La montanina e i suoi lettori

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La montanina e i suoi lettori
LA MONTANINA E I SUOI LETTORI
ENRICO FENZI
L’ultima canzone di Dante – ultima nel tempo e ultima entro quello
che si comincia a chiamare ‘libro delle rime’1 – ha goduto e tuttavia gode
di un’attenzione che ha infittito il numero delle pagine che le sono state
dedicate e ne fa, con le ‘petrose’ una delle liriche di Dante di gran lunga
più studiate. Non a caso, va detto, perché il testo, specie se considerato insieme all’epistola latina con la quale Dante l’ha accompagnato inviandolo
a Moroello Malaspina di Giovagallo2, suscita molte perplessità, distribuite
su piani diversi e difficilmente conciliabili. Tra molti altri anch’io me ne
sono occupato, non troppo tempo fa3, e mi permetto di ricordarlo sùbito
per puntualizzare due cose: la prima che, per non ripetermi, dovrò spesso
rinviare a quanto ho già scritto e dare per scontate molte cose, mie come
di altri, e parte della bibliografia; la seconda che, tornando sull’argomento,
non ho nuove certezze (nuovi dubbi, semmai), il che fa sì che questo ulteriore intervento suoni come un vero e proprio passo indietro, inteso a ritrovare attraverso contributi anche vecchi il filo delle questioni che
nonostante tutto ancora ci intrigano e ci fanno discutere (e di tali discussioni l’ultimo incontro del ‘gruppo Tenzone’ nel pirenaico paese di Setcases è stato focosa palestra).
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1. La canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, la montanina
come Dante medesimo la chiama nel primo verso del congedo (75: «O
montanina mia canzon …»), nella quale il poeta si descrive come prigioniero di un nuovo e tirannico amore la si dà ormai concordemente composta negli anni 1307-1308, appena dopo il trasferimento di Dante dalla
corte dei Malaspina, in Lunigiana, al Casentino dei conti Guidi. Al Casentino sembrano infatti alludere con certezza i vv. 61-63: «Così m’ha’ concio, Amore, in mezzo l’Alpi, / nella valle del fiume / lungo ‘l qual sempre
sopra me sé forte», e la lettera, di poco posteriore, là dove essa fissa «iuxta
Sarni fluenta» il luogo della nuova e improvvisa folgorazione amorosa
che gli impedisce di tornare presso i Malaspina. Qui cade opportuno citare
per esteso la testimonianza del Boccaccio, che compare nella seconda redazione del Trattatello in laude di Dante, §§ 35-36, alla quale in una maniera o nell’altra tutti si rifanno:
[35] Né fu solo da questo amor passionato il nostro poeta [quello per Beatrice], anzi, inchinevole molto a questo accidente, per altri obietti in più
matura età troviam lui sovente aver sospirato; e massimamente dopo il
suo esilio, dimorando in Lucca, per una giovine, la quale egli nomina Pargoletta. E oltre a ciò, vicino allo stremo della sua vita, nell’alpi di Casentino per una alpigina, la quale, se mentito non m’è, quantunque bel viso
avesse, era gozzuta. E, per qualunque fu l’una di queste, compose più e
più laudevoli cose in rima. [36] Agro e valido nemico degli studii è amore,
come veramente testificar può ciascuno che a tal passione è soggiaciuto;
perciò che, poi che con lusinghevole speranza ha tutta la mente occupata
di chi nel principio non l’ha con forte resistenza scacciato, niun pensiero,
niuna meditazione, niuno appetito in quella patisce che stea se non quelle
sole, le quali esso medesimo vi reca; e chenti queste sieno e come contrarie allo specular filosofico o alle poetiche invenzioni, sì manifesto mi pare,
che superfluo estimo sarebbe il metterci tempo a più chiarirlo4.
Alcune cose non tornano in questo racconto, a cominciare dallo schema
che in buona sostanza fa successive all’esilio le rime amorose non riferibili a Beatrice, e che confina addirittura «allo stremo della sua vita» la
passione per l’alpigiana. In questa sede non è però il caso di analizzare più
da vicino le parole di Boccaccio, fitte di richiami alla topica amorosa: si
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osservi la pregnanza di quella definizione del fenomeno amoroso come
accidente; la sua natura «che ‘ntender no· lla può chi no· lla prova» (Tanto
gentile 11); la forza incontrollabile che l’amore assume se non lo si blocca
sin dall’inizio … Né vorrei insistere come altri ha fatto sul gozzo quale
paradossale elemento di bellezza e scudo contro i dardi d’Amore5 (nella
canzone, vv. 72-74: «… non cura colpo di tuo strale: / fatt’ha d’orgoglio
al petto schermo tale, / ch’ogni saetta lì spunta suo corso), se non per notare come le parole di Boccaccio s’oppongano a questa deriva interpretativa: l’alpigiana aveva un bel viso, ma era gozzuta … Osserverei piuttosto
che sembra avere ragione Paola Allegretti quando scrive che i due paragrafi, nella loro consecuzione, non possono non far pensare al dittico
costituito dalla canzone e dall’epistola, alla quale il § 36 sembra rimandare6. E ancora, che resta in ogni caso importante che Boccaccio leghi la
canzone a un episodio reale, sì ch’egli si pone all’origine della lunga e
tuttavia verdissima tradizione che considera la canzone e la lettera come
testimonianze di una passione che, almeno per un momento, ha travolto
Dante e ne ha messo in crisi l’opera.
Così, già ci troviamo dinanzi a un nodo di problemi più delicato di quel
che forse non paia a prima vista. Tornando ai due testi, ancora in via preliminare riusciamo a constatare che combinando quanto dice la lettera
con quanto afferma il congedo della canzone risulta, almeno a prima vista,
che Dante folgorato d’amore rilascia una sorta di doppio congedo: nella
canzone, congedo da Firenze alla quale non riuscirebbe e non vorrebbe
tornare neppure se gli fosse revocato l’esilio, e congedo dal Malaspina,
appunto, nella lettera. Non basta, ché in verità il congedo sarebbe addirittura triplice, seppur ora di tutt’altra natura, visto che, nella lettera, questa
improvvisa e travolgente fiammata d’amore avrebbe costretto Dante ad
abbandonare le meditationes assiduas attraverso le quali s’era impegnato
a considerare le cose del cielo e della terra: le opere sue più serie e impegnative, dunque, alternativamente identificate ora nel Convivio, ora nella
Commedia, e avrebbe per contro stroncato l’onesto proposito di astenersi
dalla poesia d’amore (e la canzone testimonia in re, appunto, dell’avvenuta infrazione d’una tanto lodevole decisione).
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Questo repentino innamoramento si carica così di valenze eccezionali,
perché fuoriesce in modo vistoso dall’àmbito tematico delle convenzioni
e variazioni amorose per investire l’intero complesso delle concrete scelte
di vita e di studio in quei difficili anni d’esilio, e giustifica appieno il
lungo tormentone degli interpreti, da sempre impegnati a ricondurre il
tutto entro parametri coerenti. Che razza d’amore è, insomma, quello che
Dante invoca per sancire il distacco dall’amatissima Firenze e accettare
l’esilio? E quello che lo induce a prendere commiato (riguardoso e gentile quant’altri mai, ma pur sempre un commiato) dai Malaspina, per i
quali proprio nell’ottobre 1306 egli era stato procuratore di pace presso
il vescovo di Luni, sì da farci immaginare che gli si aprisse almeno la
possibilità di un onorevole futuro da segretario-ambasciatore?7 E quello,
infine, che incide in modo così radicale sui suoi programmi di scrittore e
poeta (quali che siano: la discussione in merito è aperta, come vedremo)?
Per rispondere in maniera adeguata, occorre sospettare sensi riposti e allusioni di tipo latamente biografico-politico, o addirittura allegorici? Oppure è sufficiente credere alla forza di una reale quanto inattesa esperienza
passionale? Oppure dobbiamo ridurre il tutto nell’àmbito delle istituzioni e variazioni del linguaggio amoroso, liberando quelle dichiarazioni
da responsabilità che non possono sostenere?
Naturalmente, a fronte di questo affatto sommario e ancora impreciso
riassunto, le cose continuano ad essere assai più complicate. Ho appena
detto che sulla data c’è oggi un accordo di massima: è vero, ma Colin
Hardie in un ottimo saggio del 1960 ch’è sempre utile leggere8 tornava
all’idea di Torraca per il quale la canzone sarebbe stata scritta nel 13111312, e la rimpianta curia nominata nella lettera, dalla quale Dante è al
momento separato, sarebbe quella di Arrigo VII9. Accordo c’è anche sul
destinatario, Moroello Malaspina di Giovagallo, ma in passato se n’è dubitato, e non senza motivo. Adolfo Bartoli scriveva nel 1881, a proposito
della lettera:
Strana lettera invero! Dante esule, condannato, tutto involto nelle sventure
sue e del suo partito, dopo i falliti tentativi del 1304, dopo la caduta di Pistoia in mano ai neri (1306), poteva dunque ancora occuparsi di cose amo-
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rose, e scriverne con sì acceso entusiasmo? E scriverne poi a chi? A Moroello, al nemico d’ieri, ad uno dei capi della parte avversaria? Ben qui
davvero altri avrebbe ragione di meravigliarsi che […] scegliesse per questi
sfoghi, più propri dei venti che dei quarantaquattro anni, quel Nero, che
spezzerà la nebbia
sì ch’ogni Bianco ne sarà feruto.
Sia pure, come vuole il Witte, che dopo il 1307 potessero cambiare le relazioni tra Dante e il Malaspina; resterà sempre inesplicabile il fatto che
di una debolezza di cuore, di un accecamento della ragione, e sia pur momentaneo, l’Alighieri desse parte proprio ad uno che era stato della fazione a lui nemica, ecc.10
Ripeto che della data e del destinatario oggi si è ragionevolmente certi,
ma ben traspare dalle parole appena citate come più questioni si incatenino
l’una all’altra, e come su tutte incomba quella che in un modo o nell’altro
le colora di sé: quella relativa, appunto, alla natura e alle circostanze di
quell’amore. E ancora Bartoli, che nella storia critica della montanina sta
a uno snodo centrale anche per lo stretto legame istituito tra la canzone e
la lettera, allora per nulla pacifico11, ricava proprio da quel fascio di perplessità e curiosità lo spunto per azzardare un’interpretazione allegorica
della canzone. Partendo dalle parole di molti anni prima dell’abate veronese Giovanni Jacopo Dionisi («se qui si trattasse di lascivo amore, troppo
imprudente sarebbe stato l’autore a mostrarsi impedito in faccia de’ suoi
cittadini; e privo affatto di senno e’ si sarebbe scoperto in dirsi tanto preso
d’un’alpigiana gozzuta, che se anche egli fosse richiamato alla patria, non
potesse rompersi le catene a tornarvi»)12, egli infatti allarga il discorso e
dopo aver denunciato la difficoltà di fare di Moroello il destinatario della
lettera, e la stranezza dell’aver mandato a Firenze «la canzone che conteneva i suoi spasimi erotici per una villana delle Alpi», e dopo aver ricordato che proprio negli anni 1306-1308 Dante stava attendendo al Convivio
scritto per parare l’accusa d’infamia per essersi innamorato d’altre donne
oltre che di Beatrice, e aver sottolineato che di tutto questo terribile e imperioso amore che gli avrebbe cambiato la vita nulla si sa e «tutto finisce
poi lì»: dopo tutto questo, egli dichiara di non meravigliarsi affatto di un
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qualche amore di Dante, anche per una gozzuta, ma «meraviglia mi fa
ch’egli abbia voluto così divulgarlo; meraviglia indicibile, che abbia propriamente scritta quella lettera ad un Malaspina, e a Firenze indirizzata
quella poesia»13. Onde infine con molte cautele suggerisce:
Ma supponete che Dante, memore d’uno scrittore latino a lui noto, abbia
finto che sulle rive dell’Arno gli sia apparso il fantasma di Firenze, come
il fantasma di Roma fece apparire Lucano a Cesare sulle rive del Rubicone. Io non intendo qui di fare che una mera supposizione; non intendo
che di mettere avanti una ipotesi, la quale può essere a piacere accolta e
rigettata. Però con questa ipotesi, dico, ed epistola e canzone acquistano
un nuovo significato ecc.14
Il rimando a Lucano, Phars. I 185 ss. («Ubi ventum est parvi Rubiconis
ad undas, / ingens visa duci patriae trepisantis imago / claram per obscuram vultu maestissimam noctem / turrigero canos effundens vertice crines
/ caearie lacera nudisque astare lacertis», ecc.) resta senz’altro una bella
mossa, anche se le corrispondenze appaiono in verità assai deboli e concentrate sull’epistola piuttosto che nella canzone, tematicamente estranea
al tema dell’apparizione: ma è l’idea stessa che nell’apparizione della
donna possa essere adombrata quella di Firenze che pare insostenibile,
non fosse che per il contrasto che ne nasce (altri l’hanno già osservato)
con il congedo, nel quale il potere che la figura femminile esercita sul
poeta è precisamente contrapposto al richiamo esercitato dalla città15. Non
è tuttavia questo il punto che mi interessa discutere, quanto il fatto che
Bartoli avanza la sua timida ipotesi solo per poter sistemare in un quadro
il meno contraddittorio possibile tutti gli elementi che canzone ed epistola
insieme ci offrono. Che non ci sia riuscito è altro discorso, ma questa, mi
sento di dire, è la vera posta in gioco, ed è attorno ad essa che si sono accumulati i tentativi dei quali quello di Bartoli è un precoce e bell’esempio:
tentativi che ancora durano e che non serve esorcizzare o ridicolizzare da
una parte o dall’altra – da quella degli antiallegoristi avversi alle astrusità
e alle forzature degli altri, a loro volta sconcertati dalla grossolana banalità
della spiegazione letterale (che si biforca anch’essa, vedremo, in direzioni
divergenti). Come diceva saggiamente Petrarca, nell’interpretazione dei
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testi «ingeniorum infinita dissimilitudo est, nullus autem qui novorum
dogmatum castiget audaciam, et res ipsas tales que multos ac varios capiant intellectus» (Sen. IV 5), e poiché nessuno è tale poliziotto da proibire
le idee altrui, converrà piuttosto riflettere sul fatto in sé rilevante che canzone ed epistola continueranno ad alimentare, come sempre hanno fatto,
ipotesi diverse. Che in ogni caso conservano traccia, però, di quel comune
e difficile punto di partenza. Che significa tutto ciò, se torniamo al caso
concreto? Con inevitabili approssimazioni, significa che le varie letture
hanno mirato alla soluzione per vie diverse ma in gran parte convergenti
rispetto al fine comune: c’è chi ha estremizzato la forza della passione
dalla quale Dante dice d’essere stato soggiogato per meglio legittimarne
le conseguenze, a partire dalla soggettiva e dichiarata indisponibilità a
tornare a Firenze per arrivare sino allo sconvolgimento subìto dai suoi
programmi di lavoro; c’è chi, per contro, ha indebolito o addirittura cancellato la realtà di quella medesima passione riportandola alle convenzioni
del linguaggio amoroso e addirittura a un atto di omaggio cortigiano, sì
da indebolire sino all’irrilevanza quelle medesime conseguenze, ridotte ad
astratte estremizzazioni; c’è, infine, chi ha immaginato un significato allegorico onnicomprensivo, salvo poi dividersi nel momento di individuarlo in maniera univoca. Brevissimamente e solo per esempi vorrei ora
considerare questi diversi approcci, partendo da quello che diremmo, per
capirci, di tipo ‘riduttivo’ (senza che ciò implichi la minima connotazione
negativa: si faccia caso ai nomi degli studiosio citati …): riduttivo, cioè,
rispetto al supposto dato biografico di un Dante vittima di una sconvolgente passione amorosa capace di allontanarlo dalle sue opere maggiori
e di far passare in seconda linea il suo amore per Firenze.
2. Ho sopra ricordato, in nota, come Zingarelli avesse insistito a lungo
nel negare l’autenticità dell’epistola: ebbene, ciò è coerente con il fatto
che nel primo Dante e nel saggio appena successivo sulle Rime nella Lectura Dantis delle opere minori, del 1906, egli giudicasse mera galanteria
di poeta di corte la canzone, sorta di omaggio trovadorico a qualche signora della famiglia dei conti Guidi, forse parente di Guido Salvatico di
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Pratovecchio16. Il medesimo Zingarelli, vedremo meglio, nel secondo
Dante, del 1931, muterà opinione e darà un notevole avallo all’interpretazione allegorica, ma nella linea dei suoi primi giudizi sta Contini che,
lasciando le azzardate ipotesi cronachistiche, li sviluppa a modo suo nella
famosa edizione delle Rime del 1939 (in seconda edizione riveduta e aumentata nel 1946), rilasciando alla fine dell’Introduzione una severa diagnosi che diventa un giudizio generale sul corpus delle rime dantesche:
E addirittura non questioni d’atelier, ma di vecchie e lievemente neghittose convenzioni, presenta la montanina: che da un lato denunzia indubbiamente l’esperienza petrosa (ma conviene non esagerare: essa è
irrigidita nel suo contenuto o ‘motivo’; e fecondità linguistica trova solo
nell’apertura della quinta stanza, Così m’hai concio, Amore …); e pure ci
ripiomba, per una larga zona e per il tono complessivo, a un sicilianeggiare sprovvisto degli antichi meriti d’ingenuità (dipintura dell’immagine,
distinzione di donna e immagine). Così il conflitto delle cronologie si fa
indizio perentorio della crisi fondamentale delle Rime, quand’esse stanno
(non indarno) per cessare. Uno dei più acuti ordinatori ideali di esse,
senz’altro il più elegante, Ferdinando Neri, dichiara: “Questa canzone è
un problema che anch’io rinunzio a spiegarmi: v’è dell’amor cortese,
qualche mossa ciniana, qualche altra ‘pietrosa’”. Di là dall’aneddoto, il
‘problema’ è quello stesso generale dell’insufficienza del Canzoniere a
giustificare se stesso, dell’inesplicabilità iuxta propria principia. La montanina è la sola lirica di Dante a cui si riesca ad assicurare una data relativamente tarda, ed è su una linea involutiva, quasi d’errore,
e parlando nel ‘cappello’ di una canzone non priva «di convenzioni curiali
e siciliane», di «psicologismo analitico» e «tecnicismo verbale», e concludendo infine che essa «è un opus oratorium maxime, il cui centro è un
Amore fatto espediente di discorso […], fonte di lunghi considerandi,
d’interrogazioni retoriche e d’invocazioni». Tale impostazione è sostanzialmente riaffermata da Maggini nella sua lettura del 1956, piena di buon
senso: forse troppo, onde riesce importante più per la parte negativa, là
dove contesta la datazione di Torraca o le interpretazioni allegoriche di
Pascoli e Ricolfi e i suggerimenti in tal senso di Zingarelli, che per la positiva, che riduce la canzone a una sorta di esercizio letterario17. Sulla scia
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dichiarata di Contini, e con particolare finezza, sta il commento di Foster
e Boyde, che tende a farne un componimento ‘a tesi’, quasi una canzone
teorica basata su una sorta di exemplum fictum: «is so evident that it can
easily be read as a piece written to a thesis, written to expound and display
an idea of love, more precisely of carnal love, the folle amore rayed down
by the planet Venus as we read in Par. VIII 1-3»18. Ma una fitta ripresa di
tanti elementi già visti è ancora nel grande commento di Barbi e Pernicone, del 1969, che nel ‘cappello’ scrivono:
in quel periodo di esilio intorno ai cinque anni che precede il tempo in cui
fu composta la canzone Amor da che convien, l’attività poetica di Dante
è impegnata solo su temi morali, come nelle due canzoni Tre donne e Doglia mi reca, mentre in prosa volgare, col Convivio, e in prosa latina, col
De vulgari eloquentia, ha intrappreso opere di grande impegno dottrinale
nel campo morale e filosofico e in quello dell’arte poetica. Vogliamo dire
che la composizione di Amor da che convien nel 1307 s’inserisce solo
marginalmente e provvisoriamente (non ha avuto, infatti, alcun seguito)
in quel periodo della vita di Dante, segnato dalle ferite ancora vive dell’esilio, e impegnato in opere che richiedevano l’assidua meditazione sui
problemi delle cose celesti e terrestri,
e che aggiungono, a proposito del congedo:
Più credibile [rispetto a quella che la donna rappresenti Firenze] è l’ipotesi che nel congedo ci sia un omaggio di alta cortigianeria verso i suoi
ospiti del Casentino, ipotesi che ben si concilia con l’altra che tutta la canzone sia un omaggio ad una nobildonna dei conti Guidi19.
E a ciò resta sostanzialmente anche Capovilla, che però non si nasconde
la difficoltà di combinare tutti gli elementi in un quadro pienamente convincente, e conclude che ancora troppo ci sfugge:
Resta, quale dato oggettivo concernente il piano storico-letterario, il sensibile scarto in direzione manieristica e arcaicizzante impresso da Dante
alla propria scrittura lirica in un’occasione fortemente determinata da fattori circostanziali: fattori forse accettati come definitivi dal poeta, ormai
confinato da anni ai margini della Toscana comunale […] In altri termini
il convenzionalismo, la mescidanza delle componenti e la stessa rigidezza
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con cui queste vengono trattate riflettono direttamente l’occasionalità del
testo, la sua destinazione cortigiana e il connesso tipo di fruizione (naturalmente portato ad apprezzare il tradizionalismo sul saggismo, la rielaborazione – magari enfatizzata – del già cògnito rispetto a sperimentazioni
come quelle liberamente sviluppatesi in seno al milieu borghese)20.
Questa posizione, che lega la diagnosi sui fatti stilistici al fondo storicobiografico e però taglia via ogni concessione a una supposta realtà passionale, ha avuto poi un inedito sviluppo in uno dei migliori saggi sulla
canzone, quello di Gorni21. Il quale scrive che Amor da che convien «potrebbe essere una specie di falso d’autore – forse una vecchia canzone
d’amore, recuperata durante l’esilio a fini allegorici non evidenti, e come
tale spacciata a Moroello e provocatoriamente indirizzata alla città: in tal
caso, solo il congedo sarebbe degli anni dell’esilio». L’ipotesi, che assai
difficilmente potrà essere provata, è stata accolta dalla Allegretti e non
pregiudizialmente respinta da De Robertis per il quale «epistola e congedo
risultano incompatibili tra loro» (ma che alla fine sembra convinto che la
canzone intera risalga agli anni ai quali normalmente è assegnata)22. Essa
però, nel momento in cui fa della canzone una sorta di curioso pastiche e
apre alla possibilità di una successiva e per altro assai vaga sovrapposizione di tipo allegorico (nel commentarla, Foster e Boyde si lasciano andare a un: «It is a curious poem», e «assai strana» appare a Gorni), ne
smonta con ogni evidenza la rilevanza direttamente biografica per non
dire addirittura passionale: semmai, torna a puntare il dito su un irrisolto
nodo di questioni e ce lo rimette sotto gli occhi in forma efficacemente
provocatoria.
3. Che si definisca la canzone come un intellettualistico componimento
‘a tesi’ o come un convenzionale omaggio cortigiano, certo se ne deprime
– torno a dire – il valore di testimonianza che essa, insieme alla lettera, ci
offrirebbe circa un reale episodio vissuto da Dante in quegli anni – 13071308 – nel passaggio dalla Lunigiana al Casentino23. Ma la lettura in chiave
immediatamente biografica ha però avuto una lunga schiera di sostenitori
e oggi è tornata a godere di particolare favore. Che la canzone fosse per
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una bella casentinese giudicava Gianbattista Giuliani, nel 186324, e nello
stesso anno le dedicava una lunga Dissertazione Panfilo Serafini, cercando di dimostrare che, insieme a molte altre liriche, era stata scritta per
amore di Gentucca degli Antelminelli, la donna lucchese nominata da Bonagiunta, nel Purgatorio25. Alla casentinese si ferma Carducci, nel 186526,
ma è soprattutto Antonio Santi, nella lunga introduzione alla sua edizione
del Canzoniere, che fa della Pietra, della pargoletta, della casentinese e di
Violetta una sola donna amata da Dante durante l’esilio, e che accentua
in particolare l’elemento genuinamente passionale che avrebbe animato
tale amore27. E di là dall’azzardata unificazione, il dato di fondo di una
reale esperienza amorosa si è affermato e via via consolidato anche perché, per quanto si abbia avuto cura di staccare la donna del Casentino
dalla Petra, la canzone ha continuato a vivere nell’alone delle ‘petrose’,
quasi una ‘petrosa’ tarda e fuori tempo (anche se da tempo la tradizione
critica ha semmai giustamente riconosciuto la pertinenza della montanina
al momento cavalcantiano dell’amor doloroso rappresentato soprattutto da
E’ m’incresce di me). Così, per Mattalia si tratta di un amore cupo e violento (la sua versione è in ogni caso fine e attenta, ben degna dell’alto livello del suo commento)28, mentre Renucci dà per certo l’innamoramento
del poeta: «Au lieu de son nouveau séjour, qui fut le Casentino, partie supérieure de la vallée de l’Arno, il s’éprit d’une jeune femme et écrivit à
cette occasion une canzone (Amor, da che convien pur ch’io mi doglia) qui
est comme l’épigone des petrose auxquelles on l’a, du reste, longtemps
rattaché»29. In questo quadro si muove anche Picone, che ha pure cercato
di dare un senso a quello che ancora si credeva l’ordinamento di Boccaccio e di spiegare in esso il posto della montanina30, e che ha finito per
parlare di Dante che, prigioniero di una passione amorosa esclusiva e tirannica, ritrova accenti cavalcantiani e, con la Allegretti, della donna
montanina come anti-Beatrice31. Di Dante quarantenne innamorato parlano infine Carpi, con bella vena polemica:
continuo a leggere canzone e lettera d’accompagnamento per quel che c’è
scritto, cioè “in chiave di passionale erotismo”; e soprattutto continuo a
non trovare affatto imbarazzante che Dante, per quanto quarantenne,
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esule, postpetroso e cantor rectitudinis, potesse innamorarsi non riamato
in Casentino evidentemente d’una domina di quei castelli, venirne ispirato
ad una canzone fra l’altro la più incontrovertibile dal punto di vista tematico e del contesto biografico-ambientale, ‘congedarla’ con un cenno –
per null’affatto un invio! – a Firenze, inviarla – per null’affatto dedicarla!
– a Moroello con una lettera d’accompagnamento la più coerente coi rapporti personali e culturali istituiti con la corte Malaspina32,
e Natascia Tonelli, che aggiunge di rincalzo:
De Robertis saggiamente non indulge alle tentazioni allegoriche […] che
da più parti, ed autorevoli, piovono su Amor, da che convien […] vivaddio, anche un uomo di quarant’anni potrà pur innamorarsi! E senza che
questo infici quel che fin lì ha fatto o detto e quel che scriverà,
riassumendo così circa la posizione della canzone quale ultima della serie:
Canzone 15, Amor, da che convien. Amore-passione incontrollabile che
si riconnette a 1 [Così nel mio parlar], e anche a 11 [Poscia ch’Amor]:
Amore di nuovo gli ha fatto grazia di sé. Non ci sono più donne, non
donna, nessuno. Condizione d’esilio cui non si vuole rinunciare in virtù
della vicinanza all’oggetto d’amore. La resa è totale e senza condizioni:
sul fronte del destinatario assente, sul fronte dell’esilio, con la donna che
scompare dietro i fantasmi d’amore suscitati, resa che è soprattutto della
ragione definitivamente sconfitta. Soccombe, in fine, all’asprezza di
donna e Amore enunciati in sul principio della serie»33.
4. Si potrebbero citare altri pronunciamenti di tal genere, tutti importanti perché espressi da lettori che hanno maturato una visione ricca e
complessa del percorso lirico di Dante34, ma a questo punto si dovrà piuttosto sottolineare che in ogni caso non sembra si possa schivare la responsabilità di rendere espliciti e magari sciogliere i nodi che la canzone e
l’epistola insieme continuano a presentare: responsabilità tanto più evidente nell’àmbito delle scelte interpretative che per comodità diremmo
‘realistiche’, quali quelle che sin qui ho ricordato. Ora, chi per primo ha
organicamente risposto a questa esigenza e con ciò ha posto le basi delle
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più moderne soluzioni di Giorgio Padoan ed Emilio Pasquini è stato senza
dubbio Giovanni Ferretti, nel suo un tempo noto volume I due tempi della
composizione della Divina Commedia35.
Punto di partenza dello studioso è la vicenda raccontata da Boccaccio:
Andrea di Leone Poggi (o ser Dino Perini: Boccaccio non sa chi dei due)
avrebbe ritrovato circa cinque anni dopo l’esilio di Dante, dunque nel
1307, in casa di Gemma Donati, lo scartafaccio dei primi sette canti dell’Inferno, dei quali avrebbe riconosciuto il valore Dino Frescobaldi che,
dopo una breve indagine, lo fece avere a Moroello perché lo facesse riavere a Dante, allora presso di lui36. Spinto dal marchese, Dante avrebbe ripreso con gran lena il lavoro, ma ecco, aggiunge Ferretti, che nell’epistola
egli confessa come un nuovo violento amore l’avesse catturato costringendolo ‘empiamente’ a venir meno all’impegno preso:
inviando a Moroello una canzone d’amore, Amor, da che convien pur
ch’io mi doglia, Dante, nell’epistola racconta, e si scusa, d’esser rimasto
impensatamente invescato, «iuxta Sarni fluenta», nelle panie del dio «terribilis et imperiosus». «Occidit propositum illum laudabile quo a mulieribus suisque cantibus abstinebam; ac meditationes assiduas quibus tam
celestia quam terrestria intuebar, quasi suspectas, impie relegavit». Così
Dante confessava: e che alludesse al poema, cui attendeva col proposito
di «partirsi del tutto» dalle rime d’amore, e dal quale avrebbe tralasciato
d’occuparsi, suo mal grado, perché «l’anima folle» era trascinata dal
«gran disìo» della pargoletta «bella e ria»; e che questa interruzione, per
la missione che s’era assegnata, egli la considerasse «empia», quasi effetto
del contagio di quella «ignoranza ed oblio» che pur lamentava nella fanciulla amata non mi par dubbio […] Ma più interessa avvertire, se pur
questa interpretazione dell’epistola non sarà ritenuta arbitraria, che lavorare al poema era stato per Dante un «sequi libertatis officia»: e perché
questo lavoro lo aveva liberato dall’impero delle passioni, e perché la libertà – ricordiamo le parole di Virgilio a Catone – era stata la meta del suo
viaggio; e avvertire che a questo compito Dante aveva atteso alla Corte e
sotto gli occhi del Malaspina, che spesso aveva avuto modo di meravigliarsi («sepe sub admiratione vidistis») di vedervelo intento37.
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Come si vede, Ferretti propone che la canzone e l’epistola diano conto
del sopravvenire di un amore terribile e imperioso che avrebbero empiamente distolto Dante dalla composizione del poema. Così, due sarebbero
le interruzioni: la prima quella dei cinque anni durante i quali i sette canti
(il quadernuccio) erano rimasti a Firenze; la seconda, dovuta all’improvviso nuovo amore, successiva alla fase di ripresa seguita alla restituzione
dei canti per il tramite di Dino e poi di Moroello e definita dai libertatis
officia perseguiti con un impegno che stupiva lo stesso marchese.
Sulle orme di Ferretti si è messo poi Padoan che ha però corretto questo
semplice schema partendo in sostanza dai dubbi che già Boccaccio esprimeva al proposito: è inverosimile credere che prima dell’esilio Dante
avesse già composto i canti 1-7 dell’Inferno, mentre si può credere che
avesse abbozzato, in latino, un poemetto paradisiaco in lode di Beatrice:
quello del quale la lettera di frate Ilaro, considerata attendibile e rinforzata
con la testimonianza di Filippo Villani, ci darebbe l’incipit: forse tradotto
poi in volgare, questo abbozzo avrebbe costituito il contenuto del quadernuccio ritrovato e affidato a Dino Frescobaldi che l’avrebbe trasmesso
direttamente a Moroello che a sua volta l’avrebbe riconsegnato a Dante38.
Il quale ne trasse lo spunto per accingersi alla composizione dell’Inferno,
di cui i primi due canti sarebbero stati composti proprio allora, nel 1307,
alla corte del Malaspina. Ma:
Ma poi il filo dovette essere abbandonato ancora una volta, sia pure momentaneamente, forse perché il poeta dovette abbandonare la calda ospitalità del Malaspina e cercare un nuovo stabile rifugio, trovandolo infine
nel Casentino. Ma lì l’Alighieri fu distolto per un breve periodo da un innamoramento, registrato nella canzone “montanina” […], com’egli stesso
confessa al marchese Moroello nell’Epistola IV (1307): “Occidit ergo
propositum illum laudabile quo a mulieribus suisque cantibus abstinebam,
ac meditationes assiduas, quibus tam celestia quam terrestria intuebar,
quasi suspectas, impie relegavit”. Dello iato ci avverte lo stacco stilistico,
fortissimo, tra quei due primi canti riscritti in Lunigiana nel 1306 – e il
canto III 39.
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
A questo punto mi scuso d’essere tanto sommario, e di accennare a
questioni di gran peso, sulle quali molto è stato scritto e dibattuto (basti
la lettera di Ilaro e la sua tuttora discussa autenticità)40, ma non posso che
tenermi all’essenziale dell’argomento, che riguarda precisamente la canzone e la lettera che, intesi quali documenti di una vicenda reale, porterebbero con forza alla convinzione che la Commedia, una volta
cominciata (e lasciamo pure quali siano state le sue vecchie metamorfosi
e a che punto fosse arrivata) sia stata interrotta per colpa della bella Casentinese. Portano là, s’intende, se si dà per indubbio che quelle parole
dell’epistola: «meditatione assiduas, quibus tam celestia quam terrestria
intuebar, quasi suspectas, impie relegavit» rimandino proprio alla Commedia, come imporrebbe di fare il forte riscontro con Par. XXV 1 ss.: «Se
mai continga che il poema sacro, / al quale ha posto mano e cielo e terra
/ …». Vedremo fra poco come qualcuno non abbia creduto all’assoluto valore probante del riscontro e abbia avanzato altre proposte: conta, qui, che
Ferretti e Padoan si sentano certi di poter individuare in quelle meditationes proprio la Commedia, e che infine si senta certo di poterlo fare Emilio
Pasquini, il quale già aveva espresso le sue convinzioni in un saggio del
1983, La terzultima palinodia dantesca, poi ripreso nel volume del 2001,
Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, ove scriveva:
Nel 1306-7 Dante ritorna, quasi coatto, alla poesia amorosa, abbandonata
da alcuni anni […] Ma soprattutto, la tempesta della passione lo ha distolto dalla composizione di un’opera che non può che essere la Commedia come noi la conosciamo. La conferma viene dal fatto che quella
formula definitoria (“tam celestia quam terrestria”) ritorna puntualmente
in un luogo del Paradiso (XXV 1ss.). Qui Dante non definisce più il suo
capolavoro “comedìa”, come pure aveva fatto in due luoghi dell’Inferno
(XVI 128 e XXI 2), oltre che, più volte, nell’Epistola a Cangrande, la
quale accompagnava il dono dei primi canti del Paradiso. Lo definisce,
invece, come “il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra”: è
evidente il ricordo di quell’espressione utilizzata, in tutt’altro contesto,
più di dieci anni prima41,
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e che recentemente le ha confermate tornando sull’argomento con un
ampio specifico saggio sulla canzone42. Pasquini ridiscute qui i principali
nodi che ne complicano l’interpretazione e fa il punto su una serie di
questioni: la data, 1307-1308; il destinatario dell’epistola, Moroello di
Giovagallo (ma in questo caso egli lascia aperto almeno uno spiraglio in
favore di Moroello di Villafranca); il luogo, il Casentino. Rifiuta ogni tentazione allegorica ed esplora benissimo tutta una serie di legami che corrono tra la canzone e la Commedia (p. 19: «Incontestabile […] che qui
già circoli l’aria del poema»); analizza corrispondenze e differenze tra il
testo della canzone e l’epistola, e scioglie la possibile contraddizione tra
i due destinatari, Firenze e Moroello: «all’uno egli voleva far sapere quale
fosse la ragione del suo latitare nella piccola corte di Lunigiana; all’altra,
confessare il proprio stato di debolezza o di frustrazione, nella speranza di
una possibile amnistia». Ma al centro di tutto sta «lo scacco della Commedia, bruscamente interrotta per quella violenta e distruttiva passione che
lo ha fatto venir meno, in primo luogo, al dovere verso se stesso, ma insieme ai suoi obblighi di homo curialis […] L’epistola, dunque, conterrebbe la giustificazione dell’Alighieri (travolto dalla passione per una
donna) al suo protettore per l’interruzione del poema appena ripreso in
mano» (p. 24).
Nella parte finale del saggio, infine, Pasquini cerca di smontare le interpretazioni della frase dell’epistola: «ad conspectum Magnificentie vestre
presentis oraculi seriem placuit destinare», sulla quale si fondano (non
però in maniera esclusiva) le letture di tipo allegorico, e approda alla
conclusione che «l’oraculum è l’”oratio soluta” della prosa latina che
declina in modi illuminanti l’”oratio numerosa” della canzone volgare,
il “contesto” (seriem) di un “discorso rivelatore” (ma non in una dimensione sacrale e oracolare) dei segreti e dell’occasione della canzone
d’amore» (p. 27). Il punto è delicato e di difficile soluzione, tant’è che ha
sempre costituito uno scoglio che gli interpreti hanno dovuto affrontare,
magari traducendo, da Novati a Frugoni, in chiave normalizzante: «voglio
indirizzare al cospetto della Vostra Magnificenza il testo del presente
scritto»43: in aggiunta non può essere facilmente isolato rispetto ai carat46
Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
teri dell’apparizione numinosa della donna-folgore e insomma rispetto
alla tonalità effettivamente tra il sacrale e l’oracolare che colora di sé
l’epistola. Senza dire che anche all’interno del filo dipanato ci sono intriganti contraddizioni, per esempio con Doglia mi reca e la sua definitiva
dura polemica contro chi pone l’amore fuori d’orto di ragione. Sembra insomma difficile che Dante chiuda la sua attività lirica, e addirittura chiuda
la raccolta delle canzoni forse ordinata da lui stesso, con un mero cedimento erotico-passionale proprio nello stesso giro di tempo nel quale comincia l’Inferno (1306-1307), interrompe prima il De vulgari e poi il
Convivio (quel Convivio nel quale Dante si preoccupa di giustificare in
chiave allegorica il suo amore per la ‘gentile’ onde schivare ogni motivo
d’infamia che gli verrebbe dall’aver amato oltre Beatrice anche altre
donne «per sensibile dilettazione»)44, ecc. D’altra parte proprio qui, nei
nodi apparentemente insolubili di una ‘ricaduta’ sta la drammatica verità
del dittico: per esempio nella bella lettura di Anna Fontes Baratto che,
sviluppando alcune indicazioni di un importante saggio di Giorgio Barberi
Squarotti, fa fare un salto al discorso45. Scrive la studiosa:
Ce que le je expérimente est certes, d’après l’épître, une ‘rechute’ tout à
fait inattendue, mais elle se manifeste comme le retour en force d’une
amour-passion qui ne peut plus se satisfaire des fantasmes qu’il alimente
(par l’immoderata cogitatio du De amore) et que toute la tradition lyrique
n’a cessé d’explorer. Les topoi, que l’io poetante retrouve et réutilise, ne
lui suffisent plus pour dire maintenant cette expérience renouvelée, le
choc de cette confrontation entre l’imaginaire et sa vérité qui est en fait
nouvelle, et qui a donc besoin d’autres mots, inédits dans le discours lyrique: aussi la canzone multiplie-t-elle, outre les hapax, les termes et les
images par lesquels le langage ‘comique’ fait irruption dans le discours sur
l’amour. Ce sont donc les mots des petrose qui, à des années de distance,
reviennent, se prolongent et se renouvellent pour donner à entendre cette
expérience de l’amour, cette mise à l’épreuve de la verité de l’amour-passion […] Le retour en force de l’amour-tyran, qui impose le retour forcé
à la canzone, débouche sur une impasse qui n’est pas lyrique mais poétique, et que l’on pourrait reformuler ainsi: alorsque Dante a déjà entrepris
la rédaction de l’Enfer, l’interruption du Convivio s’impose pour toutes les
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raisons contraignantes que l’on sait, mais qui bloquent en même temps la
composition, ou la reprise, du poème. La question de l’amour est au coeur
de ce blocage, un amour que l’expérience de l’exil, en se creusant, interdit
d’envisagert comme l’élément unificateur d’un parcours rectiligne dont le
Convivio venait d’affirmer la continuité. Si le traité avait pu le faire, en décretant, contre la Vita Nova, la compatibilité entre l’amour pour Béatrice
et l’amour pour la donna gentile en tant qu’étapes d’un mûrissement cohérent situé avant l’exil, il en va tout autrement maintenant que la nouvelle
expérience d’amour – réelle, métaphorique, symbolique, ou allégorique,
ou tout cela à la fois – domine et partalyse l’exilé, en le laissant aussi diminué que démuni …
Questa ‘messa alla prova’ dell’amore-passione e il terremoto ch’essa
provoca sembrano in effetti i dati più importanti e superando le strettoie
di una traduzione meramente fattuale della testimonianza dantesca aprono
la via a considerazioni nuove. Ma di ciò cercherò di dire meglio dopo
aver considerato l’altra opzione interpretativa sin qui appena accennata,
quella appunto di tipo allegorico.
5. Che la canzone nasconda un qualche significato nascosto, che solo
per comodità potremmo definire genericamente e non del tutto propriamente allegorico è una sensazione, oltre che un’idea, vecchia, ed ha probabilmente una delle sue radici in un atteggiamento affine a quello del
Dionisi che, abbiamo visto, visceralmente rifiuta di credere che un Dante
maturo – politicamente, culturalmente, sentimentalmente maturo – e
ormai occupato dalla Commedia potesse abbassarsi a confessare a destra
e a manca qualcosa di così poco interessante come un amorazzo occasionale e rusticano46. È dunque significativo che Carlo Troya, nel 1856, precorrendo quanti sarebbero poi tornati a far centro su Firenze, scrivesse:
Io non dirò, che la donna dell’Arno fosse un ente allegorico; ma ben ella
mi sembra essere stata l’argomento d’un linguaggio pattuito fra Moroello
e Dante, per non essere intesi da niuno […] Sta in esse [le parole del congedo] il nerbo della Canzone, in cui ben era lecito ad ogni uomo di qualsivoglia età finger, poetando, un innamoramento immaginario, una Fillide
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
in aria, come avrebbe detto Boileau, per venir a toccar il vero punto del
rientrare dopo un lungo esilio in Firenze47.
Nello stesso torno di tempo, in alternativa al discorso politico che stava
a cuore al Troya, Fraticelli apriva un’altra via, che aveva evidentemente
più robusti appoggi entro l’opera di Dante: essere cioè la donna della canzone figura della Filosofia. Appoggiandosi in particolare sui versi 71-72:
«E questa sbandeggiata di tua corte, / signor, non cura colpo di tuo strale»,
scriveva infatti che essi «fanno conoscere che dessa non è altri che la Filosofia, perciocché questa femmina intellettuale non solo è bandita dalla
corte d’Amore, ma non può però pure venir ferita da nissuno strale di
lui»48. L’osservazione, ben si vede, è tutt’altro che risolutiva, ma vale in
quanto spia di qualcosa di più vago e imprendibile che si manifesta meglio
quando poco più tardi il medesimo Fraticelli fa marcia indietro arrivando
a separare la canzone dall’epistola:
Crede il Witte che sia questo il poetico componimento inviato da Dante
al Malaspina insieme a quell’epistola, nella quale gli dà notizia della novella passione amorosa, che egli, appena giunto alle sorgenti dell’Arno,
avea incominciato a provare per una bella Casentinese. Ciò, sebbene sembri probabile, e venga da me creduto, io non oserei affermare, sì perché
potrà ad altri apparire, che la Canzone si aggiri intorno ad argomento filosofico, sì perché, vero essendo il fatto della Casentinese, e l’invio del
poetico componimento, non discende la conseguenza che questa appunto
debba esser la Canzone che di ciò fa parole49.
Non c’è dubbio in ogni caso che sia stato Adolfo Bartoli a condensare
e rilanciare l’ipotesi allegorica, nei termini che abbiamo visto (a Dante sarebbe apparso il fantasma di Firenze), e che essa abbia poi trovato un forte
avallo nel secondo Dante di Zingarelli, nel 1931. Tra l’uno e l’altro stanno
però altri: Eugenio Branchi, per esempio, secondo il quale la donna sarebbe allegoria della «maestà ghibellina» (ipotesi insostenibile, credo, ma
storicamente significativa e ricca di adentellati)50, e soprattutto il Pascoli,
al quale l’interpretazione allegorica deve gran parte delle sue fortune51. È
vero, come dice Pasquini, che nelle pagine di Pascoli ci sia qualcosa di
«vaneggiante», ma ci sono in esse alcune intuizioni organizzate entro una
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rete di riferimenti che, oso dire, non è poi troppo dissimile da quella costruita
più tardi dai ‘realisti’. Pascoli comincia con il considerare le indubitabili
corrispondenze che corrono tra la canzone e l’epistola, datate senz’ombra
di prova oltre le parole di Boccaccio al tempo della discesa di Arrigo VII
(1311-1313), e si ferma in particolare (pp. 294-295) sulla discussa frase:
«ad conspectum Magnificentiae vestrae presentis oraculi seriem placuit
destinare» ricordando acutamente che la Sibilla scriveva i suoi oracoli
sulle foglie e intendendo che Dante voglia invitare il Malaspina a risolvere
il suo ‘oracolo sibillino’, sì che «è giusto […] prepararsi a vedere nella
donna che scende come folgore, altra donna di quel che paia». E qui, anticipando qualcosa, mi pare che Pascoli nella sostanza veda giusto, anche
se sarà da documentare meglio l’uso abbastanza ricco di serie (oltre alla
comune temporum o annorum series) che vedo per esempio, oltre i casi
già allegati, in Boezio e in Ambrogio, con il genitivo singolare (divine
lectionis series; prophetici sermonis series; historiae series: ma anche
mysteriorum series, ecc.), specie quando egli intende che Dante sottoponga al Malaspina i contenuti oscuri, inquietanti, numinosi, o come dir
si voglia, della sconvolgente visione, sì da autorizzare la traduzione: ho
voluto sottoporre, esibire ai vostri occhi i particolari della visione della
quale mi accingo a parlare52.
Così, Pascoli fa pendere la lettura, è ovvio, verso l’allegoria, e rafforza
la cosa accennando all’apparizione della donna-filosofia del Convivio, e
infine (p. 298) conclude:
è innegabile che nell’epistola a Moroello Dante dica appunto che ha interrotto il Convivio. Ma qual fu l’amor nuovo che l’interruppe? Dante lo
dice chiaramente: è un reduce; è un signore del cuor suo, che n’era stato
sbandeggiato, e ritorna terribile e imperioso “dopo lungo esilio”. E qui
prorompe il grido che a noi esprimono le verità quando appariscono: è
quello, è l’amor di Beatrice, è la mirabile Visione, è la divina Comedia!
Così, Dante finalmente incontra il suo destino, e ad esso tutto si sottomette, e Pascoli s’incarica appunto di rileggere la canzone in questa
chiave fortemente asseverativa: com’è banale, altrimenti, a intenderla alla
50
Enrico FENZI
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lettera! e come si riempie di senso a leggerla allegoricamente, come annuncio della visione che determina l’impegno della Commedia! Ma ancora, egli riferisce e discute le testimonianze del Boccaccio relative alla
genesi della Commedia, e le giudica, nel fondo, esatte. Ai propri fini egli
sottolinea efficacemente, anche se con qualche coloritura di troppo, la
singolare circostanza secondo la quale, come racconta Boccaccio, Dino
Frescobaldi avrebbe fatto avere proprio a Moroello i primi sette canti, rimasti a Firenze: proprio a Moroello «al quale è indirizzata la epistola sibillina e la canzone augurale»; a Moroello al quale, secondo la lettera di
Ilaro, sarebbe dedicato il Purgatorio … Come si accennava, nel richiamare e ordinare tanti elementi Pascoli sembra anticipare Ferretti, anche se
in chiave affatto diversa53, e sottolinea lo speciale nodo interpretativo che
diventa il discrimine dal quale si dipartono le opposte letture dell’epistola.
Pascoli, a proposito della frase: Amore «meditationes asiduas quibus
tam celestia quam terrestria intuebar quasi suspectas impie relegavit»,
scrive: « è innegabile che nell’epistola a Moroello Dante dica appunto
che ha interrotto il Convivio». È un punto decisivo: sin qui abbiamo visto
i ‘realisti’ concordi nell’intendere che il nuovo amore ha provocato l’interruzione della Commedia appena ripresa in mano, identificata con quelle
meditationes sulla scorta di Par. XXV 1 ss. (Pasquini in ispecie non ha
dubbi in proposito). Pascoli invece – e già lo aveva fatto Troya – ravvisa
in esse gli studi filosofici rifluiti nel Convivio, che si sa effettivamente
interrotto in quel giro d’anni per lasciar posto alla Commedia. Di qui le
due linee diverse, riassumibili nel fatto che, se ad essere interrotta è la
Commedia, la visione amorosa addotta quale causa dell’interruzione non
la si saprebbe riferire ad altro che a un innamoramento reale. Se invece è
il Convivio ad essere interrotto, quella medesima visione resta, per dir
così, disponibile a significati allegorici: essenzialmente, la Commedia
stessa che ha davvero soppiantato il Convivio; oppure Beatrice, che in
ogni caso torna a riportare il discorso sulla Commedia, oppure Firenze
donde, di nuovo, non è difficile passare alla Commedia …
Sarebbe dunque decisivo sapere a che cosa alludano le meditationes,
ma avere certezze assolute al proposito sembra assai difficile: le ragioni
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dei ‘realisti’ le abbiamo viste, ma è innegabile che non si può facilmente
eliminare il Convivio, non foss’altro perché, allora, quest’opera è stata
effettivamente interrotta, mentre di un’interruzione della Commedia non
resterebbe altra traccia oltre la frase alquanto ambigua dell’epistola. A
proposito, Gorni è abbastanza deciso: alla Commedia non è il caso di pensare «perché meditationes (hapax in Dante) non può designare lo scrivere
in versi […] Se non è un generico meditare, voglio dire non correlato alla
stesura di un’opera precisa (il che però parrebbe strano) potrebbe trattarsi
proprio del Convivio, interrotto al suo quarto libro in quel giro d’anni»54.
Per parte mia, già ho cercato di corroborare con vari rimandi l’impressione che la formula dantesca con i suoi celestia e terrestria rimandi alla
definizione canonica della filosofia, e dunque all’impegno strettamente
filosofico riversato nel Convivio55: ma non voglio qui decidere di una
questione così spinosa, quanto appunto osservare che le alternative possibili circa le meditationes corrispondono alle opposte linee interpretative
dei ‘realisti’ e degli allegoristi. I quali, dopo Pascoli in ispecie, non mancano, a partire da Ricolfi che pensa a una apparizione di Beatrice e, attraverso Beatrice, alla Commedia56, mentre una grossa copertura a posizioni
di questo tipo contemporaneamente veniva, come s’è accennato, da Zingarelli, nel suo secondo Dante. Superando i vecchi pregiudizi contro
l’epistola, ne parla ora così (si osservi come intenda le meditationes):
Amore che ritorna al suo dominio dopo lungo esilio, è Beatrice che rioccupa il suo cuore; le rime amorose da cui si asteneva, sono appunto quelle
per Beatrice, cui era sottentrata non più una donna, ma la filosofia; le meditazioni mediante le quali intuiva le cose celesti e terrestri sono, innanzi
tutto, quelle delle canzoni morali e dei due trattati, con grande sfoggio di
metafisica, astronomia, rettorica, ed etica57.
In sintesi, per lui la canzone dà conto dell’ossessiva e ritornante presenza mentale dell’immagine di Beatrice, ed è curioso come egli insinui
ma eviti con cura di dire che in questi testi si annuncia la ‘visione’ della
Commedia (p. 643: «un arcano presentimento seguito da una specie di risurrezione di Beatrice presso il rivo chiaro e corrente delle prime ispirazioni; o per meglio dire un’apparizione di Beatrice al Poeta …»; p. 644:
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La montanina e i suoi lettori
«Questa canzone segna adunque il principio di una nuova epoca per
Dante: nella poesia, l’abbandono delle rime che presentava come scritte
per donna diversa da Beatrice; nella vita, la cessazione di quella che egli
chiama guerra per il ritorno in patria …»).
Lo schema suggerito è indubbiamente suggestivo, anche perché riassume ‘alla grande’ il percorso che Dante pare aver effettivamente compiuto, dal giovanile amore per Beatrice alla promessa di tornare a dire di
lei nel futuro, all’amore per la Filosofia e dunque alla grande parentesi filosofica e dottrinale per tornare, infine, a Beatrice con la Commedia, attendibile o meno che si giudichi il racconto di Boccaccio. E infatti a
questo schema, sulla scia di Zingarelli, è Colin Hardie il quale ha cercato
di dimostrare che la canzone risale, d’accordo in ciò con Torraca, al 13101311 (onde la curia sarebbe quella di Arrigo VII), e che la folgorante apparizione della donna altro non è che la ritornante immagine di Beatrice
morta, che riconduce Dante alla grande poesia d’amore e in definitiva,
anche se in maniera non ancora chiara allo stesso Dante, alla Commedia58.
I riscontri segnalati dallo studioso tra l’apparizione descritta nella lettera
e le varie apparizioni di Amore, il «segnore di pauroso aspetto», nella Vita
nova (2, 4: 3, 3, ecc.) sono indubitabili: ma bisogna anche ricordare la
crudeltà’ empia ( ‘non pia’, senza pietà) della donna allegorica delle prime
due canzoni del Convivio, e della ballata Voi che savete: 19, 5-8, e i relativi
commenti del trattato, se si vuole pensare che proprio la passata esperienza ‘allegorica’ abbia fornito la base dialettica per il successivo capovolgimento/superamento: come la donna/Filosofia aveva scacciato la
nostalgica e paralizzante immagine di Beatrice, così ora la rinnovata prepotente immagine di costei torna per cacciare a sua volta, con altrettanta
violenza, le meditationes assiduas dalle quali per troppo tempo era stata
‘relegata’ … La parentesi non-amorosa, insomma, finalmente si chiuderebbe nel nome di Beatrice: il che fornisce, ripeto, uno schema suggestivo
ma, all’esame dei testi, applicabile solo con molte cautele.
Non così preciso è Giorgio Stabile, ma anch’egli in un saggio assai suggestivo centrato sul tema della fulminatio immerge la canzone in un’atmosfera ricca di sovrasensi, culminando nel nesso (per Pasquini
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«spericolato») istituito tra la donna, «figura d’una solitaria guerriera, armata e catafratta perché intangibile agli effetti d’amore […] figura singolarmente vicina alla Atena-Pallade-Minerva della tradizione classica, che
maneggia la folgore di Giove, e che la tradizione cristiana inverava nella
figura della Sapienza virgo armata», e la simile e però opposta immagine
di una Firenze «inutilmente protetta da una armatura di mura e di serrami»
nella quale Dante riuscirà a penetrare sanz’alcuna guerra (Inf. IX 106108), perché «il congedo della montanina, in voluta opposizione con la
saetta vendicatrice di Rime CIII (vv. 79-83), è una freccia scoccata come
segnale di pace»59. Per vie e in modi tutti suoi Stabile torna così a interpretare il congedo come una mossa all’interno di una strategia che mira al
rientro, magari – aggiungiamo – attraverso rapporti con alcuni Neri come
il Malaspina (abbiamo visto che già per Carlo Troya qui si trova «il vero
punto del rientrare dopo un lungo esilio in Firenze»), e può darsi che
questo sia il modo più corretto d’intendere. Per il resto, è difficile dire, e
la Allegretti, chiedendosi a sua volta se l’alpigiana sia davvero figura di
Firenze, oppure della Commedia (queste sono le due opzioni maggioritarie) conclude che non lo sapremo mai, anche se le sembra cosa certa che
la «polisemia del dettato e la congruenza con alcune immagini topiche,
nel sistema dantesco, per l’autorità imperiale o per l’intuizione intellettuale
di Dio confermano senz’altro la valenza allegorica di tutto l’impianto»60.
Ma, a chiudere questo paragrafo, occorre ora fermarsi un attimo sulle ipotesi di Gorni.
Gorni giudica inevitabile il ricorso all’interpretazione allegorica: «che
di allegoria si tratti non pare dubbio a chiunque giudichi senza pregiudizi», il che deriva dal fatto che gli sembra francamente impossibile accedere all’idea che si tratti di un amore reale e circonstaziato «per le
ragioni già addotte dal vecchio Dionisi: ragioni che avranno forse perso
la loro efficacia retorica, ma non la parte di buon senso che si esperime
in loro»61. Tuttavia egli riconosce anche che tale interpretazione, con qualche paradosso, tanto più appaia cogente quanto meno produce certezze e
consente risposte univoche: donde la stranezza e l’irresolubile ambiguità
del caso. Che può forse essere spiegato nella sua possibile genesi. In sin54
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La montanina e i suoi lettori
tesi, senza rifare qui l’intero percorso dello studioso e in aggiunta alla citazione già fatta ( «si potrebbe pensare che Amor, dacché convien […]
fosse una vecchia canzone d’amore, recuperata durante l’esilio a fini allegorici non evidenti e come tale spacciata a Moroello e provocatoriamente indirizzata alla città: in tal caso, solo il congedo sarebbe degli anni
dell’esilio»), ecco come egli ribadisca la propria idea:
La mia impressione […] è quella di avere a che fare con un testo di vecchia data, con una rima dell’amor doloroso: rivestita, al tempo dell’esilio,
di un congedo che prima non c’era, scritto quando Dante volle divulgare
la canzone, per ragioni che è impossibile congetturare in assenza di più
chiare notizie. Questa divulgazione ‘fiorentina’ – in sé misteriosa, e ragione di scandalo se presa solo alla lettera – fu preceduta, o piuttosto (secondo il mio parere) seguita, da una diffusione aristocratica e cortigiana
del testo, rivolta al marchese Moroello Malaspina ed eventualmente alla
sua cerchia62.
È evidente, l’ho già detto, che tutto ciò resterà assai difficile da provare.
Credo tuttavia che di là dai particolari venga di qui un suggerimento in
parte nuovo che pone in una luce diversa il rapporto che lega la canzone
all’epistola – e un suggerimento che mette per una via che stranamente lo
stesso Gorni non percorre fino in fondo. Voglio dire, con qualche approssimazione, che da quando si è stretta l’epistola alla canzone, com’era pur
giusto fare, i due testi sono stati forse mescolati assieme con qualche imprudenza: per esempio quando s’è detto e ripetuto che l’epistola sarebbe
la razo della canzone. Per la sua parte lo è, non c’è dubbio, ma lo è in
maniera del tutto particolare perché (questo è del resto tratto tipico di
Dante ed elemento costitutivo della sua grandezza, quale inarrivabile interprete di se stesso) si tratta di una razo per nulla appiattita sul testo di
riferimento e, come spesso avviene, più povera di esso, ma è una razo innovativa e creativa che di quel testo dilata e addirittura rinnova i significati. Insomma, torniamo a Gorni: personalmente, posso non credere al
congedo posticcio; posso non credere che la canzone fosse qualcosa di
vecchio e incompiuto rimasto in qualche scartafaccio in attesa di riesumazione e correzione, ma con tutto ciò credo che egli abbia perfettamente ra55
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gione nel dire che la canzone e l’epistola sono cose diverse, che rispondono a logiche diverse e fors’anche a momenti diversi, e che di questo
gioco di sovrapposizioni e invenzioni e forzature occorre tenere conto per
intendere da un lato la canzone per quello che è, quale testo autonomo, e
dall’altro l’epistola nella sua interessata strategia interpretativa.
6. È il momento di qualche breve conclusione, che sarà forzatamente
provvisoria perché molti nodi a me non riesce di scioglierli in maniera
convincente. Prima di tutto, la canzone63. Come è stato detto e ridetto, in
essa Dante descrivere una fenomenologia dell’amore di tipo cavalcantiano, fondata sulla coerente estremizzazione del tema topico dell’immoderata cogitatio com’era stato fissato nel De amore del Cappellano. Il
nucleo della canzone sta infatti in quel descriversi prigioniero di un’immagine alla quale non può impedirsi di pensare precipitando così in una
sorta di delirio autodistruttivo, mentre ogni eventuale passaggio dall’ossessione tutta mentale alla realtà è vanificato dal fatto che quando il poeta
troppo s’avvicina «colà dov’ella è vera» subisce un tale shock emotivo da
restarne tramortito: quando torna in sé, poi, non ricorda più nulla, sopraffatto da ignoranza e oblio. Il dramma è dunque tutto interno, psicologico,
anche se culmina nel vistoso effetto fisico dello svenimento, e non già
esterno e agonistico, ed è precisamente in questa chiave che va intesa la
prima stanza nella quale Dante denuncia la difficoltà di esprimere in
forma adeguata questa sua tormentosa condizione interiore. In qualche
modo, la montanina può dunque apparire come una sorta di estremizzazione in chiave erotica della situazione denunciata nell’ultimo sonetto
della Vita nova, Oltre la spera, puntando, come fa, sulla persistenza ossessiva dell’immagine di ciò che è inattingibile e irrapresentabile: il suo
non è dunque l’eros naturale e sublime delle petrose, ma piuttosto è quello
tutto mentale che fonda la verità del desiderio nell’assoluta, quasi ontologica alterità del proprio oggetto.
In questi termini – nei termini cioè di questa straordinaria esplorazione
tematica – immagino che a nessuno verrebbe in mente di supporre come
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
indispensabile la realtà storica di un siffatto miraggio femminile: non più
di quanto ormai si faccia con la donna ‘petra’ o con la ‘pargoletta’ o con
eventuali altri poetici fantasmi d’amore, cari oggetti d’indagine di un dantismo fuori moda. Ma a scombinare le carte e a creare il caso sta la quinta
e ultima stanza e il congedo. Avviene qui, infatti, qualcosa di abbastanza
straordinario. Diremmo, per semplificare, che Dante con improvvisa virata trasforma una condizione – la condizione di lui schiavo di un’immagine – in un evento. Il passaggio, vv. 61 ss., è netto:
Così m’ha’ concio, Amore, in mezzo l’alpi,
nella valle del fiume
lungo ‘l qual sempre sopra me sé forte
[…]
La patina arcaica delle prime quattro stanze, che ha una sua particolare
cifra nelle evidenti riprese che le legano all’antica canzone rimasta fuori
dalla Vita nova, E’ m’incresce di me (10 = Barbi LXVII)64, è di colpo oltrepassata, ed è essenzialmente qui, sulla base di questa ultima stanza,
che si riesce a sentire l’eco vicina delle ‘petrose’: non è più questione,
ora, dell’immagine mentale che l’anima folle dipinge e forma procurandosi da sé il proprio tormento (vv. 19 ss.), ma invece proprio di lei, della
donna nemica, catafratta d’orgoglio e durezza. Il salto, inutile dirlo, è forte
e sconcertante, anche perché l’improvvisa irruzione della ‘donna vera’
non va da sola ma (come anche i versi citati sopra mostrano) s’accompagna alla irriducibile misura di verità della cornice naturale nella quale
l’evento è collocato. Meglio, le due cose: l’evento e il teatro dell’evento,
sono intrecciate a formare, con potente nesso di simultaneità, una cosa
sola. La topica amorosa delle prime quattro stanze, per definizione astratta
da precise determinazioni di tempo e luogo e circostanze, nell’istante medesimo che si trasforma in evento si cala in esse, ne fa il proprio correlativo oggettivo: «Così m’ha’ concio, Amore, in mezzo l’alpi, nella valle del
fiume […]». Il Casentino, appunto, rustico e inospitale nel quale il poeta
è solo con la sua disperazione:
Lasso! Non donne qui, non genti accorte
veggio a cui mi lamenti del mio male:
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LA BIBLIOTECA DE T ENZONE
G RUPO T ENZONE
s’a costei non ne cale,
non spero mai d’altrui aver soccorso.
Una siffatta denuncia sembra presupporre l’esperienza contraria di un
luogo e di ‘donne gentili’ capaci di costituirsi come un pubblico eletto e
solidale. Se accettassimo l’interferenza con l’epistola a Moroello, potremmo anche pensare alla corte del Malaspina, la curia rimpianta da
Dante dopo che se n’è allontanato, ma credo si tratterebbe di una forzatura
indebita, fuori contesto. Qui, semmai, l’aggancio va all’intensa precisazione secondo la quale Amore ha così conciato il poeta nella valle dell’Arno, «lungo ‘l qual sempre sopra me sé forte». La consecuzione è
diretta ed evidente: ‘Amore, lungo l’Arno ancora una volta sei tornato a
catturarmi, ma ora, qui, diversamente che nel passato, non ci sono donne
e genti accorte che mi possano ascoltare e confortare’. L’allusione al passato è dunque doppia: dapprima esplicita, poi implicita, e nei due casi
converge su Beatrice, sul coro amico delle donne che hanno intelletto
d’amore (basti il rinvio a Donna pietosa e di novella etate, in Vita nova
14 = Barbi XXIII) e sul luogo: Firenze.
Il nodo è intrigante, e meriterebbe una sosta ulteriore. Ma mi limito,
qui, a ricavarne almeno un elemento che lega la stanza al congedo. Capovilla ha scritto che «una peculiarità della montanina è quella di travalicare
l’àmbito propriamente lirico, innestando sul filo tematico della privazione
del libero arbitrio il dato cronachistico di un’altra privazione, ossia quella
della libertà civile»65. È così, ed è appunto quel salto dalla condizione all’evento che attraverso l’appello finale rivolto alla canzone montanina,
permette di arrivare, nel congedo, proprio a Firenze:
O montanina mia canzon, tu, vai:
forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore e nuda di pietate.
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
Non il Casentino è la sua terra ma Firenze, il luogo appena rammemorato del primo amore e del pubblico sensibile e attento e delle donne amorose e soccorrevoli (è troppo sentire in quel «d’altrui aver soccorso»
adirittura un’allusione alla ‘gentile’ della Vita nova?). Ma ecco: Firenze
non è più quella di siffatte memorie. Ora essa è «vota d’amore e nuda di
pietate», e le dimensioni dell’esilio si moltiplicano, perché esso è ormai
tanto quello che lo tiene lontano dalla sua terra quanto quello che lo separa dal proprio passato, ché là dov’era amore e pietà regnano ora disamore e crudeltà66.
Ma, si sa, è soprattutto la seconda parte del congedo che ha fatto discutere67:
Se vi vai dentro, va’ dicendo: «Omai
non vi può fare il mio fattor più guerra:
là ond’io vegno una catena il serra
tal, che se piega vostra crudeltate,
non ha di ritornar qui libertate».
Che senso hanno questi versi? Due sono le opzioni possibili, tra le quali
non è facile decidere. La prima, è quella di prendere i versi per quello che
esplicitamente dicono, e di intendervi cioè una effettiva dichiarazione di
indisponibilità al ritorno (quali ne siano le cause: se un ‘vero’ amore o ragioni diverse, è altro discorso ancora); la seconda, altrettanto legittima e
che abbiamo visto essere già quella di Carlo Troya che vedeva tutto in
chiave di strategia del ritorno, è quella di intenderli per dir così per antifrasi, e dunque di considerare del tutto accessoria la momentanea e del
tutto topica indisponibilità amorosa, da leggere soltanto come esempio
probante della dichiarazione davvero centrale e carica di precisi adentellati politici: «non vi può fare il mio fattor più guerra». Sarebbe questa,
insomma, la «freccia scoccata come segnale di pace» di cui parla Stabile:
dunque, una dichiarazione di resa analoga a quella consegnata al congedo
di Tre donne e qui singolarmente corrispondente ai vv. 104-105:
ma far mi poterian di pace dono.
Però no· l fan che non san quel ch’io sono.
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Osservo ancora che la prima opzione è quella che presso alcuni ha incoraggiato l’ipotesi allegorica, non sembrando sufficiente l’amore per la
Casentinese a giustificare una affermazione così grave, e che io preferirei
però la seconda, anche per motivi di data e di circostanze storiche (i rapporti con Moroello) e di possibili connessioni con Tre donne, intesa appunto come la canzone nella quale Dante invoca il perdono e chiede di
tornare68. In ogni caso vorrei suggerire che queste parole di Dante possono
ricevere un colore particolare da una analoga impegnativa affermazione
che è nel primo libro del De vulgari eloquentia, 17, 6: un testo, dunque,
come Tre donne, non lontano dalla nostra canzone. Il volgare illustre, afferma Dante, conferisce onore e gloria a chi lo sappia usare, com’è il caso
di Cino da Pistoia e suo, e in particolare, per quanto lo riguarda: «Quantum vero suos familiares gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius
dulcedine glorie nostrum exilium postergamus». Mengaldo commenta,
ad loc.: «l’affermazione ha il tono delle orgogliose impennate dei primi
tempi dell’esilio», e rinvia a Tre donne 76: «l’essilio che m’è dato onor
mi tegno», mentre già Marigo insinuava qualcosa che ci può servire:
«Gloria sarà certo il riconoscimento conseguito nell’esilio del suo grande
valore di poeta; ma forse ancor più (nel dulcedine è espresso qualche cosa
di intimo) una gioiosa esaltazione del suo spirito per aver ritrovato finalmente se stesso col ritorno agli studi ed alla poesia, dopo il periodo, pieno
di amarezze, delle cure politiche in patria e nell’esilio». Potremmo aggiungere che anche nel nostro congedo Dante sembra subordinare l’esilio
alla sua situazione personale, con una sottintesa ma percepibile vena
d’orgoglio che collabora a definire un ritratto esemplare di sé. Senza per
questo escludere la possibile valenza politica del suo discorso: mediante
l’enfasi posta sulla sua condizione di ‘prigioniero d’amore’ proprio nel
momento in cui si rivolge a Firenze e affronta lo scottante tema dell’esilio
Dante ottiene infatti di depotenziare il suo ruolo passato e le sue responsabilità o colpe politiche. La Firenze che lo serra fuori di sé è crudele
perché infierisce contro un poeta d’amore che ha cessato d’esserle nemico, come egli fa sapere a coloro che «non san quel ch’io sono», confessandosi doppiamente sconfitto e prigioniero: un poeta, insomma, che
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
non si vede la ragione per la quale debba continuare a essere tenuto fuori
dalla sua città.
7. Sin qui la canzone, spartita vistosamente in due parti: le prime quattro stanze da una parte e la quinta strettamente unita al congedo dall’altra69. L’epistola che la accompagnò a Moroello Malaspina verosimilmente
non molto tempo dopo la sua composizione ne costituisce, come s’è accennato, una specie di razo, ma una razo con caratteri particolari perché
il suo oggetto non è la canzone, ma della canzone fa semmai un allegato
che documenta quali siano state le conseguenze di ciò che racconta. Molto
sommariamente, essa può essere divista in tre parti. Nella prima, Dante si
rivolge al dominus Moroello affinché costui sappia direttamente da lui e
non per voci riferite da altri quale sia la sua attuale situazione. Nella seconda, racconta come, allontanatosi dalla corte e giunto nella valle dell’Arno, in Casentino («iuxta Sarni fluenta»), quale fulmine a ciel sereno
gli fosse apparsa una donna in tutto corrispondente per costumi e bellezza
ai suoi desideri («meis auspitiis undique moribus et forma conformis»);
all’apparizione, come al fulmine segue il tuono, così seguì repentinamente
la sua caduta sotto il dominio di Amore terribile e sovrano che, come un
signore che torna nelle sue terre dopo un lungo esilio, abbatté, espulse e
legò tutto cio che nel poeta gli fosse d’ostacolo. Nella terza, Dante descrive
le conseguenze di questo suo asservimento: Amore lo fa tornare alla poesia d’amore dalla quale s’era ripromesso di astenersi; gli impedisce di
proseguire nelle meditazioni con le quali stava indagando sulle realtà
mondane e celesti («meditationes asiduas quibus tam celestia quam terrestria intuebar»); annulla il suo libero arbitrio, sì da costringerlo a seguirlo ovunque vuole. Nella breve conclusione Dante ribadisce che
Amore regna in lui senza trovare alcuna resistenza («nulla refragante virtute»), e chiude dicendo che Moroello potrà trovare descritto poco sotto,
fuori dalla lettera (dunque nell’allegata canzone), in quale modo Amore
lo governi.
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Come si vede, l’operazione di Dante è affine a quella condotta nel Convivio, non già nella puntuale spiegazione delle canzoni ivi commentate,
ma nell’illustrazione di ciò che ne ha determinato la composizione, cioè
l’incontro e l’innamoramento per la donna/ Filosofia. Detto in maniera
molto generale, alla prosa è affidata l’illustrazione dell’evento, e alla lirica
la descrizione di una condizione, di un modo di essere. L’epistola al proposito è esplicita: essa racconta ciò che è avvenuto, mentre qualiter, cioè
i modi con i quali Amore esprime quotidianamente il suo recuperato dominio, sono descritti fuori da essa, nella canzone. Alla quale è demandata
la descrizione del meccanismo psicologico che affida al pensiero la formazione tutta interiore del fantasma, mentre l’epistola punta sulla forza
sublime della visione e sull’istantaneo shok emotivo che distrugge precisamente ogni pensiero come ogni diversa meditatio, e impone con violenza diretta e immediata i propri contenuti. Non è un caso, dunque, che
l’epistola trovi i legami più forti con la canzone proprio nella quinta
stanza: in entrambe il poeta è stato conciato nella valle dell’Arno, e in
entrambe la forza irresistibile della donna agisce come fulguratio.
Di là da questo preciso rapporto, tuttavia, solo a partire dall’epistola si
è potuto pensare a eventuali significati allegorici che lo psicologismo analitico della canzone sembra invece escludere: anche perché il suo tono è
effettivamente – se mi si passa l’espressione – sopra le righe, tutto inteso
a esaltare in forma oracolare l’eccezionalità dell’evento70. Quella che proprio non convince, insomma, è una lettura piattamente realistica, innanzi
tutto perché l’epistola è tutt’altro e poi perché dovremmo trarne una serie
di conclusioni che essa, interpretata al suo grado zero, diremmo, reggerebbe con troppa difficoltà, come altri ha da tempo già ben argomentato.
Ma vediamola un poco meglio.
L’epistola ha alcuni elementi decisivi che la legano alla canzone, l’abbiamo accennato, ma curiosamente tace su alcune cose e nell’insieme ha,
o è lecito immaginare che abbia, un orientamento diverso. Innanzi tutto,
tace dell’ambientazione montana: ma la cosa non dovrebbe troppo turbare
visto che è mantenuta l’essenziale ambientazione nel Casentino. Tace di
ogni personale risvolto politico, anche se il lessico e alcune immagini rin62
Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
viano al tema dell’esilio (i vincula che leganoDante a Moroello; Amore
che torna «tamquam dominus pulsus a patria» …), e ciò è più strano, se
è vero che il congedo è un momento particolarmente forte della canzone
e se è vero, soprattutto, che in esso s’esprima un’offerta di resa e una dichiarazione di pace verso la città che ha esiliato il poeta. Tace, infine (e
pure ciò è curioso) del contenuto specifico della canzone, che è una variante particolarmente sofisticata ma assolutamente evidente del gran
tema dell’amore non corrisposto e della durezza infrangibile della donna.
Si rilegga l’epistola. A ben vedere nulla è detto al proposito, anche se possiamo dedurlo dalla ferocia di quell’Amore terribile e imperioso: al punto
che lo stato di totale alienazione amorosa del poeta lo si potrebbe addirittura attribuire a un amore corrisposto … Non è il caso di insistere su una
siffatta forzatura interpretativa, ma mi sembra in ogni caso innegabile che
all’ombra di qualche decisiva corrispondenza quella che viene correntemente definita come la razo della canzone vada in gran parte per conto
proprio. Ancora un esempio. Dante afferma di aver incontrato una donna
perfettamente corrispondente per costumi e bellezza ai suoi desideri:
questa importante precisazione pone l’accento sulla donna quale creatura
bella e virtuosa nella quale è incarnato un principio di perfezione oggettivamente desiderabile e desiderato, ed è quindi in contraddizione con la
canzone, nella quale l’immagine di lei è data come un prodotto del pensiero ai limiti del delirio, sì che la sua durezza e vera e propria crudeltà
concentra in sé il principio di realtà con il quale l’immoderata cogitatio
entra inevitabilmente in conflitto.
Ma infine, si può dimostrare che l’epistola allude o rimanda a contenuti
nascosti che per comodità definiamo come allegorici? Lo si può pensare,
ma a rigore non è possibile andare oltre i convincimenti, o i dubbi, di tipo
personale. Posso solo dire, dunque, che l’ipotesi allegorica mi aveva attratto perché ritenevo e ritengo insostenibile una lettura realistica dei testi,
soprattutto nella versione secondo la quale qui si avrebbe la confessione
da parte di Dante di avere interrotto la Commedia perché tutto preso dall’amore per una donna del Casentino, e aggiungo che interpretando quelle
abbandonate meditationes per gli studi filosofici riversati nel Convivio fi63
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nivo per aprirmi almeno implicitamente la via per riferire la folgorante visione dell’epistola all’annuncio della svolta che aveva portato in quegli
anni, dal 1306 in avanti, proprio alla Commedia. Ora resto convinto che,
se di allegoria si possa parlare, essa possa riguardare solo la Commedia:
ma appunto, è intorno alla possibilità di una lettura allegorica che i miei
dubbi sono aumentati. Innanzi tutto l’epistola a Moroello faceva bene o
male corpo con la canzone, e immaginare di estendere a quest’ultima
quella lettura, come pur si dovrebbe, è francamente impossibile. Poi,
l’epistola è, bene o male, la razo della canzone, e sarebbe curioso che una
razo invece di spiegare un’allegoria nel testo-guida, come correttamente
fa la prosa del Convivio, ne inventasse una tutta sua, in forme tali da richiedere una razo della razo …
Non posso farla lunga. Certo è che, se si ritiene insufficiente la lettura
realistica e mal dimostrabile e in ogni caso estranea alla canzone quella
allegorica, non resta che tornare, magari in modi aggiornati, alla terza via,
quella che è stata definita come ‘cortigiana’ e che in chiave tutta letteraria
deresponsabilizza canzone ed epistola alleggerendole dal peso di testimonianze documentarie (come sarebbe, esemplarmente, quella di un’interruzione della Commedia) che ad esse non competono. In questo senso,
mi ha colpito l’approccio recentissimo e originale di Gennaro Sasso, il
quale, sia pure per un accenno, mostra di intendere la lettera come una sorta
di parodia o auto-parodia71. In effetti, se si inforcano occhiali di questo tipo,
tutto torna (ma aumenta naturalmente la distanza tra la canzone e l’epistola),
e il rapporto con Moroello acquista nuovi e persino divertenti colori.
L’ipotesi, insomma, è seducente e intelligente. Ma è bene non abusare di
rimedi estremi, e forse basta riportare i due testi al loro contesto, che è
quello di un gioco a tre, tra Dante, Moroello e Cino da Pistoia.
Sulla opportunità di allargare il discorso a Cino avevo già insistito nel
saggio precedente: non ho ora molto da aggiungere72 e rimando perciò a
quanto ho già scritto. Con una correzione, tuttavia. Là, infatti, avevo ricordato lo scambio di sonetti tra Dante e Cino con Moroello sullo sfondo,
e sottolineato l’affinità di contenuto tra il sonetto dantesco Io sono stato
con Amore insieme (104: Barbi CXI) e la montanina, dal momento che sia
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
il sonetto che la canzone celebrano la fatalità invincibile di un amore che
afferma il proprio potere su ragione e virtù, cancellando il libero arbitrio
del soggetto innamorato. Di più, il sonetto risponde a quello ciniano
Dante, quando per caso s’abbandona, e Dante l’ha mandato a Cino insieme all’epistola Eructavit incendium73, sì da configurare un caso analogo a quello della canzone. Ma finivo poi per staccare la canzone da
questa sorta di squisita e marginale accademia, quasi che essa non avesse
nulla a che fare con quello scambio di sonetti, che si prolunga con il ciniano Cercando di trovar minera in oro (Marti CXXIX) diretto a Moroello, e con il dantesco Degno fa voi trovare ogni tesoro (106: Barbi
CXIII), che risponde a nome di Moroello, mentre probabilmente a Moroello Cino ancora indirizza il sonetto Signor, e’ non passò mai peregrino
(Marti CXXI), che m’era sembrato esser molto vicino alla montanina.
Ecco, può darsi invece che lo stacco vada drasticamente ridotto, e che la
canzone Amor, da che convien e l’epistola a Moroello Ne lateant dominum
vada letta nel contesto di questo fitto intreccio. Non si nega, ovviamente,
che ci sia il forte salto di tono che deriva dal passaggio dal sonetto di corrispondenza alla canzone (dalla commedia, diremmo, alla tragedia), ma i
punti di contatto non mancano. In Io sono stato con Amore insieme Dante
insieme ricorda e rivendica la sua lunga militanza amorosa, sin dalla
prima giovinezza, «da la circulazion del sol mia nona», con scoperto rimando a Vita nova 1, 3, ove Beatrice «quasi dal principio del suo anno
nono apparve a me, e io la vidi quasi dalla fine del mio nono»: ora, è singolare che parlando nella canzone del colpo di fulmine che l’ha colpito in
val d’Arno Dante torni a ricordare, seppure per via allusiva, proprio
l’amore per Beatrice: «… nella valle del fiume / lungo ‘l qual sempre
sopra me sè forte», e che sull’onda del ricordo denunci, per contrasto, la
durezza della presente solitudine nei due versi (67-68) già sopra citati a
questo proposito:
Lasso! Non donne qui, non genti accorte
veggio a cui mi lamenti del mio male.
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LA BIBLIOTECA DE T ENZONE
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Ma di qui è impossibile non andare al sonetto a Cino Perch’io non
truovo chi meco ragioni (101: Barbi XCVI) nel quale Dante si scusa del
suo lungo silenzio, dovuto al rio luogo in cui si trova:
Donna non c’è ch’Amor le venga al volto
né omo ancora che per lui sospiri.
Non mi sembra azzardato dire che il luogo e il momento e l’impossibilità di ragionare d’amore con qualcuno siano, nei due casi, gli stessi. In
questo quadro, tornando a Io sono stato con Amore insieme, varrà allora
la pena di sottolineare come ragione e virtù siano assolutamente impotenti
contro l’amore («nulla refragante virtute»), e come tutta la diagnosi che
Dante fa della potenza d’amore si fondi sugli stessi elementi che costituiscono i punti di forza dell’epistola, dalla tempesta alle guerre de’ vapori,
alla perdita del libero arbitrio, all’essere trascinati da una forza superiore...
Altri testi potrebbero essere messi in gioco, e altri confronti sarebbero
possibili. Ma se si accetta che la canzone e l’epistola siano da inserire nel
dibattito aperto tra Dante e Cino al quale Moroello partecipa per interposta
persona, la questione vera diventa quella di definire la posizione dei due
testi: cos’è che li lega agli altri? cosa li caratterizza?
Ripeto che non mi sembra si possano avere certezze assolute, e la mia
modesta proposta finale, piena di dubbi, vuole solo essere un contributo
alla discussione. Brevemente, osserverei come il nocciolo del dibattito
aperto tra i due poeti riguardi la antica questione della natura di amore:
non però la natura astratta o teorica dell’amore, ma quella che è viva nell’esperienza personale, quella «che ‘ntender no· lla può chi no· lla prova».
E Cino e Dante esprimono, al proposito, verità diverse e alternative.
Dante, in particolare, insiste su due cose: la prima, l’invincibile forza
d’amore che travolge ogni resistenza e che in determinate circostanze può
benissimo passare da un oggetto all’altro senza perdere nulla della sua
intensità (questa è in particolare la tesi dimostrata all’amico nella lettera
Eructavit incendium)74; la seconda, la volubilità e insomma la scarsa serietà amorosa di Cino, quasi che costui abbastanza cinicamente finga una
partecipazione emotiva che è lontano dal provare. Il sonetto 106, Degno
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
fa voi trovare ogni tesoro (risposta per conto del Malaspina al ciniano
Cercando di trovar minera in oro), è particolarmente duro nel contrapporre il modo intenso e drammatico con il quale Dante afferma di vivere
l’amore al modo superficiale dell’amico, assai poco credibile quando va
sbandierando le sue supposte pene. Tu, dice Dante, non sei mai stato veramente innamorato: nel tuo cuore «stecco d’Amor mai non fé foro»,
mentre io «trafitto sono in ogni poro», e perciò io sì che, a differenza di
te, trovo quella corrispondenza d’amore (la minera in oro) della quale tu
vai invano in cerca. Te l’impedisce infatti la tua volubilità (il «volgibile
cor») e la tua incapacità di ‘vedere il sole’ è la stessa, orribile e crudele,
del cieco75: solo se ti scorgessi versare un fiume di lacrime potrei forse
credere alle tue belle parole (le parole conte)76. Non si può dire che Dante
vada leggero. E altrettanto duro è nell’altro sonetto, che vale la pena di trascrivere intero:
Io mi credea del tutto esser partito
da queste nostre rime, messer Cino,
ché si convien omai altro camino
alla mia nave più lungi dal lito;
ma perch’i’ ho di voi più volte udito
che pigliar vi lasciate a ogni uncino,
piacemi di prestare un pocolino
a questa penna lo stancato dito.
Chi s’innamora sì come voi fate
or qua or là, e sé lega e dissolve,
mostra ch’Amor leggermente il saetti.
Però, se legger cor così vi volve,
prego che con virtù il correggiate,
sì che s’accordi i fatti a’ dolci detti.
Qui per una serie di ottimi motivi si è soprattutto badato a quello che
Dante dice di sé, e insomma all’altro cammino, ma al nostro fine occorre
invece dare tutto il peso che merita a ciò che Dante dice di Cino, ribadendo come meglio non si può quanto l’altro sonetto già denunciava (basti
la corrispondenza perfetta tra le parole conte e i dolci detti, che contrastano con la realtà di un comportamento volubile e ‘leggero’). E s’ag67
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giunga ancora che Cino, rispondendo a Dante, conferma appieno le accuse, anche se trova modo di giustificarsi con la dolorosa e difficile condizione d’esiliato. Egli continua ad amare unicamente la sua donna seppur
costretto lontano da lei e privo di speranze, ma paradossalmente proprio
per questo non rinuncia a dilettarsi con altre che le assomiglino:
Poi ch’i’ fu’, Dante, dal mio natural sito
fatto per greve essilio pellegrino
e lontanato dal piacer più fino
che mai formasse il Piacer infinito,
i’ son piangendo per lo mondo gito
sdegnato del morir come meschino,
e s’ho trovato a lui simil vicino,
dett’ho che questi m’ha lo cor ferito.
Né da le prime braccia di Pietate,
onde ‘l fermato disperar m’assolve,
son mosso, perch’aiuto non aspetti:
ch’un piacer sempre mi lega ed involve,
il qual convien ch’a simil di beltate
in molte donne sparte mi diletti.
Lo scambio sembra che esca dalla mera dimensione letteraria, e rimandi a elementi biografici reali che si riflettono anche in componimenti
d’altri autori, che hanno ugualmente di mira la volubilità amorosa di
Cino77. Ma anche se è proprio questa mezzana e ‘normale’ concretezza di
riferimenti che conferisce un sapore particolare ai sonetti, a noi qui interessano due cose. La prima, che Cino dà un’interpretazione ribassata e
passabilmente opportunistica alla questione affrontata per lui da Dante
nell’epistola Eructavit incendium, e cioè se fosse ammissibile passare de
passione in passionem: di fatto, sul piano della teoria d’amore, nel sonetto
egli risponde positivamente alla questione già posta dal Cappellano, se
«purum amorem cum una possit aliquis muliere servare ac cum altera retinere mixtum sive communem», ove ovviamente l’amore puro è per
l’amata lontana, e quello mixtum sive communem per quelle che, per somiglianza, la sostituiscono78. La seconda, che Dante per parte sua, fermamente contrario, tiene ben fermo un principio: quello di Cino non è amore.
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L’amore è un’altra cosa. E non Cino, dunque, ma egli, Dante, può darne
testimonianza: io ho amato sin dalla fanciullezza … io so … io trovo la
miniera …, e implicitamente ma chiaramente io vedo, e tu no …79 E se di
qui torniamo alla lettera a Moroello, ecco che riusciamo a intendere meglio come essa sia, di là da tutto, anche una perfetta e quasi manualistica
descrizione del ‘vero’ innamoramento. C’è un elemento di casualità, o
meglio di non-premeditazione («securus et incautus»), ma insieme, senza
contraddizione, la miracolosa sensazione di incontrare proprio ciò di cui
si è in cerca, quasi la miracolosa rivelazione dell’archetipo femminile(«mulier […] apparuit nescio quomodo meis auspitiis undique moribus et
forma conformis»). Segue il classico stupor, ch’è solo il rapido passaggio
attraverso il quale il soggetto è travolto da un potere terribile ed estraneo
che ha il suo correlativo oggettivo solo nelle forze scatenate della natura
e che lo domina totalmente e rimuove tutto ciò che gli è d’ostacolo80. Che
avviene allora? Che la poesia d’amore torna a sgorgare, anche se si era
pensato di essersene ormai allontanati; che ne riesce impedito qualsiasi
impegno d’ordine intellettuale, sospetto in quanto retto da principi di razionalità e dunque sempre ostile all’irrazionale dominio della passione
(non sarebbe dunque indispensabile collegare le meditationes al Convivio
o alla Commedia: la cosa sta perfettamente in piedi da sé); che il libero arbitrio è annullato e il soggetto è interamente agìto dalla forza che di lui si
è impossessata.
Questo è il fedele riassunto della parte centrale dell’epistola, preceduta
dalla parte nuncupatoria rivolta a Moroello e chiusa con l’invito al medesimo Moroello affinché legga nell’allegata canzone qualiter, e cioè in che
modo si viva dopo l’evento, quando ormai si è innamorati per davvero. Sì
che il tono particolare delle parole di Dante, apparse via via oscuramente
allegoriche oppure eccessive e quasi caricaturali, oppure ridotte senza più
a mero documento di un fatto reale insignificante e importantissimo insieme, sarebbero da riportare alla polemica con Cino e da intendersi come
l’esempio personalmente vissuto (se poi fictum o vero, non ha alcuna importanza) di cosa significhi cadere sotto il dominio di amore, in questa
«mise à l’épreuve de la verité de l’amour-passion» della quale ha parlato
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la Fontes Baratto. Al proposito un dato è innegabile e, credo, sin qui non
sottolineato: l’innamoramento del quale Dante parla non è il primo, ché
lungo l’Arno e «da la circulazion del sol mia nona» egli intenzionalmente
si presenta come colui che già aveva sperimentato la potenza d’Amore, e
ciò comporta che la lettera a Moroello sia il perfetto esempio pratico della
teoria esposta in quel medesimo torno di tempo a Cino nella epistola
Eructavit incendium, esser cioè possibile passare de passione in passionem vivendo la nuova con la stessa intensità e radicalità con la quale era
stata vissuta l’antica.
A questo punto mi fermo, osservando solo che anche il discusso congedo della canzone può rientrare nel discorso: alle cose che Amore è in
grado di distruggere, espellere o imbrigliare nell’epistola se n’aggiunge
un’altra, e non delle minori: l’amor di patria. Il tema meriterebbe d’essere
considerato a sé, ma anche qui mi limito a suggerire la possibilità di un
sottinteso polemico, quasi Dante dicesse al Cino del sonetto Poi ch’i’ fu’,
Dante, dal mio natal sito di non invocare l’alibi dell’esilio per giustificare
i suoi leggeri amori lontano da casa: se l’amico avesse pianto tutte le sue
lacrime sarebbe stato credibile, ma lo sarebbe anche stato se per un momento una vera e grande passione amorosa fosse riuscita a fargli dimenticare la sua Pistoia. Con ciò, senza alcuna prova e solo per semplice
impressione di lettore, continuo a restare vicino a Gorni almeno nel pensare che la canzone non sia nata in quel contesto e tanto meno per quell’epistola, ma che da essa spalleggiata si sia prestata bene, magari con
qualche rifacimento o adattamento nella sua ultima parte, a sostenere il
peso di una querelle che investiva i fondamenti della visione dantesca
dell’amore. Ma ciò appunto richiederebbe assai più lungo discorso.
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
NOTE
1
Ha dato il via Giuliano Tanturli 2003: 251-266, insistendo soprattutto sulle
liriche d’apertura e chiusura della serie, cioè Così nel mio parlare e la nostra
montanina Amore da che convien, ed è andata avanti in questa direzione Natascia
Tonelli 2006: 9-59, e 2007: 51-71. Aggiungo che testo di riferimento è l’edizione
delle Rime commentata a cura di Domenico De Robertis, Firenze, Edizioni del
Galluzzo, 2005, che fa seguìto all’edizione critica del testo per la Società Dantesca Italiana-Edizione Nazionale, Firenze, Le Lettere, 2002, in cinque tomi.
Come si sa, dopo che De Robertis ha accertato di là da ogni dubbio che il cosiddetto ordinamento ‘del Boccaccio’ preesiste a Boccaccio, l’ipotesi che dietro
quella serie si possa intravvedere un disegno d’autore incombe inevitabile, quali
che siano poi le posizioni in merito dei singoli studiosi.
2
Ep. IV, Ne lateant dominum, a cura di Arsenio Frugoni, in Alighieri 1979:
536-539. Questa lettera, pubblicatissima (Torri, Troya, Fraticelli, Giuliani, Bartoli, Moore, Zenatti, Torraca, Passerini, Della Torre …) era stata scoperta nel
1838 da Witte nel codice Vaticano Palatino 1729 (Witte 1842: II, 235-236). Storicamente importante e ancora interessante per le annotazioni storiche è l’edizione Torri (Alighieri 1842); una buona riproduzione della pagina del codice che
contiene la lettera è in Novati 1909: 507-542. Ha ricontrollato sul manoscritto e
dato il testo della lettera e della canzone con traduzione inglese, bibliografia e
note Paget Toynbee in Dantis Alagherii Epistolae, 1966: 29-41; ora, tra altri, ha
procurato un’ulteriore edizione e traduzione anche Paola Allegretti, 2001: 2-3 e
11-14.
3
Fenzi 2003: 43-84.
4
Cito il Trattatello dall’edizione a cura di Pier Giorgio Ricci, in Boccaccio
1974, III pp. 503-504.
5
Gorni 1995: 134. E vedi Allegretti 2001: 108 ss.
6
Allegretti 2001: 94-95.
7
Petrocchi 1986: 100: «Se Dante accetta la nomina a procuratore, vuol dire
che egli è sul posto da qualche tempo per poter fruire della fiducia di tutti e tre i
rami dei Malaspina, e già doveva aver svolto altre meno importanti incombenze
consiliari».
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8
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Hardie 1960: 359-370.
9
Torraca 1903: 139-160: rec. a Zenatti1900 (vedi anche Torraca 1921: 137179: in part., pp. 150-153). Hanno poi condiviso la datazione di Torraca lo Zingarelli, sino al suo secondo Dante (Zingarelli 1931: 641-646: pp. 644ss.
sull’epistola, da lui in un primo tempo giudicata apocrifa: vedi avanti, nota 10);
Pascoli 1913: 289-309: p. 29 (ma s’appoggia solo alle parole di Boccaccio), e
Ciafardini 1943: 163-175: ma si veda anche il capitolo successivo, Pietra è la
donna del Casentino, pp. 179-188, ove lo studioso riporta agli anni attorno al
1311 tutto il gruppo delle petrose, del quale anche la montanina farebbe parte. Ha
contestato l’idea che la Curia sia per forza quella di Arrigo VII Santangelo 1921:
161-162. Ma si trovano anche altre proposte, per quanto altamente improbabili,
come il 1315 di Haller 1954: 84-88 (ne discute l’ipotesi Hardie 1960: 360), o, per
la Curia, quella di Torri, per altro attraente, che si dichiara certo trattarsi di Firenze (Alighieri 1842: 13: «Dante parla della Curia di Firenze, ove gli fu lecito
seguire gli uffizi di libertà nelle Ambascerie e nel Priorato, non già, come parve
al ch. Prof. Witte, della corte dei Malaspina»).
10
Bartoli 1881: 277-278. La citazione riguarda le parole di Vanni Fucci che,
«perché doler ten debbia», profetizza a Dante la sconfitta dei Bianchi di Pistoia
da parte dei Neri guidati da Moroello Malaspina, che dapprima guidò l’assedio
alla fortezza di Serravalle Pistoiese, capitolata il 6 settembre 1302, e poi, eletto
nel marzo 1306 capitano della ‘Taglia’ guelfa, conquistò rapidamente Pistoia,
della quale fu nominato capitano. I dubbi di Bartoli non hanno tuttavia molto
peso e possono addirittura essere rovesciati, perché il Malaspina si riservò sempre
una larga autonomia badando, e assai bene, ai propri interessi e trovandosi in circostanze importanti in perfetta sintonia con Dante: negli anni 1307-1308, sganciatosi dalla Lega guelfa, ebbe un grosso scontro con Firenze a proposito dei beni
degli Ammannati, e lo vinse tagliando ogni comunicazione via terra tra Firenze
e Genova; quando nel 1310 Arrigo VII scese in Italia, il Malaspina gli andò incontro a Vercelli per rendergli omaggio, lo aiutò finanziariamente e partecipò con
lui all’assedio di Brescia, della quale diventò poi vicario imperiale, e favorì in
seguito il passaggio delle truppe imperiali attraverso i passi appeninici. S’aggiunga ancora (ma basti l’accenno) che sempre più il Malaspina approfondì i suoi
legami con Genova, ove alla sua morte nel 1315 fu sepolto, e in particolare con
i Fieschi (sua moglie fu la «buona» Alagia di Niccolò Fieschi, il fratello di papa
Adriano V che la ricorda a Dante in Purg. XIX 142-143) e che su questo sfondo
assai mosso e ricco di vicende, da arricchire ancora con la questione delle impor-
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
tanti proprietà in Sardegna che portarono i Malaspina, nel 1308, ad allearsi con
il sovrano Giacomo II d’Aragona, va infine considerata la famosa invettiva contro
Branca Doria nel XXXIII dell’Inferno. Un recente aggiornato profilo di Moroello,
con bibliografia, è nella ‘voce’ di Salvatori 2006: 788-792, ma già ricco di preziose informazioni era Emanuele Gerini nelle sue Memorie storiche, nelle quali
con ampio ragionamento già ravvisava Moroello nel destinatario dell’epistola
(Gerini 1829-1831, II p. 49: citato da Torri in Alighieri 1842: 15-16).
11
Bartoli pubblica la lettera in queste pagine secondo il testo datone dal Witte
(vedi nota 2). Ma va appunto ricordato che non era stata pacificamente accettata:
lo Scartazzini l’aveva giudicata «una sciocchissima impostura», piena di assurdità, scritta «in gergo per noi inintelligibile» (Scartazzini 1881-1883: II, 289292: vedi pure Scartazzini 1890: 216 e 1894: 345), e sulla stessa strada s’era
messo anche Zingarelli del quale vale la pena ricordare questo giudizio: «Con
questa canzone si presenta un’epistola indirizzata a Moroello Malaspina da
Dante, il quale scriverebbe per attestargli gratitudine sempre viva e parlargli di
un caso occorsogli. Il caso riducesi all’amore rappresentato nella canzone, della
quale l’epistola non dice più né meno, salvo che usa un linguaggio mirabolante
e pedantesco. Le sue stranezze, l’insulsa parafrasi di alcune espressioni figurate
della canzone, alla quale talvolta contraddice, le espressioni vaghe, ambigue, non
sono punto la maniera di Dante e tradiscono l’esercitazione retorica» (così nel
1905: cito da Zingarelli1914: 62-63: ma vedi già Zingarelli 1899: 49-58, e in seguito ancora in Gaspary1914, I p. 263 nota). A Zingarelli aveva sùbito efficacemente risposto Vandelli, 1899: 59-68, chiarendo in particolare le riprese che
dall’epistola dantesca aveva fatto Boccaccio nella sua Mavortis milex, scritta nel
1339 e verisimilmente indirizzata a Petrarca, e con gran cura Zenatti 1900: 430462. Diversamente, Guido Persico Cavalcanti avrebbe voluto attribuire la lettera
a Cino da Pistoia e appiccicarle il sonetto ciniano Cercando di trovar lumera
[sic] in oro: Persico-Cavalcanti 1897: 112-116: ma vedi, contro, la nota di Barbi,
1897: 103, e Pellegrini 1898: 311-319.
12
Dionisi 1806: 41.
13
Bartoli 1981: 282-284.
14
Bartoli 1981, pp. 284-285. Riprende l’indicazione lucanea e l’ipotesi di Firenze (ma per dichiarare che si tratta di un enigma impossibile a sciogliere) anche
la Allegretti, 2001, pp. 106-107.
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15
Gorni 1995: 134-135. Aggiungo qui che già Gorni mette in rilievo la posizione di Bartoli e ne apprezza le ragioni.
16
Zingarelli 1906: 131-162. Qui, p. 139: «Ma qui ci tentano considerazioni di
altro ordine: davvero se gli avessero aperte le porte, egli pel legame di questo
amore sarebbe rimasto fuori? A quarant’anni faceva getto di ogni cosa ‘più caramente diletta’, per una donna indifferente e crudele, senza voler neppure che
ella si impietosisse per lui? Manca ogni carattere di possibilità e di verità a una
tale situazione; e si manifesta perciò nella finzione lo scopo dell’omaggio. Il
poeta ben accolto in una corte del Casentino, presso i conti Guidi, si sdebitò della
sua obbligazione verso gli ospiti con un canto di amore cortigiano». Ma allora occorre anche dire, di là da tutto, che non suonano come un gran bel complimento
verso i nuovi ospiti i vv. 67-68 della canzone: «Lasso! Non donne qui, non genti
accorte / veggio a cui mi lamenti del mio male», che certo escludono destinatari
casentinesi.
17
Maggini 1965: 50-57. Qui, egli conferma la data del 1307, anno nel quale
Dante era nel Casentino, e ripiglia la critica a Pascoli e Ricolfi che già aveva accenata nella sua Rassegna dantesca, 1932: 299. Una convinta adesione allo
schema ‘discendente’ o involutivo di Contini è poi in Paolo Trovato, che scrive:
«si sorprendono [in Petrarca] con notevole frequenza tessere provenienti da altre
sezioni del canzoniere dantesco: dalla canzone Tre donne e, soprattutto, dalla
montanina Amor da che convien. Appunto la montanina, singolare ircocervo lirico che risente di esperienze tra loro lontanissime, apparentemente contraddittorie […] riassume ed anticipa, più ancora delle oscillazioni ciniane, la nuova
sensibilità del Trecento. Equidistante tra la tensione fine a se stessa delle ‘petrose’
e l’oltranza eguale e contraria del nuovo stile, essa ripropone (dopo una parentesi
‘impegnata’) la venus come il più degno degli oggetti di canto; nel momento
stesso in cui esibisce i vecchi motivi sembra tradirli e denunciarne l’origine libresca, la funzione di sostegno o décor. (Mi domando se non voglia essere un tentativo di indicare, prima di chiudere con la lirica, l’unica strada che ancora restava
da percorrere; il lascito estremo prima di entrare nella selva: raccolto, com’era da
prevedere, dal più dotato dei posteri)» (Trovato 1979: 27). Riporta questi giudizi
già Capovilla 1994: 297 ss. Questo lungo studio pone la canzone di Dante quale
punto d’arrivo della tradizione lirica precedente (pp. 350-351: la canzone «sembra quasi ricapitolare l’intera tradizione volgare, dagli avvii federiciani alla produzione realistico-municipale di marca guittoniana […] fino alla stessa
esperienza vitanovistica»), e snodo fondamentale verso le successive esperienze
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La montanina e i suoi lettori
trecentesche, e fornisce sia una amplissima schedatura nei due sensi che una
messa a punto delle principali questioni critiche che la montanina ha sollevato.
Si tratta dunque di un contributo essenziale, al quale rimando dispiacendomi di
non poterne raccogliere tutti i suggerimenti, disposti lungo una linea diversa da
questa mia.
18
Alighieri 1967: II, Commentary, 331. Cogliendo così almeno una parte di
verità. Così ancora J. F. Took, per il quale la canzone non si riferisce ad alcun incontro o episodio specifico, ma piuttosto coglie una idea dell’amore: «it is a question of Dante’s taking up again the central probleme of his experience as a poet
and as a moralist, the problem of the relationship of love and free will, of desire
and reason» (Took 1990: 79-81: p. 81). E Barnes e Barański a loro volta osservano: «Since guiderdone is not contemplated, all the elements of the situation
exist only in relation to each other without any absolute value beyond the confines of the poem: the conception of amore-morte is a circular, self-contained system. The situation is presented as a ne plus ultra in all its essential components:
there is not the slightest possibility that anything in it could ever change. This in
itself tends to dehumanize the lady and suggest that she is not made of flesh and
blood but is a figment of Dante’s imagination; like the donna pietra, she is presented purely as an idea» (Barnes- Barański 1978: 304: aggiungo che questa bella
analisi della canzone è ricca di fini e importanti osservazioni che, per la linea qui
seguita, mi spiace di non poter riprendere). Ma ancora sulla scia di Contini è Angelo Jacomuzzi che dopo aver osservato il ritorno ad accenti stilnovistici e arcaici
scrive: «La novità e la differenza della canzone stanno nel passaggio dal sistema
tragico alla costruzione retorica, nel tentativo dantesco di costruire uno schema
retorico della situazione dell’amore non corrisposto e del legame amore-morte,
che può ripetersi e moltiplicarsi in una indefinita varietà di descrizioni verbali»
(Alighieri 1983: 314).
19
Alighieri 1969: 643 e 652. Vedi anche Pernicone 1970: 219-221.
20
Capovilla 1994: 341 (ma si veda tutto il discorso sviluppato dall’autore, pp.
339 ss.).
21
Gorni 1995, p. 136. Ma vedi meglio avanti, note 61-62.
22
Alighieri 2005, nota 79: «Ma le parole messe in bocca alla canzone sono veramente ai fiorentini? O non piuttosto l’iperbole di una situazione che cancella
ogni altro pensiero e dunque ‘rivolte’ alla donna? E ad ogni modo, procedendo
nell’analisi, sempre meno la canzone sembra appartenere ad altra età, e nel ritorno
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di un linguaggio per la massima parte riconoscibile, attestare bensì una tensione
che l’avvicina alle canzoni che qui precedono immediatamente» (cioè Tre donne
e Doglia mi reca).
23
Con varianti proprie, sulla linea appena considerata si colloca anche Claudio
Giunta che, nell’edizione commentata delle Rime in stampa entro le Opere minori
di Dante per la collana I Meridiani dell’editore Mondadori, di fatto azzera tutta
la problematica che attorno alla canzone si è andata accumulando e la commenta,
diremmo, per quello che essa appare, senza concedere nulla alla lettera a Moroello e alla lunga e perplessa tradizione esegetica. Con grande gentilezza Giunta
mi ha procurato sia il testo della sua Introduzione che il commento, nuovo e importante, alla montanina, e di ciò lo ringrazio.
24
Alighieri 1880: 293-296 (testo), e pp. 437-440 (commento).
25
In Alighieri 1883: Dissertazione terza. Gli amori con Gentucca degli Antelminelli: 27-71. L’edizione è però postuma: il commento è del 1863, e l’autore
morì nel 1864.
26
Carducci 1865: 163.
27
Alighieri 1907, in part. il cap. Il terzo e violento amore o la Pargoletta:
157-289 dell’introduzione (per la montanina definita canzone sorella di Così
nel mio parlar, vedi in part. pp. 168 ss.; per un’analisi congiunta della canzone
e dell’epistola a Moroello, sempre nell’esclusiva chiave dell’oltranza passionale,
pp. 239 ss.). Questo lavoro di Santi lo si trova ancor oggi citato con approvazione, ma in verità lo direi ampiamente sovrastimato retorico e confuso com’è
nel suo continuo mescolare cose che non vanno mescolate, riportando agli anni
dell’esilio e raccogliendo sotto il nome della Pargoletta tutte le rime d’amore non
indirizzate a Beatrice (tanto che persino la citata Dissertazione di Serafini mi
sembra più utile, perché almeno discute più da presso con gli studi precedenti e
contemporanei). Occorre aggiungere che questo volume secondo è stato l’unico
pubblicato: il progetto ne prevedeva un primo dedicato alle rime per Beatrice,
sino al settembre 1291, e un terzo dedicato alle rime di corrispondenza e tenzoni
e alle rime dubbie.
28
Alighieri 1943: 215-222 (p. 216: «La canzone, che nulla vieta di pensare si
riferisca a un amore reale, accostata al sonetto Io sono stato con Amore insieme,
indirzzato a Cino, è notabile per la coloritura pessimistica del concetto di Amore
sì da far pensare a una ricaduta nel fatalismo irrazionalistico del Cavalcanti», ecc.).
76
Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
29
Renucci 1958: 93 (ma vedi ancora avanti, nota 37). Mi piace ricordare qui
che le pagine dedicate alle ‘petrose’ in questo volumetto sono particolarmente
belle. Segnalo, anche, che non aiuta molto la sbrigativa affermazione di Vasco
Bianchi, per la quale nella «canzone montanina la donna bella e orgogliosa che
rifiuta l’amore del poeta, è, insieme, donna reale e allegoria di Firenze» (Bianchi
1973: 49).
30
Picone 1997: 41-57. Per lo studioso, all’interno del gruppo finale delle ‘distese’, cioè delle canzoni nell’ordine allora supposto del Boccaccio, sarebbero
«individuabili due direttive tematiche intrecciate fra di loro: la direttiva dell’amor
doloroso e tragico, rinvenibile nelle canzoni E’ m’incresce di me, La dispietata
mente e Amor, da che convien (che occupano rispettivamente le posizioni 10, 12
e 15); e la direttiva dell’amore razionale che agisce nelle canzoni Poscia ch’amor,
Tre donne e Doglia mi reca (cui sono assegnate le posizioni 11, 13 e 14) […]
troviamo dunque tre microtesti che sviluppano la prospettiva delle canzoni petrose, in quanto trattano l’amore come forza non costruttiva ma distruttiva, come
tensione che non proietta il poeta verso l’integrazione divina ma lo fa precipitare
verso l’alienazione psicologica e spirituale. Si capisce allora la scelta della montanina a sigillare il canone delle canzoni distese: Boccaccio vuol far rilevare in
tal modo la situazione di impasse ideologica e stilistica raggiunta dalla lirica dantesca, per superare la quale non rimane aperta che la possibilità del cambiamento
del genere, del passaggio dalla lirica all’epica, dalle Rime alla Commedia» (p.
50). Ora, eliminato Boccaccio ed evocato al suo posto il fantasma di Dante, tutto
questo discorso probabilmente ci guadagna: ma è assai interessante, allora, il discorso sviluppato da Tanturli che stringe assieme la prima delle canzoni, Così
nel mio parlar, e l’ultima, Amor da che convien, ove la prima, con la sua poetica
dell’asprezza, ha forte valore programmatico, mentre in un libro «costruito con
pagine bell’e scritte, più che in ogni altro, principio e fine sono l’essenziale, individuandolo e delimitandolo; meglio se alla fine c’è qualcosa che richiama l’inizio, a dare il segno di circolare chiusura, come si dà fra Così nel mio parlar e
Amor, da che convien». E ancora, a proposito di quest’ultima: «Nessun’altra dantesca parlava così espressamente dell’autore, indicandone la patria e insieme lo
stato attuale dell’esiliato […] È una σφράγίς in piena regola, come quella di Ovidio in calce agli Amores III xv 2-6 […] o quella di Virgilio a chiudere le Georgiche IV 559-64 […] Chi mise in fine la Montanina intese chiudere alla luce
d’una non corrente cultura umanistica il libro delle canzoni di Dante. Vi si riconosce questa volontà, perché, ripeto, su quindici canzoni […] solo questa ne porta
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una così chiara, indicando patria, stato e soggiorno attuale del poeta» (Tanturli
2003: 264-266).
31
Picone 2007: 11-24 (qui è interessante lo spunto che, nell’ottica di una riabilitazione dell’eros, rimanda all’episodio infernale di Paolo e Francesca, e l’altro, di una contrapposizione città vs natura, dove sarebbe il degrado della città a
costringere Dante alla regressione allo ‘stato di natura’).Vedi anche Picone 2002:
105-112.
32
Carpi 2004: 761-762. Si possono avere opinioni diverse, ma è difficile controbattere. Importante anche che Carpi scriva, pp. 642-643, «Il congedo della
montanina è infatti compatibile solo con uno stato d’animo ancora analogo a
quello del secondo congedo di Tre donne, auspicio di perdono e tono conciliante»
(nella sostanza, così intende anche Stabile: vedi avanti, nota 59). Per una più
ampia discussione sui congedi di Tre donne rimando a Fenzi 2007: 91-124.
33
Tonelli 2006: 25 e 52.
34
Si veda per esempio l’ottimo ‘manuale’ dantesco di John A. Scott (Scott
2004: 96-98).
35
Ferretti 1935.
36
Debbo qui limitarmi a riassumere l’essenziale: vedi Boccaccio 1974: III , I
red., §§ 179-182, pp. 482-484; II red., §§117-120, pp. 525-527; Boccaccio 1965,
VI pp. 447-450: Canto VIII. I. Esposizione litterale 6-17.
37
Ferretti 1935: 64-66. Ho ricordato poco sopra Renucci: può darsi che da
Ferretti (citato nella finale bibliografia) egli derivi la medesima convinzione circa
le meditationes, a proposito delle quali semplicemente commenta: «Il est difficile
de ne pas voir dans cette phrase une allusion directe à la Divine Comédie» (Renucci 1958: 94).
38
Padoan 1993: 23: «Non è inverosimile che egli l’abbia iniziato in latino, e
che avvedendosi ben presto dell’acerbità di quel che in quegli anni egli possedeva
dell’ “arte di gramatica” (cfr. Conv. II XII 4) e di quanto meglio gli riuscisse il
poetare in volgare, mutato stile, abbia volto quell’inizio di poema paradisiaco
nella lingua che gli era più familiare. Non è inverosimile: e alla luce delle affermazioni di Ilaro e di Filippo Villani è quel che dobbiamo credere».
39
78
Padoan 1993: 35-36 (il corsivo è dell’autore).
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40
Contro l’autenticità della lettera, e per la storia della questione e la bibliografia relativa, vedi ora Bellomo 2004: 201-235. Ma si torni sempre anche a
Rajna 1909 (pur egli contrario all’autenticità), pp. 233-285 (è compresa una tavola fuori testo con la riproduzione del testo, dallo Zibaldone Laurenziano di
Boccaccio). Ricordo solo che anche per Zingarelli, nel suo secondo Dante (Zingarelli 1931: 510), la lettera è «tessuta di assurdità e menzogne», scritta per accreditare un commento all’Inferno posto sotto l’egida di Dante medesimo. Per
l’autenticità e la sostanziale veridicità del racconto, oltre a Ferretti, Padoan e Pasquini, vedi ora Indizio 2006: 191-263. Sul ‘genere’ costituito dalla lettera, che
rientrerebbe appieno nei canoni del ‘commento’, vedi Rossi 2006: 265-284.
41
Pasquini 2001: 9. Più avanti, alle pp. 127-129, parla dell’ amore distruttivo
descritto nella montanina, e della confessionee contenuta nell’epistola a Moroello, ripetendo «che proprio questo amore tempestoso l’ha distolto dalle meditazioni e dalla tensione creativa per la stesura del poema». Pasquini riprende qui
un suo saggio precedente: Pasquini 1983-1984: 73-82.
42
Pasquini 2007: 13-29 (insieme alla più rapida sintesi che è in Pasquini 2006:
51-59). Ancora più recentemente Pasquini è tornato a confermare le tesi di Padoan e sue ridiscutendone con ampiezza: vedi Pasquini 2008, pp. 15-36.
43
Per la verità, a Novati, 1909: 527-529, l’oraculum non fa alcun problema:
al proposito – egli dice – si è fatto troppo rumore per nulla! La parola, osserva,
già nell’antichità aveva assunto il valore di ‘detto notevole’, ‘autorevole sentenza’; nell’età imperiale indicò i rescritti sovrani e nell’alto medioevo i decreti
pontifici, e infine divenne comunissima per qualsiasi missiva più o meno importante. Boccaccio stesso, alla fine della Mavortis milex, l’epistola che si rifà abbondantemente proprio a questa di Dante (vedi sopra, nota 11), l’usa in questo
senso: «deprecor affectantes, quatenus gratia vestri oraculi possim admissum solatium reassumere condecenter» (‘affettuosamente vi prego che, per via della vostra risposta, io possa riacquistare la consolazione perduta’: trad. di Ginetta
Auzzas, in Boccaccio 1992: 514-515). È dunque perfettamente legittimo fermarsi
a questo punto, come fa Frugoni che nell’ed. citata traduce appunto: «il testo del
presente scritto». Ma già ad altri, e ora anche a me, continua a sembrare che
l’oraculum abbia qui un alone di significato più ampio, e insomma voglia indicare le valenze simboliche della visione successivamente descritta. Per quello
che vale, aggiungo anche che l’uso che Boccaccio fa della parola non è così piatto
come Novati sostiene: Boccaccio infatti invoca una sorta di messaggio rivelatore
e miracoloso che gli insegni – così infatti prosegue – come ‘ornare il capo con
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l’elmo di Apollo, la sinistra con lo scudo di Pallante e la destra con l’asta di Minerva; come nuotare nelle abissali profondità della Filosofia e attingere la grazia
divina dell’Empireo; scorgere con maggior nitidezza Plutone giù nel suo inferno
e le stelle che brillano nella trasparenza dell’etere; comprendere la sostanza uniforme e omogenea del Primo Mobile e tagliare con la vostra spada [cioè con le
armi che l’atteso ‘oraculum’ di Petrarca gli fornirà] la Gorgone del peccato’ (in
questo caso la traduzione, forse più sciolta di quella della Auzzas, è mia). Quanto
meno si dica dunque che l’eventuale risposta di Petrarca non sarebbe affatto per
lui solo una risposta, ma appunto un oraculum … E sarebbe per contro improprio
e curioso che Dante, che non è né imperatore né papa, definisca presuntuosamente come oraculum la sua lettera, qualificandola come ‘alta’, ‘nobile’, ‘autorevole’ o simili: a meno che non lo faccia con «un’intenzione ironica o
autoironica», come ora suggerisce Sasso 2008: 66 nota 8. Vedo che già Giorgio
Stabile ha mosso obiezioni affini a Novati: «È ben vero che l’espressione sta per
un più generico series litterarum, cioè ‘lettera’ […], ma lo scarto d’uso depone
per un vigilato impiego da parte di Dante: qualificare come oraculum una lettera
(almeno per chi, come lui, possedeva un’eccezionale coscienza linguistica) significava promuoverne il contenuto a decreto o pronunzia oracolare d’una capacità
vincolante pari all’autorità che l’emetteva; non per nulla venivano così designati
i rescritti imperiali» (Stabile 2007: 74-75 nota 15).
44
Al proposito, Foster e Boyde: Alighieri 1967: II, Commentary, 339, ‘soffrono’ l’argomento e lo risolvono osservando che Dante non aveva né finito né
pubblicato il Convivio, e dunque non si sentiva obbligato da quanto egli stesso
vi avesse affermato.
45
Fontes Baratto 2007; Barberi Squarotti 1972.
46
Vedi sopra, nota 12.
47
Troya 1856: 144-145. Troya, che pone intorno al 1305 la trasformazione di
Dante da guelfo in ghibellino, identifica il Malaspina in Moroello da Giovagallo
e considera unitariamente canzone ed epistola: qui, le meditationes designerebbero gli studi filosofici e teologici fatti a Parigi nel biennio 1310-1311.
48
Alighieri 1855: 47.
49
Alighieri 1856: 142.
50
Branchi 1897, I p. 185.
51
Pascoli 1913, in part. pp. 289-309.
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52
Per alcuni esempi dell’uso di serie, vedi Fenzi 2003: 50. Torri traduce:
«piacquemi d’indirizzare al cospetto della vostra magnificenza la serie della misteriosa visione che mi fo a narrare» (Alighieri 1842: 13).
53
Rilevo che Ferretti 1935: 65 nota 1, sintetizza correttamente la posizione di
Pascoli senza criticarla, ma semplicemente contrapponendola alla sua, quasi a
significare che si tratta di un’alternativa perfettamente legittima e altrettanto ‘indiscutibile’.
54
Gorni 1995: 144 nota 33. Ma vedi, contra, Pasquini 2007: 28 nota 60, che
sottolinea il valore del modello virgiliano, pur ricordato da Gorni, di Egl. I 2:
«silvestrem tenui musam meditaris avena».
55
Fenzi 2003: 57-58, alle quali rimando per le auctoritates citate.
56
Ricolfi 1931: 481-511.
57
Zingarelli 1931: 645. Ma molte sono le osservazioni sulla canzone: per
esempio, a giustificare i toni duri verso la donna, lo studioso ricorda l’episodio
del gabbo (Vn XIV) e il son. Ciò che m’incontra, e ancora, per il fiume, Cavalcando l’altrier; rileva come Donne, ch’avete intelletto d’amore qui paia volutamente rovesciata («non donne qui, non genti accorte …»: il che, tra l’altro,
dovrebbe alludere alla Firenze del lontano innamoramento!). E ancora rinvia all’apparizione di lei «acerba e sdegnosa e quasi cattiva, nel paradiso terrestre, in
riva al fiume sacro, Purg. XXX e XXXI, preceduta da un tuono, e la paura e il
tremito del Poeta affranto, e il pianto e i sospiri, come qui, e lo svenimento». Infine, p. 643: «Poiché ella [Beatrice] è ora a godere la beatitudine celeste, egli significa col timore della diminuzione della sua bellezza nel conoscere il mortale
affanno di lui, che la pietà ne turberebbe la perfetta felicità in cielo»
58
Hardie 1960: passim. Queste ipotesi, pur ben argomentate attraverso molti
riscontri, specie con la Beatrice del sommo del Purgatorio, sono tuttavia discusse
e respinte come suggestive ma non conclusivamente dimostrate da Kenelm Foster
e Patrick Boyde nella loro edizione: Alighieri 1967: II, 330-331 e 338-340.
59
Stabile 2007: 82-83. Per questa specularità complessa tra la donna e Firenze,
vedi anche Gorni 1995, p. 136.
60
Allegretti 2001: 107.
61
Gorni 1995: 133 e 137.
62
Gorni 1995: 136 e 141 (vedi sopra, nota 21).
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63
In quel che segue sarò assai schematico, e toccherò solo di qualche nodo esegetico particolare: per un’esposizione più dettagliata, torno a rimandare a Fenzi
2003: 64 ss.
64
Su questo rapporto con E’ m’incresce insiste ora opportunamente Giunta, nel
suo commento in corso di stampa. Sulla patina arcaica, si rivedano i giudizi di
Contini e Trovato riferiti sopra (nota 17).
65
Capovilla 1994: 339.
66
Per le rime in –erra quale forte ‘marca’ dell’esilio, vedi Gorni 1995: 139;
Pasquini 2007: 24 nota 47 («vera icona dell’esule»).
67
Vedi in particolare Gorni 1995: 131-132.
68
Su Tre donne e in particolare sull’interpretazione del suo plurimo congedo
mi permetto di rinviare a Fenzi 2007: 91-124.
69
A fil di logica direi dunque che se si decidesse di seguire l’ipotesi di Gorni,
occorrerebbe pensare che non solo il congedo sia stato aggiunto o modificato in
un secondo tempo, ma anche la stanza che lo precede. Osservo che anche Barnes
e Barański notano il salto che divide la quinta stanza e il congedo dal resto: «But
still perhaps the biggest thematic jump in the canzone is that between the abstraction of the first four stanzas and the more concrete subject-matter of the remaining stanza and congedo» (Barnes-Barański 1978: 299).
70
Per l’oraculum con il quale Dante definisce il proprio testo, vedi indietro,
nota 43.
71
Vedi indietro, nota 43, con cit. di Sasso 2008: 66 nota 8. Singolarmente,
questa era anche una delle opinioni preferite da Grandgent, che a proposito dell’epistola scriveva: «The fantastic style of the letter constitues a real stumblingblock. Several suppositions are possible: (1) that the work is a stupid fabrication,
patched together from the poem; (2) that it was intended by Dante to suggest an
allegorical interpretation of the lady and the verse; (3) that Dante purposely couched it in a mock-heroic vein; (4) that he wrote it solemnly, describing a genuine
passion. I am inclined to believe either that the epistle is forged (in which case it
naturally would have no importance) or that it was intended to be mock-heroic,
slightly deprecating an infatuation of which the autor was ashamed» (Grandgent
1917: 98-99).
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Enrico FENZI
La montanina e i suoi lettori
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Fenzi 2003: 70 ss. Ma si veda almeno Roncaglia 1976, che puntualizza come
tutti i sonetti di corrispondenza tra Dante e Cino vadano posti negli anni del De
vulgari eloquentia, e dunque vicinissimi alla montanina; Calenda 1995, che nel
saggio ‘Potentia concupiscibilis, sedes amoris’: il dibattito Dante-Cino pur non
toccando della canzone, centra il punto fondamentale di un momento particolare
del tutto in controtendenza all’interno dell’esperienza dantesca, per cui adirittura
«la continuità tra libello e poema viene espressamente interrotta dal nostro sonetto», e infine il denso contributo di Elisabetta Graziosi, 1997, che riesamina
tutta la corrispondenza tra Dante e Cino (lasciando anch’essa da parte la canzone).
73
Ed. Frugoni, in Alighieri 1979: 532-535.
74
Ecco il passo centrale della lettera che affronta appunto il problema «utrum
de passione in passionem possit anima transformari», e pone le basi teoriche della
sua soluzione positiva, § 3: «Omnis namque potentia que post corruptionem unius
actus non deperit, naturaliter reservatur in alium: ergo potentie sensitive, manente
organo, per corruptionem unius actus non depereunt, et naturaliter reservantur
in alium. Cum igitur potentia concupiscibilis, que sedes amoris est, sit potentia
sensitiva, manifestum est quod post corruptionem unius passionis qua in actum
reducitur, in alium reservatur».
75
Questo paragonare Cino a un cieco è un tratto polemico ben pertinente, autorizzato com’è dalla celebre definizione: «Amor est passio quaedam innata procedens ex visione», onde, coerentemente: «Caecitas impedit amorem, quia caecus
videre non potest», ecc. (De amore I 1 e 5: Cappellano 1892: 3 e 12).
76
Confesso di non capire qui la parafrasi che De Robertis fa degli ultimi due
versi: «se anche vedessi un fiume di lagrime a prova della vostra sincerità, non
credo ci sarebbe da temere di voi». Ma non mi convince neppure Mattalia: «non
mi porreste in ponte, non mi liberereste dal sospetto, dal dubbio sulla sincerità
…». Credo invece che Dante conceda una possibilità al volubile amico dicendogli: ‘se ti vedessi piangere, mi libereresti dall’incertezza (‘essere in ponte’) del
sospetto, circa la verità delle tue parole’: cioè, allora ti crederei.
77
Si tratta di due sonetti di Guelfo Taviani, uno di Gherarduccio e uno di Cacciamonte: vedi per ciò Giunta 2002: 370-371, nota 13.
78
La citazione, da De amore II 6 (Cappellano 1892: 264). Per altre indicazioni
sul tema della ‘somiglianza’ legato a quello di una possibile pluralità di amori,
vedi Fenzi 1994: 207-212.
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Non escluderei dunque che arrivi a lambire la condotta di Cino anche l’altro
sonetto, pure diretto all’amico, I’ ho veduto già senza radice (99: Barbi XCVIII),
ove Dante lo esorta a lasciar perdere la ‘donna verde’ dalla quale ricaverebbe
solo il pallido simulacro dell’amore ma non la sostanza, così come da un tronco
tagliato possono ancora germogliare le foglie ma non crescere i frutti «però che
‘l contradice / natura, ch’al difetto fa riguardo, / perché conosce che · ssaria bugiardo / sapor non fatto da vera notrice» (vv. 5-8). La denuncia, infatti, si muove
pur sempre nell’àmbito di un rapporto amoroso bugiardo perché privo di radici
e insomma di vera sostanza.
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Questa violenta rimozione (Amore «quicquid eius contrarium fuerat intra me
vel occidit, vel expulit vel ligavit») trova spiegazione in san Tommaso, ST I, II,
xxviii, art. 4, resp.: «manifestum est enim quod quanto aliqua virtus intensius
tendit in aliquid, fortius etiam repellit omne contrarium vel repugnans. Cum igitur
amor sit quidam motus in amatum […] intensus amor quaerit excludere omne id
quod sibi repugnat». Vedi anche Conv. II 7, 9.
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