Il caso Giuseppe - Biblioteca Medica

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Il caso Giuseppe - Biblioteca Medica
Il caso di Giuseppe.
Gilberto Furlani, Lino Gambarelli (Medici di famiglia Azienda USL di Reggio Emilia) Chiara
Pasini ( Psicologa Clinica).
Caso clinico.
Giuseppe B. è uno degli ultimi raccoglitori di rane delle nostre campagne, fornitore ufficiale di tutti
i ristoranti della zona.
Mai stato dal dottore, nonostante i suoi sessantatre anni è un uomo possente.
Si ammala due mesi fa, all’improvviso, passando una notte da incubi con dolori addominale,
nausea e conati di vomito.
Gli esami mostrano fin da subito la presenza di una neoplasia estesa a tutti gli organi addominali
con carcinosi peritoneale.
Biopsia: carcinoma epatocellulare.
In pochi giorni Giuseppe passa dalla piena normalità alla condizione di malato terminale.
Dimesso dall’Ospedale, inizia un trattamento domiciliare palliativo con Cortisone, Metoclopramide
e Morfina. Le sue condizioni migliorano nettamente: riprende ad alimentarsi, a muoversi e progetta
di tornare a rane.
Un giorno inizia a lamentare dolore all’arto inferiore sinistro con edema e turgore venoso.
In poche ore si manifesta un quadro imponente di flebotrombosi profonda di tutto l’asse venoso
dell’arto.
Il medico di famiglia costringe il paziente a letto e inserisce in terapia Eparina calcica a dosaggi
anticoagulanti.
E’ una scelta certamente rischiosa, ma la gravità del quadro clinico non consente alternative.
A motivo della sua malattia, il paziente perde rapidamente peso e, dopo due settimane di letto,
anche tono muscolare.
Il quindicesimo giorno Giuseppe viene fatto alzare e, con fatica, compie qualche passo.
Viene incoraggiato in quel senso.
Il giorno dopo, la famiglia chiama urgentemente il medico: mentre si recava in bagno, Giuseppe è
stato colto da pallore e fatica respiratoria, accasciandosi.
Quando il medico di famiglia arriva, il paziente è a letto, ha un colorito e una condizione
cardiocircolatoria normali, ma presenta una tachicardia persistente.
Nel sospetto di embolia polmonare, il medico di famiglia invia il paziente in Ospedale ad eseguire
urgentemente una radiografia del torace.
Una volta eseguito l’esame, il Radiologo, ritenendo di intravedere un quadro suggestivo per
embolia, invia il paziente in Accettazione perché ne venga disposto il ricovero.
Da qui il paziente viene portato in Cardiologia, dove si esegue un prelievo per la determinazione del
D-Dimero ed un ECG, ma la raccolta della storia clinica del paziente suggerisce al cardiologo
l’opportunità di un ricovero in Medicina.
Trasportato in Medicina, il paziente viene rispedito in Cardiologia perché, indipendentemente dalla
storia clinica, a parere del medico di reparto, si tratta del sospetto di una condizione acuta.
In Cardiologia viene eseguito un Ecocardio che non mostra ipertensione polmonare ne
compromissione del cuore destro, per cui il medico ne dispone di nuovo il ricovero in Medicina.
A quel punto Giuseppe, esasperato, esausto ed infreddolito, firma le dimissioni e se ne torna a casa.
La mattina dopo, al momento della visita del medico di famiglia, il paziente appare iperpirettico,
dispnoico e spossato.
Ha tosse produttiva, escreato di colore torbido e i segni semeiologici di doppio focolaio di
broncopolmonite.
Commento al caso.
Due diversi tipi di decisione.
Il medico di famiglia è spesso chiamato ad operare scelte di carattere meramente tecnico.
Nel caso di Giuseppe, una tipica decisione di tipo tecnico riguardò l’utilizzo della terapia eparinica,
dopo l’insorgenza della flebotrombosi profonda.
Avviarla o no?
Questo genere di decisioni presuppone una corretta valutazione dei rischi e dei benefici che il
trattamento comporta.
Tutti i medici sono stati addestrati in questo senso, essendo questa una di quelle attività di cui si
compone il cosiddetto “atto medico”.
Oltretutto, su questi temi esiste la più ampia possibilità di consultare testi, articoli, linee guida.
Ma esiste anche un altro genere di decisioni che il medico deve prendere e per le quali non può
disporre né di una specifica preparazione, né di un’adeguata trattatistica.
Si tratta di “un’area grigia” delle conoscenze mediche dove esistono poche evidenze.
Eppure si tratta di decisioni fondamentali, che coinvolgono le scelte gestionali del paziente.
Nel caso narrato, al sospetto di embolia polmonare, senza dubbio, la decisione di inviare il paziente
in Ospedale per eseguire una lastra del torace, era giustificata, come lo sarebbe stato il richiedere
altre e più specifiche procedure diagnostiche.
Eppure questa decisione è alla base di un percorso che per il paziente si è rivelato catastrofico.
La questione della responsabilità nelle scelte.
La gestione intraospedaliera del signor Giuseppe (e di conseguenza i guai che ne sono derivati) non
possono essere addebitati alla decisione (e di conseguenza alla responsabilità) del medico di
famiglia.
Ma è comunque evidente il fatto che quella sua scelta ha determinato una svolta nella vita del
paziente, sfortunatamente una svolta cruciale in senso negativo.
Tutto questo ha un suo peso, in termini di emozioni, di frustrazione, di rendimento professionale.
I medici di famiglia sanno con molta precisione che competono a loro scelte che pur non avendo
una caratterizzazione tecnica, nondimeno comportano un riverbero enorme sui loro pazienti.
Occorre quindi che si interroghino su questo aspetto del loro lavoro e cerchino di esercitare questa
loro funzione al meglio, perché da questa attività spesso dipendono non solo e non tanto la
guarigione del paziente, quanto la sua qualità di vita.
Un dato di fatto.
Quando i nostri pazienti sono affetti da malattie croniche o, come in questo caso, da una condizione
terminale, queste scelte divengono cruciali.
Analizzando il caso in esame, ci si potrebbe chiedere innanzitutto se questo “infortunio” costituisca
un evento eccezionale oppure no.
Se cioè i nostri Ospedali hanno frequentemente una gestione così contraddittoria e inopportuna dei
pazienti come Giuseppe, oppure se questa vicenda costituisca un evento eccezionale.
E’ esperienza comune di ogni medico di famiglia, che per questo genere di pazienti l’Ospedale non
costituisca un buon ambiente, perché è frequente che i pazienti tornino da ricoveri di questo tipo
con un netto deterioramento delle loro condizioni.
Di conseguenza, questo “dato di fatto” va considerato nella procedura decisionale.
La consecutio temporum delle decisioni gestionali nel caso di Giuseppe.
Il primo problema del medico di famiglia è stato il seguente: a fronte del sospetto di embolia
polmonare, il paziente va ricoverato oppure no?
La scelta è stata di non ricoverarlo.
Evidentemente il medico aveva affrontato in precedenza il problema di Giuseppe con lui stesso e
con la sua famiglia e insieme avevano optato per un’assistenza domiciliare.
La trombosi venosa profonda (e la conseguente embolia polmonare) hanno costituito una
complicanza inattesa ma certamente nel novero delle possibilità, in un paziente del genere.
Di conseguenza medico e famiglia avrebbero dovuto metter mano ad una decisione già presa:
mantenere a domicilio il paziente per la restante parte della vita, mirando a fornirgli la miglior
qualità di vita possibile.
In questi pazienti, l’insorgenza di complicazioni più o meno severe è la regola.
E’ solo questione di tempo.
Decidere “a caldo”.
La scelta del medico di ottenere un conforto diagnostico in una situazione così acuta, è umanamente
e professionalmente comprensibile, perché a quel punto Giuseppe era in relative buone condizioni:
si muoveva, si alimentava e conduceva una vita ancora prossima alla normalità.
Non dimentichiamo che l’impatto psicologico di una diagnosi di terminalità in un paziente sempre
ritenuto sano, richiede tempo per essere maturata e vissuta come tale a livello delle scelte da
compiere.
Per il malato, per la sua famiglia, per il medico stesso.
Inoltre, non dimentichiamo che il medico di famiglia in questi casi è chiamato a compiere scelte in
condizioni di forte tensione emotiva.
Questi motivi hanno certamente giocato in modo rilevante nella scelta del medico di
“medicalizzare” l’episodio, inviando il paziente a fare le radiografie.
Il motivo c’era, perché le probabilità che si trattasse di un episodio di embolia polmonare erano alte.
Il quadro clinico metteva in evidenza tutta una serie di circostanze che ne rendevano probabile la
diagnosi (pregressa flebotrombosi all’arto inferiore, sintomatologia tipica, il segno obiettivo della
tachicardia persistente a riposo).
Spesso in questi casi la famiglia spinge perché si faccia qualcosa, anche se dal punto di vista del
medico queste scelte sono spiegate più che altro da motivi di governo dell’ansietà propria e di chi lo
attornia.
Considerazioni “a freddo”.
E’ però vero che, al momento della visita, non esisteva dispnea a riposo e non vi era nessuna
compromissione della qualità di vita del paziente.
In un secondo tempo, l’ecocardio ha infatti dimostrato che la probabile embolia polmonare non
aveva determinato ipertensione polmonare e scompenso cardiaco destro.
Non dimentichiamo che il paziente è un terminale, quindi con una prognosi infausta a breve
termine.
In questi casi, ogni valutazione del rapporto beneficio-rischio va ponderato alla luce della breve
aspettativa di vita e questo ci costringe a dare un peso maggiore ai benefici ottenuti, mettendo in
secondo piano i rischi.
Se il medico avesse preso qualche minuto in più per riflettere, avrebbe potuto porsi le seguenti
domande.
Nell’ipotesi peggiore, quella dell’embolia polmonare, l’Ospedale cosa potrebbe offrire al mio
paziente?
Al di là del miglior inquadramento diagnostico, un trattamento più aggressivo della complicanza
avrebbe un significato per la qualità di vita del mio paziente?
Questo giustificherebbe l’impatto negativo determinato dall’ospedalizzazione?
Quale trattamento in grado di migliorare la sua qualità di vita sarebbe stato possibile in ospedale,
rispetto alle possibilità di cura a domicilio?
Se ora il paziente respira senza difficoltà a riposo, se tollera bene il trattamento anticoagulante,
perché non continuarlo, mantenendolo a riposo assoluto ed avvertendo i familiari della situazione?
La somma delle risposte è probabilmente negativa, ma ad entrare in gioco c’è un’altra variabile:
lo stato d’animo del paziente e della famiglia.
Le indicazioni al ricovero di un paziente terminale.
In un paziente terminale, le indicazioni al ricovero sono oggettivamente poche.
Esse sono limitate a quando l’ospedalizzazione è in grado di alleviare sintomi penosi, offrendo
chiare prospettive di un miglioramento della qualità della vita del paziente.
Un’altra indicazione è data dall’esplicito desiderio in questo senso di quest’ultimo e della sua
famiglia.
Molti medici palliatori ritengono che il ricovero ospedaliero di un paziente terminale costituisca di
per se un “fallimento” del progetto assistenziale domiciliare.
Noi ci permettiamo di dissentire.
L’obiettivo di questo genere di assistenza è migliorare la qualità della vita del paziente e se questo
obiettivo, ad un certo punto della vicenda, può essere garantito meglio da un ricovero è giusto
provvedere in questo senso, senza cadere nell’errore di ritenere che questo “parametro qualitativo
dell’assistenza” venga prima rispetto agli interessi della persona ammalata.
Conclusioni.
Nel paziente terminale occorre prestare particolare attenzione alle scelte “gestionali”, perché da esse
dipende l’obiettivo terapeutico fondamentale che per questo paziente ci poniamo: il miglioramento
della sua qualità di vita.
Questo ci obbliga a prendere in considerazione molte variabili che in un paziente diverso non
considereremmo.
Inoltre spiega quanto sia difficile trovare un’adeguata sintonia coi familiari e con le altre figure del
S.S.N., particolarmente coi medici ospedalieri che per la loro esperienza sono più attenti al quadro
clinico che alle condizioni di vita del malato.
Sfortunatamente, applicare questo procedimento logico in modo rigoroso è difficile perché si
scontra con le abitudini e le attese della gente, dei nostri colleghi e di noi stessi.
Una rigorosa valutazione del rapporto rischio-beneficio in un malato terminale spinge ad un
atteggiamento molto prudente e particolarmente “povero” di componente tecnologica.
Condizione difficile da sostenere in un contesto dove la tecnica è considerata elemento
imprescindibile della medicina.
Giuseppe è stato vittima di una serie di errori che l’hanno portato a sviluppare una complicanza
fatale.
La cosa più grave non sta nel fatto che questi errori possano ripetersi, quanto nella constatazione
che pare non si trovi un linguaggio comune tra gli operatori sanitari perché insieme si possa
riflettere e porvi rimedio.
Bibliografia:
1. S.Bernabè, F.Benincasa, G.Danti “Il giudizio clinico in medicina generale” Collana di
Medicina Generale Utet Periodici
2. G.Parisi “Il malato di cancro in medicina generale” Collana di Medicina Generale Utet
Periodici
3. M.Tombesi e V.Caimi “La medicina basata sull’invadenza” in “La salute in Italia. Rapporto
1999” a cura di M.Geddes e G.Berlinguer. Ediesse Editori
4. E.Parma “La medicina generale: un ponte tra la medicina come scienza della natura e come
scienza umana” in “Diventare medici” a cura di G.Bertolini Guerini Editore
5. G. Furlani, F. Orlandini: Aspetti psicologici e relazionali dell’assistenza al malato terminale e
alla sua famiglia. Bottazzi Editore, 1999.