria immagine in modo negativo. Ciò spiega la violenza che manifestano di fronte
a un partner troppo benevolo o consolatore. Se invece il partner è indipendente,
viene percepito come una persona ostile e che respinge”. (Pagg. 141-142).
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“La fase violenta è, di per sé, un processo di scompenso paranoico: l’altro deve essere distrutto
perché è pericoloso. Bisogna attaccare prima di essere attaccati a propria volta.
Come abbiamo visto, la perversione narcisista è un sistema che permette di evitare l’angoscia
proiettando all’esterno tutto ciò che è cattivo. Si tratta di una difesa contro la disintegrazione
psichica. Attaccando l’altro, i perversi cercano prima di tutto di proteggersi.
Dove potrebbe apparire il senso di colpa nasce un’angoscia psicotica insopportabile,
che viene proiettata con violenza sul capro espiatorio. La vittima è il ricettacolo di tutto quello
che il suo aggressore non è capace di sopportare.
Dato che anche loro, per proteggersi, hanno dovuto apprendere fin dall’infanzia a separare in sé
le parti sane da quelle ferite, i perversi continuano a funzionare in modo frammentario.
Il loro mondo è diviso in bene e male.
Proiettare tutto il male su qualcun altro consente loro di essere migliori nella loro vita,
e garantisce una relativa stabilità. Sentendosi impotenti, i perversi temono l’impotenza
che suppongono nel prossimo. In un modo quasi delirante, ne diffidano, gli attribuiscono
un’ostilità che è poi la proiezione della loro propria ostilità”. (Pagg. 143-144).
I due personaggi. La vittima:
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• LA VITTIMA OGGETTO.
“La vittima è tale perché è stata designata dal perverso. Diventa capro espiatorio, responsabile
di tutto il male. Sarà d’ora in poi il bersaglio della violenza e risparmierà al suo aggressore
di cadere in depressione o di rimettersi in discussione.
La vittima, in quanto tale, è innocente del crimine per cui pagherà.
Eppure anche i testimoni dell’aggressione nutrono sospetti nei suoi confronti.
È come se una vittima innocente non potesse esistere.
Si pensa che acconsenta tacitamente, o che sia complice consciente o meno dell’aggressione
che subisce. Perché è stata scelta? Perché era lì e, in un modo o nell’altro, ha cominciato
a dare fastidio. Non ha niente di particolare per l’aggressore.
È un oggetto intercambiabile, che stava lì al momento sbagliato, ma anche giusto,
e che ha avuto il torto di lasciarsi sedurre e - a volte - di essere troppo lucida.
Al perverso interessa solo quando è utilizzabile e accetta la seduzione.
Diventa oggetto d’odio dal momento in cui si sottrae o non ha più niente da dare.
Poiché è solo un oggetto, importa poco chi è. Ciò nondimeno l’aggressore evita chiunque potrebbe
metterlo in pericolo. È così che si guarda scrupolosamente dall’opporsi ad altri perversi narcisisti
o ai paranoici, troppo simili a lui.
Quando perversi e paranoici si associano, ciò non fa che decuplicare l’effetto distruttivo
sulla vittima designata. È quello a cui si assiste soprattutto nei gruppi e nelle aziende.
È più divertente disprezzare o prendersi gioco di qualcuno davanti a uno spettatore
che incoraggiare! Senza farne per questo dei complici, non è raro che i perversi ricevano
una tacita approvazione da parte di testimoni che hanno prima destabilizzato,
poi più o meno convinto. È tipico di un attacco perverso prendere di mira le parti vulnerabili
dell’interlocutore, là dove c’è una debolezza o una patologia.
Ogni individuo presenta un punto debole, che diventerà per il perverso qualcosa a cui aggrapparsi.
Come un alpinista si aggrappa alle fenditure della parete per avanzare, i perversi si servono
delle pecche dell’interlocutore per scalarne la struttura di personalità.
Sono molto abili nell’intuire i punti deboli, nello scovare i modi in cui l’altro potrebbe accusare
il colpo ed essere ferito. Può darsi che la pecca in questione sia proprio una cosa che l’altro
rifiuta di vedere in se stesso. L’attacco perverso è allora una dolorosa rivelazione.
Può trattarsi di un sintomo che l’interlocutore si sforza di banalizzare, di minimizzare,
e che l’aggressore perverso riattiverà. La violenza perversa mette la vittima a confronto
con le proprie carenze, con i traumi dimenticati dell’infanzia.
Risveglia la pulsione di morte che è in germe in ogni individuo. I perversi vanno alla ricerca,
nell’altro, del seme di autodistruzione, che basta poi attivare con una comunicazione
destabilizzante. Il rapporto con i perversi narcisisti funziona come uno specchio
che rimanda immagini capovolte. La buona immagine di sé è trasformata in immagine
di non-amore. Dire che la vittima è complice del suo aggressore non ha senso nella misura in cui,
a causa del condizionamento che ha subito, non ha avuto le risorse psichiche per fare altrimenti:
era paralizzata. Il fatto che abbia partecipato passivamente al processo non toglie nulla
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alla sua posizione di vittima: “Se ho vissuto con un uomo che non mi amava, l’ho fatto
per qualche ragione; se non mi sono accorta di niente, quando sono stata ingannata,
lo si deve alla mia storia; ma, poi, il modo in cui è andata la separazione è una cosa
che non si poteva prevedere e a cui non era possibile adattarsi.
Anche se ora capisco che quell’atteggiamento non era rivolto a me personalmente,
penso che si tratti di un’aggressione morale terribile, un tentativo di omicidio psichico”.
La vittima non è in sé masochista o incline alla depressione.
I perversi sfrutteranno la parte depressiva o masochista che è in lei”. (Pagg. 145-147).
• PERCHE’ ACCETTANO LA LORO SORTE.
“Ciò che a prima vista sorprende è che le vittime accettino la loro sorte.
Le parole dei perversi narcisisti sono totalitarie e negano la soggettività dell’altro.
Il funzionamento perverso consiste invece nello spegnere ogni traccia di libido e di energia emotiva
vitale. Ora, la libido è la vita. Bisogna quindi spegnere ogni traccia di vita e ogni desiderio,
anche quello di reagire. Nel rapporto con il perverso non c’è simmetria, ma solo dominio
dell’uno sull’altro, e la persona sottomessa non ha la possibilità di reagire e di fermare lo scontro.
È per questa ragione che si tratta effettivamente di un’aggressione.
Il condizionamento realizzato in via preliminare ha tolto il potere di dire di no.
Non è possibile negoziare: tutto viene imposto. La vittima è trascinata in questa situazione perversa
suo malgrado. È stata sollecitata nella sua parte masochista, che esiste in ogni individuo.
Si è ritrovata invischiata in un rapporto distruttivo senza avere i mezzi per sottrarvisi.
Il perverso si è aggrappato proprio al suo punto debole, che si tratti di una debolezza costituzionale
o di reazione. Secondo F. Roustang “ognuno oscilla tra il desiderio di indipendenza,
di dominio di sé e di responsabilità da un lato, e dall’altro il bisogno infantile di trovarsi
in una condizione di dipendenza, di irresponsabilità e dunque di innocenza”.
La vittima ha sostanzialmente la colpa di non essere stata diffidente e di non avere considerato
i messaggi violenti non verbali. Non ha saputo tradurre questi messaggi e ha preso alla lettera
ciò che gli si diceva. Quello che distingue le vittime di un perverso dai masochisti è il fatto
che quando, a prezzo di un immenso sforzo, riescono a separarsi, hanno la sensazione
di liberazione. Sono sollevate perché la sofferenza in sé non le interessa.
Si sono lasciate coinvolgere dal gioco perverso, magari per un lungo periodo, perché sono piene
di vita e vogliono dare la vita, anche assumendo l’incarico disperato di darla a un perverso:
“Con me cambierà!”. Il loro dinamismo si accompagna a una certa fragilità.
Lanciandosi nell’impresa impossibile di resuscitare dei morti, manifestano qualche incertezza
sulle proprie forze. Si insinua nel loro agire qualcosa che sa di sfida. Sono forti e dotate, ma devono
provare a se stesse di esserlo; sono vulnerabili perché non sono sicure delle proprie capacità.
È questo, senza dubbio, a renderle sensibili alla fase deduttiva, durante la quale il perverso
non trascura di valorizzarle. In seguito, la loro ostinazione può essere pericolosa.
Non rinunciano perché non possono immaginare che non ci sia niente da fare e che non ci si possa
aspettare nessun cambiamento. Come si vedrà, si sentirebbero responsabili se abbandonassero
il loro partner. Esiste un dubbio: se il masochismo è una caratteristica tanto fondamentale
della vittima, perché non si è manifestato in un altro contesto, e scompare dopo
la separazione dall’aggressore?”. (Pagg. 147-150).
• GLI SCRUPOLI.
“La debolezza del partner, a cui i perversi si aggrappano, si manifesta nella maggior parte dei casi
come svalutazione e senso di colpa. Un comportamento che mira chiaramente a destabilizzare
l’altro consiste nell’indurlo a colpevolizzarsi. La vittima ideale è una persona coscienziosa,
naturalmente propensa a colpevolizzarsi. Sono persone che tengono all’ordine, sia in campo
lavorativo che nelle relazioni sociali, che si dedicano a quanti stanno loro vicino e accettano
raramente piaceri dagli altri. L’attaccamento all’ordine e la preoccupazione di far bene
spingono queste persone a sobbarcarsi una mole di lavoro superiore alla media,
cosa che le fa sentire con la coscienza tranquilla, e da cui nasce anche la sensazione di essere
oppresse dal lavoro e da incarichi al limite del possibile. I predepressi conquistano l’amore dell’altro
mettendosi a disposizione, e provano una grande soddisfazione nello stare al suo servizio
o nel fargli piacere. I perversi narcisisti ne approfittano. Soggetti di questo tipo mal sopportano
i malintesi e le goffaggini, che cercano di correggere. In caso di difficoltà, intensificano gli sforzi,
si sovraccaricano di lavoro, si sentono superati dagli eventi, si colpevolizzano, lavorano il doppio,
si affaticano, divengono meno efficienti e, per un circolo vizioso, si colpevolizzano sempre di più.
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Si può arrivare all’auto accusa: “È colpa mia se il mio partner non è contento
o se è aggressivo”. Se viene commesso un errore, tendono ad attribuirselo.
Questa coscienza esagerata è legata alla paura di sbagliare, perché la pressione dell’errore, i rimorsi,
generano in loro una sofferenza troppo grande. Sono anche vulnerabili ai giudizi e alle critiche
altrui, per quanto infondate. Ciò li porta a giustificarsi ininterrottamente.
I perversi, percependo tale debolezza, provano piacere nell’instillare il dubbio: “Non sarò per caso
colpevole di quello che mi si rimprovera, anche se non ne sono consapevole?”.
Se le accuse si rivelano false, queste persone non sono comunque più sicure del fatto loro
e si chiedono se non dovrebbero, malgrado tutto, assumersi la colpa. L’aggressore e l’aggredito
funzionano secondo lo stesso meccanismo totalizzante. In entrambi i casi c’è un’esacerbazione
delle funzioni critiche: verso l’esterno nel caso dei perversi, verso se stessi in quello delle vittime.
Le vittime, in realtà, fanno propria la colpevolezza dell’altro.
Hanno interiorizzato ciò che le aggredisce: lo sguardo, i gesti, le parole. Per un fenomeno
di proiezione, i perversi narcisisti riversano sulla loro vittima la propria colpevolezza.
Nel caso di un’aggressione, ai perversi basta negare perché le vittime entrino nel dubbio.
È per questa ragione che alcune vittime sono ricorse a stratagemmi per verificare a posteriori
la realtà della violenza. Conservano copie di lettere, si organizzano per avere un testimone nascosto,
oppure registrano le conversazioni telefoniche. Si ritrova in loro, del resto, una sensazione latente
di inferiorità, che riescono in genere a compensare, a condizione che non si fornisca loro l’occasione
di sentirsi in torto. Questa vulnerabilità al senso di colpa costituisce una fragilità di fronte
alla depressione. Non costituisce uno stato depressivo, caratterizzato da tristezza e apatia,
ma è, al contrario, uno stato che porta la persona a diventare iperattiva, in forte interazione
con la società”. (Pagg. 150-153).
• LA VITALITA’.
“Le vittime suscitano l’invidia perché si mettono esageratamente in mostra.
Non sanno fare a meno di evocare il piacere che provano a possedere questa o quella cosa,
non sanno fare a meno di ostentare la loro felicità. Le vittime ideali dei perversi sono quelle che,
non avendo fiducia in sé, si sentono costrette a fare troppo, per dare a tutti i costi una migliore
immagine di sé. Le vittime sono quindi trasformate in preda dalla stessa loro energia vitale.
Hanno bisogno di dare e i perversi narcisisti di prendere: non si può immaginare incontro più ideale.
L’uno rifiuta ogni senso di colpa, l’altro ha una naturale propensione a colpevolizzarsi.
Perché il gioco valga la candela, bisogna che la vittima all’inizio sappia resistere,
per cedere in seguito”. (Pagg. 153-154).
• LA TRASPARENZA.
“Le vittime sembrano ingenue, credulone. Poiché non sono capaci di immaginare che l’altro
sia sostanzialmente distruttivo, cercano di trovare delle spiegazioni logiche e tentano di evitare
ogni malinteso: “Se gli spiego, capirà e si scuserà del suo comportamento”.
Chi non è perverso, non può immaginare tanta manipolazione e malevolenza.
Per liberarsi del loro aggressore, le vittime si impongono di essere trasparenti e tentano
di giustificarsi. Quando una persona trasparente si apre con una che diffida, è probabile
che quest’ultima prenda il potere. Tutte le chiavi che le vittime consegnano ai loro aggressori
non fanno altro che incrementare il disprezzo che essi manifestano nei loro confronti.
Di fronte all’attacco perverso, le vittime si mostrano dapprima comprensive e cercano di adattarsi,
capiscono o perdonano per amore o ammirazione: “Se è così, è perché è infelice. Lo rassicurerò.
Lo guarirò”. Come per un sentimento di protezione materna, pensano di doverlo aiutare
perché sono le uniche a capirlo. Vogliono riempire l’altro dandogli la propria sostanza, talvolta
si sentono addirittura investite da una missione.
Pensano di poter capire tutto, perdonare tutto, giustificare tutto.
Convinte che parlando troveranno una soluzione, permettono ai perversi - che rifiutano qualunque
dialogo - di metterle in scacco come vogliono. Le vittime alimentano la speranza che l’altro cambi,
che capisca la sofferenza che infligge, che si penta.
Sperano sempre che le loro spiegazioni e giustificazioni elimineranno i malintesi e si rifiutano
di rendersi conto che, per quanto si possa comprendere intellettualmente e affettivamente,
non si deve per questo sopportare tutto. Mentre i perversi narcisisti sono bloccati nella loro rigidità,
le vittime cercano di adattarsi, di capire che cosa voglia il loro persecutore, consciamente
o inconsciamente, e vanno alla ricerca di quale sia la loro parte di colpevolezza.
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La manipolazione riesce tanto meglio se si tratta di una persona a cui la vittima aveva concesso
fiducia (padre o madre, coniuge, principale): il perdono delle vittime o la loro mancanza
di rancore le mette in una posizione di potere.
L’aggressore non riesce a tollerarlo, perché è una cosa che sottolinea la rinuncia della vittima:
“Non voglio più giocare con te”. L’aggressore è frustrato, la sua vittima è un rimprovero vivente,
cosa che non può che indurlo a odiarla ancora di più.
Pare che sia possibile diventare vulnerabili al condizionamento fin dall’infanzia.
Ci si chiede spesso perché le vittime non reagiscano.
Vediamo che soffrono, che rinunciano alla propria vita, eppure restano dove sono e temono
anche di essere abbandonate. Sappiamo che andarsene le salvaguarderebbe, ma non possono farlo
finché non si sono liberate dal trauma infantile. Alice Miller ha dimostrato che un’educazione
repressiva, mirata a “uccidere” un bambino “per il suo bene”, ne spezza la volontà e lo porta
a reprimere i sentimenti veri, la creatività, la sensibilità, la ribellione.
Secondo lei, questo tipo di educazione predisporrebbe a qualsiasi nuova soggezione,
sia essa individuale da parte di un perverso narcisista, sia collettiva in una setta o in un partito
politico totalitario. Spinta in questo senso fin dall’infanzia, una persona si farà manipolare
nell’età adulta. Quanti, in un clima repressivo o incestuale, saranno riusciti a preservare la capacità
di reagire a parole o con la rabbia alle vessazioni e alle umiliazioni, riusciranno - in età adulta a proteggersi meglio di fronte a un perverso narcisista”. (Pagg. 154-156).
Le conseguenze a lungo termine:
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• LO CHOC.
“Lo choc si produce quando le vittime prendono coscienza dell’aggressione.
Fino ad allora non diffidavano, forse erano addirittura troppo fiduciose. Anche se persone esterne
avessero fatto notare loro quanto erano sottomesse e tolleranti di fronte a una palese mancanza
di rispetto, si sarebbero rifiutate di riconoscerlo. Brutalmente, capiscono ora di essere state vittime
di una manipolazione. Si ritrovano disorientate, ferite. Tutto crolla. Il traumatismo è grave,
a causa della sorpresa e della loro impreparazione, conseguenza del condizionamento.
Al momento dello choc emozionale, dolore e angoscia si mescolano.
È una sensazione di violenta effrazione, di abbattimento, che alcune vittime descrivono
come un’aggressione fisica: “È come una pugnalata”, “Mi diceva parole terribili
e io ho l’impressione di essere un pugile messo al tappeto, che continua a essere pestato
di santa ragione”. Stranamente è raro assistere a moti di collera o di ribellione, anche dopo
che le vittime hanno deciso di separarsi. Eppure, la rabbia permetterebbe loro di liberarsi.
Le vittime sanno puntare il dito contro la propria sorte ingiusta, ma non sono tuttavia capaci
di ribellarsi. La rabbia arriverà solo più tardi e si tratterà, nella maggior parte dei casi,
di una collera censurata e quindi inefficace.
Per provare davvero una collera liberatrice, le vittime dovranno uscire dal condizionamento.
Quando prendono coscienza della manipolazione, le vittime si sentono prese in giro,
come chi è appena stato truffato.
Si ritrova sempre la stessa sensazione di essere stati imbrogliati, ingannati, di non essere stati
rispettati. Scoprono troppo tardi di essere vittime, che ci si è presi gioco di loro.
Perdono la stima di sé e la propria dignità. Si vergognano del modo in cui hanno reagito
alla manipolazione: “Avrei dovuto reagire prima”, “Perché non mi sono accorto di niente?”.
Si vergognano quando prendono coscienza della propria compiacenza patologica,
che ha autorizzato l’altro a essere violento. A volte desiderano vendicarsi, ma nella maggior parte
dei casi sono in cerca di una riabilitazione e di un riconoscimento della loro identità.
Aspettano delle scuse, che non riceveranno, da parte del loro aggressore.
Se riparazione c’è, la ottengono molto più tardi e da parte dei testimoni o dei complici passivi che,
manipolati dal perverso, hanno partecipato all’aggressione”. (Pagg. 171-172).
• LO SCOMPENSO.
“Le vittime, indebolite nella fase di condizionamento, si sentono ora aggredite direttamente.
Le capacità di resistenza di un individuo non sono illimitate, a poco a poco si erodono e portano
a un esaurimento psichico. Oltre una certa quantità di stress non può più esserci lavoro
di adattamento, ma solo scompenso. Si attivano disturbi più durevoli”. (Pag. 172).
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• LA SEPARAZIONE.
“Di fronte a una minaccia che si manifesta sempre più chiaramente, le vittime possono reagire
in due modi:
1. Sottomettersi e accettare la dominazione, con l’aggressore che - a partire da quel momento può portare avanti tranquillamente la propria opera di distruzione;
2. Ribellarsi e lottare per andarsene.
Soggette a un condizionamento troppo forte e di lunga data, certe persone non sono in grado
né di fuggire né di combattere. A volte vanno a consultare uno psichiatra o uno psicoterapeuta,
ma avvertono subito che non vogliono mettere radicalmente in questione nulla.
Vogliono soltanto tenere duro, sopportare la condizione di asservimento in cui si trovano,
senza mostrare sintomi di cedimento e continuare a fare bella figura.
A una lunga psicoterapia, persone di questo tipo preferiscono di solito un trattamento
farmacologico. Tuttavia, quando gli stati depressivi si susseguono, può verificarsi un abuso
di farmaci ansiolitici o di sostanze tossiche (per esempio, alcool) e lo psichiatra sarà costretto
a proporre di nuovo una psicoterapia.
Quando è in atto la molestia, infatti, è raro che si interrompa se la vittima non se ne va,
e non sono i farmaci a salvarla. Nella maggior parte dei casi le vittime reagiscono quando
possono vedere la violenza in atto su un’altra persona o quando hanno avuto la possibilità
di trovare un alleato o un appoggio esterno.
La separazione, quando può realizzarsi, riguarda le vittime, mai gli aggressori.
Questo processo di liberazione si compie all’insegna del dolore e del senso di colpa,
perché i perversi narcisisti si atteggiano a vittime abbandonate e trovano in ciò un pretesto
per essere violenti. Nella separazione i perversi pensano sempre di essere danneggiati
e diventano cavillosi, approfittando del fatto che la loro vittima, nella fretta di farla finita,
è disposta a qualunque concessione. Nella coppia, il ricatto e la pressione si esercitano attraverso
i bambini, quando ci sono, o in procedure che riguardano i beni materiali.
In campo professionale non è raro che venga intentato un processo contro la vittima,
sempre colpevole di qualcosa (ad esempio di essersi portata a casa un documento importante).
In ogni caso, l’aggressore si lamenta di aver subito un danno, mentre è la vittima che perde tutto”.
(Pagg. 175-176).
• L’EVOLUZIONE.
“Anche se le vittime, dopo aver fatto lo sforzo di separarsi, perdono ogni contatto
con il loro aggressore, non si possono negare le conseguenze drammatiche di un periodo di vita
in cui sono state ridotte alla condizione di oggetto. A partire da questo momento, ogni ricordo
e ogni nuovo avvenimento assumerà un nuovo significato, legato all’esperienza vissuta.
In un primo tempo, l’allontanamento dall’aggressore rappresenta una liberazione per le vittime:
“Posso finalmente respirare!”.
Superata la fase di choc ricompare l’interesse per il lavoro o per le attività del tempo libero,
una curiosità per il mondo o per le persone, tutte cose fino a quel momento bloccate
dalla dipendenza. Tuttavia le difficoltà non mancano.
Tra le vittime di molestia, alcune se la cavano senza conseguenze psichiche, a parte un brutto
ricordo ben dominato (questo è vero soprattutto quando la violenza è extrafamiliare e di breve
durata), ma molte sperimentano spiacevoli fenomeni di reminiscenza della situazione traumatica,
accettandola. I tentativi di dimenticare provocano, nella maggior parte dei casi, la comparsa
di disturbi psichici o somatici ritardati, come se la sofferenza fosse rimasta un corpo estraneo
nello psichismo, attivo e inaccessibile.
La violenza vissuta può lasciare tracce benefiche, compatibili con la prosecuzione di una vita sociale
praticamente normale. Le vittime sembrano psichicamente indenni, ma permangono sintomi
meno specifici, che rappresentano un tentativo di eludere l’aggressione subita.
Può trattarsi di ansia generalizzata, di affaticamento cronico, di insonnia, di mal di testa,
di dolori molteplici o di disturbi psicosomatici (ipertensione arteriosa, eczema,
ulcera gastroduodenale), ma soprattutto di comportamenti di dipendenza (bulimia, alcolismo,
tossicomania). Quando queste persone consultano il loro medico generico si fanno prescrivere
un farmaco sintomatico o un ansiolitico. Non vengono messi in relazione, perché la vittima
non parla della violenza subita e dei sintomi che presenta.
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Succede che le vittime si lamentino, a posteriori, di un’aggressività incontrollabile:
un residuo dell’epoca in cui non avevano la possibilità di difendersi e che può essere
anche interpretata come una violenza trasmessa.
Le aggressioni o le umiliazioni sono impresse nella memoria e vengono rivissute attraverso
immagini, pensieri, emozioni intense e ricorrenti, sia di giorno (con la sensazione improvvisa
che una situazione identica sta per verificarsi), sia durante il sonno (causando insonnia o incubi).
Le vittime hanno bisogno di parlare degli episodi traumatizzanti, ma ricordare il passato suscita
ogni volta manifestazioni psicosomatiche che corrispondono alla paura.
Presentano disturbi della memoria o della concentrazione. A volte, perdono l’appetito o hanno al contrario - comportamenti bulimici, aumentando il consumo di alcol o di tabacco.
A lungo termine, la paura di affrontare l’aggressore e il ricordo della situazione traumatica inducono
un comportamento elusivo. La vittima mette in atto strategie per non pensare all’episodio stressante
e per evitare tutto ciò che potrebbe richiamare quel ricordo doloroso.
Questo distacco, realizzato per cercare di sfuggire a una parte dei ricordi, causa a volte anche
una netta diminuzione dell’interesse per attività altrimenti importanti o una limitazione degli affetti.
Permangono intanto segnali neurovegetativi quali disturbi del sonno o ipervigilanza.
Quasi tutte le persone che sono state vittime di molestia descrivono queste reviviscenze dolorose,
ma alcune riescono a liberarsene impegnandosi in attività esterme, professionali o di volontariato.
Con il tempo, l’esperienza vissuta non si dimentica, ma si può fare in modo da condividerla
sempre meno. Come potrebbero, le vittime, dire che dopo dieci o vent’anni continuano ad avere
una sensazione di pericolo quando si ricordano improvvisamente del loro persecutore?
Anche se hanno ricominciato a vivere in modo armonico, questi ricordi possono sempre provocare
una sofferenza folgorante.
Dopo anni, tutto ciò che richiamerà da vicino o da lontano quello che hanno patito le farà fuggire,
perché il traumatismo avrà sviluppato in loro una capacità di riconoscere gli elementi perversi
di un rapporto. Succede anche che, quando le vittime non riescono a liberarsi del condizionamento,
la vita si arresti a questo traumatismo: lo slancio vitale è smorzato, la gioia di vivere scompare
e non è possibile alcuna iniziativa personale.
Non fanno che lamentarsi di essere state abbandonate, ingannate, beffate.
Diventano acide, suscettibili, irritabili, tendono all’isolamento sociale e a rimuginare tristemente.
Sono vittime che ritornano sempre sugli stessi argomenti e quanti sono loro vicino le sopportano
a fatica: “È una vecchia storia, dovresti pensare a qualcos’altro”. (Pagg. 176-180).
Così termina questa lunga analisi, volutamente dettagliata ed estesa perché il messaggio
dei concetti espressi da Marie France Hirigoyen potesse penetrare a fondo nella mente di coloro
che sono stati vittime di un perverso, per liberarsene.
A questo punto QUATTRO può finalmente abbandonare il malefico territorio dei perversi narcisisti,
lasciando al lettore del sito il monito di Dante Alighieri:
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Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba!
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Dante Alighieri, “Divina Commedia”, Paradiso, Canto X, 25.
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Staccando l’ombra da terra.
Il titolo di questa sezione riprende esattamente il titolo del libro di Del Giudice, Daniele:
“Staccando l’ombra da terra”. L’intenzione è precisa. L’espressione “Staccare l’ombra da terra”
fa parte del linguaggio degli aviatori, ed è usata per indicare il momento in cui l’aereo si alza in volo
dopo avere rullato sulla pista tanto da staccarsi da terra e non proiettarvi più sopra la propria ombra.
“Sei lì, qualunque istinto o dolore o malformazione d’inconscio ti abbia portato a credere
che fosse possibile per te trovarti in una simile situazione, sei lì con i piedi disperatamente
puntati sui freni affinché l’aereo non decida al tuo posto e cominci a rullare da solo per il suo primo decollo da solo, probabilmente -; a questo punto tornare indietro sarebbe
assai più complicato che andare avanti, perciò puoi illuderti ancora una volta di non avere
scelta dopo avere preparato il cammino perché così fosse, e adesso, nell’ultimissimo istante,
teso e muto, vuoi solo vedere come andrà a finire, vuoi andare fino in fondo, al fondo
della pista, verso quell’attimo di disequilibrio con cui tutto si solleva, s’impenna,
staccando la tua ombra da terra”.
QUATTRO riprende questa espressione per indicare il punto in cui il sito si distacca dalle emozioni
di un singolo essere umano inserito nella piccola dimensione di una coppia o di una famiglia.
Dal momento in cui si stacca da questo legame individualistico, lo spirito del sito si può innalzare
a vedere dall’altro le influenze della pedagogia nera e delle malvagità operate - da un singolo uomo
arrivato al potere - a danno non più di una o due persone,ma addirittura di centinaia di migliaia
di esseri umani indifesi come bambini. In una stravolta visione di sé come essere onnipotente,
staccando da terra l’ombra del male che egli compie, il dominatore malvagio può seminare
la sua malvagità di bombe, o di torture, o di massacri, su intere popolazioni.
E allora anche il testimone consapevole e soccorrevole deve staccare da terra l’ombra
della sua testimonianza a difesa di chi è stato vittima innocente ed inerme.
E deve parlare non più in termini di emozioni e di reazioni psicologiche all’interno della personalità
di uno o pochi singoli uomini, membri di una stessa famiglia. Dovere di difesa e testimonianza
diventa allora parlare in termini di massacri, di veri e propri genocidi, documentati alla luce della storia.
Come disse Tiziano Terzani nel suo libro “Un indovino mi disse”:
“... È un aspetto, questo, dello strano mestiere di cronista che non cessa di affascinarmi e,
al tempo stesso, di inquietarmi: i fatti non registrati non esistono.
Quanti massacri, quanti terremoti avvengono nel mondo, quante navi affondano,
quanti vulcani esplodono e quanta, quanta gente viene perseguitata, torturata e uccisa!
Eppure, se non c’è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive, qualcuno che fa una foto,
che ne lascia una traccia in un libro, è come se quei fatti non fossero mai avvenuti!
Sofferenze senza conseguenza, senza storia.
Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta. È una triste constatazione; ma è così ed è forse
proprio questa idea - l’idea che con ogni piccola descrizione di una cosa vista si può lasciare un seme
nel terreno della memoria - a legarmi alla mia professione”.
QUATTRO ha - parecchie sezioni addietro - citato a lungo Jorge Semprun
e la sua analisi psicologica (ma in chiave letteraria) riferita all’Olocausto.
Riporterà ora altre due testimonianze riferite a genocidi perpetrati nel corso del XX° secolo:
1. ll genocidio degli Armeni, perpetrato tra il 1915 e il 1923.
2. Il massacro effettuato da Pol Pot e dai khmer rossi.
La ragione di queste due testimonianze è molto semplice: queste due tragedie sono quasi sconosciute
nella cultura europea comune. È quindi dovere di difesa dei diritti umani,che in esse sono state
brutalmente negati, parlarne con una certa ampiezza in questa particolare ansa storico/culturale
del sito, cioè una struttura concettuale il cui fine generale è pur sempre la difesa dei diritti di ogni
essere umano, singolo cittadino o popolo che sia, allo scopo di garantire loro alcune possibilità
(se non tutte quelle a cui naturalmente avrebbero avuto diritto), ed almeno a posteriori (dato che
non sono state loro concesse all’inizio della loro storia) di avere rispetto, libertà di vita e di pensiero
e sicurezza, cioè le condizioni minime indispensabili perché si possa parlare di vita umana.
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