Pagine saggio
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Pagine saggio
Emiliano Sarti Mouséwn ;aglaà d^wra antologia tematica di lirici greci Canova Edizioni di Scuola e Cultura 1 La politica L'interesse del pubblico dei poeti lirici era rivolto a temi di natura diversa: tra questi le tematiche storico-politiche; molti dei frammenti che ci rimangono trattano di temi legati alle vicende delle poleis, nelle quali i vari poeti lirici vivevano e svolgevano la loro attività. L'aristocrazia aveva nella guerra e nella politica le due attività principali; è quindi inevitabile che i poeti nei loro versi si facessero portavoce dell'ideologia dell'ambiente nel quale vivevano. In Archiloco l'attività militare e quella poetica fanno tutt'uno e in lui possiamo notare significative descrizioni della vita militare; altri due poeti elegiaci, Callino e Tirteo, con un linguaggio ricco di suggestioni epiche, invitano i loro concittadini alla lotta contro il nemico in componimenti di natura parenetica. Le elegie di Solone esprimono, invece, i principi che lo hanno ispirato nell'elaborazione della riforma politica che investì Atene; alcuni frammenti di Solone, inoltre, sono indirizzati a tutta la città, come ad esempio quelli appartenenti all'Elegia per Salamina, nella quale il poeta invitava la città di Atene a riappropriarsi dell'isola. La crisi attraversata dall'aristocrazia e i profondi mutamenti conosciuti dal mondo greco dopo il VII secolo spostarono l'attenzione verso altre situazioni ed eventi. Non erano più impellenti le minacce dei nemici esterni, ma si affacciavano all'orizzonte pericoli di diversa natura. Alla parenesi militare e all'incitamento a combattere contro i nemici esterni si sostituisce l'incitamento alla lotta contro i nemici interni. Le conseguenze di questa nuova situazione sono importanti e molto significative: esilio, perdita dei diritti, scontri con avversari e tiranni diventano oggetto del canto dei poeti. In questo quadro si inserisce un grande poeta come Alceo, nei cui versi vibrano la passione politica e gli odi di parte. Anche le elegie di Teognide presentano spunti di carattere politico; il suo mondo si divide in ;agaqo||i e kako|i, termini impiegati in una prospettiva semantica complessa che segnala un profondo dualismo fra classi sociali, con la contrapposizione fra saggezza e follia, grandezza d'animo e meschinità. La lingua di questi componimenti è ancora fortemente influenzata dall'epica e la forma in cui essa si concretizza e si sviluppa è quella dell'elegia, genere che espresse anche le tematiche legate all'amore (Mimnermo). Gli ambienti ai quali si rivolgeva questo tipo di componimenti erano sicuramente il simposio, ma potevano essere anche altri. Alcuni frammenti di Archiloco farebbero pensare anche a situazioni diverse: il ponte di una nave, il turno di guardia durante una veglia notturna; altri frammenti di Solone sembra, invece, che abbiano come referente l'intera città e per alcuni si è pensato addirittura alla piazza cittadina, luogo dell'assemblea. 5 Archiloco: Lo scudo Fr. 5W. Il seguente frammento è probabilmente il più famoso tra quelli che ci sono giunti di Archiloco e senz’altro uno dei più discussi. Rimandando all’approfondimento un’analisi più dettagliata della questione, per ora ci limitiamo a dire che questi versi sono stati oggetto di imitazione da parte di numerosi poeti. è stato sempre detto che queste parole segnano una rivoluzione rispetto all’etica del mondo omerico; questo elemento è innegabile, ma lo stato frammentario impedisce conclusioni sicure. Il testo è stato trasmesso da molti testimoni e tutti riportano queste parole scandalizzati per il comportamento del poeta. Metro: distici elegiaci. ; Asp|idi mèn SaÈwn tij ;ag|alletai, $hn parà q|amnw?, 1ntoj ;am|wmhton, k|allipon o;uk ;eqélwn< a;utòn d’ ;exes|awsa. T|i moi mélei ;aspìj ;eke|inh> ;errétw< ;exa^utij kt|hsomai o;u kak|iw. 1-2. ;asp|idi... ;eqélwn: “uno dei Sai si vanta del mio scudo, che presso un cespuglio lasciai senza volere, quell’arma perfetta”. I Sai erano un popolo bellicoso della Tracia: vi è forse un’eco delle lotte per la colonizzazione di quella terra. ;ag|alletai: la scena e il verbo derivano da Omero e precisamente dall’episodio in cui Ettore dopo aver spogliato Patroclo delle armi di Achille si vanta di tenerle sulle spalle. 1ntoj ;am|wmhton: l’arma è definita “perfetta”; le due parole sono collocate in enjambement. L’aggettivo ;am|wmhtoj (da a privativo e m^wmoj, biasimo) è impiegato in Omero riferito di solito ad eroi. k|allipon: aoristo di katale|ipw, con mancanza dell’aumento, apocope e assimilazione. o;uk ;eqélwn: indica che l’abbandono dell’arma è stato un gesto non voluto dal poeta (lat. invitus) 3-4. a;ut|on... o;u kak|iw: “ma ho salvato me stesso; che m’importa di quello scudo? Alla malora: me ne procurerò uno migliore”. Il verbo ;exes|awsa all’aoristo (da ;eksa|ow) richiama, anche per l’uso dello stesso tempo, k|allipon. C’è stato chi ha visto nell’impiego di ;exes|awsa una sorta di gioco di parole con il nome dei Sai. ;errétw: con questo significato il verbo è già impiegato in Omero; è imperativo di 1rrw. ;exa^utij: psilosi ionica, per ;exa^uqij. kt|hsomai: questo verbo è stato variamente inteso: “comprerò”, “ me ne rifarò”, “ne prenderò”. o;u kak|iw: litote. a quegli stessi ghene di cui si racconta l’azione” (Vetta). Che poi l’interpretazione dell’evento storico potesse suggerire a Mimnermo considerazioni sulle vicende della vita con il suo continuo alternarsi di sofferenze e di gioie, potenza e decadenza, come è stato ipotizzato (Garzya), è assai probabile e questa considerazione potrebbe dimostrare allora che Mimnermo trattava mito e storia con la stessa finalità. L’intuizione che sta alla base di tale giudizio è la stessa che governerà i Persiani di Eschilo, dove si canta di una analoga 0brij, ma che questa volta dall’Asia fa partire una spedizione militare con l’intento di conquistare l’Europa. Nell’elegia il poeta parla in prima persona, ma questo non è una prova certa che fosse di Smirne; importa invece rilevare che tra gli argomenti del simposio dovevano esserci anche vicende legate alla storia locale della polis: le fondazioni di città, senza dubbio, potevano costituire un’occasione per riflettere sulle lontane vicende che avevano visto protagonisti eroi e aristocratici del luogo. 18 La dissacrazione della morale eroica Su questi versi si sono appuntate le ricerche degli studiosi al fine di carpirne i segreti e il significato più nascosto. Gli antichi che li hanno trasmessi ne hanno sottolineato sempre il carattere scandaloso. La citazione più antica del frammento è nella Pace di Aristofane (vv. 1298 ss.), dove, nel corso di un banchetto, i versi vengono ricordati dal figlio del vile Cleonimo e sono chiaramente intesi in senso spregiativo, come dimostra il commento di un altro personaggio della commedia, Trigeo, il quale afferma che queste parole vanno bene per la canaglia di Cleonimo e poi, rivolto al ragazzo, lo apostrofa dicendo: “e tu hai disonorato i genitori e sai bene che quello che hai cantato sullo scudo non lo dimenticherai col padre che ti ritrovi!”. Il disprezzo di Aristofane per Archiloco è assai evidente e, come ha affermato Paduano, neppure l’aspirazione alla pace può giustificare l’abbandono dello scudo, perché con tale gesto si calpestano i più sacri doveri del cittadino-soldato. I versi sono citati anche da Plutarco, il quale afferma che gli Spartani quando Archiloco giunse nella loro città, lo cacciarono perché erano venuti a conoscenza del contenuto di questo frammento. Interessante è pure la citazione di Sesto Empirico, che contrappone i versi archilochei all’usanza secondo la quale la madre spartana, quando il figlio partiva per la guerra, gli consegnava lo scudo raccomandando di ritornare “o con questo o sopra di questo”. Gli antichi davano, dunque, di questi versi un’interpretazione molto chiara, quella di una netta contrapposizione ai valori tradizionali dell’epica che sarebbero dissacrati e abbattuti da Archiloco, il quale, rifacendosi a una concezione della vita completamente nuova e del tutto diversa da quella omerica, non si curerebbe per nulla del proprio pudore e della propria fama, ma esalterebbe valori nuovi che pongono al primo posto la vita umana. Prima di verificare ulteriormente il senso generale dei versi, è necessario analizzarne più da vicino il linguaggio, la struttura, le tematiche. Occorre dire anzitutto che è stata avanzata l’ipotesi che questo non sia un frammento, bensì un componimento completo. Una soluzione definitiva è forse impossibile, ma alcuni dati vanno in questa direzione. Anzitutto il frammento presen- ta una struttura ben equilibrata, nella quale i due elementi principali, lo scudo e la persona del poeta, sono contrapposti al v. 1 e al v. 3 e tale contrapposizione è sottolineata dal mén... dé. Inoltre i primi due versi sono completamente dedicati allo scudo smarrito, mentre gli altri due sono dedicati al poeta che si è salvato e al suo proposito di procurarsi uno scudo migliore. Altri parallelismi sono evidenti: la litote o;uk ;eqélwn che chiude il v.2 si contrappone a o;u kak|iw del v. 4; inoltre l’ossatura del frammento è costituita da una serie di verbi tutti riferiti all’io parlante: k|allipon, o;uk ;eqélwn, ;exes|awsa, kt|hsomai. A questi verbi se ne alternano altri tre (;ag|alletai, mélei, ;errétw) con soggetti diversi: in particolare il terzo segnala, in apertura dell’ultimo verso, la maledizione dello scudo e si contrappone alla definizione 1ntoj ;am|wmhton, arma perfetta, che apre il v. 2 come apposizione di ;asp|idi. Rilevante è anche il fatto che i verbi segnalano una struttura temporale che si snoda nei tre tempi, presente, passato, futuro: uno dei Sai si vanta, al momento, dello scudo; il poeta lo ha smarrito in passato, ma se ne procurerà un altro. Questa sequenza temporale sottolinea il tentativo del poeta di passare da un episodio particolare a osservazioni di carattere più generale, proiettate verso il futuro. Anche il v. 3 sembra avere una struttura studiata: si apre con a;ut|on e si chiude con ;aspìj ;eke|inh, vale a dire gli elementi che si contrappongono in questa elegia. Il linguaggio del frammento utilizza con effetto molto espressivo termini di derivazione epica. Il frammento si apre con ;asp|idi, parola omerica solitamente accompagnata da un epiteto; ad essa si unisce il verbo ;ag|alletai, che è tipico di queste situazioni e già in Omero indica l’andare fiero di un’arma conquistata. In particolare si possono segnalare due casi: Il. XVIII, 132 e XVII, 472, dove Ettore si vanta di portare sulle spalle le armi di Achille. Il paragone con i due luoghi omerici non permette di affermare il carattere dissacratorio di Archiloco: i due passi dell’Iliade in cui ricorre il verbo suddetto sono piuttosto drammatici e non danno adito a interpretazioni specifiche, anzi fanno vedere l’orgoglio dell’eroe che si è impadronito delle armi del nemico e le porta come un trofeo. Quindi tradurre, come è stato fatto da 19 sentano la medesima espressione; particolarmente significativo è il secondo di questi passi, nel quale Patroclo, apparso in sogno ad Achille, dice, fra l’altro, di avere ucciso il figlio di Anfidamante senza volerlo: l’espressione è accompagnata da n|hpioj, stolto. Sembra, dunque, che il gesto di Archiloco sia stato dettato dalle circostanze: lo scudo è stato gettato via, sì, ma perché il soldato non poteva fare diversamente ed è stato costretto a questo gesto da un evento improvviso. Il secondo distico sposta l’attenzione sulla persona del soldato che è riuscito a salvare la vita e si propone di procurarsi di nuovo uno scudo che sia migliore del primo. “Alla riflessione sulla sfortunata fatalità segue la giustificazione oggettiva dell’azione: il poeta ha salvato la propria vita” (Cavallaro). Il poeta sembra prendere le distanze dallo scudo, come dimostra e; ke|inh, ma soprattutto e; rrétw, che col significato ricorrente qui era già presente in vari luoghi dell’Iliade. Tra i passi dell’Iliade i più significativi sono IX, 377 e XX, 349, perché in essi il verbo si trova nella stessa posizione, all’inizio del verso, anche se non si parla di armi: nel primo caso è Achille che inveisce contro Agamennone, mentre nel secondo ancora Achille scaglia la stessa imprecazione contro Enea, che è stato sottratto alla lotta da Poseidone. Quest’ultimo episodio è molto significativo e vale la pena riportarlo per intero (XX, 341-352): alcuni, nel frammento archilocheo con si fa bello oppure con si pavoneggia non sembra possibile, perché tale traduzione dà al testo un tono ironico non giustificato dal modello omerico cui forse Archiloco si ispira. L’arma è stata abbandonata presso un cespuglio, parà q|amnw?, e anche questa espressione ha due precededenti nell’Iliade: XVIII, 677 e XXII, 191. Nel primo caso una similitudine paragona Menelao ad un’aquila che piomba su una lepre sotto un cespuglio ombroso; nel secondo un’altra similitudine paragona Ettore, inseguito da Achille in occasione del duello finale, a un cerbiatto che è inseguito da un cane e cerca rifugio sotto un cespuglio. Entrambi i passi omerici presentano un’immagine nella quale chi si rifugia presso il cespuglio è più debole rispetto all’inseguitore. Questo dato non è di poco conto e potrebbe offrire appigli per l’interpretazione tradizionale del frammento, incentrata sulla vigliaccheria di chi ha gettato via lo scudo per salvare la propria pelle. Ma l’Odissea (V, 476) presenta una situazione diversa circa l’uso e il significato di questa parola: qui non c’è traccia di viltà, perché si tratta di un rifugio nel quale si è infilato Odisseo appena approdato all’isola dei Feaci. Tuttavia l’importanza di questo particolare, cioè lo scudo gettato presso un cespuglio, consiste nel tratto decisamente realistico che fa del frammento il riflesso di un’esperienza che potrebbe anche essersi verificata in quei termini. L’arma non è un’arma qualsiasi, ma viene definita perfetta, ;am|wmhton, epiteto pure esso di derivazione omerica. In Omero questo aggettivo è solitamente riferito ad eroi e il fatto che qui venga collegato ad un’arma è stato interpretato generalmente come una ripresa ironica. Tuttavia in Il. XV, 463 si legge l’espressione t|oxon åmumon (arco perfetto) e l’aggettivo ha lo stesso significato dell’;am|wmhton di Archiloco: sembra pertanto affrettato concludere che il tono di questa affermazione sia ironico e sembra preferibile l’interpretazione di chi vi scorge invece il rimpianto del soldato di mestiere, costretto suo malgrado ad abbandonare l’arma alla quale è affezionato e che rappresenta per lui il mezzo di sostentamento. Essenziale, anche ai fini di un’esatta comprensione del frammento, è o;uk ;eqélwn, senza volere. Anche qui occorre prendere le mosse da alcuni brani omerici (Il. IV, 300 e XXIII, 88) che pre- poi subito sciolse dagli occhi d’Achille la nebbia, prodigiosa; e quello tornò a vederci bene con gli occhi, e disse gemendo al suo cuore magnanimo: “Ahi, gran prodigio questo ch’io non vedo con gli occhi! Ecco l’asta che giace a terra, ma l’uomo non vedo più, a cui l’ho scagliata, avido d’ammazzarlo; davvero Enea caro ai numi immortali fu sempre. Io invece pensavo che si vantasse a vuoto. E vada in malora! Certo, cuore di ritentarmi non avrà più chi con gioia ancora una volta è sfuggito alla morte. Ma su, a capo dei Danai amanti della guerra, tenterò gli altri Teucri affrontandoli”. (trad. Calzecchi Onesti). A proposito di questi versi Di Benedetto ha rilevato che essi presentano una sequenza che si snoda attraverso tre momenti: 1) delusione rispetto a un fatto accaduto; 2) e; rrétw in relazione a una considerazione che svuota l’impatto dell’evento che ha provocato la delusione; 3) proposito 20 di riscatto per il futuro. La considerazione di Di Benedetto sposta l’attenzione sull’ultimo verso del frammento archilocheo, che si chiude con il desiderio di riacquistare un nuovo scudo migliore di quello perduto. Problematica appare, comunque, la traduzione di kt|hsomai: secondo Klinger il verbo ha qui il significato di conquisterò in guerra, mentre Perrotta osserva che tale valore è difficile da attribuire al verbo, perché è inverosimile che Archiloco vada in battaglia senza lo scudo; pertanto l’interpretazione più giusta è forse quella che vede nell’espressione il desiderio di procurarsi un nuovo scudo acquistandolo. Di grande valore è la definizione del nuovo scudo come o;u kak|iw. In età arcaica kak|oj significa vile se riferito a un eroe, oppure può assumere un valore più concreto se riferito a oggetti, come appunto nel nostro caso: assistiamo, pertanto, ad un sottile gioco di equilibri riguardo la definizione dello scudo che accomuna in sé qualità eroiche più appropriate ad un oggetto. Il significato del frammento è quello individuato dagli antichi? è vero che Archiloco in questi versi compie un’autentica rivoluzione contro i principi dell’etica eroica che esaltava l’;aret|h bellica? Ha ragione chi tacciava Archiloco di vigliaccheria? Per rispondere a queste domande occorre collocare i versi in un contesto più ampio. Anzitutto va detto che lo scontro cui il poeta allude appartiene forse alla fase della colonizzazione della Tracia da parte dei Parii durante il VII secolo. La realtà bellica rispecchiata in tale circostanza non è più quella omerica, basata sugli scontri e i duelli tra gli eroi. Se l’eroe omerico deve conquistare la gloria sul campo e la morte diventa la sublimazione suprema delle sue gesta e del suo coraggio, Archiloco riflette una situazione diversa: il soldato della sua epoca è un soldato di ventura che deve combattere per vivere e si guadagna il pane con il mestiere delle armi. Tale gesto più che riferirsi a un’impresa personale di Archiloco è “un atteggiamento condiviso dal suo ambiente” (Rossi). E questo ambiente era l’eteria alla quale Archiloco si rivolgeva facendosi portavoce di nuovi valori. All’origine dell’episodio narrato, che potrebbe essere una sorta di rielaborazione letteraria di un evento magari realmente accaduto, è stato collocato un passo dell’Odissea (XIX, 276280), nel quale Odisseo racconta un fatto inventato per nascondere la sua identità. Nel lungo colloquio con Eumeo a un certo punto Odisseo dice: subito dal capo l’elmetto ben fatto mi tolsi, e dalle spalle lo scudo, gettai l’asta via dalla mano: poi corsi così davanti ai cavalli del re, e gli afferrai e baciai le ginocchia: lui mi salvò, fu pietoso, sul cocchio mi fece sedere, e mi portò al suo palazzo, piangente. (trad. Calzecchi Onesti). Questi versi possono costituire un modello, ma solo dal punto di vista espressivo e confermano l’esistenza di tradizioni narrative che offrivano spunti di meditazione per la comunità. Ma le somiglianze con il testo di Omero finiscono qui: e se da un lato la narrazione è completamente fittizia, dall’altro non c’è nulla di inverosimile, perché l’episodio narrato da Archiloco presenta caratteri realistici e si inserisce con una certa coerenza nel quadro sopra descritto della vita dei soldati mercenari. Credo pertanto che il frammento possa venire inteso come il tentativo di ammantare di una veste letteraria, mediante la ripresa di un passo dell’Odissea, un fatto che si presenta con connotati reali. Archiloco appartiene al movimentato periodo della grande colonizzazione, a un periodo che metteva in discussione la posizione e i concetti sociali dell’aristocrazia. Egli però è talmente all’opposizione, nei confronti dei valori tradizionali, da oltrepassare di gran lunga tutta la problematica del suo tempo, e ciò dipende dalla sua origine. Archiloco era un bastardo. Suo padre si chiamava Telesicle, come il famoso antenato che aveva colonizzato Taso; ma sua madre, come racconta egli stesso, era una schiava e si chiamava Enipo... Quel che per un ceto aristocratico era una tradizione incrollabilmente solida, stimolava la sua opposizione...Il colpo più duro contro le idee cavalleresche, che aveva imparato dai signori dell’Eubea (3 D.), fu sferrato da Archiloco nella poesia (6 D.) in cui dice con la massima disinvoltura di aver perso lo scudo. A. Lesky, Storia della letteratura greca, I, pp. 155-56 21 Archiloco: Il buon generale Fr. 114W. Anche questo frammento sembra proporci l’immagine di un Archiloco dissacratore dei valori più genuini dell’epica. Al combattente esteticamente bello si contrappone quello anche brutto a vedersi, ma pieno di coraggio e ben saldo sulle gambe. Il frammento presenta una struttura perfettamente bipartita: i primi due versi descrivono il ritratto in negativo del comandante bello; gli altri due contrappongono l’altra figura, quella del comandante non bello da vedere ma coraggioso e forte. Sicuramente in questi versi il poeta non mette in discussione la virtù militare; vuole invece sottolineare il contrasto fra l’apparenza e la realtà attraverso la descrizione del modo di porsi del generale tronfio e fiero del suo portamento e il coraggio che può essere anche in un generale brutto a vedersi. Metro: tetrametri trocaici catalettici. O;u filéw mégan strathgòn o;udè diapepligménon o;udè bostr|ucoisi ga^uron o;ud’ :upexurhménon, ;all|a moi smikr|oj tij e#ih kaì perì kn|hmaj ;ide^in :roik|oj, ;asfaléwj bebhk\wj poss|i, kard|ihj pléwj. 1-2. O;u filéw... :upexurhménon: “non amo un comandante grande né che sta a gambe larghe né fiero dei riccioli né ben rasato”. mégan: generalmente l’eroe omerico è di alta statura, ma qui tale qualità viene rigettata dall’io parlante. diapepligménon: discussa l’interpretazione del verbo (da diapl|issomai). Secondo alcuni indica l’atto di procedere a grandi passi, secondo altri l’atto di stare a gambe divaricate. Poiché si tratta di un perfetto con valore resultativo è più probabile la seconda ipotesi. :upexurhménon: participio perfetto medio di :upoxuréw, che significa “radere” ed è impiegato qui per la prima volta. Radersi era considerato all’epoca di Archiloco e fino all’età ellenistica un segno di effeminatezza; il verbo va inteso forse nel senso che il generale si prendeva cura della propria barba senza lasciarla incolta. 3-4. ;all|a moi... pléwj: “ma per me sia pure uno piccolo e con le gambe storte a vedersi, ma salda- mente piantato sui piedi, pieno di coraggio”. La seconda parte del frammento ha inizio con la forte contrapposizione del dativo etico moi. L’aggettivo :roik|oj, collocato in forte enjambement, secondo Galeno, che cita i versi, indica una caratteristica molto particolare: chi ha le gambe storte è più saldo di chi le ha diritte. bebhk|wj: participio perfetto di ba|inw, con valore resultativo. kard|ihj (ionismo, come poss|i): è il cuore inteso come sede del coraggio. Eroismo e bellezza Anche questo frammento è stato tradizionalmente interpretato come una voluta contrapposizione all’ideale dell’eroe omerico. Così scrive Giorgio Pasquali: “in Omero, tra i personaggi mortali, di brutti ce n’è uno solo, e non è valoroso, è Tersite. Archiloco si è liberato anche del culto omerico per l’eroe bello dall’eleganza impeccabile”. In realtà anche nei poemi omerici siamo di fronte ad una situazione non omogenea e alcuni tratti degli eroi ci presentano figure non sempre rispondenti a uno stesso cliché. è vero che Tersite rappresenta l’unico personaggio brutto e l’unica figura caricaturale, ma il quadro si presenta abbastanza articolato. In Il. III, 192, Odisseo appare più basso di Agamennone e Tideo (Il. V, 801) è piccolo di statura. Un altro caso emblematico è quello di Paride: bello ma bellimbusto e maledetto, come lo apostrofa il fratello Ettore. Tuttavia l’affermazione di Archiloco documenta, attraverso la voce dell’io parlante, un nuovo metro di giudizio: la virtù risiede non nell’aspetto fisico, ma nel coraggio. è stata avanzata l’ipotesi che questo comandante sia una figura realmente esistita, un capitano conosciuto da Archiloco, ma tale ipotesi non è dimostrabile, anche perché l’io parlante più che con lo stesso Archiloco va identificato con la comunità della quale il poeta interpreta sensazioni ed opinioni. 22 Alceo: La contesa dei venti Fr. 208 V. Dalla lettura dei frammenti di Alceo emerge la figura di un grande poeta che ebbe larga parte nelle vicende politiche della sua terra: sappiamo che si impegnò a lungo contro i tiranni dell’ isola e i suoi canti esprimono l’odio per gli avversari o il dolore per l’esilio. Questo frammento è uno dei più famosi tra quelli di Alceo che ci sono conservati. La testimonianza di Eraclito (un retore forse del I secolo d. C., cui dobbiamo questi versi) ci informa che si tratta di un carme allegorico delle vicende politiche di Mitilene; dalla stessa fonte sappiamo pure che qui si parla di Mirsilo e della rivolta scoppiata a Mitilene sfociata nella tirannide. Alcuni hanno negato che si tratti di un’allegoria, ma a torto: la nave e la tempesta nella poesia antica sono un luogo comune per indicare le lotte politiche (un caso famosissimo è quello dell’ode I, 14 di Orazio, che quasi certamente aveva in mente questo carme di Alceo). Il frammento ci è giunto mutilo: riportiamo i primi nove versi. Metro: strofe alcaiche. ; Asunnéthmmi t^wn ;anémwn st|asin, tò mèn gàr 1nqen k^uma kul|indetai, tò d’ 1nqen, åmmej d’ 3n tò mésson n^aï for|hmeqa s\un mela|in* 1-3. ; Asunnéthmmi... tò d’ 1nqen: “non comprendo la contesa dei venti: un’onda infatti si rivolta da una parte, una dall’altra”. ;asunnéthmmi: forma atematica di ;asunetéw. Il verbo è di uso molto raro. st|asin: piuttosto discussa è l’interpretazione, anche perché il termine è volutamente ambiguo, potendo significare “quiete”, “condizione”, “direzione”, “fazione”, “contesa”, “discordia”. Qui si gioca appunto tra il significato di “dire- zione del vento” e quello di “discordia”. è il primo elemento che ci conduce all’interno dell’allegoria, ma con la traduzione si perde tutta la carica che al termine greco deriva dalla sua ricca polisemia. Tò mèn... tò dé: correlazione. L’espressione k^uma kul|indetai ricorda un passo di Omero in cui gli Achei vengono paragonati a venti che soffiano da ogni direzione e si abbattono su un promontorio. Le due onde indicano allegoricamente i due schieramenti, quello di Mirsilo e quello di Pittaco, che minacciano Alceo. Il termine k^uma, più che le armate, indica “masse di cittadini pronte ad agire contro quelli che erano ritenuti dei pericolosi eversori” (Vetta). 3-5. åmmej... m|ala: “noi in mezzo fiaccati da una grande tempesta siamo trasportati da una nave nera”. åmmej: corrisponde all’att. :hme^ij. Incerta è l’interpretazione di 3n tò mésson, che può valere Le lotte politiche a Mitilene Al tempo di Alceo Mitilene era dilaniata dalle lotte fra fazioni avversarie e le vicende della città furono molto travagliate. Dopo la tirannide di Melancro e di Mirsilo, entrambi contrastati dai ghene aristocratici della città, seguì una fase di lotte fra le varie fazioni, finché Pittaco venne scelto per riportare la pace nella comunità. Pittaco era membro della consorteria nobiliare alla quale apparteneva anche Alceo, anche se su posizioni più moderate. Il governo di Pittaco durò dieci anni, durante i quali egli pacificò la città facendo ritornare gli esuli. Alceo prese parte attiva alle vicende politiche della sua terra e la sua poesia riflette le esperienze da lui compiute all’interno della cerchia dell’eteria. Secondo Eraclito, come abbiamo accennato, questi versi alludono a Mirsilo, ma l’esatto contesto ci sfugge. Si può supporre che si alluda al ritorno di Mirsilo dall’esilio, ritorno che forse fu favorito da Pittaco, e che i due flutti rappresentino l’uno Mirsilo e l’altro Pittaco. Comunque stiano le cose, si tratta di un evento che sconvolse la vita del poeta e che disorientò fortemente il gruppo cui apparteneva. Tutto il carme si sviluppa tenendo presenti i due piani, quello realistico e quello allegorico: il primo rimanda alla tempesta; il secondo alla situazione politica e ai travagli che la consorteria deve subire. Il pronome åmmej non va inteso come “noi abitanti della città”, ma come “noi appartenenti alla consorteria”. 23 5 ce|imwni m|ocqentej meg|al§ m|ala< pèr mèn gàr åntloj ;istopédan 1cei, la^ifoj dè pàn z|adhlon 2dh, kaì l|akidej mégalai kàt’ a%uto, c|alaisi d’ ågkulai, <tà d’ ;o|hïa> “nel mezzo della tempesta”, ma anche “verso il largo”, “in alto mare”; ma l’allegoria della tempesta suggerisce piuttosto la prima ipotesi. n^aï mela|in*: (att. nhì mela|in+) è un nesso epico che può indicare sia la città che l’eteria alla quale apparteneva Alceo. for|hmeqa: è la I pers. plur. dell’ind. pres. medio di f|orhmmi, forma atematica di foréw, frequentativo di férw. ce|imwni m|ocqentej: il verbo (da m|ocqhmi) significa “patire con angoscia” e tutta quanta l’espressione dà il senso della soffe- renza che deriva dalle lotte politiche. Da notare l’allitterazione. ce|imwni: baritonesi. 6-9. pèr mén... tà d’ ;o|hïa: “infatti l’acqua della sentina supera la base dell’albero, la vela ormai è squarciata e larghi squarci sono in essa, e cedono le sartie, e i timoni”. pér: apocope di per|i; tmesi con 1cei. #antloj: è la sentina e anche l’acqua che essa contiene. ;istopédan: altro termine tipico del linguaggio marinaresco; indica la base dell’albero della nave, mentre la^ifoj è la vela, la quale, logora e disfatta, rimanda allegoricamente alle vicende tempestose di Mitilene. Il vocabolo era già presente in Omero e indicava la veste logora e cenciosa (nell’Odissea è la veste cenciosa con cui Atena copre Odisseo, contribuendo a nascondere così la sua identità). l|akidej mégalai: (baritonesi) si insiste sulla condizione della vela, nella quale si aprono ampi squarci. c|alaisi: 3 persona plurale dell’indicativo di cal|aw. ågkulai: è correzione di Unger in luogo del tradito ågkurai. Un paragone ricorrente Nelle letterature classiche la nave è spesso impiegata come simbolo dello Stato e delle tempeste che lo agitano. Una delle più antiche attestazioni di questo uso è in Teognide (vv. 667-682): Se io avessi, o Simonide, le ricchezze che avevo un giorno non mi cruccerei quando sono in compagnia dei nobili. Ma ora la fortuna mi passa oltre: io me ne avvedo, ma resto senza voce per il bisogno, ché intendo fin troppo bene che abbiamo ammainato le vele candide e nella notte buia siamo trascinati lungi dalle acque di Melo. E rifiutano di vuotare la sentina anche se l’acqua sormonta entrambe le fiancate. Ah, difficile che qualcuno si salvi, visto come si comportano! Hanno destituito un pilota valente, che vegliava con perizia. Arraffano le ricchezze con la violenza, l’ordine è scomparso e non c’è più equa divisione in comune. Comandano i facchini e i vili hanno la meglio sui valenti. Ho paura che l’onda inghiottirà la nave. (trad. Ferrari). Anche nella tragedia questa immagine ricorre con frequenza. Già nei Sette contro Tebe di Eschilo ai vv. 1-3 si legge: Cittadini di Cadmo, bisogna che dica cose opportune colui che presiede al governo, reggendo il timone a poppa della nave, senza chiudere le palpebre nel sonno. E più avanti (vv. 758-761): Come un mare di mali sospinge l’onda: un’onda piomba, l’altra solleva la triplice cresta, che rumoreggia intorno alla prua della città. Nello stesso senso l’immagine compare in Platone (ad es. in Rep. 488 a ss.). Anche in testi storiografici ricompare l’uso dell’immagine della nave. Ad esempio Polibio (VI, 44, 3-7) paragona il comportamento del popolo ateniese a quello delle navi senza comandante. Lo stesso fenomeno si verifica a Roma, nella cui letteratura è celebre soprattutto il carme I 14 di Orazio. 24 Il simposio La poesia legata al simposio costituisce una delle realtà più importanti della lirica arcaica. La riunione simposiale era un momento fondamentale in cui il gruppo si dedicava al bere, ma anche ai progetti politico-militari, all'amore, alla trasmissione dei valori fondanti della comunità e anche all'ascolto della poesia, il mezzo di espressione per eccellenza. Già nei poemi omerici sono presenti situazioni tipiche della riunione simposiale: nell'Odissea Femio e Demodoco sono gli aedi che ravvivano con il loro canto la riunione nel mégaron. Veri simposi furono praticati anche nella Sparta arcaica, ma già in precedenza poeti della Ionia avevano affidato ad elegie recitate nei simposi esortazioni alla guerra. Il rapporto fra simposio e vita militare è assai complesso. Un noto frammento di Archiloco ci offre il quadro di una veglia trascorsa forse fra i banchi di una nave: anche questa era evidentemente un'occasione simposiale. A Megara fu presente un particolare tipo di simposio, nel quale l'eteria aristocratica di Teognide trovava il mezzo per trasmettere comportamenti e regole di vita valide per tutti i componenti. L’elegia del simposio teognideo presenta anche un'altra caratteristica peculiare: quella degli enunciati a catena, consistente nel fatto che ogni partecipante al banchetto doveva cantare versi di altri autori adattandoli al nuovo contesto. Questo era il mezzo con cui l'eteria conservava un patrimonio poetico a lei particolarmente vicino e congeniale. Il simposio di ambiente lesbio tra la fine del VII e l'inizio del VI secolo ci è noto da Alceo. I carmi di Alceo contengono inviti a ubriacarsi per festeggiare la morte dell'odiato tiranno, rappresentazioni del paesaggio, inviti a evadere dalle preoccupazioni del presente. I partecipanti al simposio alcaico sono legati dall'appartenenza allo stesso ambiente e dal giuramento politico. Completamente diverso è l'ambiente in cui vive un altro poeta: Anacreonte. Dopoché si imposero i tiranni, i quali contribuirono considerevolmente all'attività culturale, nacque un diverso rapporto fra poeti e destinatari: Anacreonte rappresenta il modello di poeta-cortigiano, rispettato e tenuto in grandissima considerazione. Alle corti tiranniche cambia anche il simposio e si sente l'esigenza di ridisegnare i caratteri di esso: scompare la poesia che parla di armi e di guerra e viene sostituita da una poesia in cui l'amore ha un largo spazio. Ma la lirica di Anacreonte contiene anche allusioni ai riti del simposio, ai suoi precetti. A poco a poco si delinea la tendenza a lasciare spazio all'immaginario del simposio, “un complesso di immagini e motivi ormai divenuti tradizionali, che vengono ripetuti indipendentemente dall'effettivo svolgimento delle operazioni che vi sono descritte” (Michelazzo-Pieri). Anche la tematica politica, che larga parte aveva avuto nell'opera di Alceo e degli elegiaci, tende a farsi meno frequente. 31 Archiloco: Simposio sulla nave Fr. 4 W. Questo frammento è citato da Ateneo e trasmesso anche da un papiro, il quale contiene qualche resto di versi precedenti a questi, ma mutili. La scena rappresenta un improvvisato simposio sulla nave. Alcuni soldati sono di guardia e si invita il coppiere ad attingere il vino dagli orci e a versarlo perché il turno sia meno duro. Il contenuto del frammento non risponde al codice di comportamento dell’epica, anche se la terminologia è molto influenzata da Omero. Metro: distici elegiaci. ; All’ åge s\un k|wqwni qo^hj dià sélmata nhòj fo|ita kaì ko|ilwn p|wmat’ åfelke k|adwn, 1-2. ; All’ åge... k|adwn: “Suvvia attraverso i banchi della nave veloce con la coppa corri e strappa i coperchi degli orci capaci”. ;all’ åge: è un modulo esortativo. s\un k|wqwni: che cosa sia il k|wqwn lo sappiamo da Ateneo, il quale cita il frammento proprio in una discussione relativa a questo oggetto e dice: “a Sparta durante le feste, nelle cerimonie per le vittorie e nelle nozze delle ragazze si beve da coppe di terracotta; negli altri simposi e nei pasti in comune nelle botti. Il k|wqwn è un recipiente per bere spartano; lo ricorda anche Archiloco nelle Elegie come un bicchiere”. qo^hj nh|oj: si tratta di una formula molto ricorrente in Omero e anche qui adoperata per indicare la nave non in movimento. dià sélmata: sono i banchi dei rema- tori della nave; il termine è sconosciuto a Omero. Secondo G. Monaco sélmata indica anche la coperta della nave o lo spazio praticabile da poppa a prua tra le file dei rematori; pertanto l’ordine rivolto all’uomo sarebbe quello di attraversare tutto il ponte da un capo all’altro per andare a prendere il vino. fo|ita: imperativo di foit|aw. L’espressione richiama Od. XII, 420 (;eg\w dià nhòj ;efo|itwn, io andavo su e giù per la nave), ma il contesto omerico è completamente differente: Odisseo è in lotta con una tempesta sul mare e la sua nave è sballottata qua e là dalle onde. p|wmata: erano i tappi di sughero che chiudevano le anfore e gli orci. ko|ilwn k|adwn: l’aggettivo ko|iloj è un epiteto che in Omero viene riferito solitamente alle navi; il k|adoj era un recipiente di argilla per il vino e altri liquidi. åfelke: imperativo; il verbo, come il successivo ågrei, è in genere impiegato in atti di violenza e rimanda a scontri armati: il primo indica atti di violenza contro persone, mentre il secondo è impiegato per definire atti di conquista di città. Il fatto che Archiloco utilizzi verbi che connotano un’azione impetuosa dimostra che forse è sua intenzione generare nell’uditorio l’idea di una fusione fra l’azione del combattimento violento e il momento di riposo durante il simposio: poiché si tratta di un attimo di breve pausa, il soldato ha sempre in mente il combattimento, lo scontro armato e anche in quei momenti di riposo il pensiero della guerra lo sovrasta sempre. Un simposio “fuori norma” Il frammento rappresenta un improvvisato simposio, ma i particolari rimangono oscuri. Tuttavia in questi versi è molto significativo l’impiego di termini e espressioni estranee al linguaggio dell’epica, ma inserite in un tessuto linguistico tradizionale. Ne deriva un quadro molto particolare che contribuisce a rappresentare una situazione nella quale alcuni elementi sono tipici della riunione simposiale, altri rimandano a un contesto che sembra in contrasto con essa. La tipicità del banchetto è data dalla presenza degli ospiti, dall’invito rivolto a un giovane compagno a versare il vino, dall’uso di termini specifici (k|wqwn, trug|oj, n|hfw). L’invito al coppiere ricalca moduli espressivi che saranno tipici di Alceo e Anacreonte. Non siamo però in una sala, bensì su una nave, i convitati non sono amici in un momento di gioia spensierata, ma soldati che stanno effettuando il loro turno di guardia. Il senso generale del frammento oscilla fra due interpretazioni: da una parte c’è chi ritiene che questi versi riproducano la vita del soldato, dura e piena di sacrifici, dall’altra chi ritiene che essi intendano richiamare l’atmosfera del simposio all’interno della congiuntura costituita dal turno di guardia dei soldati. Ma affermare, come pure è stato fatto, che qui il poeta voglia compiere un’opera di dissacrazione del tema del pasto eroico, sottolineando gli aspetti crudi e non eroici della guerra, è operazione assai rischiosa, anche perché non sappiamo in quale contesto questi versi fossero inseriti. 32 ågrei d’ oônon ;eruqròn ;apò trug|oj< o;udè gàr :hme^ij nhfémen ;en fulakØ tØde dunhs|omeqa. 3-4. ågrei.. dunhs|omeqa: “attingi vino rosso dalla feccia: infatti noi non riusciremo a essere sobri durante questa veglia”. o%inon ;eruqr|on: anche questo sintagma deriva da Omero e si trova sempre in clausola d’esametro. Ma in Archiloco l’aggettivo acquista un valore più ricco che in Omero, in quanto si connette col sapore forte e indica che si tratta di un vino da soldati, un vino che “fa quasi pregustare il calore che verrà alle membra” (Monaco). Il vino va attinto ;apò trugòj (dalla feccia), ma il significato dell’espressione non è molto chiaro: c’è chi intende “sino al fondo”, chi invece ipotizza che il sintagma voglia indicare l’atto di sottrarre il vino alla feccia che lo intorbida. nhfémen: infinito con desinenza epica (att. n|hfein). Alceo: Brindisi per la morte del tiranno L’ultimo verso del frammento indica chiaramente la situazione dell’episodio: è un turno di guardia, duro e massacrante, durante il quale occorre bere non tanto per ubriacarsi, quanto perché è impossibile passare l’intero turno di guardia senza il conforto del vino. dunhs|omeqa: fut. di d|unamai. Fr. 332 V. Questi versi, citati da Ateneo per dimostrare che il poeta beve in ogni stagione, sono la testimonianza più precisa che il simposio era il momento nel quale ci si poteva dare alle manifestazioni di gioia più sfrenata in occasione di eventi i più disparati: i fatti politici rientravano in questo caso. L’invito a bere può diventare un grido di gioia per la morte di un acerrimo nemico, come in questo caso, nel quale Alceo invita a ubriacarsi per la morte dell’odiato Mirsilo. Molto probabilmente il frammento costituisce l’inizio del carme, come dimostra l’imitazione di Orazio (Carm. I,37 Nunc est bibendum). Metro: endecasillabi alcaici. N^un cr^h meq|usqhn ka|i tina pròj b|ian p|wnhn, ;epeì d\h k|atqane M|ursiloj. 1-2. N^un... M|ursiloj: “Ora bisogna ubriacarsi e bisogna che ciascuno beva a forza, poiché è morto Mirsilo”. N^un: come il nunc oraziano si riferisce all’occasione in cui la compagnia deve festeggiare: la morte dell’odiato nemico. Meq|usqhn: infinito aoristo passivo di meq|uskw, causativo di meq|uw. Le regole del convivio sono stravolte: occorre ubriacarsi data l’eccezionalità dell’evento. Tina: è soggetto di p|wnhn, a sua volta infinito lesbico corrispondente all’attico p|inein; da notare l’enjambement. pròj b|ian: può essere inteso “a forza”, “con tutte le proprie forze”; ma è stato anche inteso nel senso di “contro- voglia”. e; pe|i: ha valore causale e riprende efficacemente il n^un iniziale. k|atqane: attico katéqane, con apocope della preposizione. M|ursiloj: la posizione del nome dell’odiato nemico alla fine del verso lo mette in particolare risalto. Il nome non è greco, ma sembra un prestito dal lidio. Efficacia espressiva Il frammento ha una costruzione molto ben studiata e articolata. Inizia con un’espressione rivolta a tutti i partecipanti al simposio: l’aoristo meq|usqhn indica la puntualità dell’azione e ad esso segue il presente p|wnhn, con cui si esprime, invece, l’atto del bere in forma durativa. La ragione dell’esplosione di gioia è detta nel secondo verso: la morte di Mirsilo. Si tratta dunque di un climax, che inizia con il cr^h e, passando attraverso i verbi indicanti l’atto del bere, si conclude con il nome dell’avversario. L’invito a bere non è convenzionale e letterario, come avverrà nella famosa ripresa oraziana di questo carme in occasione della morte di Cleopatra, ma concrto e vivace. La morte del nemico è vista con un senso di liberazione. Alcuni studiosi hanno messo in risalto il cinismo di questi versi, ma tale atteggiamento rientrava nella mentalità dei gruppi come quelli cui apparteneva Alceo: il compatimento per i morti non rientrava certo nelle idee e nella condotta di tali gruppi. Anche in altri autori rinveniamo l’eco di questo comportamento: Teognide immagina di poter bere il sangue dei nemici; Simonide afferma che agli Ateniesi venne grande luce quando morì Ipparco per mano di Armodio e Aristogitone. 33 Alceo: Simposio d’inverno Fr. 338 V. Si tratta di uno dei più noti frammenti alcaici, che ha conosciuto un’altrettanto nota imitazione di Orazio (Carm. I, 9, 1-8). Il tempo fuori è brutto: non c’è niente di meglio che starsene davanti al fuoco a riscaldarsi e a bere del buon vino. La descrizione del quadro invernale è realistica e riflette una situazione tipica: mentre fuori imperversa la pioggia (la neve in Orazio) gli amici stanno nella sala dove si consuma il banchetto. Gli inviti rivolti all’interlocutore sono vari: oltre ad occuparsi del banchetto, il coppiere deve anche alimentare il fuoco e porre della morbida lana attorno al collo del poeta stesso. “L’accordo tra realtà e contenuto del canto, in cui entrano in gioco non solo i fatti che si stanno svolgendo nella sala degli uomini, ma, quale elemento di contrasto, anche l’inclemenza che nello stesso momento domina all’esterno, si prestava a esercitare sugli hetairoi quell’armoniosa disposizione nei confronti dell’imminente simposio che era specifico compito di tali carmi conviviali produrre” (Ro}sler). Metro: strofe alcaica. # Uei mèn ;o Ze^uj, ;ek d’ ;or|anw mégaj ce|imwn, pep|agaisin d’ ;ud|atwn ;r|oai < 1nqen > < > 5 k|abballe tòn ce|imwn’, ;epì mèn t|iqeij 1-3. # Uei.. 1nqen: “Piove, e giù dal cielo una grande tempesta, e sono ghiacciati i corsi d’acqua... <di là>..”. Dopo i primi due versi si apre una lacuna, in cui si legge 1nqen, restituito da un papiro. Il verbo che apre il quadretto, 5ei, ha come soggetto Ze^uj, ritenuto causa dei fenomeni atmosferici. Il tempo presente del verbo (aspetto durativo) fa capire che si tratta di una pioggia di lunga durata. La presenza dell’articolo davanti a Ze^uj (perispomeno nella lingua di Lesbo) pare sia di origine del linguaggio familiare o proverbiale. ;ek ;or|anw (= o;urano^u) mégaj ce|imwn: frase nominale il cui soggetto è evidenziato da un forte enjambement. In ce|imwn va notata anche la baritonesi (att. ceim|wn). pep|agaisin: perf. con valore resultativo di p|hgnumi (att. pep|hgasin); il significato del verbo forma quasi un ossimoro con il soggetto ;r|oai. ;ud|atwn: sono tutti i corsi d’acqua e non soltanto i fiumi; Orazio ha reso con flumina la più generale espressione di Alceo. Dopo i primi due versi si apre una lacuna, la cui estensione non dovrebbe superare i due versi, come si può arguire anche dal confronto con Orazio. Il papiro Bouriant ha restituito 1nqen; è tuttavia impossibile immaginare il contenuto dei versi mancanti, anche se qualche studioso, sulla base dell’imitazione oraziana, ritiene che in essi si trovassero altri particolari che segnalano il passaggio dall’ambiente esterno a quello interno dove si svolge il simposio. 5-8. k|abballe.. gn|ofallon: “abbatti l’inverno, aggiungendo fuoco, e mescendo in abbondanza Impressionismo Il frammento è riportato da Ateneo per dimostrare che Alceo beve in ogni stagione, compreso l’inverno. La scena descritta è divisa in due parti. La prima rappresenta la stagione invernale e sottolinea alcuni elementi tipici di essa: la pioggia, il freddo, i corsi d’acqua ghiacciati (francamente è pedanteria dire che la pioggia esclude il gelo); la seconda l’interno della sala dove si svolge il banchetto. Il richiamo al freddo e alla stagione invernale ha lo scopo di “legittimare il simposio già iniziato” (Rösler), come sottolineato anche dall’invito al coppiere a versare il vino. Altri ordini rivolti al coppiere sono di attizzare il fuoco e di porre morbida lana intorno alla testa: sono inviti collegati al freddo e alla stagione. Caratteristico del frammento è il periodare paratattico, costituito da frasi brevissime, in un caso con l’ellissi del verbo e con cambi continui di soggetto. Alcuni critici hanno notato in questi versi un carattere impressionistico al quale si aggiunge una serie di immagini staccate fra loro e violentemente spezzate. 34 p^ur, ;en dè kérnaij oônon ;afeidéwj mélicron, a;utàr ;amfì k|ors* m|olqakon ;amfi< >gn|ofallon. vino dolce come il miele, e poi intorno alle tempie (cingi) morbida lana”. k|abballe: att. kat|aballe, con apocope e assimilazione. Il significato del verbo è molto forte e indica quasi un atto violento: in Omero il verbo indica l’abbattimento di oggetti (palazzi, mura nemiche, ecc.); nel nostro caso suggerisce l’idea di una lotta furibonda che si deve ingaggiare con il freddo. Meno forte la resa oraziana: dissolve frigus. Da notare poi che l’imperativo indica un invito rivolto non a tutti i compagni, bensì a colui che forse aveva le mansioni di coppiere. Tòn ce|imwna: l’articolo potrebbe avere anche il valore dimostrativo “questo”. ;ep|i.. t|iqeij: tmesi (;epitiqe|ij). Il verbo indica l’atto di alimentare il fuoco aggiungendovi la legna. ;en... kérnaij: altra tmesi, participio da kérnaimi (att. ker|annumi). Il verbo indica l’atto di mescolare l’acqua e il vino nell’apposito recipiente e pertanto l’invito è a fare una miscela in cui il vino sia più abbondante del solito. mélicron: collocato in enjambement (come il precedente p^ur), l’aggettivo è attestato qui per la prima volta. Quanto al significato c’è oscillazione fra l’interpretazione “dolce come il miele” e l’altra “mescolato a miele”, “mielato”. k|orsa?: att. k|orr+, è la tempia, ma per sineddoche potrebbe anche indicare la testa. ;amfi< >: la lacuna è integrata in vario modo, ;amfitiqe|ij, ;amfibal|wn, ;amfit|iqei, ;amf|ibale. Il significato complessivo non cambia: si tratta di verbi che indicano tutti l’atto del mettere qualcosa intorno (alla tempia). gn|ofallon: si tratta di un manufatto di lana, morbido (m|olqakon), una fascia o una sciarpa. Alceo e Orazio Risonanze del carme di Alceo sono chiare in alcuni celebri versi di Orazio. Vides ut alta stet nive candidum Soracte nec iam sustineant onus Silvae laborantes geluque Flumina constiterint acuto. Dissolve frigus ligna super foco Large reponens atque benignius Deprime quadrimum Sabina, O Taliarche merum diota. Il carme contiene un esplicito invito a bere e a vivere. Nell’ode di Orazio si nota una stretta somiglianza con il frammento di Alceo nelle prime due strofe. Poiché non possediamo il resto dell’ode di Alceo, non sappiamo quanto Orazio se ne sia distaccato. In genere si ritiene che le strofe 3-6 del carme del poeta latino si discostino molto dall’originale greco per diversi motivi. Anzitutto perché Orazio ama prendere uno spunto da Alceo limitatamente ai primi versi, ma poi procede per conto proprio. Inoltre, per quanto riguarda il carme di cui stiamo parlando, la scena descritta nelle ultime due strofe è ambientata sicuramente a Roma: vi si parla del Campus, che non può essere altro che il Campo Marzio. Infine è stato detto che la coloritura epicurea con l’invito che Orazio rivolge all’amico Taliarco a godere del presente e a non cercare che cosa accadrà in futuro “ci fa sicuri che l’allusiva imitazione era limitata alle prime due o al massimo tre strofe” (Degani-Burzacchini). Mentre i primi due argomenti sono inoppugnabili, qualche incertezza rimane per il terzo. Che l’invito a cogliere l’attimo fuggente abbia in Orazio una coloritura epicurea è vero, ma ciò non toglie che nei versi a noi non pervenuti anche Alceo abbia invitato i suoi compagni presenti al banchetto a vivere intensamente il presente e a non porsi domande sul domani, coerentemente con quanto scrive in altri frammenti. Se questa ipotesi coglie nel segno, l’invito a bere andrebbe inteso come un invito a cogliere l’attimo fuggente. 35 Alceo: Il vino, dono degli dei Fr. 346 V. Colpisce in questo frammento il momento in cui è celebrato il simposio: prima del tramonto; inoltre la miscela del vino: forte. Il peripatetico Cameleonte (IV-III sec. a. C.) afferma che in questi versi Alceo suggerisce di non bere più di una o due misure di vino alla volta; il grammatico Seleuco (I sec. d. C) che qui si allude all’abitudine di mescolare il vino con l’acqua. Ateneo, che è la fonte del frammento, riporta entrambe queste interpretazioni. Ad esse va aggiunta la notizia di Plutarco, secondo il quale la mistura indicata qui è tale da provocare una “mezza ubriacatura”. Che il simposio sia anticipato rispetto all’ora abituale indica un’occasione speciale, come sottolinea anche l’invocazione a Dioniso. è chiaro, tuttavia, che in questi versi l’invito a bere si collega con la constatazione che la vita umana è piena d’affanni e di preoccupazioni e che il dio Dioniso ha dato ai mortali il vino come mezzo per dimenticarle. Nei versi leggiamo una serie di inviti rivolti al coppiere e agli amici, che ci riportano alla sfera del simposio e vanno dal beviamo iniziale ad altri indirizzati più propriamente al coppiere ( prendi le coppe, versa mescolando). Metro: asclepiadei maggiori. 5 P|wnwmen< t|i tà l|ucn’ ;omm|enomen> d|aktuloj ;améra< k\ad d’ åerre kul|icnaij meg|alaij, åïta, poik|ilaij< oônon gàr Semélaj kaì D|ioj uôoj laqik|adea ;anqr|wpoisin 1dwk’. 1gcee kérnaij 1na kaì d|uo pl|haij kàk kef|alaj, < ;a > d’ ;atéra tàn ;atéran k|ulix ;wq|htw. 1-2. P|wnwmen... poik|ilaij: “Beviamo: perché attendere le fiaccole? Il giorno è un dito; prendi le grandi coppe variopinte, ragazzo”. p|wnwmen : congiuntivo esortativo; l’invito a bere si rivolge a tutti i compagni che prendono parte al ban; mménomen (att. chetto. tà l|ucn’ o a ; naménomen): il simposio iniziava solitamente dopo il tramonto, quando si accendevano i lumi. d|aktuloj a ; méra: frase nominale. Il d|aktuloj è un’unità di misura minima, circa 1, 85 cm, ma non è chiaro se a ; méra indichi propriamente il giorno oppure abbia il valore metaforico di “vita”. Nel secondo caso il frammento assumerebbe il significato di una esortazione al bere per godere gli attimi fuggenti dell’esistenza, considerata la sua brevità (come in genere succede nelle Odi di Orazio che collegano le due tematiche). Per alcuni l’espressione deriva dalla celebre formula omerica r : odod|aktuloj ; H|wj, con la quale Alceo intende suggerire che la luce del giorno è di breve durata, con espressione probabilmente familiare ai convitati. L’intero primo verso ha una struttura esattamente tripartita: a un primo membro a carattere esortativo seguono una domanda e un’affermazione a carattere generale. Anche qui Alceo mostra la predilezione per le espressioni brevi, incisive, spezzate. k|ad’ åerre: equivale a k|ataire dé e presenta tmesi, apocope e assimilazione. Il verbo indica l’atto del prendere le coppe e “portarle giù” dal posto dove si trovano. kul|icnaij meg|alaij... poik|ilaij: accusativo plurale. Sono le grandi coppe decorate e in questo caso l’aggettivo non è esornativo, ma indica proprio una qualità dell’oggetto. åïta: vocativo di a ; ï| taj, parola di origine tessalica che indica il ragazzo amato; qui forse semplicemente il ragazzo addetto a servire il vino. 3-4. oônon... 1dwke: “infatti il vino lo donò ai mortali il figlio di Semele e di Zeus come mezzo per dimenticare gli affanni”. Il v. 3 si apre con il sostantivo “vino” e si chiude con l’epiteto di origine epica laqikadéa (nell’Iliade l’aggettivo è riferito alla mammella), qui impiega- 36 to con valore predicativo e attivo, in una costruzione circolare che racchiude al suo interno il nome del dio dispensatore di questo dono agli uomini. Il dio Dioniso è qui chiamato “figlio di Semele e di Zeus” e con tale formula solenne si indica il benefattore dell’umanità. ;anqr|wpoisin: dativo di vantaggio. 4-6. 1gcee... ;wq|htw: “versa mescolando una parte con due, (le coppe) piene fino all’orlo, e una coppa spinga l’altra”. kérnaij: participio da kérnami. 1na kaì d|uo: l’espressione, già complicata da intendere per gli antichi, indica forse “una parte di acqua e due di vino”, una proporzione piuttosto forte, come notava Plutarco (cfr. introduzione). pl|haij = pléaj, riferito a kul|icnaij. kàk kef|alaj: in attico katà kefal^hj, qui usato con il significato di “orlo”. ;atéra... w ; q|htw: l’espressione indica che a una bevuta ne deve tener dietro un’altra senza interruzione; il verbo deriva da 4qhmmi, che in Omero appartiene al linguaggio militare e indica un atto molto violento. Il simposio in Alceo momento presente (presto sarà sera), dall'altra concezioni generali, basate su una verità di principio (il vino come mezzo mandato dal dio contro la tristezza). Al centro di questo schema c’è l'aggancio, qui mancante, all'evento politico concreto, alle reali circostanze politiche, in cui vengono ad intrecciarsi il motivo esterno specifico e la funzione generale del bere (« fa dimenticare gli affanni», cfr. per esempio fr. 73, ovvero « aumenta la gioia», cfr. per esempio fr. 332). Proprio il fr. 346 si presta ad evidenziare la riferibilità dei canti conviviali di Alceo al simposio della propria eteria e la tendenza loro peculiare di una legittimazione non post, ma inter festum. Da ricordare è innanzitutto il fr. 140, in cui sono elencati vari strumenti bellici. Se — come si può supporre — l'efficacia particolare di questo carme nel suo luogo storico derivava dal fatto che gli oggetti in questione erano effettivamente presenti durante il carme, per cui solo l'unione di realtà e testo dava senso all'elenco, anche il fr. 346 indica che al momento dell'esecuzione del canto si era già preso posto nella sala degli uomini dove erano conservati, accanto agli strumenti bellici, anche gli oggetti necessari per il simposio. L'invito rivolto al coppiere, « tira giù le grandi coppe variopinte », con la precisa indicazione « tira giù », non rappresentava un qualsiasi tópos simposiale, ma era un ordine concreto in relazione al reale assetto dello spazio, allo scopo di poter dare finalmente inizio al simposio per il quale ci si era riuniti. Anche il fr. 346 rivela così una coincidenza tra realtà e contenuto poetico che rende tanto più comprensibile l'effetto che il carme doveva esercitare sulla comunità dell'eteria: mentre gli hetaìroi in attesa dell'inizio del simposio guardavano i preparativi, ascoltavano un carme in cui questa realtà veniva tematizzata e che inoltre legittimava l'azione prevista. Se l'accordo tra ' sala d'armi ' e ' canto d'armi' aveva indotto un senso di coraggio e di determinazione, in questo caso il canto doveva programmare un'atmosfera di letizia e di gioiosa attesa, che si sarebbe diffusa anche tra gli ascoltatori. Il frammento, più lungo di 5 versi di un carme costruito in asclepiadei maggiori stichici (gl2c), ci è tramandato in una citazione di Ateneo (nella forma più completa 10, 430 D.; citazioni più brevi in altri due passi), dove — la cosa non sorprende considerando la tematica della sua opera — si trova conservato anche altro 'materiale ' simposiale della lirica alcaica (la tesi della philoinìa del poeta è così dimostrata con una serie di ' autotestimonianze '). Dato che la citazione è presentata come poiémàtion, è ovvia l'ipotesi, sostenuta anche dall'esame del contenuto, che inizio di citazione e inizio di carme coincidano. La definizione (di nuovo in accordo con il contenuto) potrebbe anche consentire deduzioni su una lunghezza non troppo rilevante dell'intero canto. Già la prima parola del carme (ponómen « beviamo! ») getta luce su occasione e intenzione: l'eteria si è riunita a simposio ed Alceo con il suo canto conviviale (che naturalmente nella chiusa può aver anche assunto una piega ' politica ') dà il segnale, per così dire, dell'inizio. L'argomento seguente (« perché aspettare fino a sera? Il giorno è quasi svanito» [v. 1]) ha pertanto, come si è in sostanza già osservato, un carattere meramente rafforzativo e non di effettiva persuasione. Per questo motivo — al tempo stesso la prospettiva si restringe dalla totalità dei presenti al singolo — si può passare già col secondo verso ad ordini concreti rivolti al coppiere, apostrofato qui con aita (~paì): “tira giù le grandi coppe, artisticamente decorate (v. 2), ... mescola una misura di acqua e due di vino, e riempi le coppe fino all'orlo” (v. 4 sg.), in rapido susseguirsi, affinchè, facendole girare fra i convitati, « l'una incalzi» per così dire « l'altra » (vv. 5 sg.). Questi versi sono interrotti da un nuovo tentativo di legittimazione, secondo la generale caratteristica dei canti simposiali di Alceo che vedono una continua alternanza di parenesi o comando e argomentazione: « perché il figlio di Semele e di Zeus (cioè Dioniso) ha dato all'uomo il vino come mezzo per dimenticare gli affanni » (vv. 3 sg.). Le due motivazioni che dunque si incontrano nel frammento rivelano già tutta l'ampiezza del potenziale giustificativo di cui Alceo disponeva: da una parte motivi che si riferiscono esclusivamente al W. Rösler, Due carmi simposiali di Alceo, in Poesia e simposio nella Grecia antica, a cura di M. Vetta, pp. 71-73 37 L’amore Nella Grecia arcaica la sfera dei sentimenti intimi riguarda sia la vita familiare sia la cerchia dei philoi. Già nei poemi omerici sono presenti entrambe le esperienze: basti ricordare, tra gli altri, gli episodi del quadro familiare di Ettore e Andromaca e l’incontro tra Odisseo e Nausicaa o l’amore di Calipso e di Penelope per il protagonista. I lirici approfondiscono la tematica dell’amore, inserendola nella vita del gruppo cui appartengono e la poesia erotica ne diventa così l’espressione diretta. Questo fatto è evidente già nell’elegia: poeti come Mimnermo parlano dell’amore in generale e ne cantano le gioie come le uniche che possono rendere gradevole l’esistenza, la quale addirittura non vale più la pena che sia vissuta se manca l’amore. Anche Archiloco è su questa linea; successivamente Solone e Teognide esprimono nei loro versi considerazioni relative all’amore omoerotico e, specie in Teognide, il vincolo tra amante e amato si arricchisce di caratterizzazioni didattiche con implicazioni ideologiche. Già in questa fase la descrizione della fenomenologia amorosa si arricchisce di elementi che definiscono l’amore come uno sconvolgimento della mente e che conduce l’uomo alla sofferenza o alla rovina. La dimensione pubblica dei canti corali ci dà una visione dell’amore inserito in un ambito molto particolare: nel cosiddetto Partenio del Louvre si cantava il rito di iniziazione, durante il quale le ragazze celebravano il termine dell’età adolescenziale. Un capitolo fondamentale nella lirica d’amore greca è costituito dall’opera di Saffo. Il pubblico al quale si rivolgeva Saffo era formato dalla cerchia delle ragazze, che vivevano in un’istituzione a noi nota col nome di thiasos. L’amore cantato da Saffo è un’emozione dei sensi, una passione che consuma, un nostalgico ricordo delle gioie vissute nel mondo del thiasos. Il tema dell’amore è appena sfiorato dal grande conterraneo di Saffo, Alceo, in cui appare come un tema legato al simposio e al vino. Una visione pessimistica dell’esperienza amorosa è possibile coglierla nei versi di Ibico, mentre in quelli di Anacreonte l’amore si mantiene su un tono più sorridente e distaccato. In Anacreonte l’amore non è più quello passionale, drammatico di Saffo, ma è un amore più raffinato, nel quale i contrasti vengono sfumati in una dimensione meno profonda. Nella lirica corale tarda le tematiche qui descritte vengono richiamate in Simonide e nei carmi di Pindaro. Fondamentale è infine richiamare all’attenzione il fatto che tutti i poeti, più o meno intensamente e con maggiore o minore frequenza, si richiamano al mito per esemplificare concetti e esperienze da essi descritte. Il mito diventa, in questo caso, il modello o l’esemplificazione di un certo comportamento. 51 Archiloco: Sofferenza d’amore Fr. 193 W. All’amore inteso come una passione che provoca sofferenza e dolore, un dolore fisico che trafigge le ossa, riconduce anche il fr. 193. In esso compaiono espressioni omeriche (;od|unh?si peparménoj). Il sostantivo o ; d|unh in Omero indica sia il dolore fisico sia anche quello dell’animo: in Archiloco, pertanto, ci troviamo di fronte alla sovrapposizione tra il piano spirituale e quello fisico, in quanto al primo si riferiscono i termini p|oqoj e o ; d|unh, mentre al secondo rimanda l’espressione peparménoj di’ o ; stéwn, che evoca l’immagine dell’eroe ferito in battaglia. Altra particolarità di questi versi è il fatto che il poeta attribuisce alla divinità la responsabilità della sua sofferenza. Spesso nei poeti arcaici troviamo la credenza che siano gli dei a regolare le vicende umane. Metro: dimetro giambico ed esametro dattilico. D|usthnoj 1gkeimai p|oq§, åyucoj, calep^h?si qe^wn ;od|unh?sin 6khti peparménoj di’ ;ostéwn. 1-3. D|usthnoj... di’ ;ostéwn: “Infelice io giaccio nel desiderio, senza vita, per volere degli dei trafitto nelle ossa da atroci dolori”. d|usthnoj: è un aggettivo presente anche in Omero e significa “misero”, “infelice”. 1gkeimai p|oq§: l’espressione è molto particolare e indica il trovarsi nella passione; il verbo si trova anche in Omero e significa “giacere in mezzo a qualcosa”, mentre nel frammento archilocheo regge il dativo p|oq§. åyucoj: è impiegato qui per la prima volta e letteralmente vale “senza vita” (a privativo e yuc|h). Da notare la posizione molto efficace dell’aggettivo, isolato dall’enjambement all’inizio del secondo verso. calep^h?si... ;od|unh?sin: dativo strumentale di peparménoj (part. perf. di pe|irw: in Omero questo verbo indica la ferita subita nei combattimenti). qe^wn... 6khti: anche questo sintagma riprende un modulo espressivo omerico. La costruzione del frammento è particolarmente curata: ogni verso inizia con un aggettivo, participio nell’ultimo, riferito all’io parlante. Omero interiorizzato Archiloco fa qualcosa di nuovo nella poesia greca, ma entrambe le immagini gli vengono in certa misura da Omero. Nel chiamarsi åyucoj, egli si richiama al dolore di Andromaca quando vede il cadavere di Ettore trascinato dietro il carro di Achille: t\hn dè kat’ o ; fqalm^wn e; rebenn\h \ n\ux e; k|aluyen, 2ripe d’ e; xop|isw, a ; pò dè yuc\hn e; k|apusse. [una nera notte cadde sui suoi occhi e la coprì, ed ella cadde all’indietro, ed esalò la vita]. Archiloco coglie uno spunto offerto dalle ultime parole e lo applica a se stesso per esprimere non il dolore, ma l’amore; e così anche il suo peparménoj di’ o; stéwn ricalca l’ o; d|unh?si peparménoj di Omero, ma gli dà un carattere più preciso localizzando il dolore. Un altro frammento tratta di un vero e proprio assalto dell’amore: to^ioj gàr fil|othtoj 1rwj u : pò kard|ihn e; lusqeìj poll\hn kat’ a ; cl\un o ; mm|atwn 1ceuen, kléyaj e; k sthqéwn a : palàj frénaj. [ché tale era il desiderio d’amore che si attorcigliò sotto il mio cuore e versò una fitta caligine sopra i miei occhi, rubando la tenera anima dal mio petto]. Anche qui i sintomi principali debbono qualcosa ad Omero: la caligine che cade sugli occhi è un modo corrente in Omero per descrivere la morte o un deliquio simile alla morte, e l’immagine del “rubare l’anima” fa pensare alla similitudine in cui un leone estrae lo a : palòn h% t? or dai capretti che divora. Entrambe le espressioni vengono dal linguaggio che connota la morte, ma Archiloco le usa per esprimere il desiderio che sembra doverlo uccidere; e così facendo, egli prepara la via a Saffo, che però differisce da lui per l’enumerazione più completa dei sintomi e per l’assenza di riecheggiamenti verbali di Omero. Saffo ha creato una propria maniera, e ne ha fatto il veicolo immediato delle proprie emozioni; e se Archiloco aveva usato alcuni temi omerici, che trattavano di fenomeni visti dall’esterno, applicandoli alle proprie sensazioni, Saffo elaborò una tecnica più selettiva in cui ogni cosa era vista saldamente dall’interno. C. M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a Simonide, Firenze, pp.271-272. 54 Mimnermo: Giovinezza e amore Fr. 1 W. Nell’ambiente raffinato dell’aristocrazia ionica, nei primi anni del VI sec. a. C. fiorì Mimnermo, un poeta che scrisse elegie dal tono completamente diverso rispetto a quelle che alcuni decenni prima altri poeti elegiaci avevano composto al fine di incitare alla guerra i giovani. La tradizione ci informa che Mimnermo amò una suonatrice di flauto, Nannò, che ha dato il nome a uno dei due libri del poeta. Mentre si va affermando la borghesia mercantile, si delinea una crisi dei valori che erano stati alla base della civiltà eroica. è chiaro che in questo momento di transizione gli ideali di vita si trasformano. Il canto dei poeti elegiaci come Callino e Tirteo era inserito nell’ottica che mirava ad un’esaltazione dei valori eroici; l’elegia di Solone, pressoché contemporaneo di Mimnermo, riflette la sua attività di uomo politico al servizio di Atene: i suoi versi sviluppano principi che illustrano i vantaggi del buon governo e i danni del governo cattivo. Con Mimnermo il canto si ripiega su se stesso e ricerca una nuova dimensione e nuove strade da percorrere. In questa situazione le tematiche della poesia conoscono una trattazione più intima e personale. Già gli antichi (ad esempio Orazio e Properzio) avevano individuato nell’amore la tematica più importante della poesia di Mimnermo. Una bella intuizione di questo poeta unisce indissolubilmente amore e giovinezza. La vita senza amore è triste, l’amore va colto e vissuto durante la giovinezza, che è un frutto da godere consapevolmente, perché passa in fretta e la vecchiaia con tutti i suoi mali incombe sull’esistenza. Gli dei hanno reso triste e penosa la vecchiaia con il suo fardello di malanni; il vecchio è solo, abbandonato, umiliato e odiato da tutti. In Mimnermo la contrapposizione fra la giovinezza e la vecchiaia diventa la contrapposizione fra la vita e la morte. A seguito del tramonto degli ideali eroici nasce un ideale di vita più coerente con la natura umana debole ed effimera. Questi pensieri trovano un’espressione di rara efficacia nella seguente elegia, che sembra un componimento completo. Metro: distici elegiaci. T|ij dè b|ioj, t|i dè terpnòn åter crus^hj ; Afrod|ithj> teqna|ihn, 8te moi mhkéti ta^uta méloi, kruptad|ih fil|othj kaì me|ilica d^wra kaì e;un|h, oõ’ 7bhj ånqea g|inetai :arpaléa 1. Tij dè b|ioj... ; Afrod|ithj>: “quale vita mai, quale gioia senza l’aurea Afrodite?”. La particella dé non deve far pensare che il carme sia mutilo ed è stata variamente interpretata. Il suo valore più probabile è quello incettivo: durante il simposio c’era l’usanza, mentre si beveva e si chiacchierava, di contribuire alla serata con canti e con versi che si collegavano con quelli recitati da un altro convitato. crus^hj ; Afrod|ithj: l’espressione è di derivazione omerica; l’aggettivo in Omero è frequentemente appellativo di divinità. Il nome della dea è metonimia per “amore”. terpn|on: questo aggettivo è sconosciuto all’epica e “la sua presenza segnala l’irruzione nella poesia greca di un sistema sconosciuto di valori” (Citti-Casali). Nel primo verso, inoltre, va segnalata la ripresa allitterante del t. 2-5. teqna|ihn... gunaix|in: “possa essere morto, quando io non curi più queste cose, un amore segreto e i dolci doni e il letto, che sono fiori fragili di giovinezza per uomini e donne”. teqna|ihn: ottativo perfetto; l’uso di questo tempo dimostra che il poeta si augura di essere già morto quando non potrà più godere dell’amore. méloi: ottativo con valore eventuale. Da notare la rima e l’allitterazione moi... méloi. kruptad|ih fil|othj: discusso il 55 valore dell’espressione. “Amore segreto” può essere sia l’amore adultero sia l’amore intimo. Il sintagma deriva da Omero, che lo impiega per indicare gli amori adulterini di Antea e Bellerofonte; tuttavia qui Mimnermo vuole forse solo indicare la segretezza dell’amore, la sua intimità, non il piacere che deriva dalla segretezza dell’adulterio. me|ilica d^wra: deriva da un Inno omerico, dove indica la dolcezza insita nei doni che provengono da Afrodite. e;un|h: in Omero la parola viene adoperata in endiadi con fil|othj per indicare l’amore eterosessuale. Mimnermo amplia nel v. 3 un concetto che Omero sintetizza in 5 10 ;andr|asin ;hdè gunaix|in< ;epeì d’ ;odunhròn ;epélq+ g^hraj, 8 t’ a;iscròn :om^wj kaì kakòn åndra tiqe^i, a;ie|i min frénaj ;amfì kakaì te|irousi mérimnai, o;ud’ a;ugàj prosor^wn térpetai ;hel|iou, ;all’ ;ecqròj mèn pais|in, ;at|imastoj dè gunaix|in< o0twj ;argaléon g^hraj 1qhke qe|oj. Godere la vita che passa Nei versi di Mimnermo si è vista spesso un’espressione di pessimismo; ma questa interpretazione non è condivisa da tutti gli studiosi. Così il Pohlenz: “La similitudine omerica tra la vita umana e le foglie che rapidamente appassiscono s’incontra ancora una volta nell’Iliade (B 468), e più tardi Semonide e Mimnermo la prendono come spunto per delle loro elegie; ma la conclusione che ne ricavano non è per nulla pessimistica: ‘Certo non c’è uomo – dicono – cui Zeus non mandi molti mali, e il futuro non è noto ad alcuno, ma appunto per questo godi l’oggi e non affannarti per quel che verrà!’. Nelle poesie d’amore di Mimnermo lo stesso pensiero si atteggia press’a poco così: ‘Godi la giovinezza! Viene ben presto la vecchiaia, che rende l’uomo brutto e inetto e gli rapisce la capacità di gioire del sole e della vita!’” (L’uomo greco, tr. it., pp. 144-45). fil|othj kaì e;un|h. 7bhj ånqea: in Omero e in Tirteo questo sintagma indica semplicemente la giovinezza, ma già in un passo della Teogonia di Esiodo la stessa espressione assume una connotazione più vicina al tono dell’elegia di Mimnermo, in quanto slitta verso un significato collegato all’amore e alla giovinezza. a : raléa: in un contesto erotico è attestato qui per la prima volta. 5-6. ;epeì d’ ;odunhròn... tiqe^i: “e quando dolorosa incombe la vecchiaia, che rende l’uomo brutto e insieme sgradevole”. o ; dunhr|on: è un aggettivo piuttosto raro, ignoto all’epica. e; pélqh?: congiuntivo senza a # n, come di uso nell’epica. g^hraj: in posizione di rilievo all’inizio del verso, si contrappone a 7bhj ånqea e costituisce il tema della seconda parte dell’elegia. Alla vecchiaia è riferita una serie di aggettivi di significato negativo. a;iscr|on... kak|on: il primo aggettivo indica la bruttezza che deriva dal decadimento fisico, mentre il secondo qualifica invece il deterioramento morale. Per quanto riguarda kak|oj va segnalato uno slittamento rispetto al significato che aveva nell’epica, dove sostanzialmente indicava la persona vile, timorosa del nemico e della guerra. tiqe^i: forma tematica contratta (att. t|iqhsi). 7-9. a;ie|i min... gunaix|in: “sempre tristi affanni lo tormentano nel cuore, né si allieta nel vedere i raggi del sole, ma è odioso ai ragazzi, e umiliato dalle donne“. min: accusativo, = a;ut|on. Discussa la funzione di a ; mf|i: può essere in anastrofe con frénaj, oppure in tmesi con te|irousi. Il termine frénej in Omero indica il diaframma; qui può essere tradotto con “cuore”. mérimnai: la parola è sconosciuta ad Omero, mentre compare nell’Inno a Mercurio. Il v. 8 è un riecheggiamento di un verso dell’Iliade, ma l’immagine del sole come simbolo di vita è tipica di Mimnermo e diventerà un topos della cultura classica. prosor^wn: participio predicativo collegato con térpetai, che a sua volta richiama terpn|on del v. 1. Al v. 9 viene sottolineato il rifiuto del vecchio da parte di ragazzi e donne, in una prospettiva di amore omosessuale e eterosessuale. Da notare il perfetto parallelismo all’interno del verso (aggettivo- sostantivo, correlati da mén... dé), con una rima alla fine dei due emistichi (pais|in gunaix|in). Gli aggettivi e; cqr|oj e a ; t|imastoj rappresentano il decadi- 56 mento della vecchiaia e qualificano la natura dell’uomo in senso negativo sia dal punto di vista estetico sia da quello sociale; non bisogna infatti dimenticare che a ; t|imastoj identifica l’uomo privo di tim|h, l’onore: con questo termine si indica il prestigio di cui si gode in ambito sociale quando si è circondati dal rispetto della comunità. 10. o0twj... qe|oj: “così spaventosa rese un dio la vecchiaia”. La conclusione dell’elegia è lapidaria. Su essa si sono appuntati giudizi decisamente opposti: chi l’ha definita “sommaria” o “monotona”, chi invece, come il Gentili, richiamando gli ultimi versi del Tramonto della luna di Leopardi, ha detto che si tratta di un “verso tombale nella sua gelida e asciutta durezza”. In questo verso conclusivo il poeta ribadisce il concetto già espresso, attribuendo però a una divinità la responsabilità del fatto che la vecchiaia sia così penosa. Da segnalare la risemantizzazione dell’aggettivo a ; rgaléon, che nell’Odissea definisce il ritorno in patria dell’eroe, mentre in Mimnermo passa a indicare una qualità della vecchiaia. L’aggettivo è collegato con ålgoj (“dolore”). Saffo: Tempesta d’amore Fr. 47 V. Questo frammento lo dobbiamo a una citazione di Massimo di Tiro (II sec. d. C.), il quale compie un paragone fra Socrate e Saffo e dice che il primo chiama l’amore ‘filosofo’, mentre la seconda ‘intrecciatore di racconti’. E poi continua dicendo che Socrate è invasato da Eros nel Fedro, a Saffo l’amore sconquassò i sentimenti come il vento. La citazione di Massimo non è letterale ( lo è solo a partire da w ; j a # nemoj), perciò il frammento è stato completato in varie maniere. La seguente è la ricostruzione di Lobel, la migliore. Metro: pentametri eolici. # Eroj d’ ;et|inax|e moi frénaj, ;wj #anemoj kàt’ 3roj dr|usin ;empétwn 1-2. # Eroj... e; mpétwn: “Eros mi ha squassato il cuore, come un vento che giù da un monte si abbatte sulle querce”. # Eroj = # Erwj. ;et|inaxe: aoristo di tin|assw; a causa della mancanza del contesto in cui erano inserite queste parole non siamo in grado di dire quale sia l’esatto valore dell’aoristo. Il verbo è già impiegato in Omero. frénaj: complemento oggetto di ;et|inaxe, indica la sede delle sensazioni. k|at’: apocope di kat|a. dr|usin: “la quercia, l’albero più vigoroso, che meglio dovrebbe resistere, è scelta a indicare l’invincibile potenza del vento” (Perrotta). In questo caso le querce implicitamente equivalgono all’animo dell’io parlante. ;empétwn: att. ;empes|wn. Forza travolgente I due versi contengono una similitudine, nella quale l’amore, forte e violento, viene paragonato al vento impetuoso che si abbatte sulle querce di un monte. Il quadro che ne deriva è di una straordinaria efficacia e i vari particolari hanno precedenti nella letteratura greca. L’immagine del vento si trova in Omero (Od. V, 368): :wj d’ #anemoj za\hj ;hÈwn qhm^wna tin|ax+ (come un vento gagliardo disperde un mucchio di pula). Un altro passo che Saffo può avere avuto presente si trova negli Erga (vv. 509-511): pollàj dè dr^uj :uyik|omouj ;el|ataj te pace|iaj o5reoj ;en b|hss+j piln^* cqonì poulubote|ir+ ;emp|iptwn, kaì p^asa bo^* t|ote n|hritoj 0lh molte querce dalle alte chiome e abeti frondosi nelle gole dei monti abbatte sulla terra feconda contro di loro picchiando, e allora geme tutta la foresta infinita. (trad. Arrighetti). Inoltre la similitudine tra Eros e il vento connota la divinità in senso ostile, come una forza terribile della natura, contro la quale non c’è possibilità di resistere. La metafora del vento ricorre di frequente nella poesia greca: basti ricordare il fr. 208 V di Alceo. Tuttavia rispetto ai testi che possono avere costituito un modello per Saffo, quest’ultima ha compiuto un’operazione di straordinario effetto, attribuendo a se stessa quello che altrove era semplicemente un’azione osservata nella natura. E in Saffo la similitudine serve a esprimere la violenta forza dell’amore: si realizza così una trasformazione del significato che l’immagine assumeva nei testi precedenti e l’amore diventa una forza che travolge l’anima dall’esterno. 73 Saffo: Meglio morire Fr. 94 V. Il seguente frammento ci introduce in un’altra dimensione dell’amore cantato da Saffo: il ricordo e il dolore provocato dal distacco. Diversi frammenti sono accomunati da questa tematica, in cui l’amore diventa rievocazione struggente dei momenti più intensi vissuti nel tiaso. Il fr. 94, conservato in maniera molto lacunosa da una pergamena del VI sec. d. C., testimonia che a quell’epoca la poetessa di Lesbo era ancora letta in Egitto. Il frammento racconta una delle situazioni essenziali della vita del tiaso: il momento in cui una ragazza se ne allontanava. Saffo rievoca proprio una di queste circostanze, le lacrime della fanciulla, la sofferenza per il distacco, le cose belle vissute nel tiaso, la promessa di conservarne per sempre il ricordo. Da questi versi emerge uno spaccato della vita del tiaso saffico: raccogliere fiori, intrecciare ghirlande, ungersi di profumi, celebrare feste. Del frammento riportiamo la parte meglio leggibile. Metro: strofe tristiche composte da due gliconei e un tetrametro eolico. Teqn|akhn d’ ;ad|olwj qélw< #a me yisdom|ena katel|impanen 5 p|olla kaì t|od’ 1eipé [moi< #§m’ ;wj de^ina pep[|onq]amen, Y|apf’, %h m|an s’ ;aékois’ ;apulimp|anw. 1. Teqn|akhn... qélw: “vorrei davvero essere morta”. Il frammento inizia con questo verso, che doveva però essere preceduto da altri. Il verso presenta il problema relativo all’attribuzione della battuta ivi contenuta. Se essa viene attribuita a Saffo nel momento del ricordo, ne consegue che la battuta esprimerebbe il dolore della poetessa nel presente contrapposto all’autocontrollo nel momento del distacco; se invece la si attribuisce alla ragazza che parte, allora “la dimensione attuale potrebbe essere rappresentata da una nuova separazione che suscita il ricordo di un precedente, analogo evento” (Ferrari). teqn|akhn: att. teqnhkénai, infinito perfetto. L’impiego del perfetto ha valore enfatico e sottolinea lo stato dell’essere morti. Il verso è incorniciato dai due verbi. ;ad|olwj: termine usato raramente in poesia, si trova invece impiegata in formule di trattati, dove indica la stretta osservanza dei patti; Saffo la usa per conferire solennità alla dichiarazione. 2-3. #a me... 1eipé moi: “ella piangendo mi lasciava e tra le molte cose mi disse anche questo”. I due versi hanno funzione narrativa e riportano al momento del commiato. ;a: è articolo con valore pronominale. yisdoména: è parola assai rara. Esichio la spiega con kla|iousa. katel|impanen: è la prima attestazione del verbo. p|olla: da notare l’enjambement fra una strofa e l’altra. Si può intendere in vari modi e la posizione contribuisce a una certa ambiguità, peraltro voluta: come avverbio legato a yisdoména (“piangendo molto”), oppure con il senso di “spesso” legato a 1eipe, oppure nel senso adottato nella nostra traduzione. 1eipe: forma epica, att. e%ipe. 4-5. #§m’ ;wj... ;apulimp|anw: “ahimè, che pene terribili soffriamo, o Saffo, davvero contro la mia volontà ti lascio”. Le parole sono pronunziate dalla ragazza nel momento dell’abbandono. w ; j de^ina: esclamativo; de^ina può essere inteso sia come complemento oggetto 74 di pep|onqamen, sia come avverbio. Il perfetto indica lo stato presente di sofferenza ed è un vero plurale in quanto accomuna il dolore della ragazza e di Saffo. Y|apf(oi): vocativo, all’inizio di verso sottolinea l’affetto e la commozione per il distacco. %h m|an: formula fortemente asseverativa, impiegata anche nei giuramenti. ;aékois’ ;apulimp|anw: il verbo è a fine strofa come katel|impanen e crea così una forte simmetria (tra l’altro è stato notato che quasi tutte le strofe di quest’ode terminano con un verbo). Il nesso ;aékois’ ;apulimp|anw sposta l’attenzione sui sentimenti della ragazza, dopo il verbo al plurale. 6-8. tàn d’ 1gw... ped|hpomen: “e a lei così rispondevo: parti e sii felice e ricordati di me, infatti sai come ti volevo bene”. Il v. 6 è la ripresa della formula epica t\hn d’ ;apameib|omenoj proséfh. t|an: att. t|hn. ca|irois’ 1rceo (att. ca|irosa 1rcou) è una formula di augurio e di saluto nei confronti tàn d’ 1gw t|ad’ ;ameib|oman< ca|irois’ 1rceo k#ameqen mémnais’, o%isqa gàr 4j se ped|hpomen< 10 a;i dè m|h, ;all|a s’ 1gw qélw 3mnaisai [ ] eai ;os[sa ] kaì k|al’ ;ep|ascomen< p|o[lloij gàr stef|an]oij #iwn kaì br[|odwn ]k|iwn t’ 5moi ka [ ] pàr 1moi pereq|hkao 15 kaì p|ollaij ;upaq|umidaj pléktaij ;amf’ ;ap|al* d|er* ;anqéwn ;e[ ] pepohménaij. di chi parte. Non sembra corretto attribuire al participio il valore predicativo. k#ameqen: = kaì ;emo^u, è retto dal seguente mémnais(o) (= mémnhso, imperativo perfetto medio). L’espressione ha un precedente nell’incontro tra Odisseo e Nausicaa (v. approfondimento). o%isqa gàr 4j se ped|hpomen: g|ar ha la funzione di legare con forza i due versi e di mettere in relazione la partenza felice, il ricordo e l’amore che la ragazza ha ricevuto nel tiaso. 4j ha valore dichiarativo e regge il successivo ped|hpomen, il cui significato non è molto chiaro. Il verbo corrisponde all’attico meqe|ipomen e significa propriamente “seguire” o anche “avere cura di qualcosa”; il contesto potrebbe farlo scivolare sul senso di “amare”. Inoltre c’è incertezza se si tratti di una prima persona plurale o se il verbo vada inteso come una prima singolare. La corrispondenza con gli altri verbi alla prima plurale non è probante: qui si tratta sicuramente di una prima singolare e ha come soggetto la sola Saffo. 9-11. a;i dè m|h... ;ep|ascomen: “ma se non rammenti, allora io voglio farti ricordare... quante belle cose abbiamo vissuto”. a;i: introduce la frase condizionale con il verbo sottinteso. ;all|a: dà particolare enfasi e risalto all’atto di volontà di Saffo: “ecco che allora io voglio”. Di straordinaria efficacia l’accostamento dei due pronomi di prima e seconda persona. 3mnaisai: att. ;anamn^hsai, ha valore causativo. Il resto del verso è illeggibile e le integrazioni proposte poco attendibili. Anche la prima parte del v. 11 è mutila. ;ep|ascomen: “Saffo riprende lo stesso verbo dell’amica, opponendo con intenzione il passato (imperfetto ;ep|ascomen) al presente (perfetto pep|onqamen). E con intenzione adopera lo stesso verbo; poiché in greco p|ascw prende valore dal senso generale e da ciò che lo accompagna” (Perrotta). 12-17. p|olloij g|ar... pepohménaij: “infatti molte corone di viole e di rose e di... insieme accanto a me hai posto intorno... e intorno al collo delicato molte collane intrecciate di fiori fatte”. Lo stato dei versi è molto lacunoso. Il v. 12 presenta un’integrazione sicura di Wilamowitz; nel v. 14 doveva trovarsi, dopo br|odwn, il nome di un altro fiore; all’inizio del v. 14 si legge un ka, che potrebbe essere k|ar* e allora il senso sarebbe “hai posto intorno a capo”; il v. 17 presenta una lacuna nella parte centrale. Tutti questi versi sono incentrati sui fiori, la cui presenza non sta 75 certo a indicare un ingenuo passatempo quotidiano, ma rimanda a un preciso cerimoniale collegato con il culto di Afrodite. p|olloij stef|anoij: è un accusativo plurale eolico. 5moi = :omo^u. pereq|hkao: aoristo medio da perit|iqhmi con il suffisso ka dell’attivo. Questi versi possono avere trovato un modello in Esiodo (Teog. 576-577, ;amfì dé o:i stef|anouj neoqhléaj, #anqesi po|ihj, :imhrto\uj per|iqhke, “intorno a lei pose amabili corone fresche, di fiori d’erba”). p|ollaij u ; paq|umidaj pléktaij... pepohménaij: sono accusativi plurali (-aj) e dipendono da pereq|hkao. Circa le :upoqum|idej abbiamo un’informazione da Ateneo sulla loro natura e funzione: “si coronavano e si profumavano anche il petto, poiché è sede del cuore. Le corone che venivano poste intorno al collo erano chiamate ;upoqum|idej”. ;ap|al* d|er*: il sintagma è già in Omero (Il. XIX, 285); l’aggettivo indica una qualità che si percepisce con la vista. pepohménaij: att. pepoihménaj. 18-20. ka|i.. basilh|i§: “e ti ungesti... con unguento floreale ... e regale”. Anche questa strofa si presenta lacunosa. è stata proposta al v. 18 l’integrazione p|anta cr|oa s|on “tutto il tuo corpo”. m|ur§ 20 kaì p[ ] m|ur§ brenqe|i§ [ ] ru [ ]n ;exale|iyao ka[ì bas]ilh|i§. kaì str|wmn[an ;e]pì molq|akan ;ap|alan par[ ]onwn ;ex|ihj p|oqo[n ]n|idwn. brenqe|i§: era l’unguento ricavato dai petali di fiori; basilh|i§: è invece un profumo prodotto in Asia, chiamato così dal re di Lidia, regione allora famosa per la produzione e il commercio di prodotti cosmetici. Il profumo era un importante strumento di seduzione. ;exale|iyao: aoristo medio di ;exale|ifw. Con questo verbo si chiude la strofa lacunosa ma il cui senso complessivo è chiaro: alla parte dei fiori segue il ricordo dell’usanza di profumarsi con unguenti rari e preziosi e i versi si caricano di una ricca sensualità. 21-23. kaì str|wmn[an.. n|idwn: “e su morbidi letti di tenere... placavi il desiderio”. La strofa è lacunosa: dopo ;ap|alan “tenere” si può ipotizzare un “fanciulle” concordato con l’aggettivo. str|wmn[an ;e]pì molq|akan: gen. plur. La parola strwmn|h indica il “letto” oppure la “coperta”. Non era sicuramente un divano né un altro generico giaciglio. ;ex|ihj p|oqon: per l’interpretazione v. approfondimento; il verbo deriva da ;ex|ihmi e significa propriamente “mandare via” e quindi “soddisfare”. Nella pergamena seguono altri versi, molto malconci in cui si parla di sacrifici, boschi, danze; vi si allude ad altri momenti della vita del tiaso. Altri versi d’amore Di me ti sei scordata, e non a me vuoi bene: a un altro. ‡Emeqen d’ #ec+sqa láqan #h tin’ #allon ÞnqrÍpwn #emeqen fílhsqa. (fr. 129 L.P.) (trad. Pontani) Òráman mèn #egw séqen, ‡Atqi, pálai potá smíkra moi páij #emmen’ æfaíneo k#acarij. (fr. 49 L.P.) C’era una volta ch’ero innamorata io, di te, Attide. mi sembrava che fossi una bambina, così piccola e acerba. (trad. Pontani) Glúkha mâter, o#utoi dúnamai krékhn tòn i# ston póq§ dámeisa paîdoj bradínan di’ ƒAfrodíta. (fr. 102 L.P.) Mammina cara, a tessere la tela non ce la faccio più. Per un ragazzo mi piega d’amore la tenera Afrodite (trad. Pontani) 76 La morte La riflessione sulla morte è molto frequente nella lirica arcaica sin dai componimenti elegiaci a sfondo bellico. Nelle elegie guerresche di Callino e Tirteo domina l’incitamento al valore e alla virtù militare: in esse la morte appare come il supremo gesto di eroismo che il combattente compie per la patria. Il principio deriva dalla concezione epica per la quale è bello morire difendendo la propria città. Nei versi di Archiloco appare una visione della morte intesa come una realtà comune a tutti gli uomini. Un lutto che colpisce l’intera città fornisce l’occasione per riflettere sulla ciclicità del dolore: nell’elegia composta in tale occasione il poeta si rivolge a un amico e lo conforta dichiarandosi partecipe della sofferenza nella quale è piombata la città. In altri frammenti archilochei compare una visione della morte assai lontana da quella dell’epica: Archiloco afferma che l’uomo è sempre pronto a cercare il favore dei vivi e che dei morti nessuno si dà pensiero. Una visione pessimistica è presente anche in Mimnermo, il quale contrappone la giovinezza, età dell’amore e della gioia, alla vecchiaia, vista come il momento terribile nel quale la morte si avvicina. Famoso il verso in cui il poeta dichiara di voler morire a sessanta anni, evitando così gli affanni della vecchiaia. La morte fu oggetto di riflessione anche per Solone, i cui pensieri su questo tema ebbero larga eco nel mondo antico, specialmente quelli in cui il poeta si augura che non gli tocchi una morte illacrimata: egli spera che gli amici possano rimpiangerlo e ricordarlo. Nella poesia di Saffo ricorre frequente il motivo del desiderio di morire: esso esprime situazioni tipiche dell’esperienza dell’amore all’interno del tiaso. Per Saffo le anime dopo la morte continuano un’esistenza simile a quella condotta sulla terra. La morte non viene considerata un evento terribile, ma il trapasso in un luogo bello come il tiaso. Anche in Anacreonte la morte è legata all’amore, ma spesso non siamo in grado di dire con assoluta certezza se nei versi prevalga il tono drammatico o quello ironico. Tuttavia sembra che Anacreonte dia a questa tematica toni originali e nuovi. In generale egli considera la vita come un bene che va goduto e la vecchiaia come un male, ma teme soprattutto la morte e l’abbandono dell’esistenza alla quale è molto attaccato. L’ultima sezione del I libro delle elegie di Teognide contiene versi dedicati alla morte, nei quali il poeta dà voce sconsolata alle più compiute formulazioni del pessimismo greco, quando afferma che la cosa migliore per l’uomo è non nascere o varcare prima possibile la soglia dell’Ade. Inoltre Teognide ripete con insistenza il detto che nessun uomo può scampare alla morte, neppure pagando un riscatto molto alto. 93 Mimnermo: Come le foglie Fr. 2 W. A Stobeo siamo debitori di questa splendida testimonianza dell’arte di Mimnermo. Si tratta del frammento più esteso tra quelli pervenuti del poeta e potrebbe costituire un componimento intero. Il tema è la contrapposizione tra giovinezza e vecchiaia e la riflessione sulla morte che costantemente incombe sull’uomo. Rimandando all’Approfondimento per osservazioni più puntuali, per ora basti dire che altre elegie di Mimnermo si soffermano su questa tematica, ma in questa è notevole la presenza dell’idea che gli uomini sono governati da un tempo ciclico. Metro: distici elegiaci. 5 10 : Hme^ij d’, oõ|a te f|ulla f|uei polu|anqemoj 9rh 1aroj, 8t’ aôy’ a;ug^+j a#uxetai ;hel|iou, to^ij #ikeloi p|hcuion ;epì cr|onon #anqesin 7bhj terp|omeqa, pròj qe^wn e;id|otej o5te kakòn o5t’ ;agaq|on< K^hrej dè parest|hkasi mélainai, :h mèn 1cousa téloj g|hraoj ;argaléou, :h d’çtérh qan|atoio< m|inunqa dè g|inetai 7bhj karp|oj, 8son t’ ;epì g^hn k|idnatai ;hélioj. a;utàr ;ep\hn d\h to^uto téloj parame|iyetai 9rhj, a;ut|ika d\h teqn|anai béltion ; h\ b|iotoj< pollà gàr ;en qum^§ kakà g|inetai< #allote oôkoj truco^utai, pen|ihj d’ 1rg’ ;odunhrà pélei< 1-5. : Hme^ij d’... ;agaq|on: “Noi, come foglie che genera la stagione ricca di fiori di primavera, quando subito ai raggi del sole crescono, simili ad esse per il tempo di un cubito godiamo dei fiori di giovinezza, non sapendo dagli dei né il male né il bene”. dé: è tipico all’inizio della poesia eseguita durante il simposio “perché ogni intervento è ritaglio di una lunga sequenza di ascolto” (Vetta). oõa: è oggetto di f|uei. polu|anqemoj 9rh 1aroj: l’intera espressione con l’elegante enjambement pone in risalto il momento più rigoglioso dell’anno, la primavera con il rinascere della natura. a;ug^+j: dativo plurale = a;uga^ij; si tratta di un emendamento in luogo del tradito a;ug|h. a#uxetai: ha come soggetto sottinteso f|ulla. to^is(i): è pronome dimostrativo. p|hcuion ;epì cr|onon: il gomito, o cubito, nei lirici viene impiegato come misura spaziale per una nozione di tempo. L’aggettivo è impiegato qui per la prima volta. terp|omeqa: il verbo ha un forte risalto a causa dell’enjambement e regge il precedente #anqesin 7bhj. pròj qe^wn... ;agaq|on: l’espressione è di difficile interpretazione, cfr. Approfondimento. 5-8. K^hrej... ;hélioj: “le Chere nere ci stanno accanto, una tenendo il termine della vecchiaia penosa, l’altra quello della morte; e un attimo è di giovinezza il frutto, quanto sulla terra si diffonde il sole”. K^hrej: personificazione del destino di morte. parest|hkasi: perfetto di par|isthmi. L’aspetto verbale indica il perdurare dell’azione: tradurre col presente. mélainai: il colore delle Moire è nero e si contrappone alla luce del sole. téloj: fondamentalmente è il “punto d’arrivo”. g|hraoj ;argaléou: l’epiteto è di uso assai frequente con “vecchiaia”; Mimnermo impiega questo sintagma anche nel fr. 1. m|inunqa: è un avverbio già frequente nell’epica; qui ha funzione predicativa. 7bhj karp|oj: 104 riprende, variandola, l’immagine dei “fiori di giovinezza” di qualche verso prima. è stato osservato che questa espressione non si ritrova né in Omero, né in Esiodo. 8son: correlativo di m|inunqa. k|idnatai: forma medio-passiva di k|idnhmi, di uso poetico in luogo di sked|annumi. 9-10. a;utàr ;ep|hn... b|iotoj: “ma quando questo termine della stagione è trascorso, allora subito essere morto è meglio della vita”. a;ut|ar: si tratta di una congiunzione tipica dell’epica. parame|iyetai: congiuntivo con la vocale breve per ragioni metriche. teqn|anai: infinito perfetto di qn|+skw. b|iotoj: da notare la variatio rispetto al verbo precedente (teqn|anai). 11-12. pollà g|ar... pélei: “infatti molti dolori nascono nell’animo: a volte la casa va in rovina, e le vicende dolorose delle povertà sopraggiungono”. Con questi versi ha inizio la spiegazione delle ragioni per cui è meglio morire piuttosto che vivere, una volta che si è oltre- 15 #alloj d’ a%u pa|idwn ;epide|uetai, þn te m|alista :ime|irwn katà g^hj 1rcetai e;ij ; AÈdhn< #alloj no^uson 1cei qumofq|oron< o;udé t|ij ;estin ;anqr|wpwn Ñ Ze\uj m\h kakà pollà dido^i. passata la soglia della giovinezza. Le motivazioni sono sottolineate dall’anafora. kakà ;en qum^§: le prime sofferenze che colpiscono l’uomo non più giovane sono i patimenti dell’animo. o%ikoj truco^utai: il verbo è attestato qui per la prima volta. Per l’interpretazione complessiva del passo cfr. l’approfondimento. pen|ihj 1rga: la poesia arcaica preferisce evitare l’impiego di termini astratti. ;odunhr|a: è aggettivo ignoto all’epica. 13-16. #alloj d? a%u... pollà dido^i: “un altro è privo di figli, dei quali avendo grandissimo desiderio se ne va nell’Ade sotto terra; un altro ha una malattia che gli consuma l’animo. E non c’è nessuno degli uomini a cui Zeus non dia molti mali”. pa|idwn ;epide|uetai: un altro caso particolare di sofferenza è costituito dalla mancanza dei figli, i quali con la loro presenza e il loro aiuto sono di conforto per il vecchio. Þn: genitivo pl. del pronome relativo retto da :ime|irwn; l’espressione insiste sul concetto della privazione di figli. no^uson = n|oson. qumofq|oron: l’aggettivo si trova già in Omero. dido^i = d|idwsi. Da Omero, oltre Omero Archetipo dell’idea qui espressa e modello anche dal punto di vista espressivo è un celebre passo di Omero. Nell’Iliade (VI, 145-149) Glauco e Diomede stanno per affrontarsi in duello, ma a un certo punto rinunciano a combattere perché dalle loro parole capiscono che i loro antenati erano legati da vincoli di ospitalità. Alle parole di Diomede Glauco risponde: Titide magnanimo, perché mi domandi la stirpe? Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera; così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua. (trad. Calzecchi Onesti). Questa similitudine, come ha notato B. Snell, esprime un concetto universale e “si distingue non soltanto per il suo contenuto di carattere universale dalle solite similitudini di Omero, ma anche per il fatto che tratta un nuovo soggetto”. Inoltre, continua Snell, “lo sparire degli uomini e delle foglie non è un’azione, ma rientra nel processo vitale, in quel processo di crescenza e di trapasso che non abbraccia soltanto l’uomo e l’ani- male, ma anche la pianta”. All’origine del componimento di Mimnermo c’è dunque un riecheggiamento del passo omerico, che diventa il presupposto della riflessione del poeta elegiaco. Nell’elegia che stiamo analizzando, le foglie e la loro breve esistenza stanno a significare la fragilità della giovinezza, secondo un impianto concettuale caro a Mimnermo. La struttura del componimento si articola in tre momenti: nei primi cinque versi si rievoca il tempo durante il quale noi viviamo senza conoscere il bene e il male. Nella seconda parte (vv. 5-10) l’attenzione si sposta sulla vecchiaia e sulle sofferenze che questa inevitabilmente porta con sé dopo il rapido sfiorire della giovinezza. La terza parte (vv. 11-16) contiene una squallida descrizione delle rovine che accompagnano l’uomo solo, vecchio e malato. L’apertura dell’elegia vede in posizione enfatica in pronome :hme^ij: con tale pronome il poeta evidentemente allude a una cerchia di uditori che condividono la sua visione della vita; è probabile che l’elegia rifletta un codice di esperienze e di valori ampiamente condivisi nell’ambiente del poeta, come del resto si verifica per altri lirici arcaici. Con il noi è chiaro il riferimento a un grup- 105 po che condivide con il poeta ideali e opinioni. Dopo l’inizio segue immediatamente la similitudine di ispirazione omerica, nella quale importante è l’espressione polu|anqemoj 9rh (“stagione ricca di fiori”); l’aggettivo polu|anqemoj ha riscontri in altri poeti (Saffo, Alceo, Anacreonte), e viene qui accostato alla stagione di primavera, durante la quale i fiori crescono ai raggi del sole. Questi fiori sono di durata molto breve: il tempo di un cubito, p|hcuion ;epì cr|onon. L’uso dell’aggettivo p|hcuion è di fondamentale importanza, perché, come ha sottolineato Miralles, il gomito è la parte del braccio che è importante, ma che è anche la più breve. Il p^hcuj nella lirica arcaica serve ad indicare una misura spaziale. La prima parte dell’elegia termina con la constatazione che nessuno conosce né il male né il bene e questa espressione è di difficile interpretazione. Le ipotesi possibili sono due: l’ignoranza del bene e del male può essere intesa come un fatto positivo o negativo per l’uomo. Probabilmente l’ipotesi più giusta è la prima, perché così si “ravvisa nell’inconsapevolezza del male e del bene la condizione stessa delle gioie dell’età giovanile” (DeganiBurzacchini). Al v. 5 ha inizio la seconda parte dell’elegia col nome delle Chere nere. Esse in Omero rappresentano personificazioni o simboli del destino: nell’Iliade (XII, 326-327) si parla di diversi destini di morte. Si è pensato che all’origine dell’espressione di Mimnermo ci sia un passo del IX canto dell’Iliade in cui le due K^hrej indicano la famosa alternativa che si pone ad Achille: morire prematuramente e gloriosamente oppure arrivare alla vecchiaia dopo aver trascorso un’esistenza non eroica. Se così è veramente, assistiamo a un interessante cambiamento circa il valore del termine K^hr. Infatti in Omero uno dei due destini di Achille guida l’eroe verso una morte che la morale eroica auspica e desidera: la morte gloriosa ottenuta lasciando fama imperitura ai posteri; non è dunque una visione della morte totalmente negativa. E tale visione ritorna nell’elegia guerresca di Callino e specialmente di Tirteo, dove la morte è considerata il mezzo per eccellenza attraverso il quale l’uomo si propone all’imitazione degli altri e lascia dietro di sé un grande ricordo: la morte è preferibile a una vita dolorosa, la morte impedisce agli uomini di vivere da esuli, soli, raminghi per il mondo. In Mimnermo, invece, entrambe le Chere hanno un termine diverso: l’una tiene il destino della vecchiaia, l’altro quello della morte. L’espressione che collega la Chera al colore nero ha invece un precedente nella Teogonia esiodea. Al v. 211 si legge: Nùx d’ 1teke... K^hra mélainan “la Notte generò la Chera nera” e qualche verso più avanti (217) si afferma che le Chere sono spietate nel causare pene e dolori agli uomini. L’immagine delle Chere introduce mediante una splendida contrapposizione l’idea centrale della seconda parte dell’elegia, imperniata sull’affermazione che la giovinezza è di breve durata e che una volta passata è meglio morire. Mimnermo sviluppa altrove questa tematica, ma qui l’elemento fondamentale risiede nella metafora che vede nella giovinezza un frutto di breve durata (m|inunqa 7bhj karp|oj). Il sintagma m|inunqa karp|oj non ha precedenti epici, mentre sono stati osservati riscontri in Alceo (fr. 119 V) e Pindaro (Pit. 9, 109). Ma in Alceo l’espressione non sembra avere gli stessi connotati che in Mimnermo; tra l’altro nel fr. 119 V non si parla di giovinezza bensì di vendemmia e l’allegoria (“già per te passato è il tempo, e il frutto, quanto c’era fu raccolto, ma si spera che il tralcio grappoli non da poco produca”) sviluppa un tema che potrebbe essere politico, anche se il frammento è assai lacunoso e di difficile interpretazione. Più interessante, per il nostro caso, è il passo di Pindaro, dove si legge crusostef|anou dè o:i ! Hbaj karpòn ;anq|hsant’ ;apodréyai 1qelon, “volevano coglie- re il frutto in fiore di Ebe dalla corona d’oro”. Qui la metafora esprime la pienezza della giovinezza e riprende puntualmente lo stesso significato che ha in Mimnermo. La breve durata della giovinezza è ribadita dall’espressione 8son t’ ;epì g^hn k|idratai ;hélioj. Anche in questo verso è evidente il riecheggiamento da Omero (Il. VII, 451): la gloria del muro fabbricato dagli Achei a difesa delle navi “sarà vasta quanto si estende l’Aurora”. Le differenze rispetto a Omero, però, sono sostanziali e permettono di verificare l’ampiezza dello scarto tra la terminologia epica e quella del poeta elegiaco. Intanto in Omero si parla di un muro, poi l’espressione ha chiaramente una valenza spaziale 106 più che temporale, il che ribadisce come in Mimnermo l’attenzione sia rivolta alla breve durata della giovinezza e alla sua condizione effimera. Con il v. 10 ha termine la seconda sezione dell’elegia con un’espressione indicativa di quel pessimismo di cui, senza però giungere a delle generalizzazioni estreme, troviamo affermazioni nella cultura greca dai lirici sino a Sofocle e oltre. L’opinione di Mimnermo è che appena l’uomo ha varcato la soglia della giovane età, sarebbe meglio morisse: questo concetto viene ribadito in un altro celebre frammento (4 W) nel quale il poeta utilizza il mito di Titono per riaffermare che la morte è preferibile alla vecchiaia. L’ultima parte del componimento (vv. 11-16) contiene un elenco di sciagure incombenti sul vecchio. I mali vengono poi meglio specificati secondo lo schema arcaico della Priamel, una serie di affermazioni allineate paratatticamente con lo scopo di convalidare un certo pensiero. Le angosce che assillano la vita del vecchio sono le seguenti: dolori nell’animo, la casa in rovina, povertà, mancanza di figli, malattie. Ognuna di queste tristezze e sofferenze viene indicata con espressioni riprese da Omero, ma ancora una volta con significativi mutamenti. Al v. 11 leggiamo pollà gàr ;en qum^§ g|inetai e l’espressione richiama anche dal punto di vista formale l’omerico pollà d’ 8 g’ ;en p|ont§ p|aqen #algea : on \ katà qum|on di Od. I, 4, dove si parla delle sofferenze conosciute da Odisseo. Va osservato che sia in Omero sia in Mimnermo le sofferenze colpiscono l’uomo nel qum|oj, l’organo che provoca le emozioni; pertanto gli effetti di queste sofferenze si fanno sentire non solo sul fisico, ma anche “sullo stato emozionale del vecchio” (Gentili). La prima delle disgrazie che possono colpire il vecchio è la distruzione della casa. Per descrivere questa eventualità Mimnermo impiega un’espressione omerica: o%ikoj truco^utai. Nell’Odissea (I, 248) Telemaco, lamentandosi dei Proci che hanno invaso la sua dimora e la stanno saccheggiando, dice che essi “distruggono la casa”, truco^usi o%ikon. Ma come va intesa questa rovina della casa nell’elegia di Mimnermo? Molto probabilmente si tratta della rovina del patrimonio: così infatti, anche sulla scorta del precedente epico, sembra doversi intendere o%ikoj. Stando così le cose, il senso generale sarebbe il seguente: il vecchio conosce la sofferenza perché dipende dagli altri e, se rimane solo (la mancanza dei figli è indicativa in questo senso), non c’è più nessuno che si occupi di lui. La rovina del patrimonio conduce alla povertà e in questo senso continua il v. 12: pen|ihj d’ 1rg’ ;odunhrà pélei. Una volta perduto il patrimonio sopraggiungono i guai della povertà, il male che oggettivamente colpisce il vecchio, perché questi non può più attendere ai propri lavori e alle proprie incombenze. La perifrasi pen|ihj 1rga ricorre identica in un passo di Solone, in cui si afferma che il povero, oppresso dalla miseria, pensa che un giorno potrà riscattarsi e diventare ricco. Interessante è poi l’uso dell’aggettivo ;odunhr|a, presente anche nel fr. 1 W, dove è riferito alla vecchiaia; qui invece sono le vicende della povertà ad essere dolorose. Il quadro delle sofferenze prosegue con un’immagine che dà il senso dell’importanza dei figli per i Greci. Essere senza figli era considerato uno dei mali più gravi: significava non lasciare alcuno che potesse onorare e conservare la memoria del defunto. Significativi a questo proposito sono alcuni versi della tragedia. Fra i molti che si potrebbero citare basti soffermarsi su Alcesti 621-622, in cui il vecchio Ferete dice “e fece sì che io non restassi senza figli (#apaida) e non lasciò che privato di te mi consumassi in una vecchiaia luttuosa”. Sempre in Alcesti 654-655 Admeto afferma che il padre aveva un figlio erede della casa e dopo la morte il vecchio non avrebbe lasciato la casa ad altri, ma questa sarebbe rimasta nell’ambito della sua discendenza. Ma anche nella cultura arcaica la presenza di figli era un elemento essenziale per la famiglia. Nell’Iliade (VI, 476481) Ettore innalza agli dei una preghiera chiedendo che suo figlio cresca forte e distinto fra i Troiani e un giorno superi il padre stesso. Nell’elegia che stiamo analizzando la mancanza di figli assume un grande rilievo, in negativo, nella vita del vecchio, che in questo caso perde qualsiasi forma di sussistenza, di aiuto anche morale. E la disperazione a questo punto accompagna il vecchio alla tomba, perché se ne va senza lasciare al mondo un figlio. 107 L’ultimo elemento dell’elenco è costituito dalle malattie. Il genere di malattia è specificato dall’aggettivo qumofq|oron, la cui interpretazione è discussa e da essa dipende anche la comprensione del tipo di male che tormenta il vecchio. L’aggettivo è presente sia in Omero sia in Esiodo. Nei vari passi dell’Iliade e dell’Odissea in cui ricorre, l’aggettivo assume il significato letterale “che distrugge la vita”, come ad esempio in Od. II, 329 (qumofq|ora f|armaka “veleni che distruggono la vita”), ma si presenta anche con significato metaforico. Il caso più interessante è quello di Od. IV, 716, in cui Penelope è disperata per la partenza di Telemaco e su di lei si versa #acoj qumofq|oron “una pena che distrugge il cuore”: è evidente che in questo verso qumofq|oron ha significato metaforico. E in Esiodo l’aggettivo è riferito alla povertà. Nell’elegia di Mimnermo il significato è metaforico perché, in caso contrario, come è stato acutamente osservato, la malattia e la morte conseguente sarebbero un rimedio, mentre nel contesto generale del carme la malattia è una sventura che accompagna l’uomo vecchio e solo. La chiusa possiede la medesima connotazione teologica del fr. 1 W. Come lì si dichiarava che un dio ha reso funesta la vecchiaia, così qui si afferma che si deve a Zeus se a ogni uomo sono riservati mali e sventure. L’idea espressa è tipica della poesia arcaica: notevoli a questo proposito sono due passi di Omero, Il. XXIV, 525-533 e Od. IV, 236-237. Nel discorso rivolto da Achille a Priamo, venuto a riscattare il corpo del figlio Ettore, si sostiene che sul pavimento della dimora di Zeus vi sono due vasi, uno colmo di mali, l’altro di beni, destinati agli uomini. Il sommo tra gli dei elargisce ad alcuni mali e beni insieme e così la vita di costoro conoscerà alterne vicende; ma altri avranno solo male e sventure di ogni genere. Il principio dell’alternanza fra bene e male ritorna in Od. IV, 236-237, un luogo che sembra il modello di Mimnermo: #allote #all§ Ze\uj ;agaq|on te kakòn dido^i, “Zeus ora a uno ora a un altro dà il bene e il male”. Al contrario che in Omero in Mimnermo non esiste questa alternanza: l’elegia si chiude con una immagine sconsolata della vita umana, nella quale non sembra ci sia spazio per le gioie e per le cose belle. La visione del mondo che traspare da questi versi è triste e malinconica: “dopo tre esempi di kak|a, il poeta ritorna al generico kakà poll|a e chiude la lirica tristissima con questa legge cupa che non patisce eccezioni e s’incide nel verso come in un marmo” (Pontani). La figura di Zeus svolge un ruolo identico al qe|oj del fr. 1 e i mali destinati all’uomo provengono tutti dall’alto, secondo un disegno imperscrutabile di fronte al quale non c’è possibilità di scampo. Anche questo componimento presenta una struttura curata e molto raffinata dal punto di vista formale. Abbiamo già detto della struttura tripartita che sottolinea i momenti centrali: giovinezza, vecchiaia, sofferenze. Tale struttura è sottolineata da una serie di richiami fra le varie parti. La prima e la seconda sezione hanno legami notevoli. Anzitutto esse sono come incorniciate dal termine 9rh che chiude il v. 1 e il v. 9; un altro richiamo fondamentale è téloj (vv. 6 e 9), che da una parte è legato a g|hraoj, dall’altra a 9rhj. Altro elemento in posizione di rilievo è ;hel|iou (v. 2) che viene ripetuto al v. 8 nell’identica posizione (chiusura del pentametro). Inoltre m|inunqa dè g|inetai 7bhj (v. 7) recupera p|hcuion ;epì cr|onon #anqesin 7bhj (v. 3); è evidente lo stretto legame di significato fra le due espressioni: la prima sottolinea la brevissima durata della giovinezza, mentre la seconda compie la stessa operazione impiegando per la giovinezza la metafora dei fiori che sono appunto di breve durata. Richiami significativi, tali da sottolineare la struttura polare della composizione, ci sono anche tra la prima parte e l’ultima. Ma questi ultimi richiami più che le analogie suggeriscono delle antitesi; infatti #anqesin 7bhj terp|omeqa si contrappone a pollà gàr ;en qum^§ kakà g|inetai, mentre il verso finale suggerisce un rimando ai vv. 4-5. Pontani ha inoltre finemente osservato come nell’ultimo verso “l’ampiezza dell’ambito in cui la legge di sventura si esercita e la pesante oppressione della sorte comune siano sottolineate intenzionalmente dall’indugio delle sillabe lunghe che colmano il primo hemiepes del pentametro: ristagno di un’amarezza che investe gli uomini tutti”. 108 Sentimento della morte e sentimento della vita Pessimisti i Greci? Il popolo dalle cui opere s’irradia ancor oggi tanto entusiasmo per la bellezza, tanta pienezza di vita?... Non si tratterà di doglianze nate dall’umore del momento, come ne cogliamo presso tutti i popoli civili?... La similitudine omerica tra la vita umna e le foglie che rapidamente appassiscono s’incontra nell’Iliade, e più tardi Seminide e Mimnermo la prendono come spunto per delle loro elegie (Semonide, 29 Diehl, Mimnermo, 1; 2; 6 Diehl); ma la conclusione che ne ricavano non è per nulla pessimistica: “Certo non c’è uomo - dicono - cui Zeus non mandi molti mali, e il futuro non è noto ad alcuno, ma appunto per questo godi l’oggi e non affannarti per quel che verrà!”. Nelle poesie d’amore di Mimnermo lo stesso pensiero si atteggia press’a poco così: “Godi la giovinezza! Viene ben presto la vecchiaia, che rende l’uomo brutto e inetto e gli rapisce la capacità di gioire del sole e della vita!”. E ancora: Deh, senza malattie, deh, senza incresciosi pensieri il destino di morte mi colga a sessant’anni! Ma questi versi valsero a Mimnermo un rimbrotto da parte del suo contemporaneo Solone, che aveva già varcato quel limite. Nel corso d’una lunga vita Solone aveva, sì, constatato che “nessun uomo è felice, ma tutti i mortali, quanti ne vede il sole, sono oppressi dalla fatica” (fr. 15 Diehl); d’altra parte però non solo sapeva apprezzare anche le gioie della vita (fr. 13 Diehl), ma aveva sperimentato con soddisfazione in se stesso che l’esistenza umana offre qualcosa di più elevato dell’aurea Afrodite. Indirizzò quindi a Mimnermo un’elegia in cui lo esortava a rettificare la sua così: Il destino di morte mi colga ad ottant’anni! Nell’Odissea il lamento sulla debolezza dell’uomo cresce d’intenità a causa della considerazione che l’uomo viene influenzato anche nel suo intimo dall’incalzare del destino (s 136 s.): Che muta il cuor degli uomini terrestri qual muta il giorno che per essi manda il Genitor degli uomini e dei Numi. Ma il poeta dell’Odissea conosce anche ciò che l’uomo ha da gettare sull’altro pitto della bilancia: “Qualunque dolore lo colpisca, egli lo sopporta con fermo cuore” (s 134 s.). L’eroe di tale fermezza è lo stesso Odisseo, il polútlaj. Quando noi traduciamo polútlaj dîoj ƒOdusseúj con “il paziente divino Odisseo”, ci mettiamo un’intonazione sentimentale e leggermente cristiana che è affatto estranea all’eroe omerico... Uomo della medesima tempra è il soldato di ventura Archiloco, che nella sua vita ha sperimentato in abbondanza rovesci di fortuna e delusioni, ma si tiene sempre in piedi e non si perde mai di coraggio. Che la mente dell’uomo muti a seconda di ciò che Zeus impone giorno per giorno, è per lui un’usuale, amara esperienza: e tuttavia al destino egli non si piega. Quando riceve la notizia che i suoi compagni più cari, i migliori tra i compagni, sono periti in un naufragio, sul primo momento il cuore rischia di spezzarglisi; ma “anche per i mli insanabili gli dèi ci diedero un rimedio, la tlhmosúnh”, la virile fermezza che gli dà la forza di superare il dolore. Come nell’architettura greca la colonna si erge sotto la pressione dell’architrave ed acquista così il suo significato di elemento strutturale; come il mitico Atlante, il cui nome è formato con la radice tla, regge sulle spalle la volta del cielo, così la resistenza dell’uomo al destino è parte integrnte del tessuto della vita greca: quella resistenza che non è un semplice tollerare e sopportare, ma una disposizione interiore capace di reagire con le proprie risorse contro il mono esterno. Mimnermo e Semonide si sottraggono al peso dell’esistenza rifugiandosi nel piacere del momento; Archiloco oppone ai colpi della fortuna la fermezza virile e un’indomabile volontà di affermarsi. Sono queste le due vie per le quali si metteranno gli Elleni al fine di superare qualsiasi difficoltà. Essi avvertono perfettamente il peso dell’esistenza, ma non ne risultano per tanto sminuite la loro energia e la loro voglia di vivere. 120 M. Pohlenz, L’uomo greco, pp. 142-147 passim L’invettiva La poesia che esprimeva i pensieri di un gruppo chiuso, sempre opposto ad altri avversari, nasceva con l’intenzione di proclamare ideali e valori e di contestare, anche violentemente, quelli di un altro gruppo. Nasce così una letteratura che ha al proprio centro l’invettiva, l’aggressione nei confronti di coloro che non condividono determinati comportamenti e idee. Tale letteratura si esprime prevalentemente con il giambo, che veniva eseguito in recitativo e accompagnato dall’aulo. Il giambo ha una preistoria, anteriore alla documentazione letteraria, e in questa preistoria si esplicitò in forma di enunciati improvvisati su temi beffardi e licenziosi. Il giambo era espressione dell’invettiva, del dileggio, dell’attacco personale e all’interno del simposio costituì “la scelta dionisiaca più sfrenata, il versante liberatorio e trasgressivo” (Vetta). Il giambo assunse anche funzione didascalica, in quanto divenne il mezzo per offrire al gruppo modelli cui conformarsi. Il giambo archilocheo nasce in un contesto che può collegarsi alla festa pubblica e alle problematiche politiche: nei suoi versi ritroviamo inequivocabili espressioni che prendono di mira esponenti di spicco della città (Leofilo) oppure termini che esprimono il desiderio ardente del poeta di scontrarsi con il proprio avversario. Un caso singolare è costituito dai frammenti contro Licambe, il vecchio che aveva negato la propria figlia in sposa a Archiloco. Anche Alceo, pur non essendo un giambografo, si esprime in alcuni frammenti con la violenza tipica di questo genere e scaglia vibranti invettive contro i protagonisti della vita politica della sua città, rei di tradimento (Pittaco). E spunti di aggressione a rivali si trovano persino nei frammenti di Saffo. Particolare il caso di Semonide, una cui lunga composizione, chiamata comunemente “Satira contro le donne” dimostra che il giambo a volte aveva contaminazioni con l’elegia e poteva affrontare temi più vicini a questa. Le sovrapposizioni fra giambo ed elegia sono evidenti pure in Solone. L’opera di Ipponatte, considerato l’esponente più rappresentativo della poesia giambica, è assai difficile da inquadrare: accanto alla violenza del giambo ritroviamo elementi che richiamano più da vicino la parodia. Anche Ipponatte si scaglia contro nemici personali come Bupalo o contro rappresentanti di gruppi sociali diversi dal suo. La poesia ipponattea si inserisce, come quella di Archiloco, nell’ambito della festa cittadina. 121 Ipponatte: Pluto vigliacco Fr. 36 W. L’invettiva e le offese sono talora scagliate anche contro gli dei, con i quali il poeta se la prende spesso per non essere stato aiutato. Così avviene in questo frammento, dove obiettivo degli strali di Ipponatte è il dio Pluto. Nella commedia Pluto il commediografo Aristofane rappresenta il dio afflitto dalla cecità. Tzetzes cita il frammento per dimostrare che Aristofane ha desunto da Ipponatte il motivo della cecità del dio. E a questa caratteristica Ipponatte ne aggiunge un’altra: il dio è “vile”. Prima di Ipponatte Pluto era stato tratteggiato in termini positivi da Esiodo nella Teogonia, dove è detto che il dio è figlio di Demetra ed è benevolo nei confronti di chi incontra sulla terra e sul mare, in quanto lo arricchisce. Nei versi di Ipponatte questa visione è violentemente contestata: il poeta non ha mai avuto la fortuna di imbattersi nel dio e di essere stato da lui beneficato. Metro: coliambi, il v. 4 è un trimetro puro. ƒEmoì dè Plo^utoj - 1sti gàr l|ihn tufl|oj ;ej t;§k|i’ ;elq\wn o;ud|am’ eôpen< “: Ipp^wnax, d|idwm|i toi mnéaj ;arg|urou tri|hkonta kaì p|oll’ 1t’ #alla“< de|ilaioj gàr tàj frénaj. 1-2. ƒEmoì dè Plo^utoj... eôpen: “A me Pluto – infatti è troppo cieco – non è mai venuto a casa a dirmi”. ;emo|i: il frammento inizia con il pronome messo in evidenza e contrapposto a Plo^utoj; ai vv. 2-3 ritorna la stessa contrapposizione, questa volta invertita, tra : Ipp^wnax e toi. Il nome del dio coincide con quello di “ricchezza”, da taluni collegato con pol|uj. 1sti gàr l|ihn tufl|oj: è un inciso che mostra un’evidente struttura della lingua parlata. è la prima attestazione della cecità del dio, ripresa da Aristofane con la motivazione che Zeus avrebbe reso cieco Pluto quando era bambino per evitare che si unisse solo a uomini onesti. ;ej t;§k|i’ ;elq\wn o;ud|am’ eôpen: il senso letterale in greco è il seguente “venuto in casa, non mi ha mai detto”. t;§k|i(a): crasi per tà o;ik|ia, è un diminutivo appartenente al lessico colloquiale. 2-4. : Ipp^wnax... tàj frénaj: “Ipponatte, ti dono trenta mine d’argento e molte altre cose ancora, infatti è vile nel cuore”. : Ipp^wnax: altra testimonianza dell’uso ipponatteo di riportare il proprio nome. toi: forma epico-ionica per soi. mnéaj ;arg|urou tri|hkonta: la mina in Attica valeva cento dracme, ma non siamo in grado di stabilire il valore che essa aveva nella Ionia. Inoltre è dubbio se si tratti di mine eginetiche o di mine persiane: le prime valevano di più. p|oll’ 1t’ #alla: l’espressione, molto generica, doveva comprendere tutto il necessario a innalzare il tenore di vita. de|ilaioj: la vigliaccheria è una costante del Pluto di Aristofane, mentre qui non siamo in grado di stabilire per quali ragioni Ipponatte definisse così il dio. tàj frénaj: accusativo di relazione. Sull’ultimo verso sono stati sollevati dubbi e si è tentato di correggerlo, ma il fatto che costituisca un trimetro in una sequenza di coliambi non è un caso isolato nei frammenti di Ipponatte. Preghiera O Zeus, padre Zeus, degli dei Olimpi sire, perché non mi hai dato dell’oro, anche lui sire dell’argento? ý Zeû, páter Zeû, qeÏn ƒOlumpíwn pálmu, tí mo÷k e# dwkaj crusón, Þrgúrou pálmu> (trad. Aloni) 140 La preghiera a Pluto Se Pluto non ha mai messo piede nella casa di Ipponatte, due sono le ragioni: la prima che il dio è completamente cieco (v. 1), la seconda che è pure, quasi non bastasse de|ilaioj (v. 4). Che quest’ultimo termine alluda alla natura pusillanime del dio, non alla sua ipotetica cialtroneria, come in genere si intende, dimostra una ricca e inoppugnabile documentazione, da cui il frammento ipponatteo non può evidentemente prescindere. Nell’accogliere e rivestire per primo di panni letterari il motivo del dio cieco che va di casa in casa (;epoik|idioj), il giambografo non si è lasciato sfuggire l’occasione di sfruttare abilmente anche il detto popolare “la ricchezza è vigliacca”, rivolgendo a Pluto, con l’abituale spregiudicatezza, anche l’epiteto di de|ilaioj. In ciò sta appunto la stessa sottile pointe del v. 4, che verosimilmente concludeva la composizione: se Pluto evita la casa di Ipponatte, ciò non è solo dovuto al fatto che non ci vede e non sa quindi distinguere gli onesti dai farabutti, ma anche al fatto che non se la sente, che gliene manca il fegato… Perché? Teme forse l’ira di Zeus come il Pluto aristofaneo (vv. 119-122)? O che magari il padrone di casa gli combini dei guai come quelli di cui si lamenta il protagonista della commedia (vv. 234-244)? La ragione della paura di Pluto Ipponatte non la dice. E forse è vano chiedersela: il suo, in fondo, è un arguto motto si spirito, tanto più succoso in quanto rivolto a una divinità, ma che ha tutta l’aria di essere in sé concluso e sufficiente. Esso lascia scherzosamente intendere che Pluto, per metter piede nella casa di Ipponatte, che con lui avrà certamente dei conti in sospeso, dovrebbe avere un bel coraggio: per questo, vigliacco com’è, preferisce girare al largo. Come nella preghiera ad Ermete, ignoriamo il contesto nel quale si inserivano questi versi, non se ne possono dunque chiarire fino in fondo le disincantate intenzioni; vedere comunque in essi irritazione blasfema, esasperazione, pessimismo, addirittura “una proiezione mentale da diseredato, acido per la sua sorte” (Del Grande), appare semplicemente ridicolo. Ma lo spassoso frammento è soprattutto significativo per il seguito notevolissimo che ebbe nella posteriore letteratura greca. Distorcendo l’ottimistica, ingenua immagine esiodea di un Pluto ;esql|oj che percorre “tutta la terra e l’ampio dorso del mare” per distribuire la ricchezza (Theog. 972 ss.), Ipponatte apre ancora una volta – come per Ermete – la strada ai comici, trasformando l’antica, bonaria divinità agreste, figlia di Demetra, in una gustosa macchietta, i cui elementi si trovano infatti, dal primo all’ultimo, in Aristofane. Non si tratta, forse, di vere e proprie “creazioni” del giambografo, bensì di elementi “popolari” cui egli si è compiaciuto di conferire dignità letteraria: ma l’importanza e l’originalità del fervido ingegno ipponatteo risultano ugualmente ben evidenti. E. Degani-G. Burzacchini, Lirici greci, pp. 59-60 Realismo e umorismo Ciò che distingue questo poeta da Archiloco è il suo modo del tutto diverso di guardare al mondo. In entrambi, senza dubbio, lo spunto immediato è fornito dalla situazione, con tutta la sua forza intatta. Ma di qui Archiloco passa sempre a considerare la totalità dell’esistenza umana o almeno della sua personale esistenza. Alla fine egli si chiede come resistere in quella impotenza, nella piena del dolore, in questi alti e bassi. Ipponatte non si pone di questi problemi; nei suoi versi c’è l’istante e niente più. Egli è veramente un poeta realistico, e inaugura una tendenza che in ultima istanza porterà al mimo. Ciò che lo sostiene nella sua vita di mendicante è il suo umorismo, che affiora attraverso ogni amarezza. A. Lesky, Storia della letteratura greca, tr. it., vol. I, p. 162. 141 Ipponatte: Pugilato Fr. 120-121 W. I seguenti versi, citati separatamente dalle fonti, dovevano costituire sicuramente un tutt’uno e esprimere l’immagine del desiderio di lotta contro l’odiato Bupalo, uno degli avversari di Ipponatte. Bupalo era uno scultore, ricordato anche da Plinio il Vecchio e da Pausania, ma non conosciamo le ragioni della rivalità tra lui e il poeta. Modello di questa zuffa, che secondo alcuni costituisce una vera e propria lite fra convitati all’interno del simposio, è la famosa scena omerica della lotta fra Odisseo e Iro, narrata nel canto XVIII (vv. 1-109) dell’Odissea. I due personaggi iniziano il loro scontro con offese e ingiurie e progressivamente arrivano allo scontro fisico, organizzato dai Pretendenti con vere e proprie norme all’interno del convivio che si tiene nella reggia di Itaca. Anche nell’Iliade (I, 533-604) si svolge una lite fra Zeus e Era, sedata da Efesto. Alla base del frammento ipponatteo ci sarebbe pertanto un preciso riferimento a episodi epici e questo elemento potrebbe leggersi in chiave di parodia. In genere i pugni si intendono in senso metaforico: con essi Ipponatte alluderebbe ai suoi giambi. Metro: tetrametri trocaici catalettici. L|abeté meo ta;im|atia, k|oyw Boup|al§ tòn ;ofqalm|on. ;amfidéxioj g|ar e;imi ko;uk :amart|anw k|opnwn. 1-2. L|abeté meo... k|opnwn: “Tenete il mio mantello, voglio colpire l’occhio a Bupalo. Infatti sono ambidestro e non sbaglio a colpire”. l|abete: imperativo aoristo di lamb|anw; il poeta si rivolge agli astanti e chiede loro di prendergli il mantello per essere più libero nei movimenti. meo = mou. ta;im|atia: crasi per tà i: m|atia. k|oyw: si può intepretare come un futuro che esprime un’intenzione oppure come un congiuntivo aoristo (“ch’io colpisca”). Il verbo k|optw già in Omero è impiegato per indicare i colpi nel pugilato. Boup|al§: alcuni leggono Boup|alou. a ; mfidéxioj: l’aggettivo significa “ambidestro” e anche “abilissimo”; qui deve essere conservato il significato letterale altrimenti si perde tutta la forza e il significato della metafora. Anche nell’Odissea (XVIII, 28) Iro dice k|optwn a ; mfotér+si, “colpendo con tutte e due le mani”. ko;uk a : mart|anw: litote. ko;uk = kaì o;uk. k|optwn: participio predicativo. Questi versi ebbero una larga fama. Di essi si ricorda Aristofane (Lys. 360-361): e;i n\h D|i’ 2dh tàj gn|aqouj to|utwn tij ; h\ dìj ; h\ trìj 1koyen 9sper Boup|alou, fwn\hn ; \an o;uk ; \an eôcon. Per Zeus se qualcuno gli desse due o tre pugni in faccia come quelli di Bupalo, non aprirebbero più bocca. (trad. Paduano). è interessante anche un epigramma dell’Antologia Palatina (VII, 405) in cui si ricordano questi versi: Straniero, fuggi il tumulo che grandina % W xe^ine, fe^uge tòn calazep^h t|afon tremendo d’Ipponatte, la cui cenere tòn friktòn : Ipp|wnaktoj, o£u te c;a avventa giambi sull’odiato Bupalo, téfra ché la sopita vespa tu non susciti: ;iambi|azei Boup|aleion ;ej st|ugoj, giù nell’Averno non sopì la collera, m|h pwj ;ege|ir+j sf^hka tòn koim|wmenon, che strali dritti in versi zoppi dardeggiò. &oj o;ud’ ;en ! Aid+ n^un keko|imiken c|olon, (trad. Pontani). sk|azousi métroij ;orqà toxe|usaj 1ph. In questo epigramma l’interpretazione dei pugni va nella direzione metaforica. 142 AUTORE Politica Simposio Amore Morte Invettiva Mito Poesia Alceo 23 33 62 - 130 154 - Alcmane - - 60 - - - 179 Anacreonte - 41 80 115 - - 191 Archiloco 18 32 52 98 122 - 174 Callino 6 - - - - - - Ibico - - 88 - - - - Ipponatte - - - - 134 - - Mimnermo 17 - 55 104 - 146 - Pindaro - - - - - 167 - Saffo - - 63 112 - 151 185 Senofane - 47 - - - 164 - Semonide - - - - 127 159 196 Solone 14 - - 109 - - 182 Teognide 27 46 - 118 - 157 193 Tirteo 10 - - 94 - - - In questo prospetto diamo, per comodità di individuazione, le pagine iniziali delle diverse sezioni in cui i passi dei singoli poeti sono riportati in relazione ai diversi temi toccati. La presenza o assenza dei diversi temi costituisce infatti un elemento di caratterizzazione della personalità poetica di ciascun autore. L’elenco analitico dei passi è riportato nell’indice generale che segue. 204 INDICE (con A. sono indicati gli approfondimenti, con L. le letture critiche) Presentazione 03 La politica Callino Tirteo Solone Mimnermo Archiloco Alceo Teognide 005 Esortazione alla lotta (p. 6) - A.: Architettura sapiente (p. 8) - A.: Callino e Omero (p. 9) Canto di guerra (p. 10) - A: Il ritorno degli Eraclidi (p. 10) - La guerra contro Messene (p. 11) A.: Elegia e epopea (p. 12) - Come gli asini gravati dai pesi (p. 13) - A.: Il senso di un’immagine (p. 13) L’araldo (p. 14) - La buona città (p. 15) A.: La riforma di Solone (p. 16) - A.: Poesia e storia La fondazione di Colofone (p. 17) - A.: Una fondazione violenta (p. 17) Lo scudo (p. 18) - A.: La dissacrazione della morale eroica (p. 19) - Il buon generale (p. 22) - A.: Eroismo e bellezza (p. 22) La contesa dei venti (p. 23) - A.: Le lotte politiche a Mitilene (p. 23) - A.: Un paragone ricorrente - L.: L’allegoria della nave (p. 24) - L’odiato Pittaco (p. 24) A.: Alceo e Pittaco (p. 26) Il parto della città (p. 27) - A.: Corrispondenze (p. 28) - A.:; Agaqo|i e kako|i in Teognide (p. 29) - L’esilio (29) - A.: Il sentimento della lontananza (p. 30) Il simposio Archiloco Alceo Anacreonte 006 010 014 017 018 023 027 031 Simposio sulla nave (p. 32) - A.: Un simposio “fuori della norma” (p. 32) Brindisi per la morte del tiranno (p. 33) - A.: Efficacia espressiva (p. 33) - Simposio d’inverno (p. 032) - A.: Impressionismo (p. 34) - Alceo e Orazio (p. 35) - Il vino, dono degli dei (p. 36) - L.: Il simposio in Alceo (p. 37) Simposio d’estate (p. 38) - A.: Altre impressioni (39) - Beviamo… (p. 40) Simposio di primavera (p. 40) - Altri versi da simposio (p. 40) Le regole del simposio (p. 41) - A.: Invito alla misura (p. 42) - Porta vino…(p. 43) - A.: Zuffa al simposio (p. 43) - Simposio e canto (p. 44) L.: Il simposio tirannico (p. 45) 205 032 033 041 Teognide Senofane Catena di simposii (p. 46) - A.: Motivi da simposio (p. 46) Le regole del simposio (p. 47) - L.: La poesia del simposio (p. 49) - Un simposio disimpegnato (p. 50) - A.: convivialità (p. 048) L’amore Archiloco Mimnermo Alcmane Alceo Saffo Anacreonte Ibico Archiloco Mimnermo 047 051 Il ramo di mirto (p. 52) - A.: Suggestione erotica (p. 52) - Desiderio d’amore (p. 53) - A.: Omero trasfigurato (p. 53) - Sofferenza d’amore (p. 54) - A.: Omero interiorizzato (p. 54) Giovinezza e amore (p. 55) - L.: Godere la vita che passa - A.: L’ideale della giovinezza (p. 57) - La passione d’amore (57) - L.: Nascita della soggettività - L.: La poesia di Mimnermo (59) Eros (p. 60) - A.: Esperienze d’amore (p. 60) - L.: L’”io/noi” lirico:individualità e collettività (p. 61) Lamento (p. 62) - A.: Alceo, Saffo e la poesia popolare (62) La preghiera ad Afrodite (63) L.: Una preghiera personalizzata (p. 67) A.: Impulso interiore - Pari agli dei…(p. 69) - A.: I turbamenti dell’amore (p. 71) - L.: Senso della bellezza - Tempesta d’amore (p. 73) - A.: Forza travolgente (p. 73) - Meglio morire (p. 74) - Altri versi d’amore (p. 76) A.: La dimensione del ricordo (p. 77) - Eros dolceamaro (p. 78) - L.: Le poesie della memoria (p. 79) Eros dalla chioma d’oro (p. 80) - A.: Gioco a tre (p. 81) - Preghiera (p. 82) - Altri versi d’amore (p. 83) - L.: Eros nel simposio (p. 83) - Eros il fabbro (p. 84) - A.: Ripresa omerica (p. 84) - Amore-follia (p. 85) A.: Riecheggiamenti anacreontei (p. 85) - La puledra tracia (p. 86) - A.: Grazia e malizia (p. 87) - Gli astragali di Eros (p. 87) 055 060 062 063 080 Prigioniero (p. 88) - A.: Contrasti (p. 89) - Eros cacciatore (p. 90) - L.: Malia invincibile (p. 91) - L.: Ibico poeta (p. 92) La morte Tirteo 046 093 Bello morire in guerra (p. 94) - L.: La morte dell’eroe (p. 95) - L.: L’onore e la morte Il naufragio (98) - L.: Esortazione alla sopportazione (p. 99) - Capacità di reagire - Fortezza nei dolori (p. 102) - Chi muore giace… (p. 102) - L.: Caducità della gloria (p. 103) Come le foglie (p. 104) L.: Da Omero, oltre Omero (p. 105) - Morire a sessant’anni (p. 109) 206 094 098 104 Solone Saffo Anacreonte Teognide Morire a ottant’anni (p. 109) - ) - L.: Mimnermo e Solone (p. 110) - La morte e il ricordo (p. 110)- L.: Comunicazioni tra poeti (p. 111) Desiderio di morte (p. 112) - Adone è morto (p. 113) - L.: Il culto di Adone (p. 113) - L.: Senso del divino (p. 114) Amore e morte (p. 115) - L.: Variazione letteraria? - Erotismo e malinconia (p. 115) - I segni del tempo (p. 116) - A.: Timor della morte (p. 117) La cosa migliore (p. 118) - Morte immortale (p. 118) - Squallore di morte (p. 119) - L.: L’immagine della morte - Angoscia della morte e amore della vita (p. 119) Linvettiva Archiloco Semonide Alceo Ipponatte Saffo Alceo Teognide 112 115 118 121 Il factotum (p. 122)- A.: Satira letteraria o politica? (p. 122) - Mi prudono le mani... (p. 123) - Occhio per occhio (p. 123) - Licambe rimbambito (p. 150) - A.: Realtà o fantasia? (p. 124) - L.: Il giambo e l’invettiva (p. 125) Satira contro le donne (p. 127) - Altri esempi d’invettiva (p. 128) - L.: Razze diverse (p. 129) Contro un traditore (p. 130) - Altri versi d’invettiva (p. 132) - A.: Il senso dell’inimicizia (p. 132)- L.: La natura della lotta politica (p. 133) Il tagliaombelichi (p. 134) - Altre invettive contro Bupalo - A.: Poeta “maledetto” o poeta raffinato? (p. 134) - Il mangione (p. 135) - A.: L’esperienza della fame (p. 137) - L.: Poeta di un genere minore (p. 137) - Il pittore pervertito (p. 137) - A.: Pastiche linguistico (p. 137) - Preghiera a Ermes (p. 138) - A.: “Pitocco” letterario (p. 138) -Pluto vigliacco (p. 140) - Preghiera (p. 140) L.: La preghiera a Pluto (p. 141) - Pugilato (p. 142) - Riecheggiamenti ipponattei (p. 142) - Musa, canta quel trippone (p. 143) - A.: Poemi contraffatti (p. 144) - L.: Ipponatte (p. 144) Il mito Mimnermo 109 122 127 130 134 145 Titono (p. 146) - A.: Male immedicabile (p. 146) - Giasone (p. 147) - A.: Il mito in Mimnermo (p. 148) - Il cammino del Sole (p. 149) - A.: Divinità umanizzata (p. 150) La cosa più bella (p. 151) - L.: Scelta d’amore (p. 153) Elena (p. 154) - Le colpe di Elena (p. 155) - L.: Condanna morale (p. 102) - A.: Risposta a Saffo (p. 156) Eros crudele (157) - A.: Amore e morte (p. 157) - Ganimede (p. 158) 207 146 151 154 157 Simonide Senofane Pindaro Il canto dell’amore materno (p. 159) - Altri versi sul mito (p. 161) - L.: Il lamento di Danae (p. 162) Falsa teologia (p. 164) - A.: Vecchia e nuova religione (p. 164) - L’uomo come Dio? (p. 165) - Gli dei visti… dagli animali (p. 165) - L.: Poesia teologica (p. 166) Il mito di Pelope (p. 167) - L.: I valori del mito (p. 171) - L.: L’epinicio pindarico (p. 172) La poesia Archiloco Alcmane Solone Saffo Anacreonte Teognide Simonide 159 164 167 173 Sono servo delle Muse (p. 174) - A.: Oltre Omero - Una nuova coscienza poetica (p. 175) - Professione di poeta (p. 177) - Io intono il Peana (p. 177) - L.: Archiloco (p. 124) Invocazione alla Musa (p. 179) - Il canto delle pernici (p. 179) - A.: Poesia e imitazione (p. 180) - Il mestiere del poeta (p. 180) - L.: La mimesis (p. 180) - L.: La poetica del “trovare” (p. 181) Preghiera alle Muse (p. 182) - A.: Poesia e impegno civile (p. 183) - I piaceri della vita (p. 184) - Le attività umane (p. 184) Onorata dalle Muse (p. 185) - La maledizione (p. 185) - A.: Poesia e immortalità (p. 186) - “Venite, o Muse” (p. 186) - Le Cariti (p. 187) - Il divieto (p. 187) - “Ora canterò” (187) L.: La poesia per Saffo (p. 134) Dopo i Greci, con i Greci (190) La grazia del poeta (p. 191) - Poetica (p. 191) - A.: Poesia, cárij, e÷frosúnh (p. 192) Il sigillo (p. 193) - L.: Il sigillo teognideo (p. 194) - “Ti ho dato le ali” (p. 195) - A.: Poesia eternatrice (196) Orfeo (p. 197) L.: Il mito di Orfeo (p. 197) - La voce del vento (p. 198) - L.: Simonide: poesia e techne (p. 199) 174 179 182 185 191 193 196 Bibliografia 201 Appendice metrica 202 Prospetto autori/temi 204 208