Aldo Moro e il Parlamento europeo

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Aldo Moro e il Parlamento europeo
Aldo Moro
e il Parlamento europeo
La vocazione federalista del popolo italiano
di Emo Sparisci
Le elezioni per i rappresentanti dei singoli Stati comunitari al Parlamento europeo inducono a riflettere sul determinante contributo
offerto dai vari governi italiani per giungere alla decisione di eleggere a suffragio universale i rappresentanti di ciascuna nazione.
Non a caso tale decisione politica fu adottata a Roma (dove in
precedenza nel 1957 era stato solennemente firmato il trattato istitutivo) durante il semestre della presidenza italiana, che, dopo
aver avviato l’esame del progetto di Convenzione approvato nel
gennaio 1975 dal Parlamento di Strasburgo, fu in grado di convocare, nella nostra capitale il 1-2 dicembre dello stesso anno, il
Consiglio europeo per deliberare che le elezioni per il Parlamento europeo si tenessero in una unica data, compresa nel periodo
maggio-giugno del 1978. Per giungere alla concreta attuazione di
quanto deciso, il successivo Consiglio europeo, tenutosi a Bruxelles il 13-23 luglio 1976, trattò dei problemi rimasti ancora in sospeso, tra cui la ripartizione dei seggi spettanti a ciascuno Stato e
approvò all’unanimità il testo di un accordo presentato poi alla
sessione del Consiglio delle Comunità, nel corso della quale i ministri degli Esteri di tutti gli Stati membri firmarono il 20 settembre 1976 l’«Atto relativo all’elezione dei rappresentanti nell’Assemblea a suffragio universale diretto», che sarebbe stato esecutivo e vincolante dopo la ratifica di tutti i Parlamenti nazionali.
In Italia il disegno di legge di approvazione ed esecuzione dell’Atto fu presentato alla Camera dei deputati il 25 novembre
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1976. L’on. Aldo Moro, anche per testimoniare quanto avesse a
cuore il positivo sviluppo e il consolidamento dell’istituzione comunitaria europea, volle esserne il relatore.
Se il suo ultimo intervento nell’aula di Montecitorio avvenne
dopo meno di quaranta giorni dal suo discorso conclusivo del dibattito su tale disegno di legge, quando nella seduta comune dei
rami del Parlamento del 9 marzo 1977 prese la parola durante la
discussione nella relazione della Commissione inquirente sul cosiddetto caso Lockheed per sostenere validamente l’estraneità di
Luigi Gui, inquisito nella sua qualità di ex ministro della Difesa, si
può constatare che la sua partecipazione come relatore fu l’ultima
espressione in sede parlamentare del suo pensiero su un tema di
grande rilevanza per la nostra politica estera. Ciò attribuisce un
prezioso significato a quanto Moro scrisse o disse con lucida acutezza di analisi, con lungimiranza di giudizio, testimoniando così
la sua determinazione di dare, per quanto gli era possibile, il proprio contributo per far progredire il processo di sviluppo dell’integrazione europea.
È di grande interesse rileggere oggi gli atti parlamentari della
Camera dei Deputati, che documentano i suoi interventi: il resoconto sommario del suo discorso del 17 gennaio, come relatore,
nella seduta in sede referente della commissione Affari Esteri; la
relazione presentata il 31 gennaio e infine il testo del suo discorso,
pronunciato, come già detto, il 15 febbraio al termine della discussione generale sulle linee del provvedimento.
Per ragione di brevità, si ritiene però opportuno riproporre qui
soltanto alcuni brani, tra i più significativi del suo intervento in aula.
Moro esordisce rilevando che «da questo dibattito emerge la
larghissima volontà del Parlamento italiano a favore del provvedimento in esame e quindi della effettuazione, nel 1978, delle elezioni dirette per il Parlamento europeo» e come uomo di dialogo
così precisa: «Non mi permetto di sottovalutare il fatto che i colleghi di democrazia proletaria votino contro, ma è assai importante che tutte le altre parti politiche si trovino concordi nell’accettare il principio delle elezioni dirette e nell’esprimere la loro volontà
di costruire un’Europa unita. Ciò non vuol dire, naturalmente,
che tutti pensiamo le stesse cose, né che tutti concepiamo l’Europa allo stesso modo. Credo anzi che nessuno abbia inteso rinunciare alle naturali differenze che sono tra di noi e delle quali si alimenta e si arricchisce il dibattito democratico. Credo altresì che
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ciascuno di noi pensi di portare domani, nella realtà europea, la
propria posizione, di dare – in conformità alle sue tradizioni – il
proprio rilevante contributo al dibattito politico».
Poi aggiunge: «È importante che siamo concordi nel ritenere
che l’Europa sia necessariamente il luogo nel quale il dibattito politico dovrà svilupparsi; il luogo nel quale trasferire le nostre opinioni ed i nostri confronti» e quindi: «In Italia, a differenza di altri paesi, siamo tutti – o quasi tutti – solidali sull’opportunità di
far progredire l’integrazione europea [...] ma vi è in sostanza da
noi, pur nella permanente diversità delle nostre posizioni, un sostanziale accordo per essere europei, per ritenere che questo è il
nostro destino. Vi è una vocazione europea connaturale al popolo
italiano. Credo si debba sottolineare (non so in quale misura, ma
certamente in larga misura) che nelle aspirazioni italiane sull’Europa vi è una autentica vocazione federalista». Egli, rivendicandone l’efficacia, così definisce la linea seguita dall’Italia, linea che
corrisponde pienamente alla sua visione politica e al suo modo di
operare da autentico e lungimirante riformista: «L’Italia non ha
mai voluto forzare le cose. Ferma nel suo intendimento, nel suo
proposito politico, ha però sempre cercato di raccogliere i consensi, così come essi potevano essere raccolti e di realizzare, a mano a mano, le tappe che era possibile raggiungere. È stato un cammino lungo e difficile [...] abbiamo voluto esercitare influenza – e
vi siamo riusciti – perché si giungesse a decisioni veramente significative, cioè a decisioni comuni. Questo è l’esempio del modo
fermo e pur duttile con il quale abbiamo affrontato il grande tema
della unificazione nel corso di questi decenni. Tra queste tappe
importanti che noi abbiamo voluto raggiungere, desidero ricordare quelle inerenti all’argomento della Comunità».
Moro, senza ignorare le difficoltà che si sono incontrate e
che certamente si incontreranno per affrontare e risolvere il problema dell’argomento della Comunità, afferma che «tali difficoltà – certo reali – non debbono impedirci di dare vera compiutezza all’Europa». A proposito della Gran Bretagna, così definisce la politica seguita dai nostri governi: «L’Italia su questo
punto si è battuta fortemente, perché ha ritenuto che un’Europa
senza la Gran Bretagna soprattutto e anche senza gli altri paesi
poi entrati a farne parte, sarebbe stata un’Europa in qualche misura mutilata».
In merito alla progettata aggregazione della Spagna, del Por-
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togallo e della Grecia, che poneva certamente rilevanti problematiche economiche, egli così si esprime: «Ci sembrerebbe incompiuta la democratizzazione già realizzata o in corso in questi paesi, se essa non avesse il suo corollario in un ulteriore allargamento,
questa volta, verso l’area mediterranea della Comunità, allargamento che oltre tutto serve a riequilibrare una CEE che altrimenti sarebbe, con danno politico dell’Italia ed anche danno politico
generale, squilibrata verso il nord Europa; allargamento verso l’area del Mediterraneo, in direzione di questi paesi ai quali vogliamo e dobbiamo collegarci in una superiore integrazione (parlo soprattutto dell’Africa)».
Sulla politica europea svolta dall’Italia così si esprime: «Vorrei dare per parte mia un giudizio equilibrato, essendo stato nel
corso di molti anni, come Presidente del Consiglio e come ministro degli Esteri, nel pieno dell’esperienza comunitaria. Vorrei dare, dicevo, un giudizio equilibrato e sostanzialmente positivo. Naturalmente sappiamo bene che vi sono altre, molte altre, mete da
raggiungere. Ma credo che non sarebbe giusto – tenendo conto
soprattutto delle difficoltà, delle disparità di vedute, della unanimità da raggiungere – non rilevare i progressi che, qualche volta
silenziosamente, sono stati realizzati nel corso di questi anni».
Successivamente, trattando delle mete da raggiungere e dei
«rapporti dell’Europa unita, di questo embrione di Europa unita,
con il resto del mondo», si sofferma sui nostri rapporti nei confronti degli Stati Uniti d’America, indicando la linea a cui attenersi con coerenza e chiarezza: «Non abbiamo difficoltà a dire che
noi intendiamo riconfermare la nostra autonomia, la nostra originalità, e dare maggior peso all’Europa in quanto unita, nei rapporti, che debbono essere fiduciosi ma equilibrati, tra l’Europa e
gli Stati Uniti d’America».
Poi continua: «Né abbiamo mai dimenticato i nostri rapporti
con i paesi dell’est europeo, perché il nostro disegno è stato di distensione politica, alla quale abbiamo dato il nostro contributo,
come Italia e come Europa, nel corso di questi anni.
Siamo stati fautori e protagonisti attivi, fino alla firma del trattato, della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Sappiamo quindi che esiste un’Europa che va al di là dei confini dell’Europa occidentale; e con questa Europa, secondo le indicazioni di Helsinki, vogliamo collaborare, in uno spirito sincero
di distensione e di intesa».
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E infine: «Vi sono poi i nostri rapporti con i paesi del terzo
mondo, nei confronti dei quali la Comunità non è stata certo l’ultima né la meno generosa nello stabilire dei rapporti costruttivi,
come dimostrano le due convenzioni che abbiamo stipulato. Sappiamo bene che non si esaurisce in questo la politica europea nei
confronti del terzo mondo, che è oggi un fatto dominante della
scena mondiale. Essendo un fatto dominante, siamo convinti che
sia possibile e realistico affrontare questo problema non come singoli paesi (non ne avremmo la forza né la capacità), ma soltanto
nel contesto dell’unità europea. Europa unita vuol dire un rapporto costruttivo con i paesi del terzo mondo e un contributo notevole all’avviare a soluzione questo problema fondamentale e
drammatico della nostra epoca».
Al termine del suo intervento Moro fa un «accenno» agli emigrati italiani «che, in un certo senso, sono diventati cittadini europei prima di noi, perché hanno fatto la loro esperienza nella madre patria ed in altri paesi della Comunità». A «questi nostri concittadini, che hanno dovuto affrontare grandi difficoltà anche di
adattamento va la nostra profonda solidarietà», nella speranza
«che essi possano veramente dire di aver trovato una patria europea». Queste le sue parole conclusive: «Vorrei concludere dicendo che c’è un domani importante dinanzi a noi e che noi ci apprestiamo a viverlo con piena consapevolezza. Esso è il passaggio da
una fase nazionale ad una fase autenticamente comunitaria ed
unitaria nel nostro continente».
Oggi che il cammino verso la piena integrazione europea, se
ha fatto dei positivi passi in avanti, è ancora lontano dal traguardo
da raggiungere, la concezione politica e il modo fermo, ma duttile, suggerito e praticato da Aldo Moro, appaiono un utile punto di
riferimento e di orientamento sia per svolgere efficacemente una
politica verso il Terzo Mondo, politica da lui definita «un fatto determinante della scena mondiale e problema fondamentale e
drammatico della nostra epoca», sia per condurre con successo –
si riportano nuovamente le parole pronunciate al termine del suo
discorso – «il passaggio da una fase nazionale ad una fase autenticamente comunitaria ed unitaria del nostro continente».
Emo Sparisci