Copertina - Scuola Coop Montelupo

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Copertina - Scuola Coop Montelupo
MALGRADO
LA CRISI
Frammenti di un dialogo tra
Miguel Benasayag e alcuni Cooperatori
Scuola Coop - Istituto Nazionale di Formazione
delle Cooperative di Consumatori
Via Sammontana, 39
50056 Montelupo F.no (FI)
Tel. 0571 53271
Fax. 0571 5327220
[email protected]
www.scuolacoop.it
Copyright © 2013 Coop Italia
Grafica di Fabrizio Silei
Indice
Istruzioni per l’uso........................................................ 7
Nota introduttiva....................................................... 13
Ringraziamenti .......................................................... 15
PROLOGO
Le ragioni di un dialogo con Miguel Benasayag......... 17
MALGRADO LA CRISI .................................................. 23
Due modi di fare ricerca ...................................... 25
Senza futuro? ....................................................... 27
Annegare nell’impotenza...................................... 28
Ragione e sentimento........................................... 31
Il mito dell’individuo........................................... 34
La penna di Krüger.............................................. 36
Questa terra è la mia terra.................................... 38
Libertà o flessibilità.............................................. 40
Fino alla fine di un mondo................................... 42
Tragico, anzi grave ............................................... 45
Terra promessa..................................................... 48
Il negativo dove lo metto? .................................... 50
Soluzione finale ................................................... 53
Il motore del 2000............................................... 56
Umano, troppo umano ........................................ 59
L’utilità dell’inutile............................................... 62
Legami speciali .................................................... 63
Ora e sempre resistenza........................................ 68
Felicità vo cercando ............................................. 71
Costruire la realtà ................................................ 74
Sfilata di modelli.................................................. 78
L’uomo fa il mondo ............................................. 80
A cosa servono i prodotti ..................................... 83
La tecno felicità ................................................... 86
Qui casca l’asino .................................................. 87
Epistemologia, territorio e astrazione ................... 90
Presente permanente ............................................ 92
Coop e la crisi...................................................... 95
La sfida di Coop .................................................. 97
POST-FAZIONE
Quel che resta di un gruppo di studio
di Enrico Parsi ...................................................... 99
Libri di Miguel Benasayag pubblicati in italiano ....... 115
Bibliografia essenziale ragionata ............................... 117
Dobbiamo percepire conferenze, libri,
diapositive, film e via dicendo non
come informazioni, ma come veicoli
di potenziale informazione. Allora vedremo che nel tenere conferenze, scrivere
libri, mostrare diapositive e film, eccetera,
non abbiamo risolto alcun problema,
ma anzi ne abbiamo creato uno nuovo,
e precisamente quello di scoprire in
quale contesto queste cose possano essere
viste in modo da creare nei loro percettori
nuove intuizioni, nuovi pensieri e nuove
azioni.
Heinz Von Foerster
Istruzioni per l’uso
Dal settembre 2011 al settembre 2012, un gruppo di cooperatori di varia provenienza si è incontrato a Scuola
Coop, con e senza Miguel Benasayag, per confrontarsi
sulla crisi senza nessun altro obiettivo dichiarato che quello
di confrontarsi sulla crisi. Per cinque giornate il gruppo ha
ascoltato ciò che Miguel Benasayag aveva da dire e dialogato
con lui. Per altrettante volte i membri del gruppo si sono
ritrovati per commentare quanto ascoltato e offrirsi reciprocamente elaborazioni, considerazioni e testimonianza
delle proprie pratiche. Abbiamo così lavorato in piena
libertà senza alcuna preoccupazione se non quella di cercare
di capire, guardando in faccia onestamente qualche nostra
ignoranza. Gli scambi nel gruppo sono stati effettivamente
“formativi”. Qualcuno di noi ha dichiarato di aver cambiato
il proprio approccio al lavoro. Di essere entrato nel gruppo
di studio in un modo ed essere uscito in un altro. Senza
che nessuno l’avesse chiesto e programmato. Il gruppo ha
prodotto lezioni e documenti, tra cui questa pubblicazione,
e un’ipotesi di statuto rivisitato secondo categorie nuove
rispetto a quelle otto o novecentesche. Inoltre sono a disposizione tre video di differente lunghezza utilizzabili in
un’ampia gamma di situazioni “formative”. Il loro scopo è
contribuire a riflettere sulla crisi, con la convinzione,
condivisa da molti, che non si tratti solo di una crisi economica. Il che significa riflettere anche sulla nostra vita,
sulla nostra società e sul nostro Paese, sul ruolo di Coop e
sulle persone che la abitano, siano essi i soci o i lavoratori.
Tra questi ultimi anche i gruppi dirigenti.
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MALGRADO LA CRISI
Ma la conseguenza più interessante di questo lavoro, non
prevedibile e non prevista, è stata la nascita di un progetto
di una cooperativa che in un non luogo dove è sorto uno
dei supermercati Coop più interessanti a livello internazionale, ha coinvolto l’Università, un gruppo di cittadini,
il supermercato stesso con il suo Direttore, e molti soci e
lavoratori con lo scopo di riflettere e agire sul tessuto
sociale di quella zona della città. Una quarantina di
persone tra cooperatori e cittadini del quartiere sono
stati coinvolti insieme a Miguel Benasayag, in una
ricerca/azione che, come il nostro gruppo, sicuramente
produrrà risultati non definiti a priori.
Alcuni di noi all’inizio di questo studio erano spiazzati,
tanto siamo “formattati” dall’idea che qualsiasi progetto
debba avere uno scopo ben definito, pratico, visibile, stabilito dall’alto, a cui conformarsi e da raggiungere. Qualcuno, dopo i primi incontri, in condizioni “normali”,
avrebbe certo esclamato: “e quindi?!”, rinunciando così
alla possibilità di fare una ricerca propria e di definire un
proprio obiettivo, in attesa della prossima ricetta a basso
costo intellettuale. Le prime righe delle lezioni di Benasayag
trattano proprio questo tema: il fatto che i modelli sulla
base dei quali interpretare la realtà e agire su di essa, oggi,
dobbiamo inventarceli da soli. Una fatica in più, le cui
conseguenze però sono la motivazione all’impegno e
l’entusiasmo della scoperta.
Una volta liberi da questo atteggiamento mentale che
prevede obbiettivi e risultati predefiniti, e dalla quindite,
come ha splendidamente definito quest’abito mentale
un nostro collega, l’idea cioè che si debba ricevere una risposta immediata alle questioni poste, abbiamo pensato
di condividere un po’ delle nostre idee con chi avrà
voglia di leggere queste pagine.
Della mole di parole che Miguel Benasayag ha pronunciato
ISTRUZIONI PER L’USO
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(circa duecento pagine di trascrizioni), abbiamo operato
una sintesi e una selezione del tutto soggettiva. Mentre
chi ha partecipato al gruppo, leggendo questa pubblicazione
potrà avere la sensazione di un buon promemoria, un
lettore nuovo potrà avere invece un senso di spiazzamento.
Alcune parti infatti richiedono un po’ di attenzione.
Qualche passaggio può lasciare perplessi ed essere interpretato come un salto logico, in particolare in quei
capitoli e paragrafi in cui si parla espressamente di Coop.
Alcuni concetti si ripetono. La nostra scelta è stata dettata
dal fatto che comunque si potrà intuire l’importanza di
un pensiero non facile, ma certamente utile per capire
meglio il nostro mondo e il nostro tempo. Abbiamo
quindi selezionato parti delle lezioni che riteniamo
possano offrire spunti di riflessione e considerazioni
nuove, favorendo l’incontro con qualche pensiero inusuale.
In queste pagine non proponiamo alcuna verità. Nessuno
di noi è diventato un seguace o un tifoso di Miguel Benasayag (un amico sì!). Proponiamo però contenuti che
possono aiutarci a rivitalizzare i neuroni, come un altro
dei colleghi che ha preventivamente letto il testo ci ha
detto. Noi non pensiamo che ci siano verità a cui aderire
come un tempo ci proponevano le ideologie classiche.
Saremmo contenti però, se solo ci si rimettesse a discutere
e se ci si riabituasse a osservare e a maneggiare idee che
diamo spesso per buone e che invece non ci aiutano a
vivere bene.
Le considerazioni che Miguel Benasayag fa sulle nostre
Cooperative possono risultare, a chi non ha partecipato
ai nostri incontri, come improvvisi lampi, inaspettati e
scomodi. Forse disorganiche rispetto al discorso complessivo
o forse solo troppo veloci e poco approfondite. Ma
abbiamo scelto di lasciarle proprio per la loro forza
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MALGRADO LA CRISI
suggestiva e perché pensiamo che possano favorire le riflessioni. Nel gruppo di studio queste considerazioni
sono state l’innesco per discussioni appassionate e approfondimenti.
Tutto il testo è una derivazione di discorsi fatti in un’aula.
Alcuni esempi quindi possono risultare un po’ semplici e
semplificati come sempre accade quando si parla a braccio.
Naturalmente l’eventuale eccessiva semplificazione è responsabilità dei redattori.
Il libro può essere letto in molti modi: dall’inizio alla
fine, come un romanzo. Oppure andando a cercare qua e
là stimoli e spunti per la propria personale ricerca. Sul
sito di Scuola Coop sono presenti tre video. Uno di diciassette minuti in cui Miguel Benasayag offre uno
spaccato delle sue riflessioni e considerazioni. Poi una intervista più lunga e completa (circa un’ora e un quarto)
per chi volesse approfondire il suo pensiero. Infine un
ultimo video di circa cinquanta minuti, che coniuga una
serie di considerazioni dei partecipanti al gruppo di
studio con alcuni suoi brevi interventi. Vedere questi
filmati può certo aiutare a comprendere meglio il senso e
i contenuti di questa pubblicazione. Volendo ancora approfondire questi temi, alla fine del libro proponiamo
una bibliografia minima di testi e autori utili alla causa.
Soprattutto la causa della cooperazione.
Infine, un po’ in tutte le organizzazioni si sono adottati
stili professionali che escludono la riflessione, lo studio e
il confronto dal proprio tempo operativo. La classe
dirigente di questo Paese, non a caso, si distingue per
una conclamata e talvolta esibita e vantata mancanza di
conoscenze. Oppure per una tendenza al pensiero specialistico e utilitarista che considera un certo genere di
riflessioni tempo perso. Questo lavoro fa parte di una costellazione di contributi finalizzati a prevenire i guasti di
ISTRUZIONI PER L’USO
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questa mentalità che considera un costo l’esercizio e la
valorizzazione del nostro cervello. Un contributo a promuovere una maggiore umiltà quando si abbia il potere
di prendere decisioni che non riguardano solo chi le
prende. Immersi nella crisi della nostra epoca, di fronte
alla complessità di fenomeni che non saremo mai in
grado di capire totalmente e a maggior ragione in grado
di governare con facilità, dovremmo sempre tenere
presente che alcuni un po’ di più, altri un po’ di meno,
ma siamo tutti ignoranti. Buona ragione per ricominciare
a studiare.
Nota introduttiva
I testi di questa pubblicazione sono il frutto del lavoro di
Aldo Bassoni, Direttore della rivista Nuovo Consumo e di
Enrico Parsi, Direttore di Scuola Coop. Anche le note
sono scritte di loro pugno. Le eventuali imprecisioni, incoerenze e difficoltà di scorrevolezza non sono attribuibili
all’autore delle lezioni, ma a loro. Si è comunque fatto
uno sforzo di semplificazione e chiarificazione linguistica
per rendere il testo il più comprensibile possibile a chi,
non avendo partecipato al gruppo di studio, potrebbe
avere qualche difficoltà.
Ringraziamenti
Il primo ringraziamento va a chi ha partecipato al gruppo
superando lo scoglio di una certa indeterminatezza iniziale:
Graziella Rondano e Gioacchino Maida di Novacoop,
Romeo Cambi, Manola Manini, Eleonora Petrocchi,
Stefano Cesari, Daniela Mori, Claudio Vanni, di Unicoop
Firenze.
Federico Scandolari del Sait di Trento.
Gianfranco Verziagi del C.d.A. di Scuola Coop.
Gianni Tasselli di Coop Consumatori Nordest.
Aldo Bassoni di Unicoop Tirreno.
Michele Dorigatti della Federazione Trentina della Cooperazione.
Stefano Ferrata, Alessandra Gasperini, Luisa Pilo, Daniela
Regnicoli, Enrico Parsi di Scuola Coop.
Un secondo ringraziamento va a Francesco Beltramini
che con infinita pazienza ha trascritto le lezioni di Benasayag rendendo possibile il nostro lavoro di revisione.
Un ringraziamento speciale a Aldo Bassoni che per
rendere questo testo fruibile ha passato diverse ore del
suo tempo libero a correggere, scrivere e aggiustare. Senza
la sua professionalità questo lavoro non avrebbe visto facilmente la fine.
Un ringraziamento alle bravissime interpreti Giovanna
Melloni e Monica Carbone che hanno reso più facile il
compito di chi ha trascritto e scritto.
Un ringraziamento a Miguel Benasayag, che vorremmo
definire con un semplice aggettivo: generoso.
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MALGRADO LA CRISI
Un ringraziamento a Elisa Mazzini, Claudio Mazzini,
Sergio Soavi, Cristina Del Moro, Rita Nannelli, Cristina
Vaiani, Vincenzo Ruggiero, Paolo Mantegazza che hanno
letto una prima bozza del testo offrendoci preziosi suggerimenti. Tutti presi in considerazione anche se non sempre
abbiamo agito di conseguenza.
Un ringraziamento a Fabrizio Silei per la bella copertina
che si richiama a un esempio contenuto nel libro e per il
contributo alla revisione dei testi.
Un ringraziamento a Marco Lami che, come Presidente
di Scuola Coop, non ha esitato a incoraggiarci e a condividere la proposta di creare un gruppo di studio con
Miguel Benasayag.
Un ultimo ringraziamento alla Coop in generale che ci
lascia fare cose che potrebbero essere considerate folli da
un certo tipo di cultura aziendalista.
Prologo
Le ragioni di un dialogo con Miguel Benasayag
Ci siamo incontrati diverse volte. A Lucca e Rimini dove
presentavi i tuoi libri, “Elogio del conflitto” e “L’epoca
delle Passioni Tristi”. Ti abbiamo cercato perché affascinati
dalla tua storia e da un pensiero interdisciplinare che
pensiamo sarebbe utile recuperare, visto lo stato in cui
versano i mondi della politica e dell’impresa caratterizzati
spesso da semplificazione, utilitarismo e pensiero lineare.
L’ancoraggio nasce perché ci riconosciamo in alcune tue
analisi e descrizioni dei fenomeni economici e sociali che
sono parte della nostra quotidianità e della nostra
esperienza come persone. Come quando parli del futuro,
che a tutti noi appare minaccioso; oppure delle varie
forme di disagio che, originando dalle condizioni di vita
e di lavoro, non sono affrontabili con criteri intrapsichici
o peggio ancora psichiatrici.
Il legame nasce anche dal fatto che nel mondo politico
italiano, fortemente condizionato da una filosofia imprenditorialmanageriale, si è consolidata la tendenza a
considerare la cultura e il lavoro intellettuale cose di
scarso valore. E anche per questo ci sembra prezioso un
ragionamento su temi che tu affronti da anni.
Ci siamo poi visti a Parigi e a Montelupo per sviluppare
insieme una riflessione anche con e tra colleghi curiosi e
impegnati.
Nel frattempo la tua bibliografia si è arricchita di nuovi
libri in cui si parla della differenza tra organismi naturali
e organismi artificiali e della salute. Filoni di ricerca che
potrebbero sembrare lontanissimi dalle esigenze pratiche
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MALGRADO LA CRISI
di chi “fa impresa” e che invece, come vedremo, si
rivelano cruciali anche per comprendere in cosa può
consistere la vita e la morte di un’organizzazione. E
porsi il problema della vita e della morte di un’organizzazione, del suo mutamento, a volte del suo cambiare
pelle, ci sembra importante per qualsiasi tipo di organizzazione, visto che questi cambiamenti ci sono e riguardano
tutti.
Il nostro gruppo ha discusso e studiato con te una serie
di concetti che ormai sono divenuti parte di una riflessione
che stiamo conducendo con studiosi italiani di fama internazionale, economisti, antropologi, psicologi. Persone
che, come te, ci hanno posto le stesse domande: quali
sono le caratteristiche della vostra organizzazione che
hanno permesso una vita così lunga? E quali sono i “fondamentali” del vostro modo di funzionare che una volta
messi in crisi potrebbero portarvi a non riconoscervi più,
a trasformare la vostra identità, se non addirittura a
morire? In altri termini in cosa consiste la vostra diversità
e in che modo può rappresentare un’alternativa al pensiero
dominante che ci ha portato dritti dritti verso questa
crisi che sembra irreversibile?
In queste loro domande, in queste tue domande, si nascondono una serie di questioni che vorremmo affrontare.
Proviamo a elencarle:
Una riflessione sull’epistemologia: cioè sul modo di conoscere
la realtà e sui criteri, talvolta impliciti, che governano le
nostre azioni e caratterizzano il nostro pensiero. Perché
spesso non siamo consapevoli di come si pensa e dei presupposti impliciti nelle nostre pratiche.
Epistemologia è una parola difficile e, ne siamo convinti,
molti uomini di impresa, storcerebbero la bocca di fronte
a questa che può essere considerata inutile filosofia.
PROLOGO
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Eppure il nostro modo di pensare non è un’astrazione rispetto alle nostre pratiche e a noi sembra che la distinzione
tra prassi e teoria, tra fare e pensare sia il frutto di uno
schema vecchio e inadatto alla comprensione dei fenomeni.
Di questo vorremmo parlare.
Una riflessione sulle organizzazioni sociali che prende le
mosse dai tuoi studi sulle caratteristiche degli organismi
viventi e artificiali. È il tema delle invarianze: cosa rimane
stabile rendendo riconoscibile un organismo nonostante
il tempo lo possa anche cambiare profondamente? Questo
tema ci sembra possa aiutarci a re-interpretare la nostra
organizzazione, anche con l’aiuto di concetti diversi da
quelli usati nel passato.
Una riflessione sull’economia e in particolare quella che
abbiamo subito negli ultimi trenta anni: il neoliberismo
e le sue conseguenze sociali, culturali e psicologiche.
L’economia, intesa come disciplina, non è neutra e se da
un lato ha assunto le caratteristiche di una scienza a parte
(o una fede), dall’altro finisce per condizionare la nostra
esistenza e condiziona anche lo spirito delle altre discipline
scientifiche.
Una riflessione sul concetto di territorio che nel tuo modo
di lavorare sembra una possibilità per resistere e creare
realtà diverse. È questo un tema importante in Italia,
dove la parola territorio assume anche una valenza di
chiusura e contrapposizione.
Una riflessione sull’individuo. Sul mito dell’individuo e i
suoi correlati di derivazione economica: la ricerca di una
flessibilità astratta che porta a un’idea di uomo flessibile,
privo di qualità, ma perfettamente modificabile in base
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MALGRADO LA CRISI
alle esigenze industriali; e sul modello delle competenze,
suo corollario, che nel mondo aziendale e nel mondo
della psicologia del lavoro ha avuto un successo indiscutibile,
spesso monopolizzando l’intera attività formativa e
culturale che vi si svolge.
Una riflessione sul disagio psichico e sociale che si origina
anche dalla concretezza del mondo del lavoro e dal diffondersi di pensieri e idee dannose sulla vita, sul successo
individuale, sul potere. Qui siamo in sovrapposizione
con quella che alcuni studiosi chiamano “economia della
felicità”, che si interroga anche sulle condizioni di lavoro,
sui modelli organizzativi e i suoi presupposti.
Una riflessione sul cambiamento e sulle possibili azioni per
il cambiamento. Perché se la superficie sociopolitica e i
media ci consegnano schemi di impegno che sembrano
essere sempre gli stessi, il mondo pullula di esperienze
originali, diverse e diffuse. E questo tema, per un Paese
come il nostro, regno de Il Gattopardo, è davvero importante.
Da ultimo ancora una riflessione sulla ricerca sociale. Perché
pensiamo che la nostra organizzazione, pur con tutte le sue
contraddizioni, contenga esperienze e storie di cambiamento
e resistenza che si basano su presupposti talvolta non
consapevoli o non ben esplicitati. E che rimettersi in una
prospettiva di ricerca e di elaborazione propria, sia tempo
speso bene.
Fin qui i nostri interessi, senza escludere eventuali riflessioni
impreviste che possono nascere dal nostro dialogo.
Da quando ci siamo incontrati, in Italia l’ondata neoliberista
in economia e autoritaria in politica si è arricchita di nuovi
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capitoli che sembrano mettere in discussione i fondamenti
dello stare insieme: un attacco forte alla Costituzione e più
in generale all’idea che debbano esistere beni comuni.
Molti dicono che la crisi non sia solo economica. Che il
modello che la sostiene sia arrivato a fine corsa e la crisi
sia profondamente culturale. Poi però, le soluzioni
proposte sono le stesse che sembrano averla provocata:
ineguaglianze sociali, meno Stato nel welfare, ma molto
più Stato nelle azioni autoritarie e di controllo, visione
mercantile della società in ogni suo aspetto, distribuzione
della ricchezza sempre più iniqua, individualismo, pensiero
lineare, efficientismo, tagli alla cultura e al sociale.
Nel tuo lavoro affermi però che la realtà non è solo quella
dichiarata e fatta percepire dal pensiero dominante. Affermi
che il mondo è pieno di esperienze economiche che non
sono caratterizzate dal profitto come unico interesse; esperienze civili e sociali diffuse che testimoniano già l’esistenza
di un altro mondo da scoprire e evidenziare.
Affermi poi che il cambiamento e la resistenza verso
processi distruttivi che vengono fatti passare per ineluttabili,
non avviene attraverso le tradizionali forme di lotta
politica più o meno antagonista, ma attraverso un’azione
che è creazione di esperienze e forme di relazioni concrete.
Una costellazione di azioni che si inserisce nelle fratture
che qualsiasi sistema mostra, senza negare la realtà, ma
vivendola e trasformandola. E per questo, crediamo, ti
sei incuriosito della nostra organizzazione, perché questa
sembra contenere, nel suo agire, il presupposto di un
cambiamento legato ad azioni concrete che non negano
il rischio di possibili contraddizioni.
La nostra organizzazione non è al riparo da una crisi che
investe tutti. Quando si parla di cooperative si parla di
una realtà composita, strutturalmente e potenzialmente
in grado di offrire alternative concrete a un modo di fare
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MALGRADO LA CRISI
impresa che mostra tutti i suoi limiti. Si tratta però
anche di una realtà non esente da ombre su cui è giusto
riflettere.
Ci affascina l’idea che si possa studiare Coop confrontandosi
anche con realtà diverse; e di farlo anche grazie a concetti
offerti da discipline diverse dall’economia. Ci interessa
provare a comprendere, anche attraverso ragionamenti
inusuali, quali possano essere le ragioni profonde che
permettono a un’organizzazione come questa di mantenersi
viva. Ci affascina l’idea di avviare uno studio per comprendere, se possibile, quali sono gli invarianti che ci
permettono di continuare a esistere e quali potrebbero
essere invece le soglie da non superare se non vogliamo
perdere la nostra identità.
E ci piace pensare che tutto questo possa essere condiviso
con colleghi che hanno a cuore la vita della nostra organizzazione e le sorti del nostro Paese, non rassegnandosi
all’idea di vivere in un mondo di passioni tristi e di
futuro rubato.
Siamo interessati alla possibilità di mettere nero su bianco
le cose che abbiamo imparato con te. E, se sarà possibile,
anche attraverso la nostra collaborazione, proseguire in
modo più consapevole nel nostro impegno per un modello
di società in cui l’agire economico non sia fine a se stesso,
ma anche crescita civile.
Il dialogo è iniziato. La parola a Miguel Benasayag.
Malgrado la crisi
Due modi di fare ricerca
Oggi ci sono due modi di fare ricerca: uno consiste nel
lavorare in contesti puramente teorici. In questo caso si
affronta il tema della crisi dal punto di vista storico, o
anche sociologico, restando chiusi in ambiti accademici,
fuori da ogni altro tipo di pratica. Un’altra corrente di
pensiero sostiene invece che bisogna capire la crisi
attraverso pratiche concrete. Quindi si fa ricerca agendo.
Passo due o tre mesi l’anno in Argentina, a Buenos Aires,
dove lavoro con un gruppo di persone che provengono
da ambiti diversi e con il quale cerco di capire la questione
della sociabilità. Uno dei problemi delle città in America
Latina è l’aumento della violenza. Ci sono sempre più
bambini per strada che diventano violenti dando luogo a
un circolo vizioso, una spirale che non si riesce più a interrompere. Ci troviamo in una situazione incredibile,
con ragazzi di dieci, undici, dodici anni che uccidono
anche altri bambini. E ci sono persone che cominciano a
difendersi. In Argentina, ad esempio, sono arrivati
squadroni della morte brasiliani per uccidere questi
bambini. Noi stiamo lavorando su questo problema già
da diversi anni e per molto tempo le persone progressiste
erano convinte che questi problemi fossero conseguenza
diretta della struttura capitalistica e delle sue modalità di
vita. La scommessa di queste persone si basava sulla
credenza che una volta fatta la rivoluzione, una volta raggiunto il socialismo, ci sarebbe stato un cambiamento
automatico e tutti questi problemi si sarebbero risolti.
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MALGRADO LA CRISI
Ma questo modello di pensiero, che ci dice che alcuni
cambiamenti strutturali risolveranno tutti i problemi, ha
mostrato il suo limite ed è fallito.
Oggi in Argentina sono al potere alcuni dei miei compagni
di lotta all’epoca della dittatura. E lo stesso accade in
Brasile e in Bolivia. Ma ci rendiamo conto che i problemi
sono molto più complessi di quanto immaginassimo.
Noi non ci aspettiamo che arrivino degli universitari con
un modello che poi applicheremo. Non ci aspettiamo che
arrivi il modello perfetto. Non pensiamo che la rivoluzione
sia alle porte e che dopo di essa tutto si risolverà automaticamente. Non ci aspettiamo che dei militanti politici ci
dicano qual è il modello giusto per poi applicarlo. La crisi
storica che stiamo vivendo non può essere capita nella sua
complessità standosene comodamente fuori. Può essere
capita soltanto se si considera la molteplicità dei suoi
volti. A Buenos Aires, ad esempio, abbiamo lanciato
questa sfida lavorando nel concreto di questa orribile situazione di violenza di strada nella quale piccoli borghesi
e impiegati devono difendersi diventando anche loro
sempre più violenti. E nella quale si assiste a una sorta di
recrudescenza dell’apartheid sociale. Ecco la domanda: in
questa situazione, di fronte a questa problematica, come
possiamo capire il mondo? Come possiamo capire il
mondo e la nostra società a partire da questi problemi?
Ci sono diversi ambiti di intervento possibile per procedere
verso la comprensione della realtà. Io lavoro su queste tematiche anche nell’ambito della salute mentale. In Italia
ho cominciato a collaborare con un gruppo teatrale di
Trieste che opera in ambito psichiatrico. In Francia ho
lavorato sul tema dei legami sociali nei quartieri. Ma le
questioni devono essere affrontate anche da un punto di
vista scientifico e quindi continuo a cercare di capire
come la crisi si sviluppa e si manifesta anche attraverso lo
MALGRADO LA CRISI
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studio delle discipline sociali, della biologia, dell’epistemologia.
Senza futuro?
Oggi viviamo in un mondo nel quale l’irrazionale sembra
sempre più presente. Basta ascoltare la radio, guardare la
tv o leggere i giornali e vediamo che nessuno controlla,
né comprende ciò che sta accadendo. Ad esempio: perché
la Grecia si trova in una crisi totale nella quale il popolo
sperimenta la vera e propria miseria? Perché Spagna, Portogallo e Italia rischiano di seguire la Grecia in questo
baratro? Perché non si può interrompere questo processo?
Tutto questo oggi si può comprendere anche cominciando
a considerare l’irrazionalità come un elemento della
realtà, un ingrediente che i modelli classici di pensiero,
anche economici, non contemplano perché questi modelli
erano e sono basati su un’idea di razionalità trionfante.
Una delle sfide che ci troviamo di fronte è dunque quella
di capire quali nuovi modelli possono aiutarci a vedere le
cose con un po’ più di chiarezza.
La situazione in Europa è simile a ciò che accade, o che
può accadere, quando è in atto uno scontro. Perché in
effetti c’è una guerra economica. Questo è un momento
della nostra storia in cui bisogna avere il coraggio di dire
che siamo sull’orlo del baratro. Le nostre società e il
nostro modello di vita sono sull’orlo dell’abisso. Non
voglio essere apocalittico, ma il mondo è minaccioso.
Come diceva Gramsci, il vecchio mondo non c’è più, il
nuovo tarda a farsi vedere e in questo vuoto emergono
tutti i mostri. Ma Gramsci, quando scrisse queste parole,
era ottimista. Infatti, dicendo “il nuovo mondo tarda a
comparire” dava per scontato che in ogni caso un nuovo
mondo sarebbe comparso. Noi invece non sappiamo neanche se questo mondo ci sarà. Possiamo augurarcelo,
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MALGRADO LA CRISI
ma la verità è che non abbiamo neanche l’ottimismo che
Gramsci ci ha trasmesso nei suoi Quaderni del Carcere. Io
credo che questo ottimismo possiamo recuperarlo solo se
cerchiamo di sperimentare prassi che dimostrino che
qualcosa di diverso è possibile. Non si tratta quindi di
essere ottimisti o pessimisti in teoria, come atto di fede.
Piuttosto è più importante vedere se siamo in grado di
comprendere nuovamente il mondo e agire su di esso.
Oggi abbiamo a disposizione sufficienti modelli epistemologici per affrontare la complessità. Certo, poi bisogna
vedere se questa comprensione riesce a trovare applicazioni
pratiche e concrete. Bisogna vedere, cioè, come questa
comprensione funziona effettivamente.
Non parliamo quindi di pessimismo o di ottimismo, ma
di qualcosa che fa paura un po’ a tutti: la responsabilità
di dover agire senza un dogma o un modello di riferimento.
Il modello lo dobbiamo costruire noi.
Sulla base della mia esperienza di vita sono portato a dire
che questa è la cosa che fa più paura agli esseri umani.
Quando facevo parte della Resistenza contro la dittatura in
Argentina, nei momenti peggiori, più duri, più pericolosi
della lotta, c’erano sempre nuove persone che si univano a
noi. E questo era incredibile. A volte dovevamo frenare le
persone, perché era molto pericoloso e non avevamo neanche
più la capacità di accoglierli nella rete della Resistenza con
un minimo di sicurezza. Eppure, malgrado tutto, c’era
sempre qualcuno che voleva unirsi a noi. Oggi non rischiamo
la vita e non rischiamo di andare in galera, eppure non c’è
quasi nessuno che sia disposto a dare il proprio tempo e le
proprie capacità per resistere all’orrore che si fa avanti.
Annegare nell’impotenza
Sappiamo bene che ci sono ovunque molti gruppi, associazioni, collettivi che si impegnano. Ma per molta gente
MALGRADO LA CRISI
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il problema è sempre la motivazione. Ad esempio, molte
persone spesso dichiarano di voler creare legami sociali o
di voler lottare contro il razzismo. Dichiarano di desiderare
molte cose che servono per migliorare la società. Abbiamo
fatto una ricerca a Parigi per cercare di studiare i motivi
immediati che vengono anteposti a quello che si dichiara
di desiderare. Le risposte sono state del tipo: “perché ero
a cena con mio nipote… perché ero stanco… perché
avevo mal di schiena”. Queste risposte sono molto interessanti per chi, come me, ha visto persone che agivano
consapevoli di rischiare la prigione, la tortura e la morte.
Questo accadeva perché c’era una linea da seguire, c’era
un riferimento che ci permetteva di muoverci. Trovo stupefacente constatare che, siccome oggi non c’è una linea,
un riferimento, si ha molta più paura di quanta non se
ne avesse allora. C’è qualcosa in questo fenomeno che ci
deve far riflettere, qualcosa che ci interroga sulle ragioni
per cui, nella nostra società, le persone annegano nell’impotenza dell’immediato.
Io penso che le persone non si muovano perché la nostra
società è riuscita a produrre una diminuzione della
potenza vitale. In realtà molti desiderano fare delle cose e
credono che sia importante farle. Ma c’è un muro. Un
muro di “piccoli” ostacoli che impedisce di fare ciò che si
deve. E questa è una cosa che bisogna cercare di comprendere perché spesso nei collettivi, nei gruppi, si assume
un atteggiamento moralistico e si dice che non va bene
non andare alle riunioni, che non è corretto, che è
sbagliato. Si esprime dunque una condanna morale, ma
in realtà non si tratta di una questione morale. Il punto è
capire come mai si sono interrotti certi collegamenti. Se
tocco una piastra bollente la reazione istintiva sarà di
togliere la mano. La reazione, cioè, è immediata e
adeguata. Eppure viviamo in una società sempre più in-
30
MALGRADO LA CRISI
quinata, che va verso la violenza e l’apartheid, una società
nella quale mio figlio può essere collocato in una classe
di trentaquattro alunni e io non reagisco. Com’è possibile
che succeda questo? Com’è possibile che certi legami
sociali si siano spezzati?
Una possibile spiegazione può venire dal confronto con
altre culture. A differenza dell’America Latina per esempio,
in Europa prevale un approccio individualista centrato
sull’Io. Gli europei, e soprattutto i francesi, si percepiscono
e si vivono così: come individui assolutamente separati
da un territorio, privi di qualsiasi tipo di ancoraggio. Per
cui, anche quando si “vogliono impegnare” in qualcosa,
si tratta di un impegno del tipo “faccio qualcosa tutti i
mercoledì sera per i bambini rom clandestini!”. Ma
queste persone, di cui si vogliono occupare, non sono
bambini rom clandestini. Quello che cerchiamo di
mostrare loro, al contrario, è che una parte del loro
territorio è costituita da bambini rom clandestini. Un
esempio può essere utile. In Francia, Sarkozy ha affrontato
il problema degli immigrati mettendo la polizia fuori
dalle scuole in modo che quando arrivavano i genitori a
riprendere i bambini, si potessero fermare anche loro. È
nato allora un movimento per difendere questi bambini,
per nasconderli. Io ho proposto di fare uno studio per
mostrare gli effetti psicopatologici della pratica imposta
da Sarkozy. I miei interlocutori francesi pensavano che
mi riferissi agli effetti psicologici sui bambini presi dalla
polizia. Al contrario, io intendevo occuparmi delle conseguenze psicopatologiche sui bambini francesi che
vedevano i loro compagni portati via dalla polizia. Questo
approccio ha sorpreso tutti perché per loro l’Io è quello
di un francese libero e razionale, un francese che con il
suo libero arbitrio si impegna con i bambini clandestini.
Io invece volevo capire quale parte del loro “territorio
MALGRADO LA CRISI
31
personale” veniva toccata quando la polizia portava via i
bambini clandestini.
È questa la nozione di impegno che propongo: non
cercare di capire che cosa l’individuo deterritorializzato,
nel senso di individuo concepito come separato dal suo
tessuto sociale, può fare come scelta filantropica, ma
piuttosto come la persona sia coinvolta in ciò che succede.
Per dirlo in altre parole, la società attuale riduce la nostra
capacità di essere toccati da qualcosa, riduce la nostra superficie percettiva. È interessante vedere anche dal punto
di vista fisiologico come una società possa, nel suo
concreto funzionamento, ridurre questa superficie percettiva.
È interessante vedere come una società possa fare in
modo che gli esseri umani perdano fisicamente la capacità
di essere toccati dalle cose. Ma perdere questa capacità fisiologica, non significa sfuggire agli effetti dei fenomeni
in cui siamo immersi e non subirne le conseguenze.
In questo modo si fabbrica l’impotenza: espropriati della
capacità di essere coinvolti, ci troviamo in contatto solo
con una capacità di subire. Ciò che subisco dunque
emerge solo come passività. Il risultato è che poco a poco
un organismo può perdere il contatto attivo con ciò che
lo riguarda, anche fisiologicamente, finché si arriva a un
punto in cui l’organismo annega nella sua impotenza.
Ragione e sentimento
Le imprese neoliberali, le grandi imprese, da molto tempo
lavorano con epistemologi, antropologi, filosofi per cercare
di capire i cambiamenti in atto nella società. È una cosa
assolutamente normale in una grande azienda. Facciamo
un esempio. Già da una quindicina di anni, per completare
il mio lavoro di ricerca, ho avuto bisogno di approfondire
alcune questioni di matematica. Non avendo una formazione in questa disciplina mi sono messo a studiare e a la-
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MALGRADO LA CRISI
vorare con un gruppo di matematici e fisici. Per un paio
di anni abbiamo cercato di capire la crisi anche a livello
logico-matematico. Poi abbiamo pubblicato un libro di
logica matematica che, sinceramente, non penso sia stato
comprato da molti, ma che mi aveva aiutato a comprendere
diverse cose necessarie alla mia ricerca. La mia comprensione
dei fenomeni si era ampliata. Tre mesi dopo la pubblicazione, una nota multinazionale informatica mi ha inviato
una lettera con allegata una proposta di contratto. Mi offrivano una collaborazione triennale con uno stipendio
fisso mensile per continuare le mie ricerche. All’inizio ho
pensato che si fossero sbagliati. Non capivo perché mi
volessero pagare per continuare le mie ricerche, visto che
le avrei continuate comunque. Allora ho chiamato e mi
hanno dato un appuntamento nel quale mi hanno
spiegato che erano disposti a pagarmi per tre anni a una
condizione: potevo continuare a fare quello che facevo e
se non trovavo niente, non trovavo niente. Se trovavo
qualcosa però, allora questo qualcosa sarebbe stato di
loro proprietà. Eppure nel mio libro non si parlava di
modelli che l’azienda avrebbe potuto utilizzare. Niente
di immediatamente spendibile. L’approccio riguardava il
tema della comprensione e dell’azione nella crisi. Ecco, le
imprese capitaliste agiscono così. È da tempo che sanno
che siamo in una crisi vastissima, che bisogna capirla a
pieno e bisogna anche darsi il tempo per capirla.
Nel movimento cooperativo, associativo e progressista,
invece, ho l’impressione che si continui a sottovalutare la
sfida del pensiero perché si crede che ci sia sempre una
linea di riferimento da seguire, che ci sia abbastanza razionalità e che basti continuare su quella strada per
arrivare a comprendere e ad agire.
In generale, nei movimenti di sinistra, in quelli associativi,
per non parlare poi dei partiti, si è convinti che non ci sia
MALGRADO LA CRISI
33
più niente altro da pensare. Le uniche cose che contano
sembrano essere vincere le elezioni, guadagnare quote di
mercato, svilupparsi. E che in ogni caso si abbia a disposizione una base logica di pensiero sufficiente. In realtà
non possediamo nessuna base di pensiero sufficiente. Al
contrario, come cercherò di dimostrare, la sinistra, proprio
per motivi epistemologici e strutturali molto concreti, è
nelle peggiori condizioni possibili per capire la crisi
attuale. Perché la sinistra, fra le altre cose, ha sempre
avuto grosse difficoltà con l’irrazionale. Ha fatto una
scommessa sulla razionalità considerando l’irrazionalità
sempre come frutto dell’oppressione, della follia, di
qualcosa che non funzionava, una anomalia. Invece la
destra ha sempre compreso che l’uomo era costituito da
una parte irrazionale molto importante. Ha capito che
nessuno compra una macchina per la macchina in sé.
Piuttosto compra la bella modella che è sopra la macchina.
Le persone non comprano un fuoristrada, ma la potenza
del fuoristrada. Comprano cioè un sacco di cose astratte,
immaginarie, e poi, nel frattempo, anche una macchina.
L’ideologia neoliberista questa cosa la sa da molto tempo
e la usa efficacemente, anche in politica, mentre la sinistra
continua a insistere sul fatto di voler comprendere tutto
razionalmente. Per cui se volete una macchina allora ci
vuole una utilitaria, perché la macchina serve solo a
spostarsi. Questo è un argomento che dovremmo sviluppare
nella nostra riflessione perché è collegato al tema del desiderio, un tema importante anche per chi fa il vostro
mestiere.
In Francia faccio parte di movimenti ecologisti radicali e,
naturalmente, si parla anche del movimento della decrescita
che ha il suo riferimento in Serge Latouche. Ebbene, un
difetto fondamentale della teoria della decrescita è che sistematicamente tende alla moralizzazione del consumo.
34
MALGRADO LA CRISI
Il movimento dice “noi possiamo vivere con pochissimo,
possiamo riciclare l’acqua ecc.”. Si cerca cioè di mostrare
un modo di agire e di vivere alternativo, che però è moralizzante. Con la conseguenza che le esperienze alternative
sono spesso associate alla tristezza, mentre invece a destra
si esalta sempre più la gioia barbara, il godimento
selvaggio, senza limiti, l’idea che tutto sia possibile. E se
a questo godimento opponiamo una moraluccia da
monaci, dicendo che ci possiamo privare di tutto e si può
vivere con sempre meno, beh… abbiamo perso in partenza.
Il mito dell’individuo
La Coop, a poco a poco, è diventata, nella percezione di
molti, qualcosa di simile ad altre catene della grande distribuzione. C’è qualcosa dell’essenza di Coop che è
andato perduto? Forse qualcosa è cambiato anche in
alcuni Dirigenti, nel loro modo di agire? Perché, poco
per volta, davanti alla concorrenza della distribuzione
neoliberista, si è tentati, per sopravvivere, di adottare gli
stessi metodi degli altri?
Qui c’è uno snodo importante su cui ragionare: cercare
di capire come si possa definire questa essenza cooperativa.
Che cos’è, come si manifesta.
Per cominciare ci si potrebbe chiedere se sia vero che la
Coop si rivolge allo stesso modello di individuo al quale
si rivolge qualsiasi altra catena della grande distribuzione.
A chi si rivolge un’altra catena? Si rivolge a un essere
umano ridotto alla porzione congrua, cioè a un individuo
isolato, senza legami. A questa persona l’azienda propone
qualcosa che gli piace. Ma noi, se vogliamo veramente
esistere, svilupparci, essere un’alternativa dobbiamo anche
capire a quale altra entità che non sia questo tipo
d’individuo possiamo rivolgerci. Fino ad oggi quest’altra
MALGRADO LA CRISI
35
identità era la morale razionale. Ci rivolgevamo cioè alla
razionalità. Per semplificare il ragionamento, diciamo
che le altre catene distributive si rivolgono all’individuo
“irrazionale”. Un individuo che si percepisce come separato
dal mondo, dagli altri.
Ma cosa significa essere separati dal mondo e percepirsi
come individui isolati, senza legami sociali? C’è un
esempio che simboleggia l’avvenuta rottura di tutti i
legami nella nostra società: in Francia è stata varata una
legge che obbliga le persone a occuparsi dei figli. La legge
stabilisce che non si possono lasciare i figli per strada.
Stessa cosa riguarda i figli che non possono separarsi dai
genitori.
Poi, per passare a un altro argomento, è stata promulgata
una legge che obbliga a pagare se si inquina. Queste leggi
sono il sintomo evidente dell’idea di uomo del neoliberismo:
un individuo che non sente i legami con i genitori, con i
figli, con l’ambiente. Per questo ci sono volute tre leggi.
La legge ovviamente è giusta. Ma se ci vuole una legge
per essere sicuri che voi non abbandoniate i genitori o i
figli o non distruggiate l’ambiente, allora risulta chiaro
che il presupposto da cui si parte è un modello di
individuo che è un’entità folle, separata da tutto. Le
imprese neoliberiste si rivolgono a questa entità che è veramente separata, tagliata da qualsiasi razionalità. Una
specie di entità immediata, permanente, accompagnata
da tutta una serie di dispositivi tecnologici che la promuovono e la legittimano. C’è una mitologia dell’individuo,
c’è un’economia dell’individuo, c’è un’apologia dell’individuo alla quale si è opposta finora una morale che dice:
“Attenzione, devi capire razionalmente il tuo rapporto
con il mondo, con la tua classe sociale, con il consumo.
Bisogna essere razionali!”
Penso che noi dobbiamo cercare di comprendere come
36
MALGRADO LA CRISI
promuovere un modello diverso che non sia quello individualista. Modello individualista al quale la Coop, come
molti, è tentata di aderire. Perché ovviamente tendiamo
tutti a pensare che “individuo” sia una cosa giusta e desiderabile e quindi si finisce per favorire questa idea con
pratiche che la legittimano contribuendo così a recidere
i legami sociali. Dovremmo cercare di capire se Coop
resiste a tutto questo, quali sono le pratiche che può
adottare per favorire lo sviluppo dei legami sociali e
quali invece quelle che li distruggono. Tenendo in considerazione il fatto che più la Coop ha un comportamento
volto a sedurre gli individui, più sviluppa ciò che la può
distruggere.
La penna di Krüger
Quando cerco di spiegare come funzionano i sistemi
complessi capita che qualcuno abbia la sensazione che si
parli di qualcosa di astratto e chieda che vengano trattate
cose più concrete. Citerò un esempio che reputo significativo
di come nel tempo si siano rovesciati i concetti di astratto
e concreto. Parto da un articolo scritto da Hegel molto
tempo dopo la pubblicazione della sua opera principale,
La scienza della logica. Un giornalista di nome Krüger
pubblicò un articolo nel quale prendeva atto che Hegel
nel suo testo spiegava il funzionamento dell’universo, il
funzionamento del mondo, ma non spiegava la penna
con cui aveva scritto il suo libro. Hegel rispose che
Krüger aveva ragione. Che lui poteva spiegare un sistema,
perché un sistema è qualcosa di concreto, con rimandi e
connessioni. Con un funzionamento. Ma non poteva
spiegare la sua penna, perché quella penna era troppo
astratta. Astratta nel senso di fuori contesto. Decontestualizzata.
Il neoliberismo e la nostra società continuano a presentarci
MALGRADO LA CRISI
37
come concrete una serie di pratiche folli, totalmente decontestualizzate, apparentemente molto concrete. Cose
che sembrano razionali, ma di una razionalità folle perché
decontestualizzata. Nella nostra vita, in realtà, siamo
sempre in un contesto, in una sorta di immediatezza che
definiamo concreta. Ma nel nostro lavoro di comprensione
dobbiamo mettere tra parentesi questa modalità, che è in
realtà una modalità di falso concreto, per cercare di capire
il contesto. Ed è per questo che vorrei parlare della crisi
della razionalità e della modernità. Mi sono fatto scudo
con l’esempio della penna di Krüger, perché uno potrebbe
dire che sto parlando della crisi antropologica, senza
chiarire qual è il suo rapporto con il fatturato della
Coop. Il problema è che lo sviluppo della Coop, il suo
lavoro, il suo fatturato, sono troppo astratti per poterli
capire direttamente se non contestualizziamo questo quotidiano della Coop in una realtà che è la nostra epoca e la
nostra storia.
Oggi possiamo dire che un certo tipo di razionalità è
fallita. È una cosa che tutti constatano. Si constata, ad
esempio, che il progresso non ha portato solo cose buone,
ma anche cose nocive. In Francia ho molti amici musulmani
che dicono che il progetto dell’uomo occidentale di dominare la natura, pensando per questo di essere furbo, è
fallito. Ha provocato un disastro e quindi questa razionalità
dell’uomo padrone del mondo e della natura è fallita. La
loro ricetta è un ritorno all’umiltà. Ma in cosa consiste
l’umiltà per i miei amici musulmani? Per loro consiste
nell’obbedire al Corano. E lì, almeno, c’è una cultura.
Ma ci sono persone che non hanno nemmeno quel tipo
di cultura e oggi aderiscono a delle sette. Si assiste così a
un ritorno del fanatismo. Il proliferare di sette e movimenti
religiosi ci fa constatare che il modello razionale della
modernità è fallito e che le persone cercano altre modalità
38
MALGRADO LA CRISI
di comprensione. Io sono un ricercatore in epistemologia,
quindi quelli che vi presenterò sono modelli di razionalità
complessa. Niente di religioso o mistico. Ma è vero che
molto spesso, nella pratica, mi trovo culturalmente molto
più vicino a un indiano mapuche del mio paese di origine
quando mi dice che l’uomo deve obbedire alle leggi della
natura, che a un progressista razionalista che dice che
con la ragione si può fare tutto. Nello stesso tempo pur
provando rispetto per la Pachamama, la madre terra, e
per tutte le tradizioni del mio Paese, non trovo lì una
risposta alla crisi della razionalità. Il rispetto per la Pachamama non può essere una risposta alla crisi di cui vi
parlo. Io non critico né i musulmani né gli indios (mentre
sono meno tollerante con le sette perché rappresentano
un utilizzo razionale e manipolatorio del fallimento della
razionalità), ma quello di cui sto parlando è di come noi
ricercatori in epistemologia abbiamo trovato questo
zoccolo di razionalità complessa. Il progetto è capire
come si possa articolare questa razionalità complessa con
la pratica, partendo dalla comprensione della razionalità
che è fallita. Andando a vedere quali sono i modelli di razionalità complessa che emergono.
Questa terra è la mia terra
L’idea di individuo è un sottoinsieme storicamente costruito
di una realtà complessa. Per farvi capire il modello dell’individuo che caratterizza la nostra epoca, immaginate
uno struzzo con la testa infilata nella sabbia. Lo struzzo
dice che il mondo è un buco oscuro. La “società dell’individuo” è un mondo analogo. Ogni individuo è un
sotto insieme che percepisce soltanto quello che per lui è
immediato e quindi sarà portato a pensare che il mondo
si riduce a ciò che è limitato al suo ristretto orizzonte
percettivo. Verrà informato del mondo, come lo struzzo,
MALGRADO LA CRISI
39
attraverso la sua televisione privata, il suo telefonino
eccetera. Cioè attraverso tutto ciò che serve a comunicare,
ma anche a tagliare i legami sociali. Lo struzzo in realtà è
toccato da ciò che accade a tutto il suo corpo, ma ha consapevolezza solo nella sua testa, che si affaccia sulla televisione, sul cellulare e su tutti gli altri mezzi di comunicazione
che contribuiscono a deterritorializzarci.
Il concetto di territorializzazione è un concetto proposto
da Gilles Deleuze, un filosofo francese. Per l’individuo
neoliberista questo concetto è compresso e riferito all’Io.
L’individuo si cerca un territorio e dice “Mi devo territorializzare”. Ma è un’illusione perché in realtà il nostro
territorio è già il nostro corpo. Il nostro corpo intero, in
tutte le sue determinazioni. Allo stesso modo c’è chi dice
che vorrebbe impegnarsi politicamente, socialmente.
Spesso mi capita che le persone vengano da me in quanto
psicologo e psicoterapeuta e sapendo che sono anche un
intellettuale si riferiscono anche alla questione dell’impegno.
Allora mi dicono che si devono impegnare in qualcosa,
per esempio con gli immigrati clandestini o i palestinesi.
In realtà questa è una modalità di impegno che definirei
da supermarket. Al supermercato mi trovo davanti allo
scaffale “impegno” e dico “ok, oggi mi impegno per i palestinesi, oppure per i boliviani o per i clandestini”.
In realtà impegno significa conoscere in cosa siamo già impegnati. Conoscere cioè l’insieme delle determinazioni che
ci costituiscono come persone e che fanno sì, ad esempio,
che io venga contaminato in caso di inquinamento. L’individuo deterritorializzato invece, viene a sapere dai mezzi
di comunicazione che qualcosa inquinerà lì vicino a lui,
ma non ha nessun contatto con questa cosa. Non è in connessione con la realtà, se non in minima parte e sulla base
di un certa tipologia di informazioni. La società dell’individuo
è una società che taglia una parte di noi stessi, chiamando
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MALGRADO LA CRISI
questa parte individuo. Dentro questo buco saranno presenti
vari tipi di elementi definitori. Per esempio potremmo
dire che sei comunitario rispetto a extracomunitario,
oppure che sei uomo o donna. In questo buco ci saranno
una serie di definizioni con cui ci identificheremo. E, naturalmente, il resto di quel che siamo è qualcosa con cui
non avremo più nessun contatto. Ecco una situazione
esemplificativa di ciò che definiamo “sinapsi interrotte”.
La società dell’individuo corrisponde a questo tipo di
società. Il neoliberismo si rivolge a quel tipo di individuo e
per questo individuo è a disposizione un’idea preconfezionata
di libertà, di benessere, di felicità. Di cosa sia facile o
difficile, di cosa significhi riuscire nella vita.
Per questo individuo, l’individuo del neoliberismo, essere
felice, essere libero, significa essere tagliato dal proprio
corpo, perché i corpi sono troppo pesanti, invecchiano,
si ammalano, sono territorializzati. Mentre per i corpi
non tutto è possibile, la società neoliberista ha costruito
questa idea che “tutto è possibile”, che si potrebbe vivere
in una leggerezza totale e si potrebbe anche non invecchiare
mai. L’irrazionale neoliberista ha a che vedere con una
società di teste separate dal corpo. Il corpo che è il nostro
primo territorio.
Quando parlo di individuo, mi riferisco a questo modello,
a queste pratiche, a questa idea che i legami sociali e ambientali siano irrilevanti per lui, per la sua vita e il suo benessere. Quando parlo di persona invece, mi rivolgo a
tutto l’insieme che esiste in un territorio concreto. E che
non può deterritorializzarsi tranquillamente, come se
niente fosse. Che non può essere ovunque.
Libertà o flessibilità?
Aristotele ha definito la figura dello schiavo come colui
che può essere utilizzato per attività molto diverse tra
MALGRADO LA CRISI
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loro. Lo schiavo può lavorare nei campi o navigare, è
spostabile da un luogo all’altro. Lo schiavo di Aristotele è
la persona che oggi si dice flessibile. L’uomo libero invece
è incatenato al proprio territorio. È quello che deve
assumere un sacco di filiazioni. Aristotele, con un po’ di
buon senso, dice che l’uomo libero deve seguire il proprio
destino, le proprie affinità elettive e che non è possibile
usarlo per qualsiasi cosa. La nostra società ha rovesciato
questo approccio e chiama libertà questa flessibilità totale
nella quale un uomo deve adattarsi ai bisogni economici
e quindi può essere deterritorializzato, delocalizzato. Si
cambia il posto di lavoro, per esempio, in nome di
un’idea di libertà che definisce come schiavitù il fatto di
essere territorializzati. Ma questa deterritorializzazione
trova dei suoi limiti storici. L’esempio più eclatante è
quello di France Telecom1. I manager di quest’azienda
spingevano le persone verso la deterritorializzazione fino
al punto che gli impiegati non dovevano personalizzare
gli uffici e anche i rapporti di amicizia con i colleghi
erano visti in cattiva luce. Gli impiegati dovevano essere
pronti a cambiare città, a cambiare territorio, ogni tre o
sei mesi. Una mia paziente lavora come dirigente in una
nota catena di distribuzione di libri, dischi e informatica.
Ha superato un sacco di esami finalizzati alla propria carriera, ma non vuole allontanarsi troppo da Parigi. La sua
Direzione le ha detto che questo è un grosso handicap,
perché dimostra così di anteporre la sua vita personale a
quella dell’azienda. Ma anche la sua risposta è stata illuminante. Lei ha detto: “no, mi resta soltanto il dieci o
1
France Telecom è diventata tristemente famosa negli anni scorsi per
una serie incredibile di sucidi tra i propri lavoratori. Molti di questi
suicidi sono avvenuti all’interno dell’azienda.
42
MALGRADO LA CRISI
quindici per cento della vita personale e questa è necessaria
affinché io sia ancora più prestazionale in azienda”.
Il presupposto dunque della società post moderna è che
l’essere umano libero, sia una quantità di energia disponibile
che può essere utilizzata secondo i bisogni del mercato.
Ma il successo di questa idea è dovuto al fatto che
aderisce perfettamente a una concezione della libertà secondo la quale non devo dipendere da nulla. Così oggi
posso essere un professore e domani un ebanista, oggi
posso vivere in Canada e domani in Francia. Questo
principio, che il neoliberismo utilizza in modo perverso,
funziona perché per molto tempo l’Occidente ha aderito
all’idea che un uomo libero è un uomo che poteva
cambiare continuamente.
Ecco allora che noi progressisti oggi abbiamo un problema
serio: perché eravamo quelli che dicevano che tutto può
cambiare, mentre ora siamo costretti a dire che non tutto
può cambiare. I nostri genitori e i nostri nonni ci dicevano
che c’erano tradizioni e cose che andavano mantenute,
difese, preservate. Adesso il neoliberismo si è appropriato
di quest’idea che tutto può essere cambiato e che non ci
sono limiti per costruire questo mondo da incubo. È per
questo che è molto difficile costruire uno zoccolo di pensiero
alternativo. Perché, se prendiamo l’esempio di France
Telecom, noi stiamo dicendo che l’uomo non è energia
libera: l’uomo è come lo struzzo, se viene troppo delocalizzato
si finisce col tagliargli la testa. La flessibilità neoliberista,
che tutti accettano, è identificata con la libertà. Ma in
realtà questa idea sta violentando alcune invarianti biologiche
e culturali e sta producendo processi sociali morbosi.
Fino alla fine di un mondo
In genere, nell’approccio classico, si pensa che un’epoca
sia uno spazio delimitato da un anno di inizio e uno di
MALGRADO LA CRISI
43
fine. Per i ricercatori con i quali lavoro, invece, un’epoca
è piuttosto definita da una serie di problematiche e
processi che vengono datati a posteriori. Per esempio,
un’epoca crea un’estetica, un modo d’amare, dei motivi
per cui ci si alza la mattina, ciò che consideriamo bello e
ciò che ci sembra orribile. Un’epoca, quindi, modella e
plasma anche la percezione. Permette una percezione che
non è possibile in altri tempi. Ciò che posso o non posso
percepire dipende dall’epoca.
L’uomo del neoliberismo, separato, scisso da tutto, crede
di essere al di là di qualsiasi epoca, così come pensa di
essere al di là di qualsiasi territorio. Pensa che sarebbe
uguale a se stesso in qualsiasi territorio e in qualsiasi
epoca. Da piccolo leggevo un fumetto americano, i Flintstones, che vivevano in una caverna secondo il modello
di vita americano nonostante fosse ambientato nella preistoria. Questa era pura propaganda ideologica fatta in
profondità, perché era un modo per dire che l’uomo
normale è sempre stato l’uomo americano, che ovunque
si trova riproduce intorno a sé la stessa modalità di vita.
Esattamente come Robinson Crusoe. Dove c’è un Robinson
Crusoe c’è la modernità e quindi l’uomo domina il paesaggio e rimane sempre uguale a se stesso. È ovvio che
questo non è assolutamente vero.
In Europa, tra l’XI e il XV secolo, più o meno, gli
uomini hanno cominciato a erigere le cattedrali. Prima
non c’erano le cattedrali e dopo, costruite in quel modo,
non sono più esistite. Immaginiamo che qualcuno oggi
(ed è successo davvero in Francia) abbia l’idea di far
costruire una piccola cattedrale. Chiunque passasse davanti
a questa cattedrale non potrebbe che dire: “è come se
fosse una cattedrale del Medioevo”. Perché quella era
l’epoca in cui, dettata da bisogni storici complessi, era
presente l’esigenza di costruire cattedrali. E perché im-
44
MALGRADO LA CRISI
provvisamente una cultura ha avuto bisogno di erigere
delle cattedrali? Perché ogni epoca ha la sua estetica, le
sue problematiche, il suo umanesimo e gli uomini di una
determinata epoca producono in funzione di quell’epoca.
Gli uomini stessi, come soggetti, sono prodotti dall’epoca
in cui vivono.
La stessa cosa vale per le piramidi. Costruire le piramidi
è un lavoro colossale. Richiede l’accumulo e la sintesi di
saperi che si sono sviluppati nei secoli precedenti. Richiede
l’organizzazione di forze produttive. Poi ci vogliono altri
secoli per riuscire a realizzarle materialmente. L’epoca
dunque è le piramidi. Le piramidi sono l’epoca. L’epoca
allora non è uno spazio tra due date, ma è qualcosa che fa
sì che a un certo punto una cultura agisca in un modo
che segna e plasma tutti. Quando studiamo dei problemi
epocali non studiamo “i problemi che avvengono oggi”.
Sono i problemi che fanno sì che oggi si viva in un’epoca
diversa da quella passata. È l’emergere di nuove problematiche profonde che ci fa dire che siamo in un’altra
epoca. E noi oggi stiamo cambiando epoca. È la fine di
un mondo. E sempre, quando c’è la fine di un mondo,
gli abitanti di questo mondo pensano che sia la fine del
mondo. In realtà è solo la fine di un mondo. Ma la caratteristica fondamentale del nostro mondo moderno, occidentale e tecnologico, è che ha conquistato tutto il
pianeta e pertanto la fine del mondo moderno mette in
pericolo, per la prima volta nella storia, il pianeta nel suo
insieme. L’Occidente per la prima volta nella sua storia
ha fabbricato un mondo globale. Lo sviluppo della
potenza tecnico-scientifica ha unificato quella dimensione
del mondo che ora è in crisi. E tuttavia, se è vero che
esiste una dimensione mondo, non è vero che esiste un
solo mondo. Esiste una dimensione mondo che è correlata
alla tecnica e all’economia. Ed essenzialmente anche alla
MALGRADO LA CRISI
45
brutalità dell’impero, ma a parte questo non c’è un
mondo, ma una molteplicità di mondi che restano deterritorializzati. Ogni paese, ogni regione del mondo si
sente separata dai suoi territori perché si pensa nella rappresentazione costruita dall’Occidente in cui la potenza
della tecnologia e dell’economia domina l’insieme del
pianeta. La crisi è proprio qui. Nella razionalità occidentale,
in questa costruzione di questo mondo. E quindi se la
crisi dell’ Occidente è la crisi del mondo, è perché l’ Occidente ha dominato il mondo. Un mondo basato sul
modello individualista occidentale, che concepisce l’umanità
come una serie di individui isolati, e che si trova a non
essere più sufficiente a sé stesso anche dal punto di vista
termodinamico, ecologico, ambientale.
Tragico, anzi grave
In questo contesto di cambiamento assume un valore centrale
la questione della rottura dei legami. Cosa che mi piace
esprimere, facendo riferimento alla Grecia antica, come il
passaggio da un mondo “tragico” a un mondo “grave”.
Cos’è il tragico? È ciò che ci lega immediatamente a un fenomeno. Una dimensione tragica dell’esistenza è qualcosa
che ci cattura, che ci trascina con sé. La dimensione di
gravità invece riguarda qualcosa di distante da noi. La guerra
del Vietnam era una guerra tragica, proprio nel senso della
tragedia greca perché la sua evoluzione, il suo sviluppo, ha
riguardato immediatamente tutti gli abitanti del pianeta.
Tutti sapevano quello che succedeva in Vietnam. C’era consapevolezza che l’esito di questa guerra avrebbe cambiato la
vita di tutti. Questa è la dimensione tragica di un fenomeno:
una dimensione caratterizzata da legami, da nessi profondi,
ontologici, che ci catturano e ci portano con sé. Un altro
esempio evidente è lo sterminio degli zingari e degli ebrei,
nella Seconda Guerra Mondiale. Il fenomeno della Shoah
46
MALGRADO LA CRISI
rappresenta una rottura storica, con un prima e un dopo.
C’è chi si è chiesto se dopo Auschwitz sia ancora possibile la
poesia, o la fede in Dio, per chi è credente. Auschwitz, nell’immaginario occidentale e non solo, è una tale rottura che
quando i bambini scoprono cosa è successo, hanno uno
shock simile a quello che hanno quando capiscono che un
giorno moriranno. Se passiamo invece all’epoca postmoderna,
ci troviamo immersi in qualcosa di profondamente diverso.
Invece del Vietnam possiamo parlare della guerra nella exJugoslavia. Anche in questa guerra si è materializzata la
pulizia etnica e non sono mancati i massacri. Eppure pochi
di noi sono in grado di dire chi faceva cosa, chi ha ucciso chi
e per cosa. Grosso modo si sa che nella ex-Jugoslavia c’è
stato un conflitto tremendo. Certo, si considerava la cosa
gravissima. Ma vedete da soli la differenza che c’è, nella
nostra percezione e nella nostra consapevolezza, tra la guerra
del Vietnam e quella nella ex-Jugoslavia. Nessuno penserà
alla guerra in ex-Jugoslavia come una cosa che lo riguardava
direttamente. Se qualcuno l’ha detto è perché era serbo, bosniaco o croato.
Nella differenza di percezione tra queste due guerre credo
che si veda bene la differenza tra il grave e il tragico. Noi
siamo persone interessate ai legami. A come si sviluppano
e si formano i legami. E nel passaggio dal tragico al grave,
evidentemente, c’è qualcosa che ci interessa. Se io vedo
passare un’ambulanza con un’unità coronarica vuol dire
che la persona a bordo rischia di morire. È chiaro che mi
dispiace, ma se non sono di quella famiglia, la cosa non mi
riguarda più di tanto, non mi tocca. Non molto tempo fa
in Rwanda è avvenuta una carneficina. Qualcuno dice che
è stato il più grande genocidio dopo la Seconda Guerra
Mondiale. Eppure non conosco nessuno scrittore o poeta
in Occidente che si sia chiesto se si possa fare poesia dopo
il Rwanda. Se qualcuno facesse un’affermazione del genere
MALGRADO LA CRISI
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gli si chiederebbe se conosceva quel Paese direttamente per
qualche ragione. Si cercherebbe un legame diretto perché
essendo un evento grave, se addirittura mi tocca allora ci
deve essere un legame diretto. Questo esempio serve a dire
che oggi viviamo in un mondo in cui ci sono eventi gravi,
guerre gravi, disastri ecologici gravi, ma questo è diventato
un elemento di debolezza. Ad esempio, gli ecologisti
cercano di dimostrare continuamente alla gente che la situazione è grave. Ma più si fa vedere che le cose sono gravi,
più le persone se ne allontanano. Dimostrare, o mostrare
la gravità di un problema, ha l’effetto paradossale di allontanare le persone dal problema stesso. Questo è un
fenomeno quasi quotidiano per chi cerca continuamente
di far prendere coscienza alle persone della gravità della situazione, senza rendersi conto che il solo modo per
motivare la gente a intervenire è che si senta coinvolta, che
non pensi alla gravità, ma che possa sentire il legame
tragico con la realtà. Cerchiamo sempre di dire a questo
individuo deterritorializzato che quello che accade è grave,
ma la cosa non funziona. E uno dei motivi per cui non
funziona dipende da come operano i processi di rimozione
e cioè dal fatto che qualunque buona notizia che arriva dai
mezzi di comunicazione schiaccia altre cento brutte notizie.
In Francia un ex ministro socialista, uno scienziato non
molto serio, ha cercato di dimostrare che il riscaldamento
del pianeta non esiste. L’Accademia delle Scienze francese
l’ha sanzionato perché si era dimenticato un dettaglio: il
suo calcolo funzionava solo se la terra fosse stata piatta.
Ma in realtà il messaggio che è passato nell’opinione
pubblica è che “non esiste il riscaldamento globale”. Per
l’individuo deterritorializzato questa è una notizia ottima.
Ogni buona notizia, ogni notizia di intrattenimento, è
sempre più potente di una cattiva notizia. E ci allontana
inesorabilmente dal mondo reale.
48
MALGRADO LA CRISI
Terra promessa
La modernità, antropologicamente, si definisce rispetto
a una concezione della temporalità. La modernità ha
creato una temporalità secondo la quale la vita dell’uomo
sulla terra è un divenire, un passaggio dall’oscurità alla
luce, dalla sofferenza alla gioia, dal limitato all’illimitato.
Un progresso continuo, lineare. Non si conosce nessun’altra
cultura che si sia strutturata intorno all’idea di un
progresso tra l’oscurità e la luce. Tutte le altre culture
sono culture dell’eterno ritorno.
Le conseguenze di questa concezione sono profonde. Significa, per esempio, che in queste culture tutto ciò che
appare come negativo, come la morte, la malattia, l’ingiustizia, la penuria, sembra incorporato organicamente
a un insieme. Non si contrappone ciò che è negativo a
ciò che è positivo. Si considerano invece gli elementi
come parte di un tutto organico.
Nella nostra modernità, al contrario, ci siamo inventati
l’idea che progredendo sarebbero scomparse tutte le negatività e si sarebbe realizzato il paradiso in terra. C’è
dunque un passaggio tra tempo circolare e tempo lineare.
E questo passaggio è stato sancito in Occidente dal monoteismo. Il monoteismo infatti procede verso una separazione radicale tra il bene e il male e introduce l’idea di
un paradiso in cielo, di un Dio unico, di un’ascensione
verso il bene. Nelle altre culture questa idea di un’ascensione
a senso unico non esiste. In queste culture ogni volta che
si sale, ci si aspetta di ridiscendere dall’altra parte. L’idea
che la storia abbia una direzione, un verso, e che questo
verso sia dato dall’obiettivo, è tipica della nostra civiltà.
Questo si chiama storicismo, o teoria del progresso, o teleologia. Cioè l’idea che una causa lontana spieghi ciò
che accade qui e ora.
Questo schema di pensiero comincia ad affermarsi con i
MALGRADO LA CRISI
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grandi progressi in fisica e in matematica, quando Keplero
e Galileo espongono le basi della nostra razionalità affermando che nelle scienze conta solo ciò che è misurabile.
Con loro comincia ad affermarsi l’idea che se qualcosa
non è misurabile non è scienza e quindi non è razionale.
Galileo pronuncerà la frase che fonderà le scienze
occidentali, una frase che ancora oggi orienta tutto il
nostro mondo: l’universo è descritto in linguaggio matematico. E quindi chi controlla la matematica controlla
l’universo. Più tardi Keplero dirà che l’unica differenza
tra Dio e l’uomo è che Dio conosce da sempre tutti i
teoremi mentre l’uomo non ancora. Questo non ancora fa
pensare alla modernità come il compimento, la chiusura
di un tempo. È la promessa di un futuro positivo, il momento nel quale gli uomini avranno percorso tutta la distanza che li separa da esso, nel quale ogni teorema sarà
conosciuto e si avrà così il controllo totale sulle cose.
C’è un mondo intero in quel non ancora. E c’è anche
qualcosa di molto concreto dal punto di vista sociale
perché in questo divenire, nel quale si situano anche
pensatori come Marx, Bakunin, Proudhon e altri, alla
fine ci si aspetta un mondo privo di ingiustizie.
In questa concezione della razionalità scientifica c’è
qualcosa che va di pari passo con l’importanza attribuita
al denaro: la rappresentazione del mondo, ciò che è misurabile, diventerà infatti più importante della cosa rappresentata. Risulta chiaro che, molto precocemente, nasce
una relazione forte tra il mercantilismo e la nuova scienza
grazie alla priorità attribuita alla misurazione.
Quando ho cominciato a studiare medicina, se mi avessero
chiesto di immaginare il nuovo millennio da un punto di
vista medico, avrei firmato un foglio dicendo che avremmo
guarito tutti i tumori o avremmo allungato la vita
tantissimo. Per me tutto questo era evidente perché era
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MALGRADO LA CRISI
diffusa l’idea di una direzione della storia, una specie di
auto evidenza. Nel libro “L’epoca delle passioni tristi” ho
parlato di un paziente schizofrenico, Jean Christophe,
che veniva in terapia tutti i venerdì. Ogni volta mi diceva
che stava meglio. L’ho incontrato per anni e alla fine la
sua vita sarebbe dovuta essere fantastica. In realtà lui era
sempre lo stesso, ma pur essendo schizofrenico sapeva
che nella vita bisogna stare meglio. Perché l’obiettivo dell’esistenza individuale, sociale, storica ed economica della
nostra epoca è eliminare il negativo. Il problema del
negativo però è che non sappiamo dove metterlo.
Il negativo dove lo metto?
Come se la cavano invece le società dell’eterno ritorno
con il negativo? Nelle società dell’eterno ritorno il negativo
è incorporato organicamente al positivo. Ci sono momenti
in cui siamo stanchi, ma questo è fondamentale per poi
non essere stanchi. Ci sono momenti in cui siamo tristi,
ma ciò è normale, perché se non siamo mai tristi non
siamo neanche mai felici. Ci sono momenti di gioventù,
ma da giovani non si ha esperienza e quando siamo
vecchi abbiamo l’esperienza, ma non la potenza. Morire
non è mai piaciuto a nessuno, ma non è la stessa cosa
morire in queste società nelle quali una parte di noi
muore, ma il resto continua nella tribù, con i bambini,
con la nostra opera, rispetto a morire nel mondo dello
struzzo con la testa infilata nella sabbia. Perché per lo
struzzo morire significa che tutto è finito. Nella società
dell’eterno ritorno invece si muore perché la vita si
rinnovi, mentre nella nostra società lineare si muore nell’attesa di arrivare a quel tempo in cui non si morirà più.
Nella vita, quando ci sono momenti in cui si sta male,
sono solo alcune nostre dimensioni che soffrono. Infatti,
quando si studia questo fenomeno un po’ più da vicino
MALGRADO LA CRISI
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si scoprono cose interessanti. Ad esempio si vede che la
depressione è un meccanismo che l’organismo mette in
atto per rigenerarsi in maniera profonda. Se uno non si
deprime mai, mette in pericolo la sua esistenza. È molto
complicato da definire cosa significhi stare bene o stare
male da un punto di vista organico. La persona che è
sempre felice ignora tutte le dimensioni che si stanno
distruggendo dentro di lei. Nella visione organica,
invece, il male è incorporato. Nelle civiltà dell’eterno
ritorno non c’è una separazione radicale tra il bene e il
male. E anche quando ciò accade, come nel caso del
manicheismo2, il male è assolutamente necessario all’insieme del dispositivo. Ci sono due modi quindi di
considerare il negativo, uno di questi è incorporarlo,
l’altro è cercare di eliminarlo. E quest’ultimo approccio
è tipico della nostra società.
Ma adesso questa società del progresso è in crisi. Lo schema
si è rotto. Si è spezzato il collegamento con il mitico
Punto Omega. Dal punto di vista scientifico, questa
rottura si può datare intorno al 19003, mentre dal punto
Il manicheismo prende il nome da un certo Mani vissuto nel Terzo
secolo in Medio oriente dove aveva fuso in un’unica dottrina l’antica
tradizione mesopotamica e l’insegnamento evangelico. La dottrina di
Mani si basa sull’idea che Bene e Male rappresentano due principi in
lotta tra loro. L’uomo, con la sua coscienza, è solo il “teatro” di questo
conflitto perenne tra due entità opposte per cui non è responsabile
delle sue scelte. Generalmente, con il termine manicheismo, si intende
una visione dualistica della realtà.
3 Il concetto di “rottura epistemologica” (da èpisteme=scienza) sta a
indicare una discontinuità radicale all’interno di una teoria scientifica.
«Quando si produce una rottura epistemologica non solo compaiono
nuovi concetti, nuove teorie, nuovi metodi, nuove problematiche, ma
non si può più neanche trovare un raccordo tra l’antico e il nuovo. Il
prima e il dopo vengono a formare due universi di pensiero estranei
l’uno all’altro» (Suzanne Bachelard, Epistemologia e teoria delle scienze).
2
52
MALGRADO LA CRISI
di vista sociale e politico più o meno intorno al 1980, un
po’ prima della caduta del Muro di Berlino, quando è
cominciata la cosiddetta “fine delle ideologie”. Per lo
scienziato l’ipotesi del progresso lineare si interrompe
dunque all’inizio del secolo scorso. A livello sociale invece,
ci vorranno più di ottant’anni perché si compia questa
rottura. Gli scienziati, ai primi del Novecento, vedono
svanire la promessa di una scienza completa, totale, che
consenta di arrivare a quel Punto Omega che avrebbe
consentito di conoscere tutti i teoremi e dominare la
natura.
Quando ero nelle prigioni argentine c’era una ragione per
lottare contro la dittatura. C’era un ottimismo che mi
faceva dire che sì, soffrivo, che era dura, ma che in un
certo senso avevo già vinto. Più la lotta era dura, più
serviva al disegno superiore; questa dimensione tragica si
fondava sulla promessa della scomparsa del negativo. In
questo caso, come prima nella non modernità, il negativo
aveva un senso e veniva sentito come necessario. Ma per
questi “ometti” postmoderni il negativo è qualcosa che
cade sulla loro testa. Qualcosa con cui non sanno come
comportarsi. È solo e pura negatività. Non è qualcosa che
scomparirà. Non ha più una funzione storica verso qualcosa
di positivo. Quindi è negatività pura in circolo. E diventa
qualcosa che causa la rottura dei legami perché improvvisamente compare ovunque in modo diffuso.
Questa è la realtà attuale da un punto di vista antropologico
e da un punto di vista sociale: il pensiero di un futuro
Esempi di rotture epistemologiche sono le discontinuità provocate
dalle scoperte di Lavoisier, Galois, Pasteur, Mendel nell’Ottocento, e
Einstein all’inizio del Novecento, quando va in crisi irreversibile anche
l’idea di un progresso continuo e di uno sviluppo lineare verso un esito
certo e univoco.
MALGRADO LA CRISI
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come minaccia implica una percezione del negativo
diffusa ovunque. C’è una specie di diffidenza che si
instaura verso l’altro, ma anche verso se stessi: si ha paura
di ammalarsi, di fumare, di intossicarsi. Si ha paura delle
proprie tendenze. Quando ci sono persone come Sarkozy
o Berlusconi che parlano di sicurezza come ideologia,
che parlano di controllo, di apartheid, dobbiamo essere
consapevoli che non hanno inventato nulla. La loro è
una risposta coerente con un’epoca nella quale la minaccia
è ovunque perché la nostra epoca non sa cosa fare del negativo.
Soluzione finale
Vi ho già parlato del lavoro che facciamo con i bambini
di strada a Buenos Aires. In una tribù della Patagonia un
bambino violento fa parte dell’insieme. E questo bimbo
è incorporato organicamente nell’insieme. In una visione
storicista invece il bambino violento dovrà scomparire
proprio perché si vuole eliminare il negativo.
Nella nostra epoca c’è come un fermo immagine: improvvisamente non c’è più temporalità, né circolare, né
ascendente. C’è qualcosa che rimane fisso, si ferma. E se
si vive in questo fermo immagine allora diventa difficilissimo
avere sogni o progetti. Avere un sogno significa potersi
proiettare e quindi prendere una distanza minima, quella
della temporalità, rispetto alla realtà. La nostra epoca
invece è l’epoca di una realtà schiacciante.
Nelle società dell’eterno ritorno il negativo viene trattato
in modo culturale, immaginario. Ovvero sia, ciò che
viene definito il trattamento sacrificale del negativo. Tutte
queste culture hanno qualcosa in comune. Siccome c’è
una specie di amicizia organica con il negativo, e non si è
arrabbiati con lui perché si capisce che fa parte delle cose,
viene trattato e gestito in modo culturale, attraverso ciò
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MALGRADO LA CRISI
che viene definito “aspetto sacrificale”. Dal punto di
vista antropologico, questo significa che in quelle società
si accetta che ci sia una perdita. E soprattutto che sempre
ci sarà una perdita.
Una prima differenza radicale con il nostro mondo è che
la società moderna considera invece la perdita come
qualcosa che deve essere soppressa, eliminata. La società
moderna immagina l’arrivo a un punto della storia in cui
non ci sarà più perdita. Così si nega il sacrificio e, anzi, ci
si prende gioco di lui. Sgozzare una gallina e tutto ciò
che è sacrificale viene considerato come del tutto irrazionale.
Per cui in nome della razionalità si nega il sacrificale e si
creano rapporti umani che appaiono come utilitaristi. In
tutte le culture premoderne, anche se può sembrare incredibile dirlo oggi, il rapporto di scambio tra le persone
non è mai stato utilitarista, ma era sempre segnato da
quello che Marcel Mauss definiva potlatch 4. La modalità
di scambio in tutte le culture non moderne, era uno
scambio in pura perdita. Ad esempio, tu mi dai una
camicia e io te ne offro due; oppure ti invito a mangiare
e preparo una quantità di cibo tre volte più grande di
quella che potremo mangiare. Questa pratica sopravvive
in alcune società un po’ arretrate come quella italiana o
latinoamericana. I francesi dicono che il Natale in Italia è
un disastro perché si mangia sempre tre volte più di
4
Il potlatch è una cerimonia rituale che si svolge tra alcune tribù di nativi americani. Tradizionalmente comprende un banchetto a base di
carne di foca o salmone in cui vengono ostentate pratiche distruttive
di beni considerati “di prestigio”. Durante la cerimonia vengono stipulate o rinforzate le relazioni gerarchiche tra i vari gruppi grazie allo
scambio di doni. Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale distribuiscono o fanno a gara a distruggere beni considerevoli per
affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso
lo abbiano perso.
MALGRADO LA CRISI
55
quello che si dovrebbe, e questo è proprio un esempio di
potlatch: non si prepara solo ciò che serve, ma si prepara
anche per buttare un po’ via quello che si è preparato. In
questo sistema lo scambio non è né egualitario né utilitaristico. È uno scambio culturalmente mediato e ha come
funzione, oltre a quella di scambiare delle merci, di
creare un legame. Nella società moderna invece, a parte
qualche eccezione residuale, si considera il sacrificio un
esempio di irrazionalità e si pensa che debba essere
eliminato. Facendo scomparire il sacrificale però, si crea
qualcosa di troppo forzato per le culture umane, e cioè
un rapporto che vuole e deve essere unicamente utilitaristico.
L’ideale della modernità è una modalità di rapporto che,
spinta al suo estremo, è troppo lontana dalla cultura e
quindi comincia a distruggere la civiltà.
Ciò nonostante, l’aspetto sacrificale non scompare totalmente nella modernità. Certo si decide che il sacrificale
non serve e deve essere eliminato, ma come tutte le cose
che si rimuovono, prima o poi ritorna in forme un po’ sinistre. Ad esempio nella difficoltà ricorrente a stabilire
una produzione davvero utilitarista. Infatti, al di là delle
belle intenzioni efficientiste, si distruggono ovunque materie prime, mezzi di produzione, forze produttive, ricchezza. Ci si chiede spesso come questo sia possibile. In
realtà nella razionalità capitalista, attraverso questa faglia,
si esprime in modo sinistro e nascosto il sacrificale rimosso. E a queste faglie del sistema capitalista si cerca di
rispondere con ulteriori iniezioni di razionalità utilitarista.
Ma più andiamo verso l’utilitarismo più c’è una distruzione sacrificale, non riconosciuta come tale.
Nei modelli complessi applicati all’antropologia pensiamo
che effettivamente il crollo della Borsa, le materie prime
distrutte, le spese folli per trasportare le mele dal Cile a
Parigi piuttosto che produrle localmente, tutto questo,
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MALGRADO LA CRISI
che viene considerato come un problema nel sistema utilitarista, da un punto di vista antropologico non è altro
che il sacrificale rimosso che ritorna. Con una differenza
sostanziale: mentre in passato il sacrificale era gestibile e
gestito, l’odierno ritorno oscuro del sacrificale non è più
gestibile, non è più controllabile. Pensiamo ai tifosi che
si ammazzano tra di loro, che si agitano, che sudano come
pazzi per la propria squadra. Questi stadi ribollenti di follia irrazionale sono in realtà forme oscure del sacrificale.
Lo sport spettacolarizzato è anche un modo per canalizzare la violenza delle persone, ma c’è qualcosa di più profondo. Per cui questa follia che viene fuori allo stadio è la
forma che la nostra società ha trovato per canalizzare un
sacrificale che si cerca di negare. Sarebbe completamente
impossibile pensare alle nostre società capitaliste avanzate
senza la follia irrazionale del calcio, senza le perdite economiche, senza la distruzione delle forze produttive. Non
solo c’è una faglia. Ma in realtà questa faglia è necessaria
affinché il sistema esista. Il nostro sistema non fa più amicizia con la perdita e la perdita ritorna in queste forme.
Il motore del 2000
Tra il modello circolare e il modello lineare storicista la
differenza sta nel fatto che nel primo modello l’umano
non è il motore della storia. Il motore o il movente sono
Dio, o la divinità, la madre terra. L’uomo non è il motore,
perché siamo nel mondo di Dio nel quale l’uomo è incluso, di cui è una parte. Nella modernità invece il motore
è l’uomo. E l’uomo ha il suo motore, il suo Dio. Oggi
non si sa cosa è, o chi è il motore. Quello che sappiamo è
che se vogliamo adottare un pensiero un po’ più olistico,
complesso e sistemico, non si può tenere l’uomo al centro
del dispositivo. Questo noi lo affermiamo sempre in negativo quando diciamo ad esempio che l’economia non è
MALGRADO LA CRISI
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al servizio dell’uomo, che la tecnica non è al servizio dell’uomo, che la città non è al servizio dell’uomo, che l’auto
non è al servizio dell’uomo. Tutti i giorni constatiamo che
la nostra società non è al servizio dell’uomo e siamo molto
stupiti e pensiamo che, allora, deve essere l’uomo al servizio di qualcosa. Sta a noi cercare di capire quale dispositivo oggi sta emergendo. Se non è né Dio né l’uomo,
allora che cos’è?
Ciò che emerge non è qualcosa di univoco o chiaro, ma
al contrario contraddittorio, pieno di conflitti. Emerge
ciò che in filosofia si chiama singolarità. Nell’epoca di
Dio, la singolarità è costituita dalla divinità. L’uomo non
agisce. È una marionetta nelle mani della divinità. Tutta
la tragedia greca o romana, tutta la mitologia cinese o
indo-americana parla di questo. Cioè di come l’uomo sia
tragicamente, una marionetta nelle mani delle varie divinità. In tutte le società circolari la tragedia dell’uomo
viene espressa sulla base del fatto che è attraversato da
forze che lo dominano. La tragedia di cui si parla sempre
è questa: l’uomo mosso da qualcosa. È la questione del
destino, della fatalità. Se l’uomo non accetta il proprio
destino questo gli ricadrà addosso come fatalità.
L’uomo della modernità al contrario crede di essere il motore. È lui che muove le cose, è lui che decide. L’uomo della
postmodernità, poi, si domanda chi lo muove. Ma è mosso
comunque da tutte le parti, come una foglia nella tempesta.
L’uomo dell’era postmoderna sa dai media che si ritroverà
disoccupato, che morirà intossicato, che non avrà figli. Le
cose gli capitano così. Nella modernità agire significava essere in accordo con la storia. La forza che muove tutto è la
storia e alla fine della storia l’uomo sarà come Dio, conoscerà
tutti i teoremi e sarà libero. L’uomo della postmodernità invece è mosso da tutte le parti. Gli si fa desiderare una cosa,
gli se ne fa odiare un’altra, gli se ne fa credere un’altra ancora.
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MALGRADO LA CRISI
Dunque che faccia ha la nuova singolarità? Nella postmodernità la singolarità sembra essere quella tecnico-economica. Magari c’è un ospedale, un chirurgo, un bambino
malato. Ma il bambino muore se la madre non ha i soldi
per pagare le cure. Ci sono tutti i dispositivi materiali per
guarire il bambino, ma la sua guarigione o la sua morte, diventano una questione di soldi. Sono i soldi che decidono.
In questo contesto la tecnica è diventata un fulcro di normalità perché sta formattando la nostra vita e la nostra
società. Tutto ciò che viene prodotto dalla tecnica si trasforma in norma. Ma nessun organismo, quando acquisisce una capacità tecnologica, è un organismo aumentato.
Non esiste questo concetto di aumento. C’è, al contrario,
un concetto di modifica e di cambiamento che implica
quindi anche una perdita. In Francia, dopo qualche anno
dalla commercializzazione del GPS, abbiamo studiato i
tassisti. Coloro che avevano usato il navigatore avevano i
centri sub-corticali dell’orientamento diminuiti. La conseguenza era che avevano problemi di orientamento spaziale perché i neuroni di questa parte del cervello si erano
atrofizzati. Questo significa che non è possibile un esclusivo aumento tecnologico senza che ci siano modificazioni
strutturali. Per questo la tecnologia e l’economia stanno
formattando il mondo. Senza che nessuno decida quei
tipi di cambiamento. Ma quei tipi di cambiamento sono
la conseguenza dello sviluppo delle tecnologie.
Dunque, se oggi il profilo emergente sembra essere quello
della singolarità tecnico-economica, dobbiamo porci una
domanda: quale altra singolarità meno guerriera, meno
folle e meno distruttiva potrebbe emergere in futuro?
Nel procedere su questo filone di ricerca, ci sono due tentazioni: continuare a parlare in nome dell’umanesimo con
una razionalità moderna, oppure tornare a Dio. In pratica
la tentazione di tornare alle singolarità già conosciute. In-
MALGRADO LA CRISI
59
vece la domanda riguarda la possibile identità di una
nuova singolarità emergente. Adesso domina quella tecnico-economica, ma il nostro lavoro è cercare di capire
quali potrebbero essere le forme della singolarità organica
e di emancipazione emergenti in grado di resisterle.
Umano, troppo umano
C’è un dialogo molto noto di Platone in cui Socrate discute con un sofista, Protagora. Quest’ultimo dice che
l’uomo è la misura di tutto. Socrate, come spesso succede
nei dialoghi, fa lo scemo, fa delle domande, poi vince sempre lui, come nelle serie televisive del tenente Colombo. E
Socrate chiede: ma come fa l’uomo a essere la misura di
tutte le cose? L’altro spiega e poco a poco Socrate gli dimostra che per rispondere con rigore bisogna prima definire l’uomo. Scegliere cosa sia l’uomo. E dimostra qualcosa
che Marx riprenderà nella sua critica all’umanesimo.
L’uomo dell’umanesimo, si chiederà Marx, che uomo è? Il
borghese, lo schiavo, il servo, il lavoratore, l’uomo o la
donna? Con queste domande si afferma che l’umanesimo
corrisponde alla creazione di un dispositivo astratto detto
uomo, che non può corrispondere all’uomo reale.
L’umanesimo oggi sembra superato. La prima teorizzazione
dell’umanesimo comincia dopo la conquista dell’America
da parte degli spagnoli e dei portoghesi. Questi ultimi stavano saccheggiando l’America e massacrando gli indigeni.
Fu un immenso sterminio e non si sa, effettivamente,
quanti milioni di indios siano morti. Anche perché continua ai giorni nostri: ci sono regioni in cui i nativi continuano ad essere sterminati per avere accesso alle foreste e
distruggerle. Il frate domenicano Bartolomeo de Las Casas
andò in America, vide queste stragi e scrisse un rapporto
nel quale sosteneva che stavano massacrando degli esseri
umani. Il Vaticano rispose che non erano esseri umani,
60
MALGRADO LA CRISI
bensì animali. Bartolomeo de Las Casas invece, rispose che
erano umani e tutta la discussione si spostò sulla questione
se quegli esseri umani avessero o meno un’anima.
In quel periodo, per la Chiesa, anche le donne non avevano un’anima. O meglio, a volte si, a volte no. Le donne
dell’alta aristocrazia avevano quasi un’anima, ma le donne
in generale no. Ci fu dunque una controversia. Si confrontavano due autorità e chi avesse vinto avrebbe avuto
ragione in base al giudizio di Dio. Bartolomeo de Las
Casas si confrontò con Sepulveda, l’inviato vaticano; i due
discussero e vinse Bartolomeo de Las Casas. Ma quest’ultimo per poter vincere fece un compromesso che produsse
un orrore totale: vinse, infatti, affermando che gli indios
erano sì esseri umani, ma con un’umanità non compiuta.
Ecco, questo è il dispositivo della modernità: il “non ancora”
compiuto. Bartolomeo de Las Casas legittima con questa
concezione dell’essere umano il dispositivo moderno: ci sono
esseri umani che sono a livelli diversi. Quindi stabilisce una
gerarchia. Ma nel farlo, senza accorgersene, finisce per legittimare la teoria umanistica che poi ha giustificato e reso possibile il colonialismo e il razzismo. Ovviamente il
colonizzatore è a un livello, mentre il colonizzato a un altro.
È l’idea di civiltà contro la barbarie. L’idea che ci siano esseri
civilizzati da contrapporre ai barbari. E dunque la domanda
è: come si fa a diventare un essere umano? La conseguenza
possibile di questo modo di ragionare è che diventa accettabile fare del male a un “barbaro” per il suo bene. Si può usare
la barbarie, contro il barbaro, per il suo bene5.
5
Questo stesso modo di ragionare è alla base di una pedagogia che
considera l’infanzia come qualcosa di difettoso o incompiuto che si si
risolverà con il diventare adulti. La possibile conseguenza è l’adozione
di sistemi educativi violenti, correttivi e coercitivi che alcuni studiosi
hanno definito “pedagogia nera”.
MALGRADO LA CRISI
61
In tutti i Paesi del terzo mondo l’umanesimo è molto criticato perché considerato la base della logica colonialista.
C’è però un problema: quando si critica l’umanesimo è
forte il rischio di cadere all’altro estremo, e cioè nel relativismo culturale che dice che non c’è un’unità umana.
Che siamo tutti diversi. Con il conseguente corollario
che se siamo così diversi, allora vince il più forte. Il relativismo culturale è la base teorica attuale dei nuovi razzismi: fra noi e l’Islam non ci si capisce, quindi vince chi
è più forte. Il relativismo culturale si colloca proprio all’estremo opposto rispetto all’umanesimo. L’umanesimo
parte dal presupposto che esista una base comune per
tutta l’umanità. Che l’umanità esista come identità ideale
verso la quale tutti si dirigono e che in nome di questa
compiutezza da raggiungere, dobbiamo orientare tutti i
nostri sforzi. Questo umanesimo non ha prodotto solo
orrori e colonialismo: ha prodotto tante conoscenze, architettura, musica, cultura. Solo che, come tutte le cose
cicliche, inizialmente c’è la liberazione da un peso
enorme, ma alla fine abbiamo qualcosa di distruttivo.
Stessa cosa succede con il concetto di individuo. Questa
idea di individuo, ai tempi di Abelardo ed Eloisa, significava che l’uomo poteva finalmente pensare al di fuori
dell’autorità della Chiesa, e questa possibilità liberava una
potenza enorme: “ho il diritto di pensare!”. In altri termini non si può dire che l’individualismo sia sempre
stato uguale nelle diverse fasi della storia. L’individualismo è nato come movimento di emancipazione molto
potente. Adesso però siamo alla fine del ciclo. E la questione è diventata la seguente: quale figura della singolarità potrà assumere questo ruolo di emancipazione? Oggi
conosciamo la figura della singolarità tecnico-economica,
ma quello che non conosciamo ancora e che dobbiamo
cercare di capire è quale altra singolarità potrà svolgere il
62
MALGRADO LA CRISI
ruolo di proteggere la vita, sviluppare il pensiero e resistere alla distruzione tecnico-economica.
L’utilità dell’inutile
L’individuo occidentale è come lo struzzo a cui ci si riferiva prima: pensa di essere solo una testa, è completamente deterritorializzato. Questo dispositivo logico che
separa il corpo dalla mente, ha prodotto anche saperi e
conoscenze che hanno cambiato il mondo. L’informatica,
ad esempio, ha cambiato il mondo, non solo per la concretezza dei computer, ma anche perché è diventata il modello di ricerca universale. La scoperta del DNA, negli
anni ’50, è stata resa possibile grazie alla applicazione di
un approccio informatico. Da allora si è cominciato a costruire una biologia che corrisponde a questo modello,
nel quale il concetto di “informazione codificata” è centrale. Ma la vita territorializzata è attraversata anche da
quella che chiamo “informazione non codificata”, che
viene dal corpo, dal territorio.
Un buon esempio per comprendere il significato di “informazione non codificata” si trova nel film di Sabrina
Guzzanti “Draquila” che parla del terremoto in Abruzzo.
Nel film c’è un passaggio che spiega molto bene la differenza tra informazione codificata e informazione non codificata.
È un passaggio interessante, un esempio che permette di
vedere come, grazie all’informazione codificata, l’uomo
può annegare nella sua impotenza. Il Direttore del giornale locale racconta che qualche giorno prima della scossa
devastante i suoi figli gli dicevano che ci sarebbe stato un
terremoto. E perché? Perché loro erano nati lì e il loro
corpo segnalava che ci sarebbe stato un terremoto. E probabilmente anche il corpo del Direttore del giornale sentiva la stessa cosa. Gli animali la sentivano. Ma siccome
MALGRADO LA CRISI
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lui riceveva le informazioni da Roma, aveva pubblicato
sul giornale la notizia che il terremoto non sarebbe stato
forte. Alla vigilia del terremoto, la notte prima, racconta
che i suoi figli si erano messi a piangere dicendo che sarebbero morti perché ci sarebbe stato un fortissimo terremoto. Nel documentario, questa persona, guardando
l’obiettivo dice: “ho detto ai miei bambini che non era
vero. E poi sono morti.” Io ho trovato questo terribile.
Perché veramente è un condensato della deterritorializzazione che ci avvolge. Quei bambini avevano una conoscenza di ciò che sarebbe accaduto, erano in possesso di
un’informazione non codificata. Ma l’individuo del neoliberismo e della postmodernità, non riconosce più tutto
ciò che viene dal territorio e che non è codificato. Questo
secondo me è un buon esempio di come l’uomo-struzzo
è separato dal suo corpo e non ha più accesso a questo
tipo di informazioni. Questo meccanismo di separazione
del corpo dalla realtà, del corpo dalla mente, non solo
rende possibile l’oppressione, ma mette anche in pericolo
la vita stessa.
Si tratta dunque di un punto molto importante che riguarda la nostra capacità di comprendere la realtà e addirittura la possibilità di sopravvivenza della nostra specie.
Legami speciali
Ogni volta che c’è una grossa crisi storica ci si pone la
questione del legame. Una questione che in filosofia riguarda il nominalismo e il realismo. I realisti, che si richiamano ad Aristotele e a San Tommaso, diranno che ciò che
esiste è un insieme legato e quindi il legame è una categoria ontologica, un’esistenza reale. Il nominalismo dirà
invece che ciò che esiste sono solo entità elementari separate e i legami tra le entità sono, per parlare nei termini
della logica aristotelica, essenze seconde, dunque senza
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MALGRADO LA CRISI
una vera esistenza ontologica. Da questo punto di vista il
rapporto tra realismo e nominalismo oggi riguarda tutte
le dimensioni della nostra vita, dalla genetica fino all’ambito sociale. Fino ad arrivare alla dimensione dei rapporti
di coppia e a quella individuale, nel rapporto con noi
stessi.
In più ambiti di ricerca oggi ci si chiede se le unità isolate
del nominalismo esistano. E per esempio se esiste l’individuo. Eppure stiamo vivendo una fase in cui il nominalismo è dominante. Viviamo un’epoca di arcinominalismo
nella quale i legami sembrano inesistenti, irrilevanti. Ed
è qui che emerge la relazione tra grave e tragico, tra concreto e astratto. Nel senso che oggi, se prendiamo il concetto di individuo, che è la figura per eccellenza del
nominalismo, vediamo che molto difficilmente può essere
definito come entità isolata, elementare e semplice, criteri
base del nominalismo stesso.
Proviamo a chiarire: la biologia molecolare dice che ciò
che esiste sono entità elementari di base semplici. Che
cos’è un’entità elementare di base semplice? È un atomo,
nel senso etimologico, un’entità non divisibile, che ha una
sorta di esistenza trans storica. Vediamo adesso l’individuo. L’individuo, come figura, non è esistita in tutte le
culture e non esiste ancora oggi in tutte le culture. Per
esempio non esiste nei Mapuche, né in alcune culture africane o in Cina. Quando in queste culture si parla di individuo, si parla di qualcosa che comprende e trattiene in
sé una serie di elementi come l’universo, la storia, la cultura, il pensiero e molto altro. Si usa lo stesso termine, individuo, ma ci si riferisce a un insieme che comprende in
sé l’universo intero. L’individuo post moderno, l’individuo attuale è, al contrario, un individuo assolutamente
svuotato di ogni interiorità. Un individuo sempre più di
superficie, reattivo, trasparente.
MALGRADO LA CRISI
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Facciamo un salto nel mondo della tecnologia per comprendere ancora meglio a cosa ci si riferisce. Molti antropologi studiano le pratiche dei blog e degli sms e in
generale tutti i nuovi sistemi di comunicazione attraverso
i quali molta gente offre la propria vita in spettacolo.
Come su Facebook, con persone che, in qualche caso, vivono ciò che vivono per fotografarlo e metterlo in rete.
Questo fenomeno è parte di un ciclo che ha visto nascere
la figura dell’individuo come figura profonda, multidimensionale, complessa, per finire con un individuo che
ha perso ogni individualità. Un individuo che è diventato
un’entità minima che vive di pura esteriorità. Gli antropologi che studiano questo fenomeno, confrontando per
esempio i diari di una volta con Facebook, mostrano la
differenza che c’è tra il lavoro lento di riflessione e di dialogo con se stessi, rappresentato dal diario intimo, e quello
che invece avviene su un blog, o sui social network, nei
quali c’è un’apologia della banalità. Nel diario intimo la
persona cerca di avere uno sguardo straordinario sull’ordinario. Quando leggete un diario scritto fino a cinquanta
o sessanta anni fa, ad esempio i diari intimi di Simone de
Beauvoir, vedete che ci sono pagine magnifiche, che raccontano cose che sono molto vicine alla nevrosi di una
qualunque borghese nevrotica. Quando Simone de Beauvoir però racconta ciò che ha vissuto nella sua vita, mostra uno sguardo straordinario sull’ordinario e talvolta
anche uno sguardo straordinario sullo straordinario. Se
lei è riuscita a raccontare elementi ordinari o straordinari
in modo universale è perché ha avuto uno sguardo straordinario sulle cose. Oggi invece assistiamo a un cambiamento molto forte: uno sguardo ordinario su tutto.
L’apologia dell’ordinario. Tutto deve essere ordinario e banale, compreso ciò che è straordinario. Anche quando ci
si riferisce a un fatto straordinario, come una guerra o un
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MALGRADO LA CRISI
terremoto, si vede che la persona che scrive cercherà come
nocciolo di verità il punto banale, il punto ordinario.
Ecco l’individuo della post modernità: un uomo vuoto
che sente che l’unica cosa che esiste è la banalità che ci
unifica tutti nella mediocrità. Sì, ci sono Madre Teresa di
Calcutta, Che Guevara, Einstein, ma in fondo, alla fine,
siamo tutti uguali perché ciò che cerchiamo è solo essere
un po’ soddisfatti dal punto di vista narcisistico. Si cercano quindi questi punti di banalità. Il mondo in cui viviamo è questo. Un mondo in cui si dice che esistono
unità semplici, gli individui, collegati tra loro da legami
opzionali che non hanno un’esistenza reale. E dunque si
perde il senso del tragico 6 perché il tragico è la dimensione
che riguarda il legame. E si dice che ci sono soltanto individui connessi.
La questione del legame non è soltanto una questione di
relazione tra entità, ma ha anche a che fare con il contesto,
con ciò che ruota intorno e costituisce ogni entità.
Penso che sia importante oggi chiedersi in cosa consista
la concretezza della nostra vita. La nostra vita non è la
stessa cosa se vissuta nel 1500, o nel 1700 o nel 1900. In
un luogo o in un altro della terra. Entro l’una o l’altra
classe sociale. E un’altra cosa ancora è ciò che oggi chiamo
la mia vita che può essere ridotta a un conto in banca o a
un racconto come quello che può apparire in certi film
isterici di Facebook o dei blog.
6
La parola “tragico” non deve essere qui concepita come evento
drammatico o luttuoso. Con tragico si intende un evento in cui il
legame ha un carattere di necessità e non può essere rimosso o
cancellato, senza che si ripresenti sotto forma di destino. Le tragedie
greche infatti hanno sempre a che fare con storie e personaggi che nel
tentativo di eludere le leggi della vita si ritrovano a pagarne le
conseguenze inevitabili. La differenza tra “tragico” e “grave” è stata affrontata nelle pagine precedenti.
MALGRADO LA CRISI
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Da un punto di vista sociale l’unità di base individuo ci
interessa molto perché effettivamente, in questa crisi che
viviamo, continuiamo a fare riferimento a un’immagine
dell’uomo che viene dalla modernità, senza accorgerci
che l’uomo della postmodernità è un essere assolutamente diverso. Un essere per il quale il valore dell’interiorità, di ciò che è importante, di ciò che ci crea e che
ci fonda è perduto. E senza accorgerci che ciò che ordina
la vita dell’uomo postmoderno sono tutte istanze
esterne. Per questo assistiamo ad una perdita di privacy.
E la frontiera tra pubblico e privato, ad esempio, non
significa più nulla. Da questo punto di vista la nostra
preoccupazione, come ricercatori, non è piangere su
questa entità esaurita che era l’uomo dell’umanesimo e
nemmeno seguire la corrente e accettarla passivamente,
con un atteggiamento rassegnato che sembra dire “è
così, è esploso e ora è tutto pura esteriorità, bisogna seguire le leggi del mercato, l’isteria dei mass media”; dobbiamo invece domandarci se e come oggi cominci ad
esistere una nuova entità con una sua interiorità, con un
dentro e un fuori e che, come dice il filosofo Michel
Foucault, non è più uomo, non è più Dio e non sappiamo bene cosa sia.
Questo passaggio è necessario per ridefinire la problematica attuale culturale, antropologica ed epistemologica a
partire dal dato di fatto che l’uomo è una figura storica.
Perché altrimenti, se ci si mette in una posizione troppo
contemporanea, si finisce per pensare che l’umanità si sia
sbagliata. Per un po’ si è creduto in Dio. E ci siamo sbagliati. Poi abbiamo creduto nell’uomo. E ci siamo sbagliati
di nuovo. Adesso invece siamo lucidi... e non ci sbaglieremo. Invece dovremmo cercare di capire come certe figure storiche emergono, si formano e diventano un
nucleo di realtà.
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MALGRADO LA CRISI
Oggi ci troviamo in un momento nel quale la figura centrale, l’uomo, sembra esaurita e non si sa bene che cosa
stia emergendo.
Ora e sempre Resistenza
Ciò che possiamo definire “concreto” è ciò che esiste malgrado la coscienza e malgrado la conoscenza codificata.
Concreto è ciò che si impone per negatività o positività.
Ad esempio è ciò che si impone quando si fa ricerca e constatiamo l’impossibilità di andare oltre un certo limite. Il
concreto, in generale, si presenta a noi come qualcosa che
impedisce di andare oltre le nostre teorie. È ciò che resiste
malgrado tutto 7. Questa resistenza è il primo livello di manifestazione della concretezza. È ciò che noi effettivamente definiamo come l’incapacità di andare oltre un
livello di informazione codificata. Quando parlo di “informazione codificata” faccio riferimento a un elemento
centrale della modernità che parte dall’ipotesi che tutto
sia informazione. Infatti, questo è il pensiero dominante
oggi: il mondo è un insieme di informazioni. Per esempio
l’idea che la vita sia un insieme di informazioni trasmesse
dai geni nasce dalla generalizzazione di questo concetto
base dell’informatica. L’idea che tutto sia informazione è
diventata dominante e fonda tutta la nostra cultura.
L’idea della centralità dell’informazione oggi, da un punto
di vista postmoderno, è associata alla realtà dei media, dei
computer. Ma in realtà questo modo di ragionare è più
profondo e antico. Già Raimondo Lullo, per fare un
esempio, nel 1308 inventò l’arte combinatoria8. La nostra
7
“Malgrado tutto” è il titolo di un libro di Miguel Benasayag nel
quale l’autore racconta della sua esperienza in carcere durante la
dittatura argentina.
8
“Arte combinatoria”, in realtà, era una locuzione del filosofo Leibniz,
MALGRADO LA CRISI
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cultura si basa su quel dispositivo logico: l’idea che “modellizzare”, significhi conoscere la realtà e controllarla. Ma
cosa vuol dire modellizzare? E che tipo di problema ci troviamo di fronte quando si raggiunge un limite e si incontra qualcosa che resiste alla modellizzazione?
Per avere un’idea di “ciò che resiste” prendiamo come
esempio un esperimento realizzato da un gruppo di etologi che provarono a modellizzare i comportamenti di un
cane con l’obiettivo di costruire un cane artificiale. Per arrivare a una modellizzazione dei comportamenti del cane
si dovevano affrontare diversi problemi, tra cui uno particolarmente interessante: si possono riconoscere tanti
comportamenti del cane, come fare la pipì, riprodursi,
voler uscire, mangiare. Tutti comportamenti finalizzati.
Ma c’è un comportamento particolare di cui non si capisce bene significato e scopo: il cane, prima di andare a
dormire, fa cinque o sei giri intorno alla cuccia. Nel pensiero contemporaneo tutto ciò che non si può modellizzare, cioè che non corrisponde a una finalità evidente, è
considerato come un errore. A tal punto che nella genetica
una buona parte dei cromosomi, non essendo codificanti,
cioè non trasmettendo informazioni, è considerata dagli
esperti americani, come costituita da geni spazzatura e
dunque scartata, trattata come un errore della natura.
Questo ci dice molto sulla concezione attuale della razionalità: ciò che si può modellizzare va bene, tutto il resto
è inutile perché non porta informazioni. Questi ricerca-
per riferirsi agli studi di R. Lullo che quest’ultimo definì “ars magna”.
In pratica l’idea era di trasformare i concetti in segni algebrici o
geometrici in modo da combinarli reciprocamente in tutti i modi
possibili. Nata anche come forma di tecnica memonica, l’ arte combinatoria ha influenzato i successivi sviluppi del pensiero fino all’intelligenza
artificiale.
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MALGRADO LA CRISI
tori dicono che possono modellizzare i diversi comportamenti del cane, cioè attribuire loro delle funzioni che sono
separabili e ricomponibili, ma quando il cane fa qualche
giro intorno alla cuccia, prima di andare a dormire, questa
viene ritenuta un’informazione spazzatura perché non
siamo in grado di attribuire una funzione a quel comportamento. È un comportamento non modellizzabile, nel
senso che gli etologi non riescono a definire la funzione
“giri intorno alla cuccia”. Loro possono modellizzare solo
funzioni. Funzioni delle quali possono dire sempre “questo serve a quest’altro”. Ma è molto complicato modellizzare qualcosa che compare nella teoria dell’informazione
come spazzatura. Così nell’esperimento addestrarono i
cani in modo che mangiassero, facessero la pipì e si riproducessero, ma non facessero giri intorno alla cuccia. Dopo
vari esperimenti ripetitivi, la conseguenza fu che i cani
morivano, si ammalavano, impazzivano. Era impossibile
addestrarli ad andare direttamente nella cuccia, ma se ci
riuscivano, i cani si ammalavano o morivano. E qui
emerge il problema, perché effettivamente la funzione
“giri intorno alla cuccia” non è modellizzabile. Dunque,
il concreto, ciò che è obiettivo, si manifesta a noi non
come una rivelazione di ciò che è concreto di per sé, ma
come qualcosa che resiste.
Il cane mangia, si riproduce, ha funzioni fisiologiche e fa
i giri. La domanda è: “perché fa i giri?”
L’ipotesi, non esplicitata, che orienta questa domanda è
che qualsiasi comportamento di un organismo deve avere
un’utilità, un senso comprensibile dall’esterno. Quindi il
cane si riproduce per fare altri cani, mangia per fare qualcosa, ha funzioni fisiologiche per qualcos’altro. Ma i giri
non si capiscono.
Quindi si stabiliscono delle funzioni costruendole attorno
a un’ipotesi non detta, un’ipotesi implicita: l’idea che il
MALGRADO LA CRISI
71
vivente, in questo caso il cane, faccia cose che devono corrispondere né più né meno a delle utilità identificabili.
L’ipotesi sottesa è quella dell’utilitarismo.
Felicità vo cercando
L’utilitarismo nasce con Jeremy Bentham (1748-1839), lo
stesso filosofo che ideò il Panopticon9. L’idea del Panopticon è di qualcosa di trasparente, leggibile, razionale. È questa esigenza della modernità che diventa una sorta di
caricatura di se stessa nella post modernità. L’esigenza secondo la quale le cose che esistono devono esistere in una
razionalità del reale. È questo che si nasconde dietro l’ipotesi dei ricercatori. Ciò su cui essi però non si interrogano
è da dove venga la loro domanda. “Da dove viene la mia
domanda?” è invece ciò che oggi dobbiamo chiederci.
Da dove viene l’idea dei ricercatori che si chiedono “a cosa
serve”?
La domanda “a che cosa serve?” si accompagna all’ipotesi
umanistica che dice che l’uomo migliorerà le cose. Un’ipo9
Il Panopticon è un dispositivo architettonico applicato alle carceri,
ma in realtà teorizzato anche per i luoghi di lavoro e per le scuole.
L’architettura è qui concepita come una estrema forma di controllo
dei comportamenti delle persone, dei loro corpi e delle loro menti. Il
carcere viene concepito come un luogo in cui 24 ore su 24 il detenuto
è sotto controllo mentre lui non è nemmeno in grado di osservare chi
lo osserva. L’idea educativa positivista è che un comportamento
perverso diminuirà la sua intensità fino a scomparire perché chi lo
attua, sapendo di essere visto, metterà in atto un autocontrollo
progressivo. Una idea ingenua che però ha trovato diverse forme di
attuazione basandosi su un presupposto di sfiducia e di prevenzione
di possibili comportamenti individuali sgraditi. Il “Panopticon” di
Jeremy Bentham, recentemente ripubblicato dalla Casa Editrice
Marsilio, è un lettura fondamentale per comprendere da dove vengano
i presupposti di controllo autoritario che governano gran parte delle
istituzioni lavorative ed educative attuali.
72
MALGRADO LA CRISI
tesi che rimane in un cono d’ombra epistemologico. Rimane in un cono d’ombra l’idea che le cose devono servire
razionalmente e l’uomo può migliorarle. Perché la Natura
sarà domata e migliorata dall’uomo. La cosa chiara quindi
è che l’uomo pensa di poter migliorare la natura. Del resto
siamo sempre in questo ambito quando si pensa di usare
la genetica per impedire certe malattie: il presupposto è
che la natura non faccia le cose molto bene.
È qui implicita una trappola ideologica che cattura e vincola pensiero e azione. Ciò che è meglio e ciò che è peggio
vengono definiti secondo istanze trascendentali che sono
l’economicismo e l’utilitarismo. Infatti lo schema logico
rimane sempre: “meglio rispetto a qualcosa”. Perché
quando si dice “migliorare la natura”, ciò che resta nel
cono d’ombra è appunto: “migliorare rispetto a cosa?”. La
risposta è “migliorare in nome dell’utilitarismo, del controllo delle cose, di una certa idea di prestazione”.
Per giocare un pò con le idee potrei dire che non capisco
perché un organismo si riproduce, ed è esattamente quello
che succede con i ricercatori che si occupano di vita artificiale i quali, ad esempio, sfilano via dalla loro modellizzazione invarianti vitali come la riproduzione.
In pratica questo esempio serve a comprendere che se
consideriamo un organismo discretizzabile10, sezionabile
10
Il termine “discreto” viene dalla logica matematica e ha a che fare
con il concetto di “continuo”. Per semplificare possiamo dire che un
essere vivente è un essere finito che distingue, sceglie, modifica la
realtà sulla base delle sue caratteristiche fisiologiche. Per dirla in altri
termini la nostra percezione dei colori dipende dalle caratteristiche
del nostro sistema nervoso. Non esistono all’esterno i colori, ma onde
elettromagnetiche. Così, ancora in generale, possiamo dire che le
nostre azioni, tendono a discretizzare il mondo confermando i
presupposti di partenza. La discretizzazione del mondo, per ogni
specie, è frutto dell’evoluzione naturale. Le specie discretizzano il
MALGRADO LA CRISI
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secondo un modello esterno, possiamo allora discretizzarlo in qualsiasi modo, tanti quanti sono i modelli da applicare. L’ipotesi di fondo quindi, non è a che cosa
servono i giri dei cani. L’ipotesi di fondo – un’ipotesi filosoficamente reazionaria – è che gli insiemi organici sono
discretizzabili secondo un modello esterno.
Ciò che consideriamo concreto è frutto di una discretizzazione. Discretizzare vuol dire scomporre un organismo
o un continuo in parti. Il passaggio successivo è che alcune possibili scomposizioni diventano quelle dominanti.
Ma la discretizzazione ha un difetto originario: toglie le
cose dallo spazio-tempo. La domanda che gli uomini si
fanno e si sono sempre fatti sui cani, sui gatti e su tutti
gli esseri viventi è: cosa si fa con quello che appare come
il reale? Il reale che ci circonda è composto da entità ben
definite che io posso ritagliare o suddividere? Quindi io
percepisco ciò che esiste perché le cose sono suddivise?
È molto difficile dire che le cose esistono suddivise nel
reale, perché sappiamo che allo stato molecolare e atomico
c’è una specie di brodo di atomi al cui livello noi non esistiamo. Il tavolo non esiste, la penna non esiste, io non esisto... e ancora, a livello subatomico, si parla semplicemente
di flussi di energia. A questo livello il reale esiste solo come
continuo senza entità separate. Ciò che noi vediamo come
separato corrisponde a un lavoro di separazione svolto dal
nostro sistema nervoso. In realtà le entità separate non esistono di per sé come separate.
mondo in un certo modo e discretizzandolo in quel modo vengono al
tempo stesso modificate dal mondo. Questo concetto – che più
avanti nel testo sarà ripreso – si presta ad approfondimenti sul senso e
la qualità della nostra vita sociale se si pensa che, ad esempio, modi
diversi di concepire e costruire le organizzazioni sociali, vere e proprie
discretizzazioni, danno vita ad esperienze e comportamenti, anche individuali, diversi.
74
MALGRADO LA CRISI
Per esempio quando guardiamo dall’aereo una foresta, vediamo un insieme nel quale gli alberi non appaiono come
unità. Quello che chiamiamo unità è la foresta. Quando
vediamo l’albero da vicino l’unità non è l’albero, ma le
parti che compongono l’albero. E così all’infinito. Verso
il micro, ma anche verso il macro. La vita degli individui
quindi diventa molto importante a una certa distanza.
Quando hai una persona davanti a te questa diventa importante. Quando ci si allontana nello spazio o nel tempo
da questa unità, invece, c’è qualcosa che si fonde nuovamente nel continuo. Per esempio c’è un fenomeno psicologico strano, facile da constatare. Fate vedere a un
bambino delle foto di morte, un orrore, e poi ditegli che
quei morti sono morti di duemila anni fa, il bambino dirà
“ah, ma allora...”. Le foto di una mummia, di un cadavere, se sono morti duemila anni fa si possono guardare
senza problemi. Se invece la persona è morta ieri allora è
orribile. Il morto di duemila anni fa si rifonde in un continuo che è l’epoca di duemila anni fa, in cui c’erano cani,
mucche e uomini, ma era comunque l’epoca di duemila
anni fa.
Costruire la realtà
Tutto questo porta a chiederci quali sono e come funzionano i nostri meccanismi di suddivisione della realtà.
Fino a non molto tempo fa si pensava che per i mammiferi ci fosse una corrispondenza precisa tra la realtà e la
sua percezione. Da una quarantina d’anni ci siamo resi
conto che non è affatto così. Ci sono stati lavori di studiosi come Maturana e Varela11 che hanno dimostrato
11
Humberto Maturana e Francisco Varela sono due biologi cileni
che hanno rivoluzionato il modo di concepire gli esseri viventi e contribuito a sviluppare un approccio radicalmente diverso allo studio
MALGRADO LA CRISI
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come il sistema nervoso non operi una rappresentazione
fotografica della realtà. Questi neurobiologi hanno mostrato, grazie anche a tecnologie come l’imaging, che noi
non vediamo cose che esistono di per sé, già suddivise,
ma che il nostro cervello, con le sue caratteristiche, procede verso una scomposizione del reale facendolo corrispondere alle sue capacità e alle sue caratteristiche. Questa
scomposizione però, non è soggettiva, non è che ognuno
di noi ha una scomposizione diversa. Anzi, le differenze
nella scomposizione sono minime, non solo tra gli uomini, ma tra tutti i mammiferi. Bisogna cambiare specie
per cominciare a trovare delle differenze nella modalità di
scomposizione. Per un microbo un muro non esiste. La
formica suddivide il reale in un modo ancora diverso:
quando vede il corpo di una mucca non vede un corpo
morto, ma una specie di massa da scavare e cerca di capire
da che punto prenderla per ottenere cibo. Ogni specie discretizza il mondo in quanto a sua volta è un organismo
discreto. Proprio perché ci sono organismi discreti, proprio perché l’organismo è discreto, non può concepire o
percepire tutto. Non può perché ha dei limiti nel tempo
e nello spazio. È l’organismo limitato che delimita lo spazio. Ed è perché ci sono organismi discreti che esiste un
mondo discretizzato. Se non ci fossero organismi discreti
non esisterebbe un mondo con delle parti discrete.
del cervello e del sistema nervoso. Dando un contributo particolarmente
originale alle teorie della complessità ed al ruolo del linguaggio nella
costruzione della realtà. Loro l’invenzione del termine “autopoiesi”
(auto-creazione) per indicare la caratteristica fondante di un sistema
vivente: il fatto che tutta la sua attività biologica venga svolta in
funzione del mantenimento della sua esistenza. Tra i libri più
importanti e divulgativi di Maturana e Varela “L’albero della Conoscenza”, edito da Garzanti.
76
MALGRADO LA CRISI
Ma una cosa è dire che l’organismo è discreto e discretizza,
altra cosa è chiedersi come si discretizza la realtà. Ci sono
due modalità di discretizzazione del reale. Una modalità
è quella artefattuale, basata su una domanda che abbiamo
già incontrato: “a cosa servono le funzioni?”. Ma esiste
anche un altro modo di discretizzare il reale che possiamo
definire organico.
L’organismo discretizza il reale ed è discretizzato dall’ambiente. L’evoluzione della specie è tutta una storia di cocreazione di organismi e di ambienti. Perciò non
possiamo parlare di organismi isolati, ma di campi biologici. Gli organismi, essendo discretizzati nel tempo e nello
spazio, discretizzano il mondo. Discretizzare il mondo significa che il mio agire sul mondo provoca un reagire
dell’ambiente. Quindi la discretizzazione è una dinamica
permanente tra organismi e ambienti e fra organismi tra
di loro. Da questo punto di vista ciò che esiste non sono
organismi che discretizzano un reale determinato. Esiste
un campo biologico, una sorta di campo di forze, una
suddivisione dello spazio-tempo nella quale ci sono processi legati fra loro e comprensibili soltanto in base a questi legami. Quando entriamo in un campo di forza il
nostro organismo si comporterà sulla base degli imperativi
di quel campo di forza12. Come quando un meteorite
viene catturato da un campo gravitazionale e devia il proprio percorso. Quando parliamo di campo biologico abbiamo a che fare con un lavoro permanente di
discretizzazione attraverso il quale gli individui e le specie
discretizzano il reale e contemporaneamente sono discretizzati dall’ambiente.
Si capisce bene allora la differenza fra discretizzare il
mondo per mezzo di un modello artefattuale di tipo uti12
Un altro modo per parlare del concetto di “tragico”.
MALGRADO LA CRISI
77
litarista e farlo secondo modelli organici. La discretizzazione artefattuale considera l’uomo e la società come un
insieme di moduli componibili. Qui si entra nel campo
della flessibilità neoliberista, per parlare in senso sociale
ed economico. L’idea dominante oggi è che il mondo sia
un insieme di elementi e di moduli organizzati e organizzabili in senso utilitaristico. E questa idea è, né più né
meno, la base della politica, dell’economia, della filosofia
dominante, che non tengono in considerazione l’esistenza
di invarianti organiche. Non prendono in considerazione
cioè il fatto che un funzionamento organico ha dei limiti
di tolleranza. Che credono si possa fare qualsiasi cosa, che
tutto sia costruibile, che tutto si possa modellizzare e poi
riprodurre migliorato e migliorabile. Il costruttivismo ha
questo cono d’ombra permanente: l’utilitarismo. Utilitarismo oggi dominato a sua volta dall’economicismo.
L’idea originaria, da cui siamo partiti, era basata sulla domanda “a cosa serve?”. Ma il passo che va da “a cosa serve
il giro del cane?” a “a cosa serve economicamente?” è un
passo che nella nostra società si fa automaticamente. Per
cui la discretizzazione utilitarista è continuamente attraversata dall’economicismo.
Questa è l’ideologia dominante. Questo è il pensiero che
abbiamo nella testa e che diamo per scontato. Come se
uno dicesse “tutti gli uomini vogliono avere un Suv” o
“tutti gli umani vogliono avere molto denaro”, e se voi
dite che non desiderate avere né un Suv né tanto denaro,
vi viene risposto che vi state opponendo a qualcosa di
scontato. L’ideologia dominante è costituita da cose che
sono considerate evidenze epocali, su cui non c’è alcun
motivo di interrogarsi.
L’utilitarismo è lo zoccolo duro di “evidenze” su cui nessuno si interroga. L’utilitarismo è il corridoio che porta al
dominio dell’economicismo.
78
MALGRADO LA CRISI
Sfilata di modelli
Una branca importante della biologia molecolare considera
la vita un insieme costruibile a partire dalle molecole di base.
Nel mio team ci sono biologi molecolari convinti che, effettivamente, ci siano molecole che si articolano tra di loro e, a
partire da un certo momento, compare la vita. Tipo Frankenstein. Si mettono insieme le molecole e poi emerge la
vita. Lo stesso approccio si può applicare all’urbanistica: faccio le macchine per la vita, le machine a vivre come le chiamava Le Corbusier, le organizzo e faccio una città. Oppure
nella pedagogia basata sulle competenze: insegno ai bambini
dei moduli utili, delle competenze utili e dopo un po’ che
imparano le competenze utili si crea un essere umano.
La cosa che ci interessa dire a proposito di questo approccio è che è una catastrofe totale, un disastro! Questo approccio sta distruggendo le città e la vita. Ma per poter
reagire e opporsi a questo approccio distruttivo, bisogna
dotarsi di una modellizzazione complessa che presentiamo
come modellizzazione organica. Modello organico non
vuol dire modello biologico. Il modello organico è un modello della realtà e della complessità che noi applichiamo
anche alla biologia. Il modello organico non è un’estrapolazione dalla biologia verso la società o l’economia.
La modellizzazione organica è una modellizzazione complessa che resiste e si oppone al costruttivismo post moderno. La modellizzazione organica può essere applicata
alla biologia, ma non è la biologia a fornire un modello
organico. Bisogna sempre diffidare delle spiegazioni “biologicizzanti” della società.
Da un punto di vista epistemologico, quando si parla di un
modello organico, di una modellizzazione culturale prodotta
dagli esseri umani, si parla di qualcosa che si può applicare
anche alla biologia. Quando parlo con altri biologi non pretendo di conoscere meglio di loro la realtà biologica. Dico
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solo che se si applica un modello organico alla biologia si ottengono risultati migliori rispetto a quando si applicano modelli costruttivisti. I modelli costruttivisti sono modelli
secondo i quali in realtà non c’è niente di concreto. Nei modelli costruttivisti tutto può essere costruito, tutto è in un certo
senso soggettivo perché costruibile e comunque dipende dalla
nostra soggettività. Quindi l’unica cosa concreta sono le unità
di base a partire dalle quali si costruisce qualcosa.
Alla domanda se la qualità concreta delle cose dipenda
dalla nostra soggettività, la risposta è che la qualità concreta di qualcosa si autoimpone organicamente. Se prendiamo un approccio alla ricerca come quello che abbiamo
incontrato nel caso dei cani che fanno giri intorno alla
cuccia e lo applichiamo all’urbanistica, se costruiamo delle
machine a vivre, con linee rette e schemi panoptici, cercando di eliminare ciò che non riesco a concepire come
utile, effettivamente, invariabilmente, vedo lo sviluppo di
processi morbosi: violenze, suicidi, alcolismo, tossicodipendenza. Devo quindi constatare che c’è qualcosa che
non posso evitare. È per questo che noi diciamo che il
concreto è organicamente limitato. Non perché il concreto
si manifesta a noi dicendoci “hey, sono il concreto!”, ma
perché è quello che non possiamo evitare o eliminare e
che, quando cerchiamo di evitare o eliminare, fa sì che il
nostro modello non funzioni13. Se cerco di comprendere
13
Sarebbe interessante, a partire da questi presupposti, rileggere il funzionamento delle organizzazioni e il senso e la reale efficacia di
strumenti e procedure adottate per risolvere in modo lineare alcuni
problemi come, ad esempio, la motivazione delle persone o l’assenteismo.
Il tentativo positivista di eliminare totalmente l’assenteismo, potrebbe
dare luogo a sistemi di controllo o tipologie di contratto che finiscono
per penalizzare i non assenteisti. Ogni volta che in una organizzazione
si pretende di eliminare un fenomeno si rischia di introdurre
complicazioni per non aver preso in considerazione la sua complessità.
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una penna come qualcosa di concreto in sé, indipendentemente dal contesto, osserverò che per diverse culture la
penna è un oggetto assolutamente incomprensibile.
Pensate a un marziano: la penna potrebbe essere incomprensibile per lui come per altre culture, mentre è il sistema complessivo che rende la penna comprensibile nel
quadro situazionale. Il concreto non è mai qualcosa di
transituazionale o decontestualizzato. Il concreto è tale
per, e attraverso, la confluenza di alcuni processi. Quando
questi processi non confluiscono più, non convergono
più, il concreto scompare. Ciò che è concreto è una produzione permanente di concretezza. Non esiste niente che
sia concreto in modo isolato nel tempo e nello spazio.
Quindi la concretezza è questa base spazio temporale che
permettendo che esista un contesto, rende le cose reali.
L’uomo fa il mondo
Ciò che dobbiamo considerare, rispetto all’utilitarismo, è
che l’idea che l’universo sia reale, razionale e scritto nel
linguaggio matematico, si trasforma, nella postmodernità,
in “tutto è contabile”. La postmodernità costituisce un
passaggio nel quale l’universo non è più scritto in linguaggio matematico, ma nel linguaggio del “prezzo”. L’universo ha un prezzo.
Si tratta di uno svuotamento totale di senso. È grazie a
questo paesaggio mentale e culturale che oggi uno scienziato può permettersi di parlare senza timore di essere
smentito di DNA spazzatura. Oppure un urbanista può
affermare: “questo quartiere ha delle strade che vanno inutilmente a zigzag”. L’utilitarismo post moderno è quasi
una caricatura della modernità.
Ma tutta questa razionalità è apparente. Oggi il modello
utilitaristico è maggioritario e si articola bene con una
concezione dell’irrazionale, perché nonostante sembri un
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assoluto della razionalità, in realtà è un modello intriso di
irrazionalità sacrificale.
Allora la questione diventa cercare di capire quale modello
usare per comprendere la realtà che non sia quello utilitarista, apparentemente razionale, e che non sia quello
della razionalità moderna, che per inciso, resta quello tipico della sinistra.
In altri termini qual è il modello, o quali possono essere
i modelli che possiamo utilizzare per capire un po’ meglio
la nostra epoca, difendere la vita e sviluppare processi di
emancipazione e solidarietà? In effetti il nostro percorso
procede verso un’epistemologia nella quale non c’è differenza tra realtà e interpretazione della realtà, dato che
l’interpretazione della realtà non è soggettiva e intellettuale, ma è una discretizzazione. Allora dobbiamo immaginare che ogni epoca costruisce una realtà con
determinati livelli di azione, di comprensione e di tolleranza. Da questo punto di vista oggi siamo in presenza
di un accumulo di sapere che ci consente di essere più
potenti, ma siamo anche di fronte ad una contestuale
perdita di saperi. Quindi nell’epistemologia sulla quale
lavoro ci sono molte differenze tra i ricercatori, ma a partire da una base comune: l’idea che ci sia una co-costruzione di mondi.
La percezione del mondo è la produzione di una parte del
mondo. Noi studiamo la percezione del mondo come
produzione di una parte del mondo rispetto all’altra. E se
non c’è una grande differenza tra discretizzazione del
mondo e produzione del mondo, allora il problema è che
la discretizzazione artefattualizzante utilitaristica, economicistica produce un mondo che si degrada, mentre la discretizzazione organica co-produce un mondo che si
sviluppa.
Ciò che è in gioco qui non è un problema tra modelli epi-
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stemologici che competono rispetto alla loro capacità di
fotografare la realtà. La questione è di tutt’altra natura.
Qualsiasi modellizzazione co-costruisce il mondo e lo
spinge in una certa direzione. Quindi il progresso dell’uomo modulare, del costruttivismo e dell’utilitarismo,
costruisce un mondo che distrugge la vita, mentre l’approccio che cerca modelli più complessi, organici, co-costruisce il mondo che difende la vita. Se utilizzo
modellizzazioni arcinominaliste, queste modellizzazioni
non ignorano semplicemente i legami, ma tendono a distruggerli. Se invece utilizzo modellizzazioni che partono
dall’idea che i legami siano ontologici, allora li sviluppo.
Questa è una visione nella quale, le conoscenze e le azioni
co-sostanziali sviluppano tendenze del mondo diverse. Se
vogliamo comprendere e conoscere i legami, sviluppiamo
dei legami! Detta in questo modo sembra una cosa un po’
magica, ma non è così.
Il riduzionismo è un meccanismo bottom up, dalla base
verso l’alto. Il riduzionismo è quello che Mary Shelley critica con il suo romanzo “Frankestein”. Il riduzionismo è
Le Corbusier, la biologia molecolare, il costruttivismo
economico, la pedagogia delle competenze.
Poi c’è l’olismo. L’olismo è top down, cioè dall’alto verso
il basso: l’idea cioè che è a partire dal tutto che posso comprendere le parti.
Nella nuova epistemologia, invece, articoliamo simultaneamente il bottom up con il top down, il riduzionismo
con l’olismo. Non siamo cioè né in un’epistemologia totalmente olistica, né totalmente riduzionista. Nell’olismo
puro, quando parlo di organismo, finisce che non capisco
niente perché se dico che tutto è un tutto e che tutto può
essere spiegato dal tutto, è come dire che niente è spiegabile. Se ho bisogno sempre del tutto per capire tutto, non
capisco mai niente. Se non posso avere dei momenti di
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riduzionismo non posso procedere e, nello stesso tempo,
se questi momenti di riduzionismo vengono separati dal
tutto non vado avanti lo stesso. La nuova epistemologia
invece è ascendente e discendente al tempo stesso ed è tipica dei modelli organici. Non è olistica, perché non mi
limito a dire che tutto è un tutto, ma determino dei livelli,
che sono livelli organici che articolano le parti con il tutto.
E questo tutto non è un tutto olistico idealistico, così
come le parti non esistono separatamente come nel riduzionismo.
A cosa servono i prodotti?
La postmodernità porta con sé una svolta linguistica: è il
momento nel quale le teorizzazioni non hanno più rapporto con il livello organico. Quindi tutto è linguaggio,
narrazione.14 Una narrazione scollegata dalla realtà al
punto che ogni racconto diventa equivalente perché separato dal principio di verità.
Questa è la differenza dal punto di vista epistemologico e
antropologico tra la modernità e la postmodernità. Nella
modernità il rapporto con il reale, la praxis, esiste sempre,
perché non siamo ancora arrivati al Punto Omega. Nella
postmodernità invece c’è qualcosa di correlato con la fine
della storia e quindi si considera che tutto possa essere
racconto, tutto narrativa, tutto matematizzabile. Il po14
Il termine narrazione è usato da Benasayag non implicando un
giudizio negativo sull’importanza delle storie, del racconto. Benasayag
fa riferimento con questo termine a quella sorta di storytelling manipolativo in cui la narrazione è completamente avulsa dalla realtà,
anch’essa deterritorializzata, ma in grado comunque di determinare la
realtà stessa. Certi linguaggi politici, moltissima pubblicità, il linguaggio
aziendalistico, ad esempio, hanno proprio questa caratteristica. Le
immagini di una jeep che resiste al diluvio universale sono un esempio
tipico di narrazione senza rapporto con il livello organico.
84
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stmoderno è qualcosa di correlato con la fine della storia
che si materializza come separazione rispetto all’organismo. Il reale diventa una barriera e deve scomparire per
rendere possibile l’idea centrale della postmodernità che
tutto sia possibile. Ma se tutto è possibile, niente è reale.
Ecco allora che la postmodernità nasconde il reale postulando che tutto è possibile, tutto è racconto, tutto è narrazione. Senza limiti organici.
Partendo da questi presupposti, possiamo parlare ora del
consumo. Per il mercato postmoderno la cosa importante
è creare una narrazione per cui le persone comprano e
consumano in un modo disconnesso e separato da qualsiasi organicità. Ancora peggio: si consumano cose che distruggono la vita. La postmodernità capisce che bisogna
creare una narrazione, una storia che giustifichi le pratiche
separando questo racconto da qualsiasi livello di verità organica. E questa costruzione del racconto diventa il focus,
il centro, il modello di riferimento. Tanto da poter essere
utilizzato anche per vendere un candidato alle elezioni,
come fosse un prodotto. In sintesi, ciò che vive è secondario rispetto al racconto nel quale vive. L’uomo-struzzo
con la testa nel buco, costituito dalle tante narrazioni che
gli fanno dimenticare il corpo e tutto ciò che viene dal
corpo (i messaggi, il dolore, il piacere ecc.) viene immediatamente interpretato in termini di narrazione. Ciò che
nella nostra epoca si oppone al reale è questa massa di narrazioni che filtrano tutte le informazioni che vengono
dalla realtà. E queste informazioni vengono immediatamente risucchiate, fagocitate dalle narrazioni.
L’uomo attuale, l’uomo dell’individualismo postmoderno,
è il frutto di una discretizzazioneche ne riduce la complessità
e lo banalizza. Quest’uomo vuole, come obiettivo concreto
della sua vita, ciò che è utile, ciò che produce felicità immediata e spesso artificiale. I grandi filosofi inglesi dell’utilita-
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rismo si pongono una questione fondamentale domandandosi quali siano gli obiettivi delle azioni degli uomini. Bentham rispose, appunto, che questi obiettivi sono la ricerca
di ciò che è utile e della felicità. La felicità, che però sembra
cosa autoevidente e indubitabile, è una costruzione storica
e antropologica che cambia col passare del tempo.
Per l’esattezza ci sono due cose che cambiano nella “felicità”: ciò che la produce e ciò che si sente nel proprio
corpo e ci fa dire “sono felice!”. È importante capire come
la storia e la cultura plasmino i corpi e le menti per comprendere come, a seconda dei periodi storici, si sia contenti per alcune cose e infelici per altre. È difficile trovare
fatti che in tutte le culture e per tutte le persone siano associati in maniera univoca a felicità o infelicità. La nostra
cultura, divenuta poco a poco una cultura di pura esteriorità, ha prodotto un uomo che crede solo a questi elementi, a queste certezze: utilità e felicità. Sta a noi adesso
cercare di capire come si possa comprendere, e poi agire,
per ampliare la superficie di ciò che la postmodernità ha
ridotto all’esistenza di questi semplici elementi. Capire
cioè quali possono essere le possibilità e le condizioni per
fare in modo che a livello sociale e culturale emergano
altre cose desiderabili oltre quelle che la società definisce
come utilità e felicità.
Quando si dice, ad esempio, che la felicità è evidente, allora ci si può chiedere: avere una casa con la piscina dà
felicità? La cosa probabile è che ciò che dà felicità in una
casa con la piscina sia l’idea, la narrazione, la storia che ci
si è creati. Si sta lì, belli rilassati accanto alla piscina, senza
lavorare. Forse ciò che produce felicità in quel momento
è che il vicino la piscina non ce l’ha. E magari deve anche
lavorare. Quindi quello che produce la sensazione di felicità non è sempre così evidente. Spesso la sensazione di
felicità non è intima, ma piuttosto determinata cultural-
86
MALGRADO LA CRISI
mente e socialmente; per cui questo ci fa dire: “in questa
narrazione, in questa storia, mi sento felice”. E questa idea
di felicità è anche correlata alla perdita di interiorità, a
quel processo che ci porta a diventare superficiali, a restringere il campo, le possibilità e le capacità di conoscenza15.
La tecno felicità
Quest’ultima dimensione, che riguarda le nostre capacità
di apprendimento e comprensione del mondo, ci porta a
parlare di un’altra cosa: il ruolo delle tecnologie nella crisi
che stiamo vivendo. A livello fisiologico gli strumenti di
comunicazione, i cellulari, internet ecc., rischiano di diminuire le nostre capacità neuronali di utilizzare circuiti
più complessi. La tecnologia discretizza, e quindi toglie,
elimina e impedisce altre modalità di discretizzazione.
Pensare che la comunicazione si riduca al solo scambio di
elementi simbolici è una caricatura dell’idea di comunicazione. Nel legame con l’altro, in realtà, il contenuto
della comunicazione non è così importante come si crede.
15
Il tema della felicità sta conoscendo una stagione di studi interessante
proprio nelle discipline economiche. In Italia, tra gli altri, Stefano
Bartolini e Luigino Bruni, entrambi economisti, hanno dedicato più
di un volume a questo tema. Lo stesso Istat ha lavorato per la
realizzazione di un indice economico che superi il PIL come indicatore
del benessere di una nazione prendendo in considerazione aspetti
qualitativi e non solo quantitativi. Un altro autore di riferimento, a
testimonianza del rigore di questi studi, è lo psicologo Daniel
Khaneman che è stato insignito del premio Nobel per l’economia. Le
sue ricerche mettono in discussione i principi della razionalità alla
base dell’economia classica, secondo i quali i comportamenti umani
sarebbero orientati al massimo vantaggio individuale. Di notevole
interesse inoltre in tutti questi studi la dimostrazione che oltre una
certa soglia di reddito la felicità e il benessere non aumentano e, addirittura, diminuiscono.
MALGRADO LA CRISI
87
Il contenuto è importante in un gruppo di ricerca, perché
bisogna capire dei concetti. Ma in quasi tutti gli altri rapporti sociali quello che conta è tutta la metacomunicazione
che nella teoria dell’informazione sarebbe considerata
spazzatura, mentre invece è proprio ciò che fonda i legami
sociali.
La tecnologia ci dice che quando si comunica si dicono
delle cose. Allora si separano le cose dette dal substrato (il
nostro corpo, le relazioni) e si creano delle macchine che
servono a dire delle cose. Così, a poco a poco, ci rendiamo
conto che più diciamo delle cose più ci troviamo in una
condizione di malessere perché si rompono i legami ed è
difficile poi capire perché si sta male. Si sta male perché
la parte comunicante discretizzata dalla tecnica dimentica
e rimuove tutta la parte che considera non comunicante
e che è proprio uguale ai giri del cane intorno alla cuccia
di cui abbiamo parlato in precedenza.
Qui casca l’asino
Credo che la Coop sia un ambiente ideale per questo genere di ricerche e di riflessioni. Infatti vendere merci,
prodotti, farli circolare, è una cosa che riguarda anche il
modello di felicità e di comunicazione implicito nelle
narrazioni dominanti nella società. Coop è proprio al
centro di questo snodo. È nel suo nucleo. E qui ci sono
due opzioni: o seguiamo il percorso che ci invita a costruire delle storie, delle narrazioni finalizzate a far sì che
le persone comprino di più alla Coop che in altre catene
distributive, oppure seguiamo un’altra modalità che riguarda invece la ricostruzione dei legami, per far sì che
non ci siano solo storie e racconti manipolatori. Sta
anche qui la sfida della Coop: nel non rimanere solo a
un livello di comunicazione utilitaristica, dove si “vende”
la felicità. Al contrario è invece possibile riterritorializ-
88
MALGRADO LA CRISI
zare il mercato e la circolazione dei prodotti in modo
qualitativamente diverso da ciò che succede in qualsiasi
altra catena della grande distribuzione, e non solo perché
Coop è più simpatica o di sinistra o cose del genere.
Ma per arrivare a parlare di questo e del mercato dobbiamo prima approfondire qualche concetto che abbiamo incontrato precedentemente. Un esempio
epistemologico importantissimo è quello dell’“asino di
Buridano”, un nominalista del XII secolo. Buridano faceva il seguente esempio: immaginiamo un asino nel
mezzo a due mucchi di fieno equidistanti. L’asino li
guarda, ma dal momento che la distanza dal cibo è la
stessa, non può decidersi e finisce per morire di fame. A
prima vista l’esempio può sembrare sciocco, ma al contrario il dispositivo logico inventato da Buridano è assolutamente geniale, tant’è che esiste una corposa
letteratura su questo argomento. In sostanza Buridano
dice che l’equidistanza ha la funzione di eliminare il tropismo, cioè quella che in biologia è una forza di attrazione non spiegabile. Il tropismo infatti non spiega nulla.
Un esempio: nel caso di un albero le radici vanno verso
la terra e i rami e il fogliame verso l’alto; tropismo in pratica significa “tendenza verso qualcosa”, e questo fenomeno, questa tendenza è qualcosa che non si spiega in
biologia. Buridano in realtà cerca di costruire un esempio
nel quale la materialità animale viene eliminata per vedere dove si trovano l’anima, la decisione, il libero arbitrio e la coscienza. Ciò a cui cerca di arrivare è una
situazione in cui la materia non disturbi. Come si fa a
vedere cosa succede e ciò che agisce nel momento in cui
la materia non disturba? Buridano dice che se mettesse
l’asino esattamente nel centro tra i due mucchi di cibo
avrebbe dei tropismi in entrambi i sensi e quindi i tropismi opposti si annullerebbero. Così la materialità del-
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l’asino cesserebbe di intervenire. Materialmente l’asino è
neutralizzato16. Se invece che mettere l’asino ci si mettesse uno di noi, per esempio, la nostra corporeità verrebbe neutralizzata perché ci sono due tropismi
simmetrici. Ma noi avremmo qualcosa che sfugge alla
materialità e che ci può spingere a scegliere una delle due
balle e a non morire di fame.
Questo dispositivo logico serve a dimostrare la tesi che il
libero arbitrio si manifesta una volta che si sia sfuggiti ai
vincoli della materialità. Lo schema di Buridano ha lo
scopo di dimostrare che esiste nell’essere umano
un’istanza che sfugge alla materialità, al tropismo, alla sovradeterminazione, e che permette di scegliere liberamente. “Liberamente” qui significa fuori dai vincoli della
materia.
Questo dispositivo logico è molto importante perché
porta dritti dritti all’invenzione della superiorità umana
rispetto a tutto il resto della materialità e animalità del
mondo. Serve ad affermare che l’essere umano, in natura,
possiede qualcosa di più degli altri esseri viventi. Che poi
questo dispositivo sia teologico o laico è irrilevante. Questo dispositivo logico è riconoscibile in molti ambiti. Per
esempio in medicina si pensa la guarigione come capacità
di sfuggire ai tropismi. In educazione si dice che bisogna
venire educati perché non bisogna essere catturati dai tropismi. Tutto l’Occidente produce un modo di vivere, di
educare e di curare cercando di sfuggire ai tropismi. È un
rapporto guerriero dell’umanità con la natura. Si pensa
che bisogna riuscire a eliminare la natura, il tropismo e la
materialità per essere liberi.
16
Un altro esempio, prima di Cartesio, di separazione tra mente e
corpo.
90
MALGRADO LA CRISI
Epistemologia, territorio e astrazione
Questo modello di uomo è dominante nella modernità.
Ad esempio, quando ricevo dei pazienti in psichiatria o
in psicanalisi, mi vengono a trovare, vengono dallo psicologo o dallo psichiatra e mi dicono: “Povero me, ho una
madre che è così...”; oppure: “Sono un uomo ma non mi
identifico con il mio sesso”; un altro ancora mi dice: “Perché sono nato in questa epoca?” Il paziente mi parla di
tutti i suoi tropismi. “Sono nato in quest’epoca” è un
modo del paziente di non riconoscere il tropismo, considerando l’epoca stessa incidentale, qualcosa di secondario,
separato o separabile dalla sua vita. Qualcosa a parte. Creando una differenza tra ciò che è incidentale e ciò che è
necessario. Questo è l’Io della postmodernità. Un Io che
dice: “per me l’epoca in cui sono nato è un incidente”, o
“il sesso con cui sono nato è un incidente” o ancora “i genitori che ho sono un incidente17”.
In questo modo, sulla base di queste premesse, l’uomo
della postmodernità si vivrà soggettivamente come un essere assolutamente etereo, deterritorializzato, una sorta di
potenza, di energia libera che potrebbe prendere qualsiasi
forma, perché non ha nessuna forma. E questa concezione
calza come un anello al dito del neoliberismo, che propone un idea di essere umano inteso come massa di energia senza forma, adattabile ad ogni forma. L’immagine
della libertà nella modernità è questa. E ancora di più
nella post modernità, che oltretutto considera tutto come
informazione decodificabile e controllabile a piacimento.
Lo schema epistemologico implicito nel dispositivo “asino di Buridano” è molto importante perché costituisce la
trappola deterritorializzante che farà coincidere la libertà
17
Incidente inteso come qualcosa di estraneo, e dunque, di ostacolo
al “normale svolgimento delle cose”.
MALGRADO LA CRISI
91
con il dominio. Quest’istanza, questo schema, finisce per
essere la cornice che tutto domina. Qualcuno vi dirà ad
esempio di essere stato catturato dall’alcool, o dall’età, o
dalla sigaretta, o dal desiderio di donne. Il vissuto dell’uomo postmoderno è il vissuto di un’entità completamente deterritorializzata, prigioniera, purtroppo, dei
tropismi culturali e corporali reali. La conseguenza è lo scivolamento in una dimensione di impotenza totale perché
finiamo per immaginarci completamente separati da tutti
i territori e da tutte le dimensioni che ci costituiscono. Per
esempio, una persona va dal dottore perché obesa. Pesa
centocinquanta chili. Essere centocinquanta chili è
un’esperienza molto particolare, un rapporto con lo spazio
molto particolare. La persona di centocinquanta chili si
vive come una persona magra catturata dal grasso perché
come essere umano si pensa così: “mi è successo un incidente”. Oppure può essere anche l’approccio di qualcuno
che dice; “perché ti rivolgi a me come se io fossi nero?”,
“perché sei nero”, “no, non bisogna rivolgersi alla gente
come se fosse nera, bisogna rivolgersi a quello”. Questo è
un fenomeno descritto e criticato da Marx in un testo che
si intitola “La questione ebraica” dove Marx parla di
quest’uomo: l’uomo dell’umanesimo, un uomo totalmente
deterritorializzato (lui usa la parola “sradicato”).
In altre parole, con questo approccio si teorizza che la libertà si raggiunge uscendo dalla complessità dell’esistenza.
Ed è l’approccio, la filosofia su cui si basano le democrazie
un po’ decadenti e sempre più formali come quella francese o quella italiana. Fanno finta che l’uomo sia così. Ci
si rivolge a un cittadino, ma questo cittadino è il consumatore che si definisce attraverso la sua capacità quantitativa di consumare.
Questo cittadino-consumatore è un individuo che deve
essere completamente deterritorializzato perché ogni ter-
92
MALGRADO LA CRISI
ritorializzazione mette in pericolo l’uguaglianza così come
è stata concepita.
Infatti l’uguaglianza non esiste e si può essere uguali solo
a questo livello di deterritorializzazione, cioè in una uguaglianza dell’astratto.
Presente permanente
La postmodernità è questo fenomeno che ti dice di occuparti di ciò che ti coinvolge passivamente. C’è però la
possibilità di cercare di capire la propria posizione in un
insieme rifiutando ciò che ci chiede la postmodernità.
C’è la possibilità di capirsi sia come individuo, sia come
insieme. E c’è la possibilità di agire rispetto a questo insieme dimenticando i propri interessi. Certo è impossibile stare sempre a questo livello. Ma ci sono persone
che in alcuni momenti della propria vita possono assumere questa posizione. Non è una rinuncia ascetica, è la
gioia. Non è che quando si agisce a un livello più alto di
consapevolezza si rinuncia tristemente alla felicità. No,
è la gioia di sperimentare l’infinito nella nostra vita finita. È la gioia che sperimentano i musicisti che stanno
producendo sulla frontiera della ricerca, i militanti nel
loro impegno, oppure che prova l’innamorato. Significa
sperimentare cose infinite. Per questo si parla di cose
eterne e questo non ha nulla a che vedere né con il
tempo né con la rinuncia ascetica.
La postmodernità invece ha fissato un presente permanente. Ma siccome il tempo e lo spazio dipendono dalla
discretizzazione che produciamo, la verità è che le culture
non vivono nella stessa spazialità e temporalità. La spazialità e la temporalità cambiano anche secondo le varie
culture e cambiano oggettivamente, non soggettivamente.
Si può dire che gli uomini vivono sempre la stessa quantità di tempo e l’anno dura sempre 365 giorni, ma queste
MALGRADO LA CRISI
93
sono misure che non spiegano in quale spazio/tempo vivono gli uomini.
Si entra nella modernità con Voltaire che dice che abbiamo perso troppo tempo e che dobbiamo svegliarci e
andare di fretta perché abbiamo una meta da raggiungere.
E da qui inizia questo percorso incredibile verso mete indescrivibili. Poi ad un certo punto succede qualcosa: mentre prima il tempo prevedeva un passato, un presente e
un futuro, oggi sembra che ci sia solo il presente.
Se la modernità può essere illustrata come un treno che va
verso qualcosa, nella postmodernità non si va più da nessuna
parte. Il viaggio è istantaneo. Non c’è più tempo e non c’è
più spazio. Per cui la postmodernità crea un presente a-temporale senza spazio, nel quale effettivamente le persone non
hanno più distanze da percorrere, né come chilometri, né
come tempo. E questa immediatezza sta formattando un
mondo che noi cominciamo a capire poco a poco, ma che
comunque rimane molto complicato da comprendere con
i nostri criteri e sulla base delle nostre esperienze.
Ancora una volta le tecnologie sono un buon esempio: un
tema di riflessione potrebbe essere come sia difficile per i
nostri contemporanei fare una differenza tra un’esperienza
vissuta e una cosa vista su internet. Tra qualcuno che conosce l’Egitto tramite internet e qualcuno che ci va per
una settimana alloggiando in un Club Méditerranée, oggi
potrebbe essere molto difficile dire quale dei due conosca
meglio quel Paese. E in generale diremmo che lo conosce
meglio chi ha navigato su internet. E questo perché nella
nostra epoca c’è qualcosa che riguarda la spazio-temporalità che sta cambiando e quindi ciò che l’uomo sperimenta direttamente, fisicamente, corporalmente non
sembra più così centrale. In altre parole, l’uomo postmoderno è un uomo che sperimenta sempre meno le cose perché sa sempre più cose.
94
MALGRADO LA CRISI
Se accettiamo l’idea che ogni esperienza sia pura conoscenza che arriva in modo digitale, pura informazione, allora non c’è più possibilità né necessità di resistere a ciò
che accade. Dovremmo piegarci al corso del mondo e
quindi la Coop, ad esempio, sarebbe una specie di arcaismo rispetto al mondo attuale. Il problema è che noi non
sappiamo che cosa sia un’esperienza non corporea. L’esperienza per noi rimane legata a un corpo che occupa un
posto nello spazio e nel tempo. Un corpo per il quale non
tutto è possibile e che è segnato dai limiti. Un corpo e dei
corpi per i quali ciò che non è possibile è la base di tutti
i possibili. Ciò che limita le mie possibilità non è una cosa
che mi impedisce l’azione, è qualcosa a partire dalla quale
produco il possibile. Una cosa che resiste ha una tolleranza
x. Ed è a partire dal concreto che produco il possibile.
Noi non sappiamo che tipo di vita possa essere quella di
una persona che ha accesso solo all’informazione. Quello
che dovremmo cercare di capire è che tipo di esperienza
potrebbe essere quella di una persona che vive in un ambiente costituito al 90% da informazione codificata. Questa esperienza da sola però, in generale, ci parla di
impotenza, perché un corpo che accede soltanto all’informazione codificata è un corpo che si immerge nell’impotenza. Questo fenomeno, lo osservo nella mia professione
di psicanalista quando incontro pazienti giovani o meno
giovani, fino a circa 45 anni, che non hanno conosciuto
niente dei riti iniziatici, nel senso del provare sofferenza,
superarla e sperimentare la fragilità. Chi non ha mai sperimentato il valore della fragilità si trova in una posizione
di impotenza totale.
Io non so che cosa sia, o possa diventare una sperimentazione limitata o centrata sul mondo digitale. Credo però
che si debba poter resistere a questo, e che si debba integrare il mondo digitale con pratiche riterritorializzate, op-
MALGRADO LA CRISI
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ponendosi a coloro che dicono che il mondo digitale produrrà le nuove figure della libertà. Io invece dico che il
mondo digitale deve incorporarsi in territori concreti, nella
corporalità, se vogliamo che aiuti a produrre nuova libertà.
Coop e la crisi
Quello che sappiamo è che la crisi attuale non è una crisi
economica. La crisi economica è il modo in cui l’uomostruzzo la vede arrivare dal suo buco. È lo stadio finale
della crisi, è il momento in cui l’individuo viene toccato.
La crisi ha più di un secolo e riguarda la rottura della modernità e del paradigma precedente. Questa che noi chiamiamo “crisi economica” è una cosa molto periferica e
astratta, nel senso che davo prima al termine “astratto”,
quando si parlava della penna di Krüger come un oggetto
completamente decontestualizzato. Se vogliamo capire la
crisi economica dobbiamo pensare alla crisi del paradigma
della modernità. Perché è soltanto passando da lì che possiamo iniziare a capire come rispondere alla crisi economica. L’aspetto economico è uno dei sintomi di una crisi
molto più profonda, dalle molteplici dimensioni. C’è una
crisi del paradigma culturale e antropologico, c’è una crisi
della scienza, della morale, dell’educazione, della medicina. E c’è la crisi dell’economia nel senso marxista del
termine. Ciò che vediamo adesso è un tratto di superficie,
cioè l’aspetto quotidiano di qualcosa di molto più profondo. Quando si dice che la crisi è cominciata nel 2008
si fa un riferimento astratto. In realtà è qualcosa di più
profondo, con origini più lontane. Qualcosa che occorre
capire nella sua concretezza. In questo contesto anche il
movimento cooperativo naviga cercando soluzioni che rischiano di essere approssimative. Alcuni si chiedono ad
esempio se il movimento cooperativo sia o meno qualcosa
di diverso o antagonista al capitalismo. Ma si fa fatica a
96
MALGRADO LA CRISI
valutare più profondamente quali sono le dimensioni antropologiche che hanno permesso al movimento cooperativo di reggere meglio la crisi economica. Spesso non ci
si rende conto che le ragioni per cui il movimento cooperativo sopravvive alla crisi non sono economiche. Sono
antropologiche. Sfuggono alle metriche tradizionali. Sono
“non misurabili”, molto profonde e molto complesse. Il
problema quindi non è se la cooperativa sia un’azienda o
no. Se Coop sopravvive è proprio perché non è soltanto
un’azienda.
Il capitalismo si è caratterizzato attraverso il passaggio da
tre fasi. Si è passati da una prima fase di mercantilismo in
cui la merce produce denaro che produce merce. Poi la
seconda fase: il capitalismo in cui il denaro produce merce
che produce denaro. Ora siamo nella fase neoliberista, in
cui il denaro produce denaro per produrre denaro.
Penso che per capire meglio ciò che fa resistere il movimento cooperativo, non convenga nemmeno utilizzare i
criteri del modello d’impresa. Per fare un confronto corretto dovremmo fare riferimento a modelli antropologici
molto più complessi che spieghino il fatto che, malgrado
la cooperativa sia un’azienda, riesce a sopravvivere. Le ragioni per le quali Coop sopravvive sono ragioni antropologiche.
Un po’ come succede nella ricerca biologica: se c’è un’epidemia, molti muoiono, ma c’è sempre qualcuno che sopravvive. Quindi ci chiediamo perché non è morto? Si
cercano allora le ragioni per cui il suo corpo ha resistito a
questo batterio. È in questo modo che si trova un vaccino.
Non si cerca un vaccino a partire dal nulla. Nessun ricercatore entra in un laboratorio e cerca un vaccino. Per trovare la cura si deve poter contare su una popolazione
sopravvissuta. Senza popolazione sopravvissuta non c’è il
vaccino. Il movimento cooperativo rappresenta la popo-
MALGRADO LA CRISI
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lazione sopravvissuta. I motivi per cui sopravvive non
coincidono con le ragioni economiche per cui gli altri
muoiono.
I motivi per cui gli altri muoiono sono quelli per cui voi
siete in pericolo di morte. Perché, essendo anche
un’azienda, avete la tentazione di incrementare gli aspetti
che vi caratterizzano come tale. Quindi cercate di essere
più comunicativi, più reattivi. Di essere più coerenti con il
sentire comune, che vive nel desiderio individuale.
Ma negli organismi, nella vita, ci sono cose che non si
possono misurare con criteri quantitativi. Ci sono cose
che funzionano per ragioni che non sono affatto ragioni
contabili. Quello che è molto pericoloso nel movimento
cooperativo è che queste ragioni non contabili non vengano riconosciute e teorizzate. Siamo in un paradosso: le
nostre esperienze funzionano grazie a ciò che non è contabile, misurabile, ma non riusciamo a teorizzarle. Quindi
il nostro compito sarà riuscire a teorizzare ciò che non è
misurabile con le misure classiche.
La sfida di Coop
Perciò, quando si parla di una sfida per la Coop, intendiamo come essa possa essere un luogo di consumo e di
distribuzione territorializzato che si rivolge all’uomo nella
sua completezza e non solo all’uomo dell’informazione.
Di cosa si tratta alla fine? Si tratta di capire un’epoca. Ma
capire non è un concetto banale. Dato che conoscere è
agire, una cosa è capire in un senso conformista, accettando questa distruzione artefattualizzante del mondo,
altra cosa è capire in un senso complesso, difendendo la
vita. La comprensione complessa, la comprensione nella
quale cerchiamo le invarianti, questa comprensione corrisponde ad una costruzione del mondo opposta alla costruzione del mondo del “tutto è possibile”. Che cosa può
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MALGRADO LA CRISI
voler dire per la Coop resistere a quest’uomo di superficie?
Vuol dire che la Coop non deve comprendere un fenomeno perché la Coop vuole esistere o cerca di esistere nel
mondo di superficie. La sfida della Coop non è: “capiamo
questo mondo e sosteniamo questa evoluzione e questo
uomo di superficie”. La sfida della Coop è un’altra: “come
si può fare in modo che la distribuzione e il consumo vengano fatti per un mondo che resiste a questa evoluzione
verso la superficie?”. Se c’è un senso per la Coop è questo:
“Possiamo pensare a una distribuzione e a un consumo
che corrispondano a tutti i settori della società sempre più
vasti che resistono a questo divenire?”. La grande distribuzione postmoderna oggi coinvolge l’essere umano in
modo sempre più passivo, perché lo mette nel contesto
di bisogni indotti, bisogni modulari che si rivolgono ad
un uomo separato dal suo ambiente, da se stesso. La sfida
è: quale grande distribuzione può esistere, senza limitarsi
ad un gruppo di élite? Quale grande distribuzione può
esistere che non si rivolga a quest’uomo passivo contribuendo con le sue pratiche a renderlo tale? Quale grande
distribuzione che sappia resistere a questo? Gli amici di
Latouche che si occupano di decrescita mi hanno chiesto
di lavorare con loro, ma chi è favorevole alla decrescita si
rivolge ad un’élite capace di consumare diversamente. La
Coop non può e non deve rivolgersi a un’ élite. E allora è
da queste domande che vorrei che partisse una riflessione:
come può la Coop contribuire a creare la minima passività
del consumatore, senza però creare un ghetto per altri
consumatori? La questione per quanto riguarda la Coop
non consiste forse nel dire che c’è un modo organico di
pensare, praticare, reincorporare l’economia?
Post-fazione
Quel che resta
di un gruppo di studio
di Enrico Parsi
La crisi che stiamo attraversando non
è semplicemente una crisi economica,
ma è una crisi di valori. Una crisi profonda, antropologica e logica, per capire la quale siamo obbligati a studiare
i fondamenti dell’epoca che si sta concludendo come condizione per cercare
di intravedere la nuova realtà che inizia a profilarsi all’orizzonte. In questa
ottica, stando dentro la Coop, la nostra
sfida può essere cercare di capire come,
e a partire da quale pratica, si possa
comprendere la realtà e come, attraverso queste pratiche, possiamo immaginare e costruire strumenti per
continuare ad agire.
Miguel Benasayag
Sul futuro e sul pensiero…
Questa pubblicazione nasce dal desiderio di guardare i
problemi del nostro tempo a partire dalla prospettiva
dell’esperienza cooperativa. Un modo per riflettere sul
senso della nostra esistenza in un momento storico difficilissimo.
Siamo convinti, infatti, che il nostro lavoro di cooperatori
non possa prescindere, e per molti di noi non prescinde,
dai fenomeni sociali e politici in cui siamo immersi.
Siamo convinti poi che i problemi di oggi e quelli che dovremo affrontare in un futuro non molto lontano, richiedono un maggiore impegno verso la riflessione e
l’elaborazione.
Vale un po’ per tutti il fatto che idee che non ci appartengono, che non sono buone per vivere bene e che abbiamo assorbito credendo fossero giuste perché “così fan
tutti”, devono essere riconsiderate. Non proponiamo la
“verità”, ma suggeriamo un incremento di studi, riflessioni e sviluppo del senso critico verso direzioni e risultati
che non è possibile, né sarebbe giusto, determinare a
priori.
Il fondamentalismo (anche quello economico e utilitarista) che assume sembianze diverse, ma si basa sempre sulla
stessa forma mentale e su assunti dati per indiscutibili,
porta guerre, distruzione e il rischio del collasso ambientale. Il futuro scompare dal nostro orizzonte e quando è
presente invece fa paura, condizionando tutta la nostra
esistenza, i nostri rapporti e la nostra capacità di immagi-
104
MALGRADO LA CRISI
nare e costruire contesti sociali diversi. Speranza e utopia
vengono amputate. L’eterno presente diventa il nostro povero orizzonte.
Ma la paura del futuro nasce anche dal vivere un presente
insoddisfacente. I nostri modelli sociali ed economici distruggono costantemente beni relazionali e risorse, spesso
senza che ce ne accorgiamo e quasi sempre sotto l’ombrello rassicurante e protettivo di concetti come sviluppo
e innovazione, efficienza e utilitarismo.
Sulle nostre società infelici e aggressive…
Le nostre società ricche e sviluppate sono infelici e assurde
per molti aspetti, ma quelle degli altri non sembrano desiderabili. Ciò che sconcerta però è la presenza di alcune
costanti che, semplificando, possiamo indicare come tendenze autodistruttive. Tutte le nostre società, infatti, inquinano senza tregua il proprio nido mostrando nei fatti
un’assoluta inconsapevolezza dei limiti fisiologici che caratterizzano il funzionamento della natura e oltre i quali
c’è la morte. E tutte le società, le nostre occidentali così
come le altre, anche quelle considerate emergenti dal
punto di vista economico, producono violenza. Una violenza visibile ed eclatante, come quella degli attentati, delle
stragi o della pena di morte, che ha l’effetto secondario
però di mettere in secondo piano tutte quelle aggressioni,
talvolta anche piccole e sottili, che quotidianamente siamo
costretti a subire; oppure che somministriamo; oppure che
subiamo in alcuni contesti e somministriamo in altri con
apparente disinvoltura. Qualche esempio: è violenta la natura dei rapporti economici con un’accentuazione dei fenomeni di arricchimento di pochi a danno dei molti;
sono violenti i rapporti commerciali basati su un’idea di
scambio che talvolta assomiglia alla rapina e su forme di
manipolazione che inducono bisogni di consumo; è vio-
POST-FAZIONE
105
lento condizionare la vita di interi popoli con un’economia finanziaria che è una forma legale di gioco d’azzardo;
è violenta l’immobilità e l’autoreferenzialità della classe
dirigente, che ormai, anche in caso di insuccesso, non rischia nulla.
È violenta, nel nostro Paese, la neolingua della politica
fatta di insulti e aggressioni.
È violento costringere per otto ore i nostri figli a un banco
di scuola senza prendere in considerazione il loro bisogno
fisiologico di movimento. Ignorando ciò che dovrebbe essere ovvia esperienza quotidiana per tutti, grandi e piccini,
cioè che si impara anche con il corpo. E giudicandoli poi
“svogliati” perché, per l’appunto, non hanno voglia di
“studiare”; cioè di essere ciò che noi adulti abbiamo deciso
a tavolino debbano essere, o debba essere lo studio, a prescindere dalla realtà psichica, fisiologica e biologica di
queste persone che ci ostiniamo a trattare come “minori”.
Sui nostri schemi di pensiero nascosti e sulle parole…
L’elenco delle violenze a cui ci siamo abituati e a cui non
facciamo più caso potrebbe continuare a lungo.
È un fatto però che la natura profonda di questi rapporti
risulta spesso invisibile perché occultata da linguaggi e
pensieri considerati inossidabili. In molte aziende, in
molte scuole, nella politica, manager e lavoratori, insegnanti e genitori, politici ed elettori, anche quando apparentemente antagonisti, finiscono per condividere gli
stessi schemi di pensiero e legittimare sistemi di valori e
contesti sociali insalubri, dando per certo che non siano
possibili presupposti diversi.
C’è un problema di “forma del pensiero”. Tema che non
sembra interessare molto chi ha ruoli di responsabilità,
anche perché raramente si incontra nei piani di studi e
nei programmi della formazione.
106
MALGRADO LA CRISI
Il nostro modo occidentale di ragionare in modo analitico, segmentato e specializzato, ci fa pensare ai tanti contesti e fenomeni in cui viviamo come separati tra loro.
Non riusciamo a vedere le connessioni e le similitudini,
la globalità, la complessità. E i linguaggi che vengono
usati tradiscono spesso una visione dei fenomeni che in
altri mondi, ma non in quello imprenditoriale o politico,
sarebbe definita “delirio di onnipotenza”.
In un certo mondo imprenditoriale, per fare un esempio
di pensiero lineare, si parla spesso di responsabilità sociale
e di etica come se fossero ingredienti da aggiungere alla
normale attività. Ingredienti utili a mitigare i danni “collaterali” che lo “sviluppo” e la “crescita”, visti sempre come
positivi e necessari, portano con sé. Non si comprende
che qualsiasi azione, poiché avviene in un dominio sociale, è intrinsecamente e inesorabilmente etica. Invece si
parla di valori come se fossero altra cosa dai comportamenti e dalle scelte che compiamo, dal modo concreto in
cui siamo organizzati e vincolati. Un decalogo a cui uniformarsi.
Con la stessa logica separatoria accettiamo come ovvio e
indiscutibile che nel mondo del lavoro si alimenti la competizione, anche distruttiva, che si compiano ingiustizie
considerate ineluttabili, che si legittimi una cultura autoritaria e gerarchica, terreno fertile per il diffondersi di uno
spirito di sopraffazione. Oppure si pensa e si organizza
l’ambiente di lavoro sulla base di premi e punizioni, incentivi monetari e benefit che dovrebbero “motivare”,
dando per scontato che le persone siano interessate solo
ai soldi. Di più: costruendo contesti in cui si deve essere
interessati solo ai soldi e alla carriera e fregarsene di tutto
il resto. Applicando ai nostri simili modelli psicologici
semplificati, ottimi per addestrare gli animali, ma del
tutto irrispettosi e inadatti a vivere bene.
POST-FAZIONE
107
In un certo mondo aziendale, se emerge un caso di mobbing, diamo un po’ di soldi alla vittima e manteniamo al
suo posto l’aggressore. La prima finirà con tutta probabilità dallo psicologo con una diagnosi di “fragilità” che dovrebbe spiegare il senso dell’aggressione subita. Chi
aggredisce invece non avrà bisogno di niente. Forse è solo
un po’ cattivo, ma si sa che la gestione dei risultati e delle
“risorse umane” non è un affare per anime candide!
Poi, infine, anche in quanto “aggressori” possiamo sempre
dedicare un po’ di tempo al volontariato o indignarci profondamente degli stessi problemi quando riguardano altri
mondi. Ci indignano cose che accadono in altri contesti,
pensando magari che siano fisiologiche in quelle culture
e contemporaneamente perdiamo consapevolezza della
natura profonda delle nostre abitudini sociali. Durante
un convegno a Pistoia l’antropologo Marco Aime raccontava di essersi preso del “selvaggio” a nome e per conto
dell’intera “civiltà” occidentale, da un capo villaggio di
non ricordo quale Paese. Aveva dovuto ammettere, rispondendo a una precisa domanda, che da noi quando
uno diventa vecchio viene ricoverato in una casa di riposo.
Il commento senza appello era stato: “Siete selvaggi!”. Un
giudizio che fa tremare le fondamenta delle nostre certezze
socioeconomiche. E mette in evidenza una dimensione
della nostra esistenza spesso nascosta: facciamo l’abitudine
al nostro odore; non siamo criticamente consapevoli dei
presupposti che governano le nostre esistenze.
Sull’importanza dell’ambiente lavorativo per la salute
individuale e sociale…
Con la stessa inconsapevolezza si parla del mondo del lavoro come se fosse altra cosa rispetto al mondo civile. Senza
più rendersi conto che i luoghi di lavoro sono un immenso
laboratorio nel quale si produce e subisce cultura. È anche
108
MALGRADO LA CRISI
come membri di un’organizzazione o di una comunità professionale che si forma la nostra identità. È nell’esperienza
dei rapporti lavorativi che ci nutriamo di cose che con il lavoro non c’entrano niente e poi divengono parte del nostro
modo di intendere la vita. È lì che si fa scuola di democrazia
e di civiltà o di sopraffazione e inciviltà. O che si acquisiscono modelli di pensiero che, più o meno consapevolmente, applichiamo anche ad altri mondi e le cui
conseguenze, in ogni caso, subiamo nella nostra vita privata. È lì che si può formare e alimentare il cinismo travestito da realismo che poi ci accompagna in tanti altri ambiti
della vita. È lì che l’idea di gerarchia si cristallizza e alcuni
desideri e ambizioni tra i tanti possibili diventano i più desiderabili e assoluti, così da diventare metro di misura, non
del successo professionale, ma del successo nella vita.
Ancora un esempio: per comprendere cosa e come concepisce la realtà un certo tipo di mondo imprenditoriale
conviene ogni tanto dare un’occhiata alle offerte di lavoro
pubblicate sui quotidiani. L’azienda Pinco (naturalmente
sempre leader di mercato, ce ne fosse mai una seconda o
terza!) cerca laureato con il massimo dei voti, max 30
anni, desideroso di operare in un ambiente dinamico,
orientato al risultato, disposto a viaggiare, capace di gestire le risorse, di animare il gruppo di lavoro, con doti
comunicative, resistente allo stress e ambizioso. Ma questa, come si vede non è solo un’offerta di lavoro e la ricerca
di una buona professionalità: è l’offerta e la richiesta di
adesione a un intero sistema di valori, una visione e uno
stile di vita, vissuti come unici e indiscutibili. Quelli giusti. Non sono previste persone con le loro qualità. Semplicemente non devono avere altre qualità. In pratica non
dovrebbero essere persone. E il mito del manager di successo, che pensa positivo e non ha momenti di debolezza,
diventa il metro di misura.
POST-FAZIONE
109
Poi, periodicamente, qualche star del giornalismo o qualche
specialista pontifica sui bei tempi andati scoprendo, stupito
da tanta cattiveria e insensibilità, famiglie disastrate con genitori che non ci sono mai e uomini e donne prigionieri di
visioni stereotipate del maschile e del femminile; oppure
scopre adolescenti incapaci di rispettare l’autorità facendoli
diventare un problema mediatico. Ma, come racconta benissimo Miguel Benasayag nel suo L’epoca delle passioni tristi, non ci sfiora minimamente il dubbio che questi ragazzi
sperimentino quotidianamente, in maniera diretta o indiretta, il fatto che i propri genitori possono perdere il posto
di lavoro dalla sera alla mattina ed essere gettati via come
fazzolettini di carta. E che questo dato di realtà rende decisamente fragile l’autorevolezza genitoriale. E allora ancora
ci lanciamo in riflessioni superficiali o in qualche proposta
di corso di formazione che dovrebbe correggere comportamenti visti come esclusiva responsabilità di chi li compie.
Perché anche perdere il posto di lavoro può diventare colpa
individuale: per non essere riusciti a mantenerlo o non essere riusciti a conquistarlo. Il fatto di aver “formato” (Miguel Benasayag usa la parola “formattazione” che sembra
effettivamente più adeguata) minuto dopo minuto individui competitivi, ambiziosi e culturalmente limitati, attraverso un’organizzazione sociale vincolante fin dalla scuola
primaria, e di avere continuato e legittimato queste forme
di pensiero attraverso culture organizzative che inducono
individui e gruppi a pensare e vivere in maniera omologata,
scompare dal nostro orizzonte, dalle nostre analisi e dalle
nostre responsabilità.
Il contesto non ha più importanza. Tutto è contenuto nei
confini della pelle degli individui.
Sulla mitizzazione dell’ “azienda”…
C’è un’altra considerazione che spiega l’interesse per gli
110
MALGRADO LA CRISI
argomenti che abbiamo trattato in questa pubblicazione:
il fatto che un po’ in tutto il mondo, ma nel nostro Paese
in modo più evidente per contingenti ragioni politiche,
il linguaggio aziendale, già talvolta discutibile per fare funzionare bene un’azienda, si sia generalizzato oltre ogni limite, andando a colonizzare anche la vita sociale e privata
delle persone. Tutto è diventato azienda, performance,
costi e ricavi, obiettivi misurabili, profitto. Questa generalizzazione si fonda su tre idee guida che hanno avuto
fortuna oltre il lecito.
La prima idea fa coincidere l’impresa con la sua degenerazione neoliberista: l’esclusiva ricerca del profitto. Come
se tutte le imprese fossero orientate solo ed esclusivamente
al profitto. Una vera e propria falsificazione della realtà.
La seconda idea si basa sulla mitizzazione delle figure dell’imprenditore e del manager di questo tipo di impresa
(un sottoprodotto del mito dell’individuo), visti come capaci e onnipotenti, a prescindere dall’ambito di azione.
La terza idea è che il “privato” sia sempre superiore al
“pubblico”. Con la conseguenza che tutta la nostra vita
diventa oggetto di mercato: dalla salute all’educazione,
dall’home entertainment all’ingaggio di esperti per “gestire” il compleanno dei nostri figli. O delle escort per far
finta di essere amati e sentirsi “potenti”. O non sentirsi
impotenti.
Eppure se ci si ferma un istante a riflettere, il mito dell’imprenditore che, capace di fare soldi, dovrebbe per questo essere automaticamente capace di gestire la cosa
pubblica, è una vera e propria stupidaggine. Parlare di
azienda Italia, azienda giustizia, azienda sanità, azienda
scuola significa banalizzare l’Italia, la Giustizia, la Sanità
e la Scuola. Ma significa anche banalizzare l’idea stessa di
azienda. Un’idea pregiudiziale di azienda razionale, precisa, organizzata, senza inefficienze, senza costi economici
POST-FAZIONE
111
e umani. Un’idea di azienda come mondo in cui qualsiasi
problema si risolve, con un po’ di problem solving, occultando invece la quantità di complicazioni che un’organizzazione è capace di inventare gratuitamente, rendendo
difficile la vita a sé e agli altri. Un autentico mito, smentito dalla realtà quotidiana: chiunque lavori in una qualsiasi organizzazione conosce il livello di problemi che il
mondo manageriale è in grado di produrre, appena appena nascosto dall’uso di una neolingua ritualizzata,
l’aziendalese, che funziona come narcotico dell’intelligenza.
Durante un’iniziativa svolta a Scuola Coop, Pier Luigi
Celli, allora Direttore Generale dell’Università Luiss, propose la lettura di una poesia per spiegare un concetto. Ma
ci fu una risatina tra il pubblico. E lui rispose così: “Prima
di tutto ci sono i poeti e i narratori che comprendono le
cose. Poi arrivano gli scienziati che cercano di dare una
spiegazione razionale a ciò che poeti e narratori hanno già
capito. Alla fine arrivano i manager che banalizzano
tutto”.
E poi gli imprenditori non sono sempre geni (ogni tanto
tra l’altro falliscono) e non sono necessariamente onesti.
Quelli mitizzati in questi anni, in generale, mirano al profitto, cosa legittima, entro certi limiti. Ma il profitto, dovremmo convenirne, non è proprio un criterio base per
interessarsi del bene comune. Per questo, la mentalità imprenditoriale che si è imposta come cultura dominante è
raramente compatibile con attività politiche che invece dovrebbero essere basate anche sul desiderio di fare per gli
altri. Che la cosa pubblica abbia bisogno di efficienza non
ci sono dubbi. Che essere efficienti coincida con essere imprenditori o manager privati, è tutto da dimostrare.
Il mondo è fortunatamente pieno di gente capace di fare
cose meravigliose per sé e per gli altri che non si sogne-
112
MALGRADO LA CRISI
rebbe mai di rappresentarsi come imprenditore o come
manager. Gino Strada è un manager? Ed Emergency non
è forse un’impresa? Un buon sindaco di una città è un
manager? Un bravo insegnante o un direttore di una
scuola devono essere manager? Un bravo psicoterapeuta
o un ortopedico devono essere manager per fare bene il
proprio lavoro? La produttività deve essere sempre il criterio guida delle nostre attività per ogni ambito e ogni
fase della vita di una organizzazione? Potrebbe una sua generalizzazione indebita essere un problema o provocare
costi che le nostre griglie di valutazione non sono in grado
di misurare? Per avere successo nella vita bisogna essere
imprenditori e fare i soldi? Dipingere e suonare sono cose
meno importanti? Prendersi cura di un malato, di un vecchio, far ridere la gente per mestiere, sono attività riprovevoli? Insegnare ginnastica o judo è poco importante?
Un bravo pasticciere si sente pasticcere o imprenditore?
Chi studia è inutile? Vogliamo farne a meno, insieme a
chi fa ricerca, anche ricerca pura, cioè non immediatamente finalizzata a un risultato? Dovremmo diventare
tutti imprenditori e manager di questo tipo? E i cooperatori? Che tipo di imprenditori sono?
E poi perché dovremmo considerare un unico modello
imprenditoriale, quello neo liberista con i suoi linguaggi,
il più importante e significativo? Perché affidarsi alle logiche imprenditoriali delle grandi Corporation, basate sul
profitto per pochi, sul potere per pochi, e non invece a
esperienze come quelle di Adriano Olivetti o delle Cooperative? O delle tante piccole e medie imprese che costituiscono la realtà del nostro Paese? Perché non si è
adottata la metafora della bottega artigiana, per parlare
del nostro mondo? Troppo piccola rispetto alle grandi
aziende? Non sarà che si tenda a confondere l’idea di essere grossi, con l’idea di essere grandi?
POST-FAZIONE
113
Sull’importanza di riflettere sull’epistemologia…
Un certo tipo di linguaggio però si è diffuso e con esso
un preciso modo di interpretare i fenomeni. Nelle scuole,
per esempio, i Presidi ora si chiamano Dirigenti Scolastici.
All’Università il piano di studi è diventato piano di carriera. Si acquisiscono e valutano competenze. L’apprendimento si declina in debiti e crediti formativi. Gli
studenti sono definiti dal ministero “consumatori di formazione”. Il linguaggio del conto economico per misurare
l’anima dei nostri figli.
Una deriva che origina dal fatto che anche nel mondo politico il linguaggio “aziendalmanageriale” è stato adottato
indipendentemente dagli schieramenti. Testimonianza di
una pericolosa omologazione, la sua diffusione è anche
segno di grande povertà intellettuale.
In questa deriva aziendalista è contenuta e si rende evidente la difficoltà di noi tutti: non siamo consapevoli di
come si forma il nostro modo di pensare.
E qui si entra nel mondo dell’epistemologia.
“Epistemologia”, parola ostica e raramente utilizzata nel
mondo dell’impresa. Una parola che è comparsa spesso
nelle pagine precedenti. E che vale la pena riprendere in
considerazione. L’epistemologia, nella scienza, è lo studio
degli schemi logici sottesi a una teoria. La parola deriva
dal greco, epistème, che significa conoscenza scientifica.
Quindi la logica della conoscenza scientifica non è altro che
lo studio delle caratteristiche dei processi di conoscenza,
pensiero e decisione.
Chiunque, operando con ruoli di responsabilità in qualsiasi tipo di organizzazione, ritenga che riflettere su temi
come conoscenza, pensiero e decisione sia un lusso o una
cosa inutile che non lo riguarda, probabilmente in questo
stesso momento sta danneggiando qualcosa o qualcuno.
E forse anche se stesso.
114
MALGRADO LA CRISI
Infine…
Gli argomenti che Miguel Benasayag ha trattato ci sembrano oggi cruciali. Ci sembra utile, infatti, riflettere sulla
nostra paura del futuro, sui comportamenti autodistruttivi e sui presupposti nascosti in modelli economici e pratiche sociali e imprenditoriali che non sono neutre.
Crediamo sia importante riflettere su come si forma il nostro pensiero sul mondo perché non è cosa irrilevante rispetto a come poi lo costruiamo, questo mondo. Ci
sembra utile inserire tutto questo in una riflessione che
serva a rileggere e re-interpretare la nostra organizzazione
e la sua identità.
E l’incontro con Miguel Benasayag, così come con altri
studiosi, si è inserito in questa ricerca: il tentativo condiviso con molti colleghi di guardare un po’ più attentamente nelle pieghe del nostro lavoro, del nostro impegno
e dei linguaggi che usiamo e subiamo. Sapendo che essendo tutti immersi in un contesto dato (trent’anni di
neoliberismo non sono uno scherzo) rischiamo di assorbire idee, valori e concetti che potrebbero non essere così
in linea con le nostre dichiarazioni.
Sia chiaro che non siamo alla ricerca di un’improbabile
coerenza assoluta che assume spesso le sembianze della
presunzione e dell’autoritarismo, ma di una riflessione che
ci renda tutti più consapevoli della posta in gioco e più
liberi di agire. Più tolleranti, umili e sicuri di noi stessi
con le nostre fisiologiche fragilità e contraddizioni.
Convinti che le idee e le parole debbano essere oggetto di
attenzione e cura perché troppo importanti per essere lasciate al caso.
Libri di Miguel Benasayag
pubblicati in italiano
L’epoca delle passioni tristi
Benasayag Miguel; Schmit Gérard, 2013, Feltrinelli, Milano.
La salute ad ogni costo. Medicina e biopotere
Benasayag Miguel, 2010, Vita e Pensiero, Milano.
Elogio del conflitto
Benasayag Miguel; Del Rey Angélique, 2008, Feltrinelli, Milano.
Il mio Ernesto Che Guevara. Attualità del guevarismo
Benasayag Miguel, 2006, Centro Studi Erickson, Trento.
Contro il niente. ABC dell’impegno
Benasayag Miguel, 2005, Feltrinelli, Milano.
Malgrado tutto.
Racconti a bassa voce delle prigioni Argentine
Benasayag Miguel, 2005, Filema, Napoli.
Resistere è creare
Benasayag Miguel; Aubenas Florence, 2002, MC Editrice, Milano.
Contropotere
Benasayag Miguel; Sztulwark Diego, 2002, Elèuthera, Milano.
Il mito dell’individuo
Benasayag Miguel, 2005, MC Editrice, Milano.
Bibliografia essenziale ragionata
Qui di seguito proponiamo una serie di suggerimenti bibliografici per coloro che volessero ritornare su alcuni
temi trattati in questa pubblicazione.
L’epoca delle passioni tristi
Benasayag Miguel; Schmit Gérard, 2013, Feltrinelli, Milano
Miguel Benasayag è uno scrittore prolifico come si vede
nella bibliografia che abbiamo riportato e che l’anno prossimo si incrementerà di ulteriori titoli per ora editi solo
in Francia. Qui ci limitiamo a presentare il suo testo più
famoso in Italia.
Un libro straordinario. Denso di stimoli e di riflessioni. Un
pensiero complesso che ci aiuta a riflettere sui fenomeni sociali, sulla economia, sulla vita, sul disagio psichico. Viviamo
in una epoca in cui per la prima volta le persone vedono il
futuro come una minaccia, ci racconta l’autore, e in più i
pervasivi modelli economici neo liberisti tendono a distruggere oggettivamente i legami sociali e l’ambiente. Il disagio
viene spesso trattato cercando di fornire risposte psichiatriche, normalizzanti, a problemi che non hanno a che fare con
patologie individuali, ma con la concretezza delle situazioni
sociali. Il libro ci sembra prezioso per chi si occupa di economia, di sociale (sempre che le due cose vadano disgiunte)
di salute e benessere. Un libro sulle conseguenze negative
dell’ideologia dell’utilitarismo e che aiuta a riflettere sulle culture organizzative, sull’educazione, sulla formazione. Un
libro che tutti i genitori dovrebbero tenere sul comodino.
118
MALGRADO LA CRISI
Verso una ecologia della mente
Gregory Bateson, 1977, Adelphi, Milano
Lettura che richiede pazienza e dedizione. Ma Gregory Bateson rimane il principale maestro per chi creda che il pensiero e la complessità non siano cosette secondarie,
affrontabili con qualche formula ingegneristica. Si tratta
di una raccolta di saggi, conferenze e lezioni che spaziano
dalle sue osservazioni con i delfini, alle sue ricerche sulla
comunicazione interpersonale, a ragionamenti sui sistemi
complessi, sull’ecologia e sul pensiero. Siamo di fronte a
uno dei pensatori più importanti del ‘900. Persona curiosa,
aperta all’esplorazione di mondi apparentemente lontani
tra loro, è stato uno dei pionieri dello sviluppo della cibernetica a partire dagli anni ’40 del 900. Il suo modo di ragionare, ben evidente nei suoi testi, era rigoroso, ma
impressionistico. Per questo non sempre facilmente accessibile. Lo sconcerto dei suoi studenti di fronte a domande
improbabili era dato dal fatto che spesso non riuscivano a
comprendere dove volesse andare a parare. Ma spesso non
voleva andare a parare da nessuna parte. Semplicemente
poneva domande che non avevano una risposta già pronta,
ma richiedevano un lavoro di ricerca e scoperta. Scuola e
Università non sono abituate a questo approccio. Un libro
che andrebbe letto senza forzare la mano. Poche pagine,
su cui ritornare di tanto in tanto. Un libro che chi governa
dovrebbe avere l’umiltà di prendere in considerazione.
Per chi è un po’ affetto dalla sindrome dell’utilitarismo e
per chi si occupa di apprendimento consigliamo vivamente la lettura dei seguenti saggi presenti nel libro: Finalità cosciente e natura, conferenza del 1968 e Le
categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione,
scritto nel 1964. Qui di seguito un assaggio del suo pensiero. Attualissimo in un’epoca di fondamentalismi di
vario genere.
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“Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua
creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori
e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi
arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi
apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare
a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete
voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in
antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da
altre razze e dagli animali e dalle piante.
Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la
natura e se possedete una tecnica progredita, le probabilità
che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve
all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del
vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve. Le materie
prime sono limitate. Se io sono nel giusto, allora il nostro
atteggiamento mentale rispetto a ciò che siamo e a ciò che
sono gli altri deve essere ristrutturato.”
L’albero della conoscenza
Humberto Maturana, Francisco Varela, 1999, Garzanti, Milano
Il libro più divulgativo dei due biologi cileni. Una stella polare per chi vuol prendere dimestichezza con il concetto di
complessità. Vi si trova una spiegazione di come funziona il
nostro sistema nervoso e come arriviamo a conoscere la realtà. Vi si trova un’idea di evoluzione diversa da quella che
abbiamo interiorizzato a scuola, generalmente associata all’idea di competizione e alla sopravvivenza del più forte. Si
parla infatti di co-evoluzione tra i vari organismi e l’ambiente.
Vi si parla del linguaggio e di come si conosce. Di come le
parole siano costitutive del sociale. Si spiega cos’è un organizzazione mettendo a confronto quella di un sistema artificiale con quella del sistema vivente. Un libro imperdibile.
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MALGRADO LA CRISI
L’errore di Cartesio
Antonio R. Damasio, 1995, Adelphi, Milano
Corpo e mente non sono separabili. Passione e ragione si
mescolano nell’individuo. Antonio Damasio dimostra
come le strutture biologiche del sistema nervoso interagiscano con i processi mentali di cui sono la base fisiologica. Ecco come l’autore spiega brevemente il percorso di
ricerca che lo ha portato a determinate conclusioni:
“Ho cominciato a scrivere questo libro volendo proporre
l’idea che la ragione può non essere così pura come la maggior parte di noi ritiene che sia, o vorrebbe che fosse; che i
sentimenti e le emozioni possono non essere affatto degli intrusi entro le mura della ragione: potrebbero essere intrecciati nelle sue reti per il meglio e per il peggio. Sia
nell’evoluzione che in ogni singolo individuo, le strategie
della ragione umana probabilmente non si sono sviluppate
senza la forza guida dei meccanismi di regolazione biologica dei quali emozione e sentimento sono espressioni notevoli. Per di più, anche dopo che le strategie del
ragionamento si sono assestate, negli anni della formazione,
il loro effettivo dispiegamento dipende in larga misura
dalla ininterrotta capacità di provare sentimenti.”
Sorvegliare e punire
Michel Foucault, 2005, Einaudi, Torino
Uno degli aspetti della crisi antropologica che viviamo riguarda il rapporto tra autorità, autorevolezza e autoritarismo. Il rapporto tra autorità e autorevolezza è uno dei
fattori correlati al disagio diffuso in luoghi che potrebbero
e dovrebbero essere invece luoghi della fiducia, della socialità, dell’origine e dello sviluppo dei talenti: lavoro,
scuola e famiglia. Luoghi attraversati da logiche che non
siamo nemmeno più in grado di riconoscere. Il libro del
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filosofo francese riguarda il tema del controllo e della punizione nel luogo principe in cui queste due funzioni si
esplicano: la prigione.
Forse per chi si occupa di organizzazione e formazione,
lavoro e persone, ma anche chi semplicemente ha figli
che vanno a scuola o ha avuto l’occasione di subire un ricovero ospedaliero, è sufficiente la lettura della terza parte
e dei suoi tre capitoli centrali, i primi due con titoli davvero suggestivi: 1. i corpi docili; 2. i mezzi del buon addestramento; 3. il panoptismo.
Non è un libro facile questo di Foucault, ma vale la pena
affrontarlo non fosse altro che per i temi che vi sono trattati. Eccone alcuni: il rapporto tra disciplina, controllo e
punizione; la funzione della punizione, e per converso dei
premi; la gerarchizzazione dei saperi, con la divisione tra
attività formativa e pratica lavorativa. Lo stesso tempo formativo separato dal tempo adulto, quello del mestiere acquisito, con la conseguente potenziale svalutazione del
concetto di formazione, da taluni, infatti, proposta o considerata come roba da ragazzi. La disciplina e i modelli
organizzativi dello spazio e del tempo nei monasteri e il
loro rapporto con la scuola moderna. La prigione e i modelli militari come calco organizzativo per la manifattura
e la fabbrica e per il mondo del lavoro. La disciplina e il
concetto di rango, con l’incasellamento e l’etichettatura
delle persone anche attraverso la creazione di un sapere
umanistico specifico che a molti finisce per apparire come
indiscutibile verità.
E poi ancora una certa idea di individualismo, di società,
di relazione tra le persone, una certa idea di disciplina che
non riguarda solo il legittimo rigore nell’acquisire un sapere o nello svolgere un’attività, ma anche la funzione di
inserire dissimmetrie e ineguaglianze insormontabili e di
escludere la reciprocità.
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MALGRADO LA CRISI
Infine l’architettura, quindi la gestione concreta degli
spazi fisici, concepita come un operatore implicito della
trasformazione degli individui. Ce ne è da riflettere su
come funzionano i tanti luoghi della nostra esistenza.
Panopticon, ovvero la casa d’ispezione
Jeremy Bentham, 2002, Marsilio, Venezia
Lo scritto di Jeremy Bentham è illuminante e per certi
versi agghiacciante. Padre dell’Utilitarismo, nei suoi testi
esprime una già ben spiccata ossessione efficientista,
schiacciata e banalizzata sulla questione dei costi. Verrebbe
davvero da dire che il neoliberismo degli ultimi trent’anni
non ha inventato nulla, visto che Bentham si muove a cavallo tra il ‘700 e l’800.
Anche qui si parla di prigioni: il panopticon. L’idea è di costruire una prigione che permetta un controllo centralizzato
dei detenuti. Un edificio circolare con al centro una torre
di controllo in grado di penetrare nelle celle con il suo
sguardo 24 ore su 24. Celle dalle quali i detenuti al contrario
non dovrebbero essere in grado di osservare chi li osserva.
Totalmente isolati, separati fisicamente e visivamente anche
tra loro e sapendo di essere costantemente osservati (ma
forse il verbo spiati rende meglio l’idea), i detenuti si sarebbero redenti automaticamente secondo la prospettiva di
Bentham. Un pensiero educativo progressista che ricorda
molto da vicino il noto e molto saggio proverbio che dice
che la “via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.”
Perché mai però dovremmo leggere questo breve saggio
visto che non lavoriamo nelle prigioni? Per avere una buona
risposta vale la pena leggere le parole dello stesso Bentham
per poi rivolgere uno sguardo disincantato alle organizzazioni che abitiamo, oppure alle nostre strade, piazze, edifici
pubblici e privati, capillarmente video sorvegliati. O ancora
al fatto che anche internet o una semplice carta di credito
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possono ridurre al minimo il livello di privacy e aumentare
le possibilità di un controllo capillare delle nostre vite da
parte di soggetti a noi nascosti o opachi.
Facendo riferimento al modello di edificio definito Panopticon, Bentham afferma nel 1791:
“In una parola penso che si potrebbe applicare, senza nessuna eccezione, in tutti gli edifici dove un certo numero di
persone devono esser tenute sotto controllo in uno spazio
non troppo vasto da coprire o dominare con altri edifici.
Poco importa se lo scopo dell’edificio è diverso o anche opposto: sia che si tratti di criminali incalliti, sorvegliare i
pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli
oziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, istruire
quelli che vogliono entrare nei vari settori dell’industria o
fornire l’istruzione alle future generazioni: in una parola,
sia che si tratti di prigioni a vita, nella camera della morte,
o di prigioni d’isolamento prima del processo, o penitenziari, o case di correzione, o case di lavoro, o fabbriche, o
manicomi, o ospedali, o scuole.
È ovvio che, in tutti questi esempi, lo scopo dell’edificio sarà
tanto più perfettamente raggiunto se gli individui che devono essere controllati saranno il più assiduamente possibile
sotto gli occhi delle persone che devono controllarli. L’ideale,
se questo è lo scopo da raggiungere, esigerebbe che ogni individuo fosse in ogni istante in questa condizione. Essendo
questo impossibile, il meglio che si possa auspicare è che in
ogni istante, avendo motivo di credersi sorvegliato, e non
avendo i mezzi di assicurarsi il contrario, creda di esserlo”.
Che cos’è un dispositivo?
Giorgio Agamben, 2006, Nottetempo, Roma
I dispositivi tecnologici che ci circondano e di cui non possiamo più fare a meno, dal cellulare alla televisione, dal pc
al tablet e all’automobile, non sono innocenti oggetti di
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MALGRADO LA CRISI
consumo, ma dispositivi che influenzano la personalità di
chi li usa e con i quali ogni giorno ingaggiamo un continuo corpo a corpo. Punto di riferimento di Agamben è la
riflessione foucaultiana sul concetto di dispositivo in
quanto insieme di pratiche e meccanismi che hanno lo
scopo di far fronte a un’urgenza e di ottenere un effetto
più o meno immediato. I dispositivi di cui parla Foucault
danno il nome a ciò “in cui e attraverso cui” si implica un
processo di soggettivazione. In altre parole, come direbbe
Heidegger, allo stesso modo in cui siamo parlati dal linguaggio, così siamo usati dalla tecnica. Scrive Agamben:
“Chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia
in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i
gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi.
Non soltanto, quindi, le prigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole, la confessione, le fabbriche, le discipline, le
misure giuridiche ecc., la cui connessione col potere è in un
certo senso evidente, ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e – perché no – il
linguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi, in
cui migliaia e migliaia di anni fa un primate – probabilmente senza rendersi conto delle conseguenze a cui andava
incontro – ebbe l’incoscienza di farsi catturare”.
Psiche e techne.
L’uomo nell’età della tecnica
Umberto Galimberti, 2000, Feltrinelli, Milano
La tecnica non è l’insieme degli strumenti di cui ci serviamo, ma è l’ambiente stesso nel quale abitiamo, che ci
circonda e ci formatta secondo regole di razionalità misurabili esclusivamente con criteri di funzionalità ed efficienza. Le esigenze dell’uomo finiscono così per essere
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subordinate alle esigenze dell’apparato tecnico. Ma la tecnica, sostiene Galimberti, non agisce in vista di uno
scopo, non mira alla salvezza e nemmeno a una pienezza
di senso. “Non redime, non svela la verità: la tecnica funziona”. Questo libro ripercorre i concetti di cui si nutriva
l’età umanistica – individuo, libertà, identità, verità, senso
e scopo, ma anche natura, politica, religione e storia –
nell’età della tecnica. Scrive Galimberti:
“La tecnica infatti può segnare quel punto assolutamente
nuovo nella storia e forse irreversibile, dove la domanda
non è più: «che cosa possiamo fare noi con la tecnica», ma
«che cosa la tecnica può fare di noi»”
Discorso sulla servitù volontaria
Étienne De La Boétie, 1995, La Rosa, Torino
Scritto agli inizi del XVI secolo, mentre le strutture politiche tardomedievali si vanno dissolvendo sotto l’avvento
delle monarchie nazionali, questo pamphlet mantiene la
sua validità in ogni tempo e in ogni luogo. L’analisi di La
Boétie è dedicata, in apparenza, a un tema specifico: la
critica al potere tirannico, attraverso l’evidenziazione dei
meccanismi strutturali e consensuali che sorreggono tale
forma di potere politico. Come è possibile, – si chiede La
Boétie – che gli uomini acconsentano a un potere sfacciatamente contrario a ogni loro possibile interesse e
spesso addirittura nocivo a essi? Come possono gli uomini
innamorarsi delle loro catene? Da questa domanda prende
il via un’interrogazione più generale sulle strutture del dominio, che porta l’autore ad allargare in maniera estrema
il concetto di “tirannia”. “Tiranno” è, nella concezione di
La Boétie, qualcosa di più che il monarca centralizzatore
del XVI secolo e/o i suoi equivalenti funzionali del passato
dell’umanità. L’“Uno” di cui si parla nel “Discorso sulla
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MALGRADO LA CRISI
Servitù Volontaria” non è infatti necessariamente una singola persona, anche se ai tempi di La Boétie tale figura
politica coincideva spesso con quella del monarca; essa è
piuttosto la funzione politica svolta da chi – singolo o persona giuridica collettiva – riesce a imporre agli altri la
legge della propria volontà individuale.
“(...) vorrei solo comprendere come e possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante citta e nazioni tollerino talvolta un
solo tiranno, che non ha altro potere che quello che gli danno;
che ha il potere di nuocere loro solo finche essi possono sopportarlo; che non potrebbe far loro alcun male, se non
quando essi preferiscono sopportarlo piuttosto che contraddirlo. E davvero sorprendente, e tuttavia cosi comune che c’e
piu da dispiacersi che da stupirsi nel vedere milioni e milioni
di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non
costretti da una forza piu grande, ma perche sembra siano
ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio”.
La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane
Luigino Bruni, 2007, Edizioni Il Margine, Trento
Le prime radici, la via italiana alla cooperazione e al mercato
Luigino Bruni, 2012,Edizioni Il Margine, Trento
I libri di Luigino Bruni sono tutti belli. Economista, da
anni ci aiuta a recuperare una storia diversa da quella che
ci è stata imposta: la possibilità di concepire l’economia
come uno degli aspetti del vivere civile e non come qualcosa di separato da essa. Il mercato come uno degli aspetti
delle relazioni e non come luogo del business impersonale.
Il primo libro segnalato, pone al centro il tema delle relazioni in economia, aiutandoci a scoprire come la nostra
vita quotidiana e i sentimenti che viviamo nell’incontro
con gli altri non siano altra cosa rispetto al concreto di-
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panarsi economico, nei luoghi di lavoro e non solo.
Nel secondo, pubblicato nel 2012, il prof. Bruni racconta
con dovizia di esempi, delicatezza di stile e forza di contenuti, che la storia della cooperazione non può non fare
i conti con una tradizione di pensiero italiana, l’Economia
Civile, nata nel ‘700 per opera di Antonio Genovesi. Questa impostazione, se dal punto di vista accademico uscì
perdente dal confronto con quella anglosassone di Adam
Smith, non fu affatto sconfitta nelle pratiche imprenditoriali, dando vita a esperienze umane e civili che ancora
oggi, nascoste e offuscate dalle parole d’ordine dell’aziendalismo più banale, garantiscono la tenuta sociale del nostro Paese. Un libro sulla cooperazione dunque che
rimette mano alle origini per parlare del nostro presente
e del nostro futuro. E che può offrire buoni argomenti da
contrapporre a chi, talvolta anche al nostro interno, immagina il mondo cooperativo come un minore da rendere adulto con iniezioni di imprenditorialità e
managerialità omologata. Un bel libro di storia delle idee
concrete che può sorprendere, infastidire e aiutare a sentirsi più maturi.
Ho studiato economia e me ne pento
Florence Noiville, 2010, Bollati-Boringhieri, Torino
Un libro divertente per capire come si formano i pensatori
dell’economia finanziaria attuale. Un esempio di economia deterritorializzata e anche un saggio su quella particolare forma di spreco che è lo spreco di cervelli. Florence
Noiville ci racconta di quando capì che non era più il caso
di frequentare una delle più prestigiose Business School
di Francia che, come nel caso delle periferie di una grande
città, si possono ritrovare esattamente uguali in ogni angolo del pianeta. In queste 80 pagine, per una mezzoretta di piacevole lettura, la giornalista di “Le Monde”,
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MALGRADO LA CRISI
racconta con precisione quale sia lo spirito delle grandi
Business School e quali siano gli insegnamenti che in esse
si impartiscono e che potremmo sintetizzare con tre parole interconnesse: profitto, cinismo, competizione. Consigliato a tutti. Anche a genitori e insegnanti.
Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone
Zygmunt Baumann, 2007, Laterza, Bari
Uno di quei libri sempreverdi che dispiace non aver incontrato prima. Baumann ci aiuta a comprendere il pensiero sotteso alle politiche neoliberiste anche attraverso un
viaggio storico che parte dalle politiche della sig.ra Thatcher. Si tratta di un testo veloce che ci sembra utile anche
per una comprensione del nostro Paese.
Una suggestione su tutte: l’idea che l’affermazione delle politiche economiche degli ultimi 30 anni abbia a che fare con
una sorta di guerra per l’“indipendenza dallo spazio”. Ci si
riferisce al fatto che molte imprese funzionino senza avere
più nessun legame con il territorio e con chi ci vive. Svincolate così da qualsiasi logica di responsabilità sociale e civile.
Un buon criterio per valutare le pratiche di tutte le aziende
che parlano, a volte a sproposito, di responsabilità sociale.
Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri
Naomi Klein, 2007, Rizzoli, Milano
Una rivisitazione degli ultimi 40 anni di storia mondiale
per comprendere come a un certo modello di sviluppo
corrispondano anche filosofie e pratiche autoritarie e antidemocratiche. Dal golpe in Cile ai giorni nostri, Iraq e
Afghanistan compresi, per comprendere come una teoria
(in questo caso quella dei Chicago Boys, i neoliberisti di
Milton Friedman) non sia cosa eterea senza effetti sulla
pratica. Un librone di 600 pagine che in comode rate di
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5 pagine al giorno (10 min) si finisce in 4 mesi senza accorgersene e lascia il segno. Il post terremoto a L’Aquila,
ad esempio, diventa più comprensibile.
L'uomo flessibile.
Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale
Richard Sennett, 2000, Feltrinelli, Milano
La crisi della modernità ha lasciato sul terreno una serie
di scorie che si sono appiccicate al corpo e alla mente delle
persone. L’idea che ognuno sia padrone del suo destino,
rappresenta una deformazione del falso regno della libertà
di cui, secondo i teologi del mercato, saremmo tutti abitatori. L’uomo flessibile è il prototipo di questa nuova antropologia che caratterizza il nostro tempo e fa di noi
attori inconsapevoli di un dispositivo impersonale e autonomo che governa le nostre esistenze senza apparire oppressivo e alienante. E comunque, per i problemi che
derivano dall’essere inadeguati al presente, c’è sempre lo
psicologo. Dalla prefazione di Sennett:
“Oggi, il termine “flessibilità” viene usato allo stesso modo
per aggirare le connotazioni negative del concetto di capitalismo. Si sostiene quindi la tesi che, opponendosi alla rigidita
della burocrazia e riservando maggior attenzione al rischio,
la flessibilità consenta agli individui un maggior controllo
sulla propria vita. Ma in effetti il nuovo regime sostituisce
nuove forme di controllo alle vecchie, piuttosto che limitarsi
ad abolire le regole del passato - e queste nuove forme di controllo sono spesso ancor piu difficili da riconoscere”.
In me non c’è che futuro. Ritratto di Adriano Olivetti
2011, SATTVA Films, Bologna (Libro + Dvd)
La storia di una pratica, di un modo di concepire impresa,
società e politica come facce di uno stesso poliedro.
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MALGRADO LA CRISI
Un’idea di comunità, anche nei luoghi di lavoro e tra questi e l’ambiente in cui operano, che la storia finalmente ci
sta poco a poco riconsegnando. Il film molto gradevole,
il libro con saggi interessanti scritti da chi ha vissuto in
prima persona quell’esperienza. Qui di seguito l’incipit
che si trova nel libro e all’inizio del Dvd:
“Nella millenaria civiltà della terra, il contadino, guardando
le stelle, poteva vedere Iddio, perché la terra, l’aria, l’acqua,
esprimono in continuità uno slancio vitale. Per questo il mondo
moderno, avendo rinchiuso l’uomo negli uffici, nelle fabbriche,
vivendo nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru
e il rumore dei motori e il disordinato intrecciarsi dei veicoli,
rassomiglia un poco ad una vasta, dinamica, assordante, ostile
prigione dalla quale bisognerà, presto o tardi, evadere.”
Adriano Olivetti