Rileggendo gli scritti di Massimo D`Antona sull`art

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Rileggendo gli scritti di Massimo D`Antona sull`art
Rileggendo gli scritti di Massimo D’Antona sull’art. 18 dello statuto dei
lavoratori. Considerazioni attuali.
di Bruno Caruso
Rimarrebbe deluso chi, scorrendo l’indice ed i testi dei numerosi scritti sul licenziamento
individuale contenuti nel volume terzo, tomo secondo della raccolta delle Opere1[1], cercasse di
rinvenire nel pensiero di Massimo D’Antona riferimenti direttamente collegabili alla attualità del
dibattito politico sindacale sul tema dell’art. 18 e delle sue possibili modifiche.
E’ noto agli studiosi che l’autore dedicò una porzione rilevante della sua riflessione scientifica alla
questione del licenziamento illegittimo e dei possibili rimedi nel nostro ordinamento giuridico. Dal
primo scritto del 1973 (Brevi note sul licenziamento disciplinare) collegato alla tesi di laurea,
passando per la monografia che lo portò in cattedra (La reintegrazione nel posto di lavoro. Art. 18
dello statuto dei lavoratori del 1979) sono via via affrontate, in 14 scritti, collocati nell’arco
temporale 1973-1994, le tematiche interpretative, di politica giudiziale e legislativa più rilevanti, a
quel tempo, collegabili all’art. 18 . L’ultima pubblicazione sul licenziamento (esistono poi soltanto
degli appunti di relazioni postume) è “Tutela reale del posto di lavoro”, voce scritta e più volte
rimaneggiata in un arco di tempo relativamente lungo, apparsa nel 1994 nell’Enciclopedia giuridica
Treccani, vol. XXXI. Essa costituisce una summa sistematica, ad uso appunto di una enciclopedia,
di quanto D’Antona era andato elaborando, soprattutto a partire dal 1979 e fino alla prima meta
degli anni 90’, sul tema a lui più caro e più sondato, relativamente all’art. 18: una sistemazione
concettuale del meccanismo della stabilità reale, intesa come peculiare tutela apprestata
nell’ordinamento italiano - ma non unica in Europa quanto agli effetti - per sancire l’effettività della
reintegra; vale a dire il ripristino, il più integrale possibile, alla luce delle norme e dei principi del
nostro ordinamento, della posizione giuridica del cittadino lavoratore, lesa dall’uso arbitrario del
potere di impresa concretizzatosi in un atto di recesso illegittimo.
Non è questa la sede per sottolineare adeguatamente gli snodi problematici, la complessità e la
articolazione degli argomenti, la forte – al punto che può apparire a volte ossessiva - tensione
sistematica che attraversa gli scritti, il confronto a tutto campo con dottrina e categorie civilistiche,
la coerenza ricostruttiva, il dialogo attento e costante con la giurisprudenza soprattutto delle alti
corti, in quella fase interlocutore privilegiato rispetto al legislatore.
Per le considerazioni che seguiranno è , invero, sufficiente presentare - sebbene in maniera
sintetica e necessariamente semplificata - alcune delle chiavi di lettura generali o, se si vuole,
delle idee portanti riscontrabili negli scritti di D’Antona sul licenziamento e sull’art. 18; sono
posizioni che fungono da supporto, da impalcature generali, su cui si reggono le articolate
ricostruzioni interpretative e le soluzioni tecniche apprestate.
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L’art. 18 è uno strumento che tenta, riuscendovi solo in parte, di realizzare l’idea che esiste, e
deve essere difeso, un diritto del lavoratore alla conservazione del suo “concreto” posto di
lavoro.
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L’ordine di reintegrazione, al di là della sua realizzabilità in concreto, ha un valore “etico” in
sé; garantisce i diritti fondamentali del cittadino lavoratore limitando anche per il futuro l’arbitrio
del datore di lavoro e nel far ciò garantisce pure i diritti collettivi e gli spazi di libertà, attuali e
futuri, che danno sostanza e senso all’azione dell’organizzazione sindacale all’interno
dell’azienda.
1[1] Massimo D’Antona, Opere, Scritti sul diritto del lavoro, tomo I, licenziamento individuale, a
cura di B. Caruso e S. Sciarra, Milano, Giuffre, 2000.
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Per tale ragioni l’interpretazione della norma deve essere estesa fino al punto di tensione
massima possibile, compatibile con i principi dell’ordinamento giuridico processuale, per
evitare che il controllo sui licenziamenti “si risolv(a) in una variante assistenziale della tutela
obbligatoria anche con una monetizzazione che risarcisse “più” del dovuto il lavoratore”.
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Ogni passo indietro da questo regime di tutela - che costituisce una espressione tipica della
specialità, a fini di tutela, del diritto del lavoro rispetto al diritto civile - e dalla sua stessa
filosofia di fondo, avrebbe costituito (D’Antona cita direttamente Federico Mancini) “una
sconfitta per il movimento operaio, ma, ancor di più, una sconfitta per la civiltà giuridica di
questo paese”.
Queste cose D’Antona le scriveva in un periodo in cui la maggior parte dei giuristi del lavoro
italiani - formatisi nella temperie culturale dello statuto dei lavoratori - sembrava naturale
condividerle. Il dibattito sugli eccessi di garantismo individuale, sulla nuove esigenze di
competizione globale e di flessibilità del rapporto e nel mercato del lavoro pure già in circolazione,
non sembrava coinvolgere l’art. 18, se è vero che le mal congegnate proposte di manipolazione
referendaria della norma della fine degli anni ’80, provenienti dallo schieramento politico dell’
estrema sinistra politica e sindacale, erano mirate ad estendere il campo di tutela della norma ai
lavoratori delle piccole imprese e a renderla, semmai, più incisiva e non - come in occasione della
campagna referendaria del 2000 e come nell’intenzione della attuale compagnie governativa - ad
eliminarla o ridurne, a fine di promozione dell’occupazione, l’area della copertura.
E’ tuttavia probabile che Massimo D’Antona - pur attento e sensibile ai cambiamenti d’orizzonte e
ai mutamenti epocali dell’ultimo scorcio del secolo che gli fu consentito di vivere, che mettevano in
discussione i pilastri fondamentali del diritto del lavoro post costituzionale2[2] - quelle idee di fondo
sull’art. 18 le avrebbe mantenute e, sulla base di quelle direttive, avrebbe articolato la propria
posizione rispetto all’attualità del dibattito. Ma di questo si dirà dopo.
Non esiste, tuttavia, la prova di quest’ultima affermazione: come si diceva all’inizio, non esistono
né scritti dottrinali, né interventi sulla grande stampa quotidiana (tutti relativi ai temi di cui D’Antona
si occupava nella veste di consulente di vari governi, tecnici e di centro sinistra, succedutisi dal 95
fino alla sua morte) che possano essere riferiti alla nuova fase del dibattito sull’art. 18; fase in
qualche modo aperta dalle posizioni di Pietro Ichino nel suo fortunato volume 3[3] (il discrimine
temporale è puramente convenzionale). In quel testo, come è noto, nell’ambito di una rinnovata
attenzione sul rapporto tra diritto ed economia, tra tutele e mercato, si proponeva un forte
allargamento delle ipotesi di monetizzazione (il metodo del firing cost) del licenziamento con forte
riduzione dell’ambito di operatività della tutela apprestata dall’art. 18 dello statuto. Quella proposta
è stata poi trasfusa nel ddl presentato, senza seguito, nella passata legislatura dal senatore De
Benedetti. Ad essa altre ne sono seguite, tecnicamente diverse, ma ispirate tutte alla esigenza di
allentare la c.d. rigidità in uscita provocata da quella norma, allo scopo di un nuovo equilibrio, nel
mercato, tra insider e outsider: la proposta Treu, la proposta del gruppo dei giuristi e degli
economisti della Bocconi.
L’ idea di riformare l’articolo 18 (insieme ad altre, contenute nel citato volume di Pietro Ichino,
ispirate tutte al metodo pragmatico della law and economics, per la prima volta in Italia applicato al
diritto del lavoro) produsse un effetto shock sulla comunità dei giuslavoristi, perché proveniente
dall’interno dello schieramento dei giuristi collocati sul fronte della modernizzazione del mercato
del lavoro, ma non per questo, in posizione di contrapposizione alle OOSS storiche;
ma pure
perché li costringeva, già allora, ma d’allora in poi in maniera quasi permanente, a ridefinire il
proprio apparato concettuale, a confrontarsi con i temi della compatibilità dei costi per le imprese e
dello equilibrio e dell’efficienza di mercato, non più a partire dalla indiscussa primazia, in termini di
2[2] Massimo D’Antona, Diritto del lavoro di fine secolo: una crisi di identità?, in Opere, I, a cura
di B. Caruso e S. Sciarra, Giuffrè, Milano, 2000, p. 221.
3[3] P. Ichino, Il lavoro e il mercato, Mondatori, Milano, 1996,p. 105.
valori costituzionali, dei diritti del lavoratore occupato e degli strumenti di tutela, bensì da una
rinnovata considerazione del mercato e dell’impresa - e delle sue esigenze di competitività nella
fase della globalizzazione - come fattore fondamentale di sviluppo, di efficienza sistemica, di
creazione di ricchezza e soprattutto come volano occupazionale (considerati risposte a fenomeni
quali la crisi del welfare, alle esaurite possibilità di assorbimento occupazionale della p.a., ecc.).
La tutela contro il licenziamento, nelle forme tecniche apprestate dall’art. 18, non fu più valutata
come un tabù su cui era vietato persino discutere4[4], ma il dibattito iniziò forte e lacerante
soprattutto tra intellettuali, economisti e giuristi, non ostili alle OOSS e ai governi di centro sinistra
al punto che - non può essere negato come verità storica - anche Massimo D’Antona, in qualità di
consulente del ministro Bassolino, si apprestava a studiare una qualche ipotesi di intervento, di
dettaglio e non sul contenuto essenziale dell’articolo 18, ancorché la direzione di un simile
intervento gli appariva problematica e non del tutto chiara.
Al di là della delle possibili valutazioni sulle vicende politiche successive alla sua scomparsa
(l’esito del referendum del 2000, la legge di delega al governo), è probabile, come si diceva prima,
che le idee di fondo di Massimo D’Antona sull’articolo 18, non erano né sarebbero mutate; e non
perché egli considerasse un tabù l’art. 18 (si è già detto che si apprestava a considerare possibili
modifiche), ma per una considerazione generale che va posta in questo modo.
L’art. 18 è norma di impatto sistemico nel diritto del lavoro italiano, una sorta di regolatore del
traffico di un complesso di tutele individuali e collettive. Non si può considerare questa
disposizione in maniera avulsa dal suo contesto storico, organizzativo ed istituzionale. Se si
osservano, infatti, sincronicamente la storia giuridica dell’istituto nel contesto di evoluzione delle
relazioni sindacali nel nostro paese, le dinamiche specifiche di regolazione del sistema di welfare
cui va correlato, le peculiarità dei mercati del lavoro subnazionali, le dinamiche organizzative del
sistema delle imprese, ci si avvede che la reintegrazione, come è da noi regolata, ha assunto un
valore di garanzia degli spazi di agibilità del sindacato in azienda e di tutela di valori fondanti della
dignità della persona che non ha simili in altri contesti.
Quando si mette mano alla disposizione singolarmente, senza considerare le interferenze e i
nessi, si finisce pertanto per destabilizzare l’intero sistema.
C’è, infatti , una sorta di nocciolo duro della disposizione che è costituito dallo intrinseco legame,
storico e culturale, della tutela contro i licenziamenti , per come realizzata in Italia, con i valori
portanti e con lo stesso modo di essere del sindacato : la solidarietà tra i lavoratori e non soltanto
tra gli associati che si estrinseca pure nell’esercizio della attività sindacale in azienda senza timori
di rappresaglie e la protezione del singolo e della sua dignità di cittadino prima ancora che di
lavoratore nei confronti del potere di impresa.
Tutti gli interventi che intaccano quel nocciolo duro finiscono inevitabilmente per generare corto
circuiti. Per questo la difesa dell’art. 18 non può essere accostata ad altre battaglie storiche delle
OOSS, come per es., la difesa, rivelatasi poi inutile, della scala mobile, il cui superamento avvenne
consensualmente.
Questo non vuol dire che sull’art. 18 non si debba discutere e che tale discussione non possa
sfociare in proposte di modifiche su cui convogliare il consenso anche delle organizzazioni
sindacali. Occorrono, tuttavia, due presupposti. Il primo di metodo. Come sostenuto di recente da
Raffaele De Luca Tamajo, modifiche di questa portata richiedono una preparazione del terreno,
fatta di mediazione e accostamenti propedeutici alla proposta politica, cui deve seguire una
laboriosa opera di sondaggio e avvicinamento delle controparti, come è avvenuto in occasione dei
grandi accordi triangolari dall’82 in poi. Non a caso si è trattato di accordi segnati dal prezioso
4[4] A. Accornero, L’ultimo tabù, Laterza, Bari.
contribuito di mediazione sociale di personaggi del calibro di G. Giugni e M. D’Antona, che per
questo sono stati bersaglio del terrorismo.
Pure nel merito occorre che le proposte non vadano ad intaccare il nocciolo duro dell’art. 18 di
cui si è detto, così come avverrebbe con meccanismi che, nel medio periodo, finirebbero per
allargare a dismisura l’area della monetizzazione del licenziamento, accentuando per altro
dualismi regionali odiosi del nostro mercato del lavoro.
Occorre, per altro, considerare un dato saliente del nostro mercato del lavoro e della evoluzione
della disciplina che lo regola a partire dagli ultimi 20 anni.
Il problema che sino a qualche anno affliggeva l’impresa che intendeva liberarsi di un lavoratore
poco gradito perché non in linea con i propri programmi di incremento di produttività, erano le c.d.
situazioni liminari: il dipendente poco diligente ma non al punto tale da potere essere
giustificatamene licenziato e tuttavia non in linea con gli imperativi della adattabilità, disponibilità
che la competizione globale dei mercati sembrano imporre oggi alle aziende.
Questo problema può essere affrontato in due modi diversi: o a valle liberalizzando il potere di
licenziare, allentando cioè i vincoli e i controlli come avviene per es. in Gran Bretagna (non in
assoluto ma semplicemente allargando il periodo di tempo, a partire dall’assunzione, in cui il
lavoratore può essere licenziato senza vincolo alcuno: ma si sono posti problemi di adeguamento
di quel sistema agli standard comunitari). Ovvero, agendo a monte e non a valle del rapporto di
lavoro, valorizzando le risorse umane (incentivi, formazione, circoli di qualità ecc.). In funzione di
seconda questa opzione è accaduto che in Italia, ma non solo, è stata fortemente incentivata la
flessibilità in entrata : da tempo sono a disposizione delle imprese una serie di incentivi economici
e normativi (assunzioni nominative e non più numeriche, contratti a termine lunghi, contratti di
formazione, contratti di lavoro interinale, apprendistato, stage ecc.) che consentono alle imprese di
operare una selezione talmente accurata del personale, da riuscire ad ottenere quasi sempre una
forza lavoro fortemente motivata e coinvolta negli obiettivi di impresa; una situazione che di fatto
sdrammatizza la questione del licenziamento individuale, anche perché un po’ in tutta Europa si
vanno diffondendo modelli di relazioni industriali basati sulla partnership in cui le imprese tendono
a coinvolgere nei propri obiettivi di aumento della qualità e di maggiore competitività, i singoli
lavoratori, ma anche le loro rappresentanze e gli stessi sindacati.
Detto questo è opinione di chi scrive che ad interventi sull’articolo 18 si potrebbe por mano con
modifiche ispirate a quel riformismo, rigoroso e laborioso, che ha caratterizzato l’azione di
Massimo D’Antona nella fase del suo impegno operativo.
Soprattutto con l’incidere su quegli aspetti di vischiosità che nella pratica applicazione la norma
presenta e che sono spesso più di contesto che della regolazione in se considerata. Una effettiva
riforma del processo del lavoro allo scopo di accorciare (anche formalizzando corsie privilegiate)
gli eccessivi tempi di durata e l’incertezza del costo del licenziamento, riconsiderando pure una
seria riforma dell’arbitrato; uno snellimento delle procedure e una riduzione del costo del
licenziamento per ragioni economiche, sia di natura collettiva che individuale; una valorizzazione
della contrattazione collettiva per una più precisa definizione della genericità delle clausole
giustificative. Sono tutte acquisizioni perseguibili attraverso un riformismo razionale e consensuale
sicuramente più faticoso e difficile del metodo dell’intervento unilaterale.
Pare allora proprio questa l’attualità del pensiero di D’Antona sull’art. 18: nel suo nucleo essenziale
questa norma non riguarda le dinamiche del mercato del lavoro, ma i profili della preservazione
della dignità della persona nel luogo di lavoro, potenzialmente compromettibile dall’uso arbitrario
del potere di impresa. Ogni intervento del legislatore che ne metta in discussione l’ispirazione e la
funzione di norma di attuazione della Costituzione nei luoghi di lavoro non può che generare
resistenze. Il che non impedisce ad un riformismo serio e rigoroso di intervenire laddove nuove
esigenze del mercato del lavoro, impongano l’adeguamento,
la razionalizzazione e la
modernizzazione del sistema del diritto del lavoro. Senza alcun Tabù.
BC
15/04/2002