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Volto Nascosto
e l’efficacia della
narrazione storica
a fumetti
Intervista a Gianfranco Manfredi
Elena Musci
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Gianfranco Manfredi è un autore molto conosciuto e apprezzato. Fra i suoi lavori spiccano alcuni
romanzi letterari a sfondo storico e opere a fumetti come MagicoVento e Volto Nascosto, editi dalla Bonelli. Il primo è un western dai confini horror, un bimestrale ambientato nelle grandi praterie del Dakota, subito dopo la guerra di secessione, mentre il secondo è una mini-serie di 14 numeri, conclusasi
due anni fa, ambientata al tempo della prima avventura coloniale italiana, fra l’Abissinia e Roma.
Volto Nascosto affronta un passato scomodo per l’Italia, ed è su questo aspetto e sulle reazioni
che l’opera ha prodotto che è centrata la maggior parte delle domande. Il lavoro di Manfredi, infatti,
mostra – insieme – come sia possibile raccontare in modo appassionante episodi della storia nazionale, liberandoli dai tradizionali caratteri eroici, e come questa operazione abbia incuriosito i lettori.
Il fumetto storico è un prodotto mediale che reinterpreta il passato utilizzando un proprio codice
linguistico. Attraverso uno storytelling fatto di parole e di immagini, l’autore costruisce un meccanismo divulgativo, in equilibrio fra ricostruzione storica e fiction narrativa. Manfredi, in questa intervista, ci illustra il suo metodo di ricostruzione e di narrazione, e ci svela il mondo, le tecniche e le
motivazioni di un autore che riesce a far amare la storia non solo a chi ne è già un appassionato lettore, ma anche a chi, tradizionalmente, ama poco i libri.
Le vicende dei suoi personaggi sono appassionanti e coinvolgenti. Ha dichiarato che il suo
lavoro si basa su ricerche storiche molto accurate. Come ha condotto queste ricerche?
Per Volto Nascosto mi sono basato su studi di
noti storici italiani, tra i quali voglio citare Nicola
Labanca, autore del corposo saggio In marcia
verso Adua (Einaudi, Torino 1993), persona amabilissima, che in seguito all’uscita del fumetto
ho avuto anche occasione di conoscere.
Può indicarci come ha lavorato sulle fonti
per scrivere la sua storia?
La documentazione offre qualche prezioso
spunto, ma una storia resta e deve restare una
storia di fantasia e soprattutto una storia di persone, altrimenti, se diventa didascalica, non serve nemmeno a scopi educativi. Quindi il problema delle fonti non è quasi mai il trovarle, ma il
sapersene sbarazzare al momento opportuno
perché non diventino un fardello erudito e nozionistico.
Per esempio, ho usato la letteratura storica su
questo tema come riscontro, cioè per non scrivere corbellerie o inanellare anacronismi.
Il tema storico affrontato da Volto Nascosto
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mundusquestioni
“
Il fumetto storico
è un prodotto mediale che reinterpreta
il passato utilizzando
un proprio codice linguistico
attraverso uno storytelling
fatto di parole e immagini
”
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pie delle nostre. Insomma: hanno apprezzato
molto. Ma la mia maggior sorpresa è stata ricevere due lettere da generali appartenenti ai corpi da
me citati, che sono rimasti entusiasti della serie e
mi hanno mandato delle osservazioni critiche su
quella guerra, assai più polemiche delle mie. Il
che mi ha fatto riflettere. Indubbiamente l’esercito è molto cambiato da quando ho fatto il servizio
militare (all’Ufficio leva di Verona, in pieno periodo “Rosa dei venti”, cioè in epoca di tentazioni
golpiste e neofasciste).
sollecita la riflessione sulla rimozione delle vicende buie del nostro passato. Si è posto questo
problema quando ha scritto la mini-serie? Si è
chiesto come sarebbe stato accolto il suo lavoro
dai diretti discendenti di quegli italiani? E dagli
attuali immigrati che giungono da quelle terre?
A proposito delle lettere dei lettori etiopi che
vivono in Italia, può farci qualche esempio sul tipo di commenti che le sono stati fatti? Ha avuto
anche commenti italiani, magari di posizioni
diverse, oltre quelli che ha citato?
Ho cercato di ispirarmi anche a corrispondenze dal fronte dei soldati italiani perché, al di
là dei fatti, per un narratore conta moltissimo il
“vissuto”, le esperienze reali delle persone. È per
quelle persone, più che per i contemporanei, che
credo si debba avere rispetto, evitando di immiserirne le biografie in stereotipi, magari avventurosi, ma troppo spesso mistificanti. Una volta uscita la serie, ho ricevuto lettere, assai confortanti
per me, da lettori etiopi che vivono in Italia e hanno conoscenze e memorie dei fatti certo più am-
Quelle lettere sono uscite pubblicamente sul
periodico “Carta”, un supplemento del quotidiano “Il manifesto”. Riporto le critiche, più che gli
apprezzamenti. In una si rilevava qualche piccolo errore (una copia del Corano che credevo
scritta in amarico era invece in un’altra lingua locale), in un’altra mi si rimproverava di aver rappresentato Ugo troppo perfetto nel suo atteggiamento antirazzista. Ma debbo dire che in molte
testimonianze di civili italiani dell’epoca, giornalisti e religiosi, in particolare, risaltavano analo-
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Elena Musci
Volto Nascosto e l’efficacia della narrazione storica a fumetti
Tavola tratta
dal numero 1 di Volto
Nascosto, disegni
di Goran Parlov,
© 2007 Sergio
Bonelli Editore
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Questa tavola
è stata scelta dall’autore per raccontarci il lavoro
di ricostruzione
storica e di adattamento narrativo che compie nel
suo lavoro: è un
“esempio di come
da un punto di
partenza poi si inanellano diversi riferimenti che
conducono a una sintesi personale”.
Nel numero
1, il protagonista,
l’eroe mascherato Volto Nascosto, compare per
la prima volta entrando con i suoi
guerrieri in una
piazza di Massaua. È una sequenza lunga e
complessa, ma lo
spunto iniziale
me lo ha fornito
un’immagine scovata sulla rivista
d’epoca “Giornale illustrato dei
viaggi e delle avventure di terra e di mare”, nella quale
si vedeva un personaggio che veniva scortato in una
città del Corno d’Africa con il volto coperto. Una didascalia spiegava l’immagine ricorrendo a una tradizione
locale, peraltro assai mal interpretata, secondo la quale
personaggi particolarmente importanti, tanto più se
Profeti, cioè dotati di un certo carisma religioso, coprivano il proprio volto in pubblico. Questo mi ha con-
dotto a effettuare una ricerca sull’uso delle maschere
e ho trovato delle interessanti narrazioni folkloriche
sudanesi in proposito. Poi mi è tornato alla mente un
racconto di Borges, nella sua opera Storia universale
dell’infamia, sulla leggenda di un mitico guerriero dell’epoca delle crociate che indossava una maschera
d’argento. n
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mq
ghi atteggiamenti. Gli etiopi poi ignorano che
nel corso della guerra, a Roma e in altre città d’Italia, si tennero foltissime manifestazioni a favore di Menelik. Il movimento anticoloniale, per
quanto minoritario in Parlamento, era molto forte in Italia in quel periodo, anche se con parecchie contraddizioni che ho evidenziato nel mio
fumetto, ad esempio quando Ugo rimprovera a
un suo amico anarchico, molto attivo in quelle
manifestazioni, di aver prima manifestato per
Menelik e poi per la salvezza degli “Eroi di Macallé”. Certo, non è una contraddizione lacerante. Essere contrari alla guerra non significa essere contro i propri soldati. Ma si sa... nelle manifestazioni gli slogan operano semplificazioni
forzate. Riguardo ai commenti italiani, nessuno
ha sollevato obiezioni, né ho ricevuto lettere
guerrafondaie o razziste. D’altro canto è difficile
che un razzista vada a leggersi un fumetto di ambientazione africana e il pubblico dei “fumetti di
guerra” non è più come un tempo fatto di fanatici
delle armi. Mi aspettavo piuttosto che mi capitasse, come capitò a Hugo Pratt, di essere criticato
“da sinistra” per qualche genere di connivenza
militaresca: invece ciò non è avvenuto. Uno degli
effetti positivi del trovarci ormai in epoca
postideologica.
Si è confrontato col problema della moralità
delle imprese coloniali italiane? Ha letto autori
come Montanelli che, partecipando al dibattito
accesosi intorno al 1965, in forte polemica con
Del Boca, rilanciava il mito del colonialismo bonario e cavalleresco? O il romanzo di Ennio
Flaiano, Tempo d’uccidere, pubblicato la prima
volta nel 1947 e vincitore del premio Strega, che
assumeva come colpevole e ingiusto il comportamento italiano durante le imprese coloniali?
In guerra non c’è moralità alcuna. Avrei anzi
voluto (ma non era nella tradizione Bonelli) mettere un sottotitolo alla serie: In Guerra e in Amore tutto è lecito. Sinceramente i libri di storia di
Indro Montanelli non li ho mai presi molto sul
serio. Flaiano parlava per esperienza diretta e il
suo libro, anche se si riferisce al periodo fascista,
dovrebbe essere lettura obbligatoria nelle scuole. Io però non ho avuto bisogno di citarlo in
quanto mio nonno fu colonnello medico in quella guerra e ne tornò cieco, a causa dei gas. Mio
padre invece in quella guerra faceva parte del
genio e costruiva strade in Etiopia. Venne cattu-
“
Molti lettori, sollecitati
da VN, hanno compiuto ricerche
d’archivio [...] per rispolverare
memoriali di reduci
rato dagli inglesi e passò molti anni in prigionia
in un campo di lavoro sotto il Kilimangiaro. Costruì insieme ad altri prigionieri italiani la strada
del Masai Mara. Insomma, di quella guerra avevo
avuto fin da piccolo testimonianze dirette e sofferte. Tra l’altro sia mio nonno che mio padre erano socialisti. Non si finisce in guerra per motivi
ideologici, ma perché ti ci mandano.
”
Il racconto di Volto Nascosto ha suscitato soltanto delle domande, delle curiosità individuali
o ha sollevato anche un dibattito storico e/o sociale?
Le curiosità individuali non sono affatto trascurabili, anzi sono la cosa più importante. Mi ha
fatto un inaudito piacere che molti lettori, sollecitati da VN, abbiano compiuto ricerche d’archivio nelle loro città, anche di provincia, per rispolverare memoriali di reduci. Anche solo il fatto
che grazie al mio fumetto abbiano potuto riconoscere i personaggi cui nelle loro città erano dedicate targhe, monumenti e strade, ma dei quali a
scuola nessuno gli aveva mai parlato, mi ha riempito d’orgoglio. Sul fronte del dibattito storico-sociale ho ricevuto molti inviti a tavole rotonde, il
che mi ha fatto capire che il fumetto non era caduto nel solito “fragoroso silenzio”. Però, al di là
di questo, non mi sono mai molto illuso che,
nell’attuale clima subculturale italiano, sul mio
fumetto e sulle guerre coloniali si potesse aprire
un dibattito nazionale, magari dalle pagine dei
maggiori quotidiani. So bene che il fumetto è ancora da molti considerato di Serie B... e questo è
dopotutto anche un motivo di fierezza per chi fa
fumetti, soprattutto quando accade come ora che
la Serie A sia di modesto interesse.
Ha avuto la percezione di essere fra i pochissimi autori di massa italiani – oltre che di fumetti – (a differenza della Francia) ad aver parlato
della colonizzazione?
Be’, non ho scritto il fumetto per far bella figura. Anzi, il mio editore prevedeva che VN sa-
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Volto Nascosto e l’efficacia della narrazione storica a fumetti
rebbe stato un insuccesso, perché da troppi anni
in Italia non si pubblicavano fumetti sulle guerre
coloniali e lui, quando ci aveva provato, con la
bellissima collana Un uomo, un’avventura, si era ritrovato nelle peste dal punto di vista commerciale, nonostante quella serie inanellasse i
migliori autori italiani di fumetto: Crepax, Toppi,
Bonvi, Battaglia, Tacconi, Galeppini e anche un
illustre “straniero” come Eric Siò. Invece, per fortuna, VN è andato al di là di ogni aspettativa. Il
che mi ha molto aiutato per mettere mano al mio
nuovo progetto che ha per scenario la rivolta dei
Boxer in Cina nel 1900, e che è iniziato ad uscire
a novembre 2011, con il titolo Shanghai Devil,
con Ugo Pastore (cioè lo stesso personaggio al
centro di VN) per protagonista.
Secondo lei, ci sono dei passaggi in cui emerge più che in altri il suo punto di vista (o la lettura
storiografica che propone) sulla vicenda coloniale e sull’Italia di fine Ottocento?
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Il mio punto di vista, nei fumetti e nei romanzi che scrivo, non è mai esposto front line. Lascio
che siano i personaggi a esprimere il loro punto
di vista. In questo modo si evita di fare la lezione
dall’alto, e si riescono a esprimere punti di vista
multipli, fondamentali, soprattutto quando si
trattano vicende complesse e controverse. Una
narrazione condotta dall’unico punto di vista
dell’Autore tende per forza di cose a essere ideologica e propagandistica. Preferisco sollecitare
punti interrogativi, per stimolare i lettori stessi a
farsi un’idea, a seconda del proprio grado di sensibilità e di cultura e anche delle proprie inclinazioni sentimentali, cosa da cui gli storici ovviamente prescindono, ma un narratore, se lo fa, si
condanna a una sterile freddezza.
Ha già detto di aver puntato l’attenzione sul
vissuto dei personaggi, ma questi sono chiamati,
durante le loro avventure, a decidere da quale
parte stare. Come ha effettuato questa scelta?
Ho naturalmente enfatizzato, grazie al personaggio di Ugo che è un pacifista, gli elementi anticoloniali. Però ho tentato di farlo non rozzamente. Penso che se tra le nostre truppe c’erano
(come c’erano) degli ufficiali aguzzini con i loro
stessi uomini, dovevano essercene di simili (e ce
n’erano) anche tra le file di Menelik. In una guerra coloniale gli invasori sono sempre dalla parte
del torto, ma questo non significa semplificare
per comodo ideologico, al punto da far apparire
gli uni come “cattivi” e gli altri come “buoni”. La
guerra è una tragedia per tutti.
Come riesce a ricostruire il mondo dei suoi
protagonisti?
Parto dagli ambienti e cerco di capire come si
possano muovere in essi i personaggi. Anche nei
miei romanzi, le principali ricerche storiche che
faccio riguardano la Storia della vita quotidiana.
Per creare un personaggio che mi soddisfi, devo
sapere come si veste, dove abita, cosa legge, che
musica sente, cosa e come mangia ecc.
Cosa la spinge a creare un personaggio e a
collocarlo in un momento storico ben preciso,
invece che nel presente?
Il presente mi fa piuttosto schifo. Ce l’ho intorno tutti i giorni, non posso rivedermelo in testa anche mentre scrivo, non ce la faccio proprio
ad avvilire la fantasia a cronaca. Non che non abbia scritto romanzi ambientati ai nostri giorni,
ma per me, senza visione del passato e del futuro, il presente non esiste. La rincorsa ossessiva
all’attuale mi pare stia producendo, anche stilisticamente, dei pessimi romanzi. È una rincorsa
di mercato che oggi va a premiare sempre il pubblico medio, il gusto medio, la realtà media, la
media borghesia, il politically correct o la polemica d’occasione, e che in profondità non ci dice
quasi nulla (a parte notevoli eccezioni) né sul
nostro tempo, né su noi stessi (a parte l’intollerabile narcisismo di certi autori che sembrano
non saper più raccontare nulla e nessuno fuori
di sé). Certo, la Storia noi la leggiamo a partire
da problematiche del tutto attuali, però per me
il suo fascino sta anche nella distanza da noi. La
Storia ci dimostra che non solo “un altro mondo
è possibile”, ma che “un altro mondo” c’è stato,
ci sarà, e c’è tuttora, nelle pieghe del nostro, anche se ci fa comodo, per pigrizia mentale o per
paura della diversità e dei cambiamenti, non accorgercene. Come un mio caro amico regista fece dire a un suo personaggio in un film: “Qui è
una merda, lo so, però almeno ci sto al caldo”. Era una considerazione amara, naturalmente, rivolta a chi alla merda non si rassegna. Chi ci si
sente a suo agio non potrebbe nemmeno esprimerla una considerazione del genere.
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Se si rivolge al passato come alla possibilità di
vivere un mondo altro, qual è il “mondo” di Volto
Nascosto che ha voluto ricreare? Detto altrimenti:
cosa l’ha spinta a scrivere Volto Nascosto?
Credevo fermamente che quel mondo, apparentemente lontano, e quelle esperienze dei no-
SALVE O POPOLO
D’EROI
Maria Teresa Milano
ha vinto perché aveva
I llefascismo
canzoni più belle degli altri”,
“
scriveva nel 1934 Asvero Gravelli,
giornalista e gerarca fascista,
sottolineando la centralità del ruolo
della musica nella costruzione
della possente “macchina del consenso”
a opera di Mussolini e del suo entourage.
Il Duce, amante del violino, provetto
ballerino1 e frequentatore assiduo
di concerti e teatri, ben comprendeva
l’importanza della musica quale
strumento per servire il regime ed
educare le masse: tutta la storia
del ventennio può essere letta anche
analizzando la produzione musicale,
compresa quella cosiddetta “di fronda”2.
La canzone, in particolare, “documento
utile per capire la storia, [...] carico
di significati che altri documenti
tradizionali usati dallo storico non sempre
posseggono”3, assurse a simbolo
di un sentire, di un pensiero,
di un’ideologia e grazie alla sua
immediatezza comunicativa divenne
mezzo pedagogico di grande rilievo.
E se All’armi siam fascisti accompagnava
gli squadristi armati di manganello e olio
di ricino nelle spedizioni punitive
per “toccare a suon di randellate i crani
refrattari”4, era la celebre Giovinezza
ad allietare i raduni dei giovani e dei
piccoli balilla. Giovinezza era dunque
l’inno simbolo del fascismo e del progetto
di educazione delle masse messo in atto
dal regime, proprio la stessa Giovinezza
che il Festival di Sanremo, nell’edizione
stri nonni e padri avessero molto da dire oggi,
quando da anni ormai l’Italia è coinvolta in scenari di guerra internazionale. Restai molto stupito quando, studiando materiali d’epoca, lessi un
intervento di un deputato governativo in Parlamento che giustificava la guerra dicendo: “È l’Europa che ce lo chiede.” Sembrava di guardare il
del 2011, avrebbe voluto celebrare con
tanto di orchestra sul palco dell’Ariston.
Goffo tentativo quello di correggere il tiro
eseguendo anche Bella Ciao, come se
le ferite ancora aperte potessero essere
guarite con una falsa par condicio
musicale.
Gli italiani sono venuti a conoscenza
della scelta della direzione del Festival
nel corso di una conferenza stampa in cui
Mazzi e Morandi, arrampicandosi sui vetri,
tentavano di spiegare che in realtà
Giovinezza nasce come inno goliardico
(ma si sono accorti che il testo però
era diverso?) e Bella Ciao come canto
delle mondine (ipotesi di qualche anno fa
rimessa in discussione dagli studiosi
in tempi recenti), e subito si sono
scatenate le polemiche. Perfino i ministri
si sono premurati di dare il loro parere.
Alcuni, non cogliendo il valore storico
dei brani e riconoscendone la funzione
prettamente politica, hanno temuto
il pericolo di strumentalizzazione a scopo
propagandistico, mentre qualcuno ha
proposto di cancellarli entrambi
per riesumare Va Pensiero, maestoso e,
in certo senso, epico; altro che universitari
goliardici e mondine! E poi c’è anche chi
ha invocato l’esecuzione di entrambi
i brani, invitandoci a “farla finita con
le code di paglia” e sostenendo che
comunque “queste erano canzoni cantate
da milioni di italiani”. Su questo non c’è
dubbio, ma teniamo conto del fatto che
anche l’Horst-Wessel Lied, inno del
nazionalsocialismo, fu cantato da milioni
di tedeschi: eppure a nessuno oggi in
Germania verrebbe in mente di riesumarlo
in un festival canoro, non fosse altro
perché la sua esecuzione è dichiarata
illegale dal codice penale tedesco.
Al di là delle polemiche mediatiche,
dei sondaggi in rete e delle considerazioni
sul cattivo gusto o sulla dubbia liceità
dell’uso di Giovinezza, quando vige
ancora il reato di apologia del fascismo,
c’è da chiedersi qual è il messaggio che
si vuole trasmettere ai giovani. Come
si può spiegare a scuola o in famiglia
la profonda contraddizione di un paese
che il 27 gennaio ricorda, come recita
la legge, “la persecuzione italiana
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dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno
subito la deportazione, la prigionia,
la morte...” e pochi giorni dopo rievoca
davanti a milioni di telespettatori il trionfo
del regime che condusse con tenacia
la persecuzione razziale rendendosi
responsabile della morte di migliaia
di esseri umani? Come mai non
riusciamo a creare collegamenti tra le due
cose e, anzi, ci stupiamo che si dia tanta
importanza alla situazione? Si dice:
in fondo, è solo una canzone...
Forse è proprio questo il nodo che non
riusciamo ancora a sciogliere: fatichiamo
a rielaborare quanto è successo.
Ben venga quindi Sanremo se per una
sera ci solleva dal peso della memoria,
lasciandoci solo il velo un po’ nostalgico
del ricordo.
Altro che popolo d’eroi... n
1. Così è descritto il giovane Mussolini da Margherita
Sarfatti.
2. Cfr. M.T. Milano, Come in un silenzioso slow,
www.musicheria.net, novembre 2010.
3. S. Pivato, Bella ciao. Canto e politica nella storia
d’Italia, Laterza, Roma-Bari 2007, p. X.
4. Discorso di Benito Mussolini al Teatro comunale di
Bologna, 21 aprile 1921.
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Elena Musci
Volto Nascosto e l’efficacia della narrazione storica a fumetti
telegiornale prima del nostro coinvolgimento
nella ex Jugoslavia.
Ha parlato di un seguito a Volto Nascosto. In
che periodo storico è ambientato? Ci sono differenze sostanziali rispetto alle avventure che conosciamo?
In Shanghai Devil lo scenario è diverso, nel
senso che quella guerra vide impegnate tutte le
grandi potenze, dalla Russia all’America, dall’Europa al Giappone. L’Italia ebbe un ruolo marginale perché si aggregò all’ultimo momento, per
ricavarne qualche risultato sul piano commerciale.
Perché ha deciso di scrivere questa nuova storia?
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Perché della rivolta dei Boxer non si parla a
scuola. Non se ne è parlato nemmeno “socialmente”, quando in Italia e nel mondo occidentale fecero furore i film di Hong Kong sul kung fu,
incomprensibili in realtà senza tener conto di
quell’orizzonte storico. Se ne parla poco di questo retroterra storico persino adesso che la Cina
è diventata una delle prime potenze mondiali. Ci
siamo dimenticati di cosa abbiamo fatto per anni
alla Cina, di quanto sia stato difficile per loro ottenere una piena indipendenza e sottrarsi al co-
lonialismo e, tra le altre cose, al dramma dell’oppio. L’oppio venne introdotto in Cina, con conseguenze sociali disastrose, dalla Compagnia
delle Indie, cioè dai britannici. Il rapporto degli
intellettuali riformisti cinesi d’allora con l’Italia era invece del tutto sorprendente. Anzitutto ci vedevano come gli eredi di un impero tramontato,
quello romano, e facevano il confronto con il declino inesorabile del loro. Inoltre ammiravano la
nostra guerra d’indipendenza e gli eroi del Risorgimento, vedendovi un modello per la loro lotta
di liberazione dallo Straniero. Possibile che queste conoscenze, davvero importanti, debbano
restare confinate al recinto degli esperti e degli
studiosi? Perché a scuola, sui giornali, in televisione, non se ne parla mai? La Cina per noi continua a restare un universo sconosciuto e malinteso. Più è “vicina”, più viene allontanata dall’informazione o giudicata sulla base di stereotipi che più falsi non potrebbero essere. Nel piccolo del mio fumetto, ho cercato se non altro di
far filtrare qualche informazione sui molti contrasti di cui è ricca la storia di quel paese, ma certo lo sforzo richiederebbe altre sedi e ben altra
capacità di approfondire. Io, ripeto, sono soltanto un narratore d’avventura. I riferimenti storici
nelle mie storie restano sullo sfondo, esattamente come i riferimenti storici e anticoloniali del
Sandokan di Emilio Salgari, con tutte le inevitabili approssimazioni connesse. n