La globalizzazione ci renderà tutti uguali?

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La globalizzazione ci renderà tutti uguali?
La globalizzazione
ci renderà tutti uguali?
Intervista a Suzanne Berger di Letizia Bardazzi
Suzanne Berger insegna Scienze Politiche al MIT di Boston ed è l’autrice di “How We Compete”.
Questo libro riporta i risultati di un’indagine condotta, con altri ricercatori del MIT, su cinquecento
aziende in vari Paesi, tra cui l’Italia, per cercare di individuare i fattori di successo in un’economia sempre più globalizzata. Il dato principale emerso è che non esiste un unico modello, essendo tuttora molte
e diverse le vie per giungere al successo. Suzanne Berger ha cortesemente accettato di rispondere ad
alcune domande riguardanti la globalizzazione, le liberalizzazioni, il ruolo dei governi e sull’importanza dell’educazione e i riflessi sulla libertà personale e dei popoli.
1. Nel Suo libro How We Compete, sembra emergere una tesi ben precisa, cioè che non esiste un’unica via per il successo sui mercati, ma piuttosto diversi modelli possibili, anche in un’economia
globalizzata.
La nostra ricerca su cinquecento società non suggerisce, in effetti, l’esistenza di una formula
univoca per il successo, ma descrive le differenti strategie utilizzate dalle aziende per competere con successo, anche in un’economia globalizzata, indicando che c’è spazio per scelte
e linee d’azione diverse e confermando che il ruolo della leadership rimane fondamentale.
In tutti i Paesi industrializzati vi è molta preoccupazione di fronte alla globalizzazione, in particolare per le minacce all’occupazione, ma penso che ancora maggiore sia la paura che costrizioni esterne e pressioni economiche possano ridurre la libertà di scelta, di autonomia e controllo di cui godiamo nella nostra società. Con il rischio di trovarci tutti su un unico stretto
sentiero, in una gara verso il basso per stipendi, livelli di vita, ambiente. Abbiamo perciò cercato di capire se esistano modelli alternativi di successo e quali siano le conseguenze delle
varie opzioni. Se, come risulta dalla nostra ricerca, imprese che producono lo stesso prodotto
nello stesso settore sono capaci di scegliere strategie diverse per competere, possiamo immaginare che rimanga anche da parte della società un ampio spazio di risposta alle sfide della
globalizzazione. Quindi, come cittadini, abbiamo davanti a noi scelte diverse e modi alternativi per affrontare queste nuove sfide.
2. In un’economia globalizzata, qual è l’impatto delle differenti tradizioni culturali e dei diversi
sistemi politici?
Le diverse culture e tradizioni nazionali sono un aspetto molto importante nelle risorse a
disposizione delle imprese nel loro tentativo di rispondere alle sfide della globalizzazione.
SUZANNE BERGER È PROFESSORE DI SCIENZE POLITICHE PRESSO IL MASSACHUSETTS INSTITUTE
OF TECHNOLOGY DI BOSTON. DIRIGE IL MIT INTERNATIONAL SCIENCE AND TECHNOLOGY INITIATIVE PROGRAM ED
È MEMBRO DELL’EXECUTIVE COMMITTEE OF THE CENTER FOR EUROPEAN STUDIES ALLA HARVARD UNIVERSITY.
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Le faccio un esempio concreto: nella cultura e nella società giapponesi è disdicevole
licenziare e quindi, anche quando si sono trovate sotto pressione come negli anni Novanta,
le aziende giapponesi hanno cercato di evitare licenziamenti di massa. Hanno licenziato
certo, ma molto meno delle imprese americane. Fin dalla seconda guerra mondiale, le
società giapponesi avevano investito fortemente in capitale umano, offrendo molta formazione ai propri operai, ed erano perciò restie a rinunciare a risorse su cui avevano pesantemente investito. Così, si sono concentrate sulla ricerca di prodotti che potessero essere sviluppati partendo dalle risorse, soprattutto umane, presenti in azienda. Di conseguenza, si
sono fortemente specializzate in una serie di prodotti elettronici digitali che richiedevano
forti capacità, prodotti che avevano un breve ciclo di vita, come i telefoni digitali. Fino a
tre anni fa i cellulari erano semplici telefoni, poi hanno cominciato a fare foto, a ospitare
musica e, quindi, video. Lo sviluppo e la produzione di questi prodotti, con un rapido ciclo
innovativo, richiede manodopera particolarmente esperta. Questo non sarebbe stato possibile, per esempio, in Cina, dove la forza lavoro, poco qualificata, è adatta a produzioni semplici di massa. I giapponesi hanno sfruttato la loro tradizione culturale, ciò che nel libro è
definito “legacy”, per lo sviluppo di nuove strategie per affrontare la globalizzazione.
Imprese di Paesi diversi, pur producendo gli stessi prodotti, non hanno sviluppato strategie
uguali anche perchè hanno sfruttato le loro differenti tradizioni culturali e le diversità nel
loro capitale umano.
3. Secondo Lei, quali sono le relazioni tra globalizzazione e liberalizzazione dei mercati e del commercio?
Con il termine globalizzazione identifico i fattori che tendono alla formazione di un unico
mercato per il lavoro, il capitale, i beni e i servizi. Se vi fosse realmente un unico mercato, il tasso d’interesse per il capitale, per esempio, sarebbe lo stesso ovunque nel mondo,
ma non è così e probabilmente non lo sarà mai. Tra i fattori più importanti che hanno portato all’apertura dell’economia internazionale vi sono la liberalizzazione dei mercati finanziari, l’emergere di nuovi Paesi, quali la Cina e l’India, come forti concorrenti, la diminuzione del costo dei trasporti e delle comunicazioni, le nuove tecnologie. Tutti questi elementi negli ultimi venti anni hanno aumentato la pressione verso un unico mercato mondiale.
4. Una crescente apertura dei mercati può facilitare la diffusione della libertà e della democrazia?
Sotto questo profilo possiamo constatare sviluppi molto contrastanti. Se guardiamo alla Cina,
per esempio, il suo indubitabile successo economico continua a convivere con un regime autoritario e, personalmente, penso non si possa prevedere quando vi arriverà la democrazia. Le
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possibilità sul campo sono quindi molteplici, né possiamo d’altro canto stabilire alcuna relazione diretta tra globalizzazione e pace. Occorre ricordare che la prima globalizzazione, negli
anni che vanno dal 1870 al 1914, aveva portato a una mobilità fra i vari Paesi di capitali,
beni, servizi e manodopera paragonabile a quella dei nostri tempi. Tutto finì improvvisamente con lo scoppio della guerra e fu la fine della globalizzazione per i successivi settanta anni.
Credo che ci si debba rendere conto che non esiste una relazione diretta fra globalizzazione
economica e molte altre cose che ci stanno a cuore, come la democrazia e la pace.
5. Quali sono le condizioni perché la liberalizzazione dei mercati, del commercio, dei servizi,
possa portare più libertà personale e una società più equilibrata nei vari Paesi?
La globalizzazione ha portato grandi benefici a molti Paesi, compresi alcuni molto poveri.
Paesi come Cina, India, Taiwan, Hong Kong, Singapore, Corea del Sud hanno registrato un
massiccio calo della povertà e hanno sviluppato forti potenzialità economiche, perfino nell’area delle nuove tecnologie. La globalizzazione ha significato una caduta delle barriere al commercio e il trasferimento di tecnologie e investimenti. In tutti gli esempi conosciuti di rapido
sviluppo, esportazione e commercio hanno giocato un ruolo fondamentale. Tuttavia, mentre
diminuivano i livelli di povertà assoluta e il numero delle persone costrette a vivere nell’indigenza, in questi Paesi diventavano più forti anche le disuguaglianze nei redditi. La globalizzazione porta perciò conseguenze sia positive che negative.
6. Nello scenario finora descritto, qual è il ruolo dei governi nazionali?
Il ruolo del governo? Considerando gli Stati Uniti, penso che una grande maggioranza della
popolazione abbia tratto beneficio dalla globalizzazione, ma che ci sia anche una minoranza
che ne è stata danneggiata, per esempio perdendo il proprio lavoro a causa delle importazioni o del trasferimento di attività all’estero. Dobbiamo almeno essere sicuri che ci sia una rete
di protezione sociale in grado di garantire a tutti una sufficiente copertura sanitaria e un pensionamento decente una volta divenuti vecchi. Negli Stati Uniti siamo ancora lontani dall’avere assicurata questa minima protezione sociale. È perciò inevitabile che aumentino le richieste di protezionismo, ma noi non dobbiamo proteggere particolari settori o lavori, perché l’apertura del mercato è uno dei più grandi punti di forza degli Stati Uniti. Se vogliamo, però,
che questa apertura venga accettata, dobbiamo assicurare un sostegno sociale ai bisogni di
base dell’uomo.
C’è un secondo ruolo fondamentale per il governo: investire in ricerca e sviluppo. In che modo
questi investimenti possono andare a vantaggio di tutta la società? Lo si può capire guardando alla serie di imprese biotech e farmaceutiche che sono sorte attorno al MIT e ad Harvard.
Il governo americano sostiene pesantemente la ricerca biologica e medica in queste due uni-
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versità (come anche in North Carolina e California) e le aziende hanno bisogno di essere vicine a questi laboratori per capire cosa sta avvenendo e dove la ricerca sta portando. Le aziende si localizzano in Massachussets per essere vicine ai centri avanzati di ricerca, per poter
assumere personale altamente specializzato e per diventare parte di un gruppo di imprese
innovative.
Ci si può chiedere: solo alcuni troveranno un’occupazione in una società biotech e quindi cosa
succede agli altri? Un paio di anni fa, la Banca Mondiale ha messo a confronto lo stipendio
di un autista di autobus in Germania e quello di un autista in Kenya, scoprendo che il primo
guadagna tredici volte lo stipendio del secondo. Dato che i lavori sono identici, anzi forse in
Kenya il lavoro è più faticoso, perché l’autista tedesco guadagna tanto più di quello africano?
Perché la società tedesca è così produttiva e innovativa che gli stipendi della sua componente più avanzata finiscono per trainare verso l’alto anche il resto dei salari e lo standard di vita
dell’intera società. Quindi anche lo stipendio dell’autista viene di pari passo spinto verso l’alto. La creazione di valore dei comparti più innovativi e produttivi non va perciò a beneficio
solo di chi lavora in questi settori, sarebbero pochi a guadagnarci, ma tende a influenzare
positivamente la dinamica generale di stipendi e salari e a elevare il livello di benessere dell’intera società.
7. Un punto molto interessante nel Suo libro è che non ci si può focalizzare solo sui tagli al costo
del lavoro, ma è necessario concentrarsi sul miglioramento delle strutture per l’educazione e la
ricerca. Solo così si potranno avere studenti pronti a diventare leader in una società globalizzata.
Qual è secondo Lei la cosa più importante nella loro educazione?
Ci siamo resi conto che la conoscenza cambia molto rapidamente e che ciò che dobbiamo fare
è educare gli studenti a usare la propria capacità di essere creativi, non solo a essere in grado
di riprodurre un insieme di conoscenze apprese.
Più in generale, circa venti anni fa un laureato al MIT aveva successo se capace di coordinare attività all’interno della sua azienda, facendo collaborare colleghi, per esempio, della ricerca e della produzione. Oggi abbiamo capito che i nostri studenti avranno successo se saranno capaci di coordinare attività diverse al di là dei confini aziendali e al di fuori di quelli nazionali.
Prendiamo un prodotto come l’I-Pod: la genialità di Apple è stata di progettarlo attorno a componenti elettronici già esistenti. È stata capace, cioè, di capire cosa i giapponesi stavano
facendo in questo settore e come si sarebbe potuto usare quell’hard disk o quella flash
memory per fare qualcosa di completamente nuovo che, se assemblato in Cina, avrebbe potuto raggiungere il mercato molto rapidamente.
Un prodotto come l’I-Pod ha richiesto ai dipendenti di Apple di identificare e coordinare attività
in vari Paesi, per combinarle in un modo nuovo in un nuovo prodotto. In passato una società
come Apple avrebbe dovuto far tutto all’interno dell’azienda stessa, oggi il successo dipende dal
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sapere identificare capacità anche ben al di fuori del proprio Paese.
Un leader globale deve essere in grado di valutare e capire il potenziale di persone anche molto
diverse da sé. Forse un tempo agli americani bastava essere capaci di capire altri americani;
oggi, per avere successo, occorre la capacità di ascoltare, di valutare, di capire che ci sono molti
modi differenti di creare conoscenza. E su questo punto bisogna lavorare profondamente.
8. Sia nel Suo ultimo libro che in precedenti lavori, Lei si dimostra una profonda conoscitrice
dell’Italia e del suo sistema economico. Quali sono i fattori chiave del successo di molte nostre
imprese, da Lei analizzate in How We Compete? Quali le differenze con altri Paesi? E in che misura le preferenze dei consumatori italiani hanno determinato il successo del “Made in Italy”?
In Italia c’è una forte tradizione di imprenditorialità, soprattutto nella media impresa. I distretti italiani sono stati per noi molto interessanti e rappresentano una forte differenza rispetto,
per esempio, alla Francia. Una questione che si pone è quale tipo di distretti potrà sopravvivere in un contesto di globalizzazione. Molte delle aziende italiane leader nella produzione di
alcuni beni sembrano ora avere prodotti non molto diversi da quelli di aziende che producono in Cina o in India, con costo della manodopera assai più basso.
Ciò che mi colpisce nelle aziende italiane che abbiamo visitato è il tentativo di utilizzare l’opportunità di trasferire la produzione all’estero, più come un modo per espandere gli affari piuttosto che un semplice trasloco di attività, poniamo, in Romania.
Un buon esempio è la Geox, azienda leader nel settore calzaturiero, nata solo dieci anni fa,
che compete con successo con i produttori cinesi e dell’Europa orientale. Geox ha costruito il
suo successo sul patrimonio, l’eredità, la “legacy” del distretto calzaturiero in cui è sorta,
ricco di capacità tecniche e di esperienze preziose. Ha unito queste tradizionali capacità a
una tecnologia innovativa, inventando le “scarpe che respirano”. Così quest’azienda ha creato centinaia di posti di lavoro, pur avendo stabilimenti di produzione fuori dall’Italia.
I consumatori italiani hanno una forte preferenza per la qualità, per il design e sono disposti
a spendere di più per prodotti che incorporano elementi di qualità e creatività, mentre è
senz’altro vero che il consumatore americano medio sembra essere attratto principalmente da
ciò che è a buon mercato. Vi sono eccezioni a questo schema, quando si tratta per esempio
di beni elettronici. Nel caso dell’I-Pod, infatti, sembra che anche l’americano sia disposto a
spendere per avere un prodotto alla moda, di alto design e grande stile.
Il libro How We Compete è stato pubblicato a New York nel 2005 presso la Doubleday; l’edizione italiana è attualmente in preparazione presso la casa editrice Garzanti.
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