Reati razzisti Tribunale di Verona sent. n. 2203 del 02/12

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Reati razzisti Tribunale di Verona sent. n. 2203 del 02/12
Tribunale di Verona
sentenza 2.12.2004/24.2.2005 n. 2203 - est. Di Camillo
Nel procedimento penale contro […], parti civili […], imputati del reato di cui agli artt.
110 c.p. e 3 comma 1 lett.a) n. 654/75 come modificato dall’art. 1 del d.lgs. n.
122/93 convertito in legge n. 205/93, per avere, agendo in concorso tra loro,
mediante l’iniziativa di raccolta di firme per “mandare via gli zingari” - presentata in
una apposita conferenza stampa ed ampiamente pubblicizzata con l’affissione di
manifesti sui muri della città e con dichiarazioni rese alla stampa - rivolte ai cittadini
veronesi e finalizzata ad ottenere il definitivo allontanamento dal territorio comunale
di Verona degli zingari, anche se iscritti nell’anagrafe di questa città, per il solo fatto di
essere “zingari” e, quindi, appartenenti ad un’etnia diversa e non integrabile nella
nostra società, diffuso idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico e
incitato i pubblici amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per
motivi razziali ed etnici e conseguentemente creato, mediante la richiesta di
un’adesione in forma diffusa all’iniziativa discriminatoria da loro patrocinata, un
concreto turbamento alla coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale
al quale il messaggio era indirizzato;
In Verona dal 10 al 15.9.2001; conclusioni […]; motivazione; A. Lo svolgimento del
processo […]; B. Le risultanze processuali - Le prove orali […]; C. Le risultanze
istruttorie - Le prove documentali […].
D. Questioni di merito.
Due sono essenzialmente le questioni alle quali il Collegio é chiamato a dare una
risposta
a fronte delle tematiche che, alla luce delle risultanze istruttorie, sono emerse.
1. Da una parte, ci si chiede se si debba ritenere condivisibile la ricostruzione dei fatti,
siccome prospettata dalle difese degli imputati, nel senso di ravvisare nella condotta
contestata agli imputati l’espressione concreta di una spinta volitiva volta al richiamo
dell’attenzione della amministrazione comunale a farsi carico dell’assunto dovere di
ripristino della legalità a seguito di condotte dei membri della comunità zingara dei
Sinti che si erano accampati abusivamente in luoghi (zona di Borgo Venezia e zona
dello Stadio) a loro non legalmente assegnati dalla stessa amministrazione, la quale in ottemperanza alla legislazione regionale - aveva in passato riconosciuto, e
continuava a riconoscere, come unico campo nomadi quello esistente in zona Forte
Azzano.
2. D’altra parte, il Collegio é chiamato a verificare se ci si trovi di fronte a
comportamenti che, siccome ascritti agli imputati, muovano dal fatto che le persone
offese siano state fatte bersaglio di assunte discriminazioni in tanto in quanto
appartenenti a quella particolare etnia (zingari), a quel particolare gruppo etnico (i
Sinti), a quel particolare modo di cultura e di vita (il nomadismo), e per ciò stesso,
dunque, la discriminazione sia stata seguita da concreti atti che abbiano dato
espressione specifica del pensiero di cacciare tale etnia, tale gruppo dalla città di
Verona.
E. La condotta contestata.
Si contesta a tutti gli imputati di avere diffuso idee fondate sulla superiorità e sull’odio
razziale ed etnico, oltre ad avere incitato a commettere atti di discriminazione per
ragioni razziali ed etniche. In particolare si é contestata la violazione dell’art. 3,
comma 1, lett. a) della legge 13 ottobre 1975, n. 654 sotto il profilo della assunta
diffusione di idee razziste e di incitamento a commettere atti di discriminazione in
danno dei membri della comunità dei Sinti, di etnia zingara. Secondo l’assunto
accusatorio la violazione é stata concretizzata dagli imputati, in concorso tra loro,
attraverso:
1) l’iniziativa rivolta ai cittadini veronesi e finalizzata ad ottenere il definitivo
allontanamento da Verona di tutti gli zingari - anche di quelli iscritti nell’anagrafe di
tale città e per il solo fatto di essere membri dell’etnia zingara -; iniziativa attuata con
la forma di raccolta di firme per “mandare via gli zingari”, siccome presentata in
un’apposita conferenza stampa ed ampiamente pubblicizzata con l’affissione di
manifesti sui muri della città e con dichiarazioni rilasciate alla stampa locale;
2) la diffusione, tramite detta iniziativa, di idee fondate sulla superiorità e sull’odio
razziale ed etnico;
3) l’incitamento ai pubblici amministratori competenti a commettere atti di
discriminazione per motivi razziali ed etnici;
4) il concreto turbamento, mediante la richiesta di un’adesione in forma diffusa
all’iniziativa discriminatoria da loro patrocinata, alla coesistenza pacifica dei vari
gruppi etnici nel contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato. I fatti addebitati
sono stati collocati nel periodo compreso tra il 10 e il 15 settembre 2001.
In particolare l’episodio di cui si é discusso nel processo riguarda un gruppo di
persone, oggi imputate, esponenti di un partito politico con responsabilità
amministrative a livello locale. Gli imputati hanno fatto affiggere in Verona e nei
comuni limitrofi dei manifesti con il logo del partito “Lega Nord”; il contenuto di tali
manifesti recita “No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari: no
ai campi nomadi”.
Attraverso questi manifesti e con volantini dal simile contenuto gli imputati hanno
inteso promuovere la pubblica raccolta di firme per indurre gli organi veronesi
competenti a cacciare gli zingari dalla città di Verona. L’iniziativa é stata
accompagnata da una conferenza stampa di presentazione, alla quale hanno
partecipato gli organizzatori (gli imputati), e da una nutrita serie di dichiarazioni alla
stampa locale.
F. La norma di legge contestata.
Si contesta, come detto, il reato di cui all’art. 3, comma 1, lett. a) della legge 13
ottobre 1975, n. 654. La norma che si assume essere stata violata dagli imputati così
recita:
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato … é punito con la reclusione sino a tre
anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o
etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi
razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Orbene, ciò premesso, va ricordato che per il
diritto penale soltanto i fatti degli uomini hanno valore, i pensieri no. Questi, infatti,
anche se costituiscono la parte più alta e più nobile dell’umanità, si nascondono e
sono senza importanza per il mondo esteriore. Solo gli atti provocano conseguenze e
modificazioni, così i pensieri in sé sono irrilevanti per il diritto, che invece considera i
loro effetti, gli atti appunto. Eppure l’atto, quale pensiero esternato in forma di
condotta (positiva o negativa), é esso stesso pensiero, é pensiero di per sé. Questa é
una fondamentale distinzione ai fini dell’individuazione del limite di liceità dell’esercizio
del diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero.
Il pensiero di per sé é liberamente esternabile sino a quando, come effetto del
pensiero in sé assolutamente libero, non lede o mette in pericolo altri diritti
costituzionalmente garantiti in sé, quali la dignità umana, l’identità razziale e
culturale, l’orientamento sessuale, il credo religioso, la reputazione, ecc.
F.1. Profili di costituzionalità.
Dall’interpretazione letterale e sistematica della norma [art. 3, comma 1, lett. a) della
legge 13 ottobre 1975, n. 654] emerge che l’incitamento alla discriminazione o alla
violenza é solo lo scopo mediato di un ulteriore fine, che consiste nella limitazione,
imposta ad altri individui, appartenenti alla stessa società civile, di esercitare i diritti
civili, politici ed amministrativi individuali e collettivi, di cui sono titolari, perché diversi
per razza, etnia, nazionalità o religione.
Il precetto é quindi tipizzato e determinato in conformità della disposizione contenuta
nell’art. 25, co. 2 Cost..
La norma contestata non viola il diritto di libera manifestazione del pensiero (art. 21
Cost.), perché 1’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta,
quanto meno intesa come comportamento generale, e realizza un quid pluris rispetto
ad una manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali. Non viola
nemmeno le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 Cost.: in realtà é proprio la condotta
vietata con la norma penale de qua che si pone in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., e
non l’inverso, perché l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici,
nazionali e religiosi tende alla compressione della pari dignità sociale dei cittadini, alla
esclusione del principio di uguaglianza e alla violazione di diritti inviolabili dell’uomo.
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per contrasto
con l’art. 25, secondo comma, Cost., dell’art. 3, terzo comma, della legge 13 ottobre
1975, n. 654, nel testo sostituito dall’art. 1 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito
con modificazioni in legge 25 giugno 1993, n. 205 nella parte in cui configura come
reato associativo la promozione, la direzione o la semplice partecipazione ad ogni
forma di organizzazione che abbia tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o
alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, atteso che il precetto deve
ritenersi tipizzato in base all’individuazione dello scopo ultimo della struttura collettiva
che consiste nel limitare o impedire ad altri individui della stessa società civile
l’esercizio dei propri diritti civili e politici.
E’ altresì manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per
contrasto con l’art. 21 Cost., della citata normativa, in quanto l’incitamento ha un
contenuto fattivo di istigazione ad una condotta che realizza un quid pluris rispetto
alla mera manifestazione di opinione personale.
E’ manifestamente infondata la medesima norma di legge ordinaria con riguardo
all’art. 3 Cost., atteso che la tutela costituzionale é circoscritta alle sole associazioni
che perseguono finalità consentite ai singoli dalla legge penale, mentre la
discriminazione é attuabile soltanto attraverso atti di illegittima coercizione fisica o
morale di altri soggetti, che integrano di volta in volta la violenza privata, l’estorsione,
le lesioni volontarie ed altre figure criminose.
Le condotte incriminate dall’art. 3 legge n. 654/1975 confliggono con il principio
costituzionale di uguaglianza e la loro repressione é giustificata anche perché il diritto
alla libera manifestazione del pensiero, tutelato dall’art. 21 Cost., non può essere
esteso fino alla giustificazione di atti o comportamenti che, pur estrinsecandosi in una
esternazione delle proprie convinzioni, ledono tuttavia altri principi di rilevanza
costituzionale ed i valori tutelati dall’ordinamento giuridico interno e internazionale.
F.2. Distinzione con figure affini.
Tra la condotta di “propaganda razziale”, indicata nell’art. 1 della legge 20 giugno
1952, n. 654 come modalità di attuazione delle finalità antidemocratiche del disciolto
partito fascista e quella di “incitamento alla discriminazione per motivi razziali” di cui
all’art. 1, comma terzo, del d.l. 26 aprile 1993, n.122, convertito nella legge 25
giugno 1993, n. 205, con il quale é stato sostituito l’art. 3, co. 3, della legge 13
ottobre 1975, n. 654, non esiste diversità di oggetto giuridico: entrambe le norme
giustificando l’intervento penale al fine di scongiurare il ricorso collettivo a pratiche di
natura discriminatoria sul piano razziale, ma vi é diversità nel contenuto istigatorio.
Mentre la “propaganda identifica in sé l’azione volta a diffondere un idea e a fare
proseliti, l’incitamento fa nascere ed alimenta lo stimolo che spinge all’azione di
discriminazione e, quindi, realizza un fatto ontologicamente più grave”. Ed invero, per
quanto concerne il divieto di svolgimento di attività lato sensu razzista, la legge n.
654/1952 e la legge n. 205/1993 presentano un’oggettività giuridica sostanzialmente
coincidente.
Peraltro, poiché l’art. 1 della Legge n. 205/1993 nella parte in cui ha sostituito l’art. 3
della legge n. 654, stabilisce che le relative disposizioni si applicano soltanto “se il
fatto non costituisce più grave reato”, le disposizioni stesse assumono carattere
sussidiario rispetto alle previsioni dettate dalla legge n. 654/1952.
Il reato di cui all’art. 3, comma 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, nel testo
sostituito dall’art. 1 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni nella
legge 25 giugno 1993, n. 205 non implica la finalità di eversione dell’ordine
democratico.
Le finalità illecite perseguite, infatti, da chi pone in essere taluno dei comportamenti
previsti dalla suddetta norma incriminatrice, pur essendo indubbiamente configgenti
con diversi principi costituzionali, tra cui, in particolare, quello di uguaglianza, non per
questo comportano anche la presenza della altre cennate finalità di tipo eversivo,
essendo queste configurabili, in generale, quando lo scopo perseguito sia non soltanto
quello della diffusione di idee o di comportamenti contrari a valori tutelati dalla
Costituzione, ma anche quello di ottenere, in pratica, l’effettivo risultato di un
rivolgimento politico in conseguenza del quale l’assetto istituzionale dello Stato venga
radicalmente mutato perdendo le caratteristiche di fondo della democraticità. Il che
implica, naturalmente, l’ulteriore condizione che siffatta finalità sia perseguita con
mezzi potenzialmente suscettibili di realizzarla. Ne consegue che, ove tali condizioni si
verifichino in concreto, il reato in questione può essere aggravato ai sensi dell’art. 1,
comma primo, del d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito con modificazioni nella
legge 6 febbraio 1980, n. 15.
G. Bene giuridico tutelato dalle norme antirazziste.
Ogni norma che comprime le libertà fondamentali dell’uomo é essenzialmente norma
di ordine pubblico. Ciò non si pone in contrasto con la circostanza che le libertà
fondamentali dell’uomo, ove riconosciute in qualunque loro forma di manifestazione,
siano espressione della di lui dignità d’esserci nel gruppo di cui egli é membro. Dire,
invero, che la norma che delimita l’espressione delle libertà fondamentali dell’uomo è
una norma di ordine pubblico equivale a riconoscere che esistono altre libertà fondamentali che con quelle possono entrare in conflitto nel caso concreto, e che solo il
principio del bilanciamento degli interessi in favore di questa o quella libertà
fondamentale consente di dare concreta attuazione alla norma di ordine pubblico.
Ora, la nozione di ordine pubblico stricto sensu va tenuta distinta da quella dei più
ampi concetti di ordine giuridico e ordine pubblico generale. L’ordine pubblico in senso
stretto va inteso quale buon assetto e regolare andamento del vivere civile, cui
corrispondono nella collettività l’opinione e il senso della tranquillità e della sicurezza:
l’ordine pubblico di che trattasi, dunque, é sostanzialmente un sinonimo di pace
pubblica. La volontà di garantire la pubblica tranquillità e la sicurezza nelle relazioni
intersoggettive tra uomini di razze, etnie nazioni, religioni diverse sono la ratio
dell’intervento legislativo che, sanzionando atti di per sé discriminatori dell’altrui
esserci qui ed ora per causa di razza, etnia, nazione o religione, ha inteso sottolineare
il principio secondo il quale, per tale bene giuridico, possa essere giustificata anche
una limitazione alle libertà costituzionali, quale quella della manifestazione (libera) del
pensiero in ogni sua forma (art. 21 co. 1 Cost.), atteso che ogni pericolo alla pubblica
tranquillità ed alla sicurezza comporta ipso facto un’effettiva minaccia per la vita
collettiva. Ne consegue che il pericolo di che trattasi va inteso in senso relativo, ossia
deve essere provato in concreto che il bene giuridico tutelato é stato minato dalla
condotta dell’agente, e solo quando tale prova sia stata fornita si può dire che é posta
in pericolo la pacifica ed ordinata vita collettiva, dunque che é stato leso l’interesse
dell’ordine pubblico nel senso stretto dell’accezione del termine: nel caso di specie è
stato provato il vasto allarme sociale provocato dalla condotta contestata agli
imputati, e ciò non solo nell’ambiente zingaro ma anche nella parte della cittadinanza
che, più di altri, si occupa quotidianamente dell’integrazione degli zingari nel contesto
sociale urbano. Oggetto della tutela penale di cui all’art. 3 legge n. 654/1975 non é,
tuttavia, soltanto l’ordine pubblico inteso in senso stretto, cioè a dire non già solo
l’ordine pubblico sostanziale delimitato nella propria tutela penale entro ambiti
rigorosamente rispettosi dei diritti politici e delle libertà fondamentali. Oggetto della
tutela penale di cui al citato articolo 3 é anche, e soprattutto, la dignità di ogni uomo
ad essere considerato come egli é per razza, per etnia, per nazione o per credo
religioso.
Si tratta allora di un reato plurioffensivo nel quale l’ordine pubblico viene in rilievo
soltanto sotto il profilo della tranquillità e della sicurezza, dunque del mantenimento
della cd. pace pubblica, e giustifica limitazioni alle libertà costituzionali allorquando il
pericolo per esso sia dato da un’effettiva minaccia per la vita collettiva. Il bene della
dignità umana, invece, rileva sempre e comunque, indipendentemente dalla
circostanza che la cd. pace pubblica possa essere messa in pericolo dalla condotta
vietata dalla legislazione antirazzista. La dignità umana non é la semplice dignità,
sentimento che riguarda la piena consapevolezza della propria nobiltà di animo, del
proprio valore e dei propri diritti e che, contraddistinguendo colui che é giunto ad una
profonda maturazione morale, si manifesta nelle parole, nelle azioni, nel contegno, ma
é la piena consapevolezza di ogni essere umano di essere tale quale egli é. La dignità
umana va rispettata, compresa come tale e come tale tollerata, al di là che il singolo
uomo abbia maturato una consapevole convinzione del proprio status, del proprio
valore, dei propri diritti.
G.1. La “ratio” della legislazione antirazzista.
La “ratio” della disposizione antirazzista di cui all’art. 3 della legge italiana 13 ottobre
1975, n. 654 é la medesima di quella sottesa alla circostanza aggravante prevista
dall’art. 3, comma 1 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito in legge 25 giugno 1993,
n. 205, e di quella su cui si fonda la norma di cui all’art. 43 d.lgs. 25 luglio 1998, n.
286.
Parlare di “ratio” di dette statuizioni normative significa enucleare la ragione
dell’intervento legislativo, ossia capire il perché dell’interdetto.
Innanzitutto é chiaro che, ove si consideri che il razzismo é un’eredità xenofoba
concepita come atavica ed originaria, dunque, un effetto di logiche sociali di dominio,
sfruttamento e prevaricazione, si deve ammettere che lo spirito umano abbia
naturalizzato la tendenza della “paura dell’Altro” finendo per destoricizzare il
fenomeno razzista in forza di motivazioni universali e transtoriche, quali l’interesse
differenzialista e la paura della sopraffazione e dell’annientamento dell’identità, e, di
conseguenza, “é molto probabile che un simile comportamento si perpetui” anche nel
tempo a venire.
L’antirazzismo é una conquista, un traguardo da raggiungere attraverso la
padronanza:
1) dei processi mentali di manifestazione delle idee aventi ad oggetto l’essenza
dell’uomo; 2) degli effetti della natura discriminatoria del pensiero di ogni uomo;
3) dell’esternazione delle proprie paure irrazionali e dei propri interessi particolari.
Esiste, dunque, un pessimismo di fondo nella legislazione antirazzista, quello di dovere
ammettere che il male é naturalizzato nell’uomo, il cui lato cattivo é quotidianamente
sempre in agguato, manifestandosi in modo prorompente ogni qualvolta l’occasione
concretamente consenta di dare contezza sostanziale al pensiero naturale di
contrapposizione tra l’idea del legame di solidarietà interna al gruppo di appartenenza
e l’idea di stigmatizzazione delle condotte di tutti coloro che non sono riconducibili al
proprio gruppo.
In altre parole, dunque, é stato chiaro al legislatore che l’uomo non é, come pensava
Aristotele, (solo) un animale socievole per natura, ma, anzi, al di fuori, del gruppo di
appartenenza predomina in ogni uomo lo stato di natura retto dal principio “homo
homini lupus” di hobbsiana memoria: la cd. legislazione antirazzista lascia così
intendere il fondamento naturale del razzismo in base all’idea che vi sia continuità tra
le forme contemporanee di interiorizzazione e di esclusione e le attitudini ed i
comportamenti primordiali e universali di tipo xenofobo ed etnocentrista.
Orbene, l’individuazione del bene giuridico protetto dalla normativa antirazzista è data
dalla risposta al “perché il legislatore vuole che l’uomo sia antirazzista e punisce
chiunque sia razzista”!
Sostenere genericamente che la legislazione antirazzista tuteli il bene giuridico
essenzializzato dalla dignità personale dell’uomo come tale, uguale a qualsiasi altro
uomo e pur sempre da questo diverso per il suo pensiero, la sua cultura, la sua razza,
la sua etnia, la sua nazionalità, la sua religione, é un dire senz’altro corretto. La
legislazione antirazzista impone, invero, il rispetto del dovere di tolleranza in funzione
della tutela della dignità dell’uomo qualunque: si prescrive la tolleranza della diversità
del pensiero d’esserci del singolo uomo in ragione della sua razza, della sua etnia,
della sua nazione, della sua religione.
Preservare la diversità, affermare e difendere le differenze culturali tra gli uomini,
rispettare le identità collettive in ragione della particolarità in sé del pensiero, degli
usi, dei costumi della razza, dell’etnia, della nazione, della religione, questo sarebbe il
fine della legislazione antirazziale. Il bene giuridico protetto dalle norme antirazziali
sarebbe, invero, la libertà di espressione del diritto alla differenza, del diritto, cioè, ad
essere come si é per natura di appartenenza ad una determinata razza, etnia,
nazione, religione. Ove si cancellasse la variabilità culturale dell’umanità, si
negherebbe tutto ciò che di specifico esiste nell’esistenza umana. Il riconoscimento
della dignità umana equivarrebbe al riconoscimento della dignità di appartenenza del
singolo ad un gruppo sociale determinato, dunque il valore di identità collettiva.
Ora, se il razzismo non può essere ridotto ad un problema confinato al solo pensiero di
per sé, l’antirazzismo va interpretato alla luce dell’azione in sé. Si tratta allora di una
questione di opportunità storica e la finalità della legislazione antirazzista é
unicamente quella di ottenere alcuni risultati che sono l’espressione dell’adattamento
del pensiero umano alle condizioni del contesto in cui si vive qui (nello spazio) ed ora
(nel tempo): oggi é indubbio che la tutela legislativa di matrice antirazzista sia quella
di assicurare l’uguaglianza tra gli uomini nel pieno rispetto dell’identità culturale del
gruppo di appartenenza, ossia di compendiare l’universalismo e il particolarismo in un
unico pensiero, que1lo che di per sé assicura il rispetto della dignità umana di
qualunque persona al mondo a prescindere dalla razza, dal colore della pelle,
dall’etnia, dalla nazionalità, dalla religione.
G.2. Legislazione antirazzista: contenuto e finalità.
Non esistono differenze di specie tra uomo e uomo. Per questa ragione si indica come
razzismo l’insieme di attitudini e comportamenti discriminatori considerati crimini e,
come tali, sanzionati dalla legge penale. E’ il caso dell’art. 3 della legge italiana
13.10.1975, n. 654 di ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale
sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New
York il 7.3.1966 (G.U. 23.12.1975, n. 337), siccome sostituito dall’art. 1 del d.l.
26.4.1993, n. 122, convertito in legge 15.6.1993, n. 205. E’ anche il caso dell’art. 3,
comma 1 d.l. 26.4.1993, n. 122, convertito in legge 25.6.1993, n. 205. La legislazione
italiana non fornisce alcuna indicazione precisa circa il significato che deve essere
attribuito in generale al termine discriminazione. Tale significato é, dunque, quello
lessicale, e non può essere diversamente. E il significato lessicale é quello che é stato
anche ripreso dalla disposizione di cui all’art. 43 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e
successive modificazioni. Si tratta del Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina
dell’immigrazione
e
norme
sulla
condizione
dello
straniero
(extracomunitario).
Vero é che tale statuizione vale esclusivamente “ai fini del presente capo”, ma è anche
vero che “il presente capo” é il capo IV del Titolo V del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Il
Titolo V citato recita “disposizioni in materia sanitaria, nonché di istruzione, alloggio,
partecipazione alla vita pubblica e integrazione sociale” (dello straniero
extracomunitario). E il capo IV reca “disposizioni sull’integrazione sociale, sulle
discriminazioni e istituzione del fondo per le politiche migratorie” (degli stranieri
extracomunitari).
Si può, quindi, obiettare che il richiamo all’art. 43 d.lgs. n. 286/1998 per esplicitare il
concetto di “discriminazione” sia viziato da speciosità in quanto dettato dal legislatore
solo con riferimento alla integrazione sociale dello straniero extracomunitario. Eppure,
proprio perché comunque basato sulla nozione lessicale del termine “discriminazione”,
la definizione di cui all’art. 43, comma 1, del d.lgs. citato ben può essere estesa a
qualsiasi ambito applicativo di condotte discriminatorie per ragioni razziali, etniche,
nazionali o religiose nei confronti dello straniero extracomunitario.
E se é vero che tale norma si applica in favore del cittadino straniero
extracomunitario, é anche vero che essa trova risvolto pratico - nei medesimi termini
concettuali- pure quando “gli atti xenofobi, razzisti o discriminatori” siano compiuti
“nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri
dell’Unione europea presenti in Italia” (art. 43, comma 3, d.lgs. n. 286/1998).
Orbene, come si nota, la norma di cui all’art. 43, comma 1, del citato d.lgs. n.
286/1998 ricalca di pari passo l’art. 1 della Convenzione di New York del 7 marzo
1966, secondo il quale la discriminazione razziale é “ogni distinzione, esclusione,
restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale
o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il
riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni
altro settore della vita pubblica”. Il principio antirazzista di cui alla citata Convenzione
di New York é l’identico principio affermato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo del 10 dicembre 1948, il cui articolo 2 riconosce a tutti gli uomini le libertà
enunciate nella dichiarazione stessa “senza distinzione alcuna per ragioni di razza,
colore, sesso, lingua, religione, opinione politica, o di altro genere”. Tale principio é
poi stato ripreso dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4
novembre 1950, e ancora ribadito dal Patto Internazionale sui diritti civili e politici
(New York 16 dicembre 1966) e dalla Costituzione europea firmata a Roma a fine del
2004.
L’intervento legislativo nazionale e sopranazionale ha una ragione storica
fondamentale:
l’Europa e il mondo intero, dopo. il secondo conflitto mondiale, erano reduci da un
sistema di legalità razzista che aveva portato al completo disconoscimento della
dignità umana. Il razzismo, così come nella ideologia e pratica nazista si é rivelato
essere, porta allo sterminio, all’eliminazione, alla segregazione, all’emarginazione
dell’Altro, quando l’Altro é caratterizzato da qualità che ne evidenziano la debolezza
sociale, come gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali, i malati.
In Italia la nozione legislativa di “razzismo” (in senso lato) é basata sulla nozione
lessicale di discriminazione per ragioni di razza, etnia, nazione, colore, ascendenza,
convenzioni e pratiche religiose. Con tale scelta legislativa si é voluto assicurare la
tutela dell’individualità, in condizioni di parità, delle libertà fondamentali dell’uomo in
ogni settore della vita pubblica, in particolare nel campo politico, sociale, economico e
culturale. Anche altre legislazioni antirazziste europee, che pure hanno aderito alla
Convenzione di New York del 7 marzo 1966, riconoscono una simile nozione giuridica
del termine “discriminazione”. E’ il caso, ad esempio, della legge francese 13 luglio
1990, n. 90/615, che afferma: “ogni discriminazione fondata sull’appartenenza o la
non appartenenza a un’etnia, a una nazione, a una razza o a una religione é proibita”.
La discriminazione in base alla razza é, di conseguenza, solo una delle possibili forme
di discriminazione umana sanzionate dalla legge, che presuppone che le razze
esistano allo stesso titolo delle etnie, delle nazioni o delle religioni.
L’antirazzismo giuridico allarga, così, l’ambito applicativo di ciò che propriamente va
sotto il nome di “razzismo”: l’interdetto comprende la nozione comune di questo
termine.
Il nazionalismo, l’etnismo, l’integralismo o il fondamentalismo religioso sono compresi
nell’interdetto legislativo al pari di ogni forma di razzismo. La criminalizzazione del
razzismo é stata estesa sino a comprendere ogni forma di credenza esclusivista in
nome della tutela del differenzialismo relativista.
La finalità della legislazione antirazzista é, da una parte, quella di diffondere
un’educazione antirazzista e, dall’altra, di reprimere ogni forma di razzismo
universalista ed esclusivista.
Da un punto di vista storico va ricordato che, a livello istituzionale, la problematica
dell’antirazzismo risale a decenni e decenni fa, ossia alle prime dichiarazioni
dell’UNESCO del 18 luglio 1950 e del giugno 1951: queste ed altre dichiarazioni
dell’organismo specializzato nell’ambito delle Nazioni Unite sono fondate soprattutto
sulla lotta intellettuale e sull’istruzione scientifica. Già alla fine degli anni quaranta del
secolo XX l’UNESCO si era impegnata alla realizzazione di “un programma di diffusione
di fatti scientifici atti a fare scomparire i cosiddetti pregiudizi di razza”, e gli scienziati,
i biologi e gli antropologi si erano, a loro volta, impegnati a denunciare “un mito
assurdo … il razzismo”, laddove questo mito coincideva con il “dogma
dell’ineguaglianza delle razze”, un mito da sfatare sulla base della considerazione
secondo la quale “gli odi e i conflitti razziali si nutrono di nozioni scientificamente false
e vivono di ignoranza”.
Il pregiudizio razziale é stato, quindi, equiparato all’effetto dell’ignoranza e
dell’irrazionalità: si riteneva, invero, che il razzismo fosse “l’espressione di un sistema
di pensiero fondamentalmente antirazionale”. E tale idea é ancora oggi valida.
La legislazione antirazzista fa essenzialmente appello ai lumi della scienza e alla
chiarezza dello spirito razionale e, nel contempo, prendendo realisticamente atto che
l’istruzione e l’educazione in quanto tali non risolvono - perché sinora non hanno
risolto - gli effetti del pensiero umano, che in sé é naturalmente discriminatorio, ha
introdotto l’interdetto di qualsiasi forma di discriminazione per motivi di razza, etnia,
nazione, cultura.
La finalità repressiva della legislazione antirazzista é una extrema ratio. Che, del
resto, la finalità della legislazione antirazzista non sia essenzialmente, dunque
primariamente, quella repressiva si ricava, a contrario, dal fatto che l’art. 1 bis del d.l.
26 aprile 1993, n. 122 prevede che «con la sentenza di condanna per uno dei reati
previsti dall’art. 3 della legge .13 ottobre 1975, n. 654, o per uno dei reati previsti
dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962, il tribunale può altresì disporre una o più delle
seguenti sanzioni accessorie: a) obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore
della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità ... ; b) ... ; c) ... ; d) divieto di
partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni
politiche o amministrative successive alla condanna, e comunque per un periodo non
inferiore a tre anni». Si tratta di sanzioni accessorie che mirano a fare comprendere,
direttamente o indirettamente, la negatività degli effetti del pregiudizio razziale e, di
conseguenza, accentuano la finalità rieducativa della pena principale.
Ma vi è di più.
La tutela e la garanzia dell’essere umano in ogni forma essenziale dell’esistenza é
oggetto della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali.
La legge 4 agosto 1955, n. 848, con cui l’Italia ha ratificato, dandovi esecuzione, la
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
siglata a Roma il 4 novembre 1950, e il Protocollo addizionale firmato a Parigi il 20
marzo 1952, sancisce all’art. 9 che: a) “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero,
di coscienza e di religione; questo diritto importa la libertà di cambiare religione o
pensiero, come anche la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero
individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, per mezzo del culto,
dell’insegnamento, di pratiche e compimenti di riti” (comma 1); b) “la libertà di
manifestare la propria religione o il proprio pensiero non può essere oggetto di altre
limitazioni oltre quelle previste dalla legge, e che costituiscono misure necessarie, in
una società democratica, per la sicurezza pubblica, la protezione dell’ordine, della
salute o della morale pubblica o la protezione dei diritti e delle libertà di altri” (comma
2). Inoltre, l’art. 10 della Convenzione anzidetta puntualizza che a) “ogni persona ha
diritto alla libertà di espressione” (comma 1, capoverso 1); b) “questo diritto
comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o
idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità e senza riguardo alla
nazionalità. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre le imprese
radiotelevisive e di cinema ad un regime di autorizzazioni” (comma 1, capoverso 2);
c) “l’esercizio di queste libertà che importano dei doveri e delle responsabilità può
essere subordinato a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni, previste
dalla legge, che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la
sicurezza pubblica, per l’integrità territoriale o per la sicurezza pubblica, per la difesa
dell’ordine e per la prevenzione dei delitti, per la protezione della salute o della
morale, per la protezione della reputazione o dei diritti di altri, per impedire la
diffusione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere
giudiziario” (comma 2).
La Convenzione di Roma prevede inoltre all’art. 13 che “ogni persona i cui diritti e
libertà riconosciuti nella presente Convenzione fossero violati, ha diritto di presentare
un ricorso avanti ad una magistratura nazionale, anche quando la violazione fosse
stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio di funzioni ufficiali”. E’ poi
previsto dall’art. 14 che “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella
presente Convenzione deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata
soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o
altre opinioni, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza
nazionale, sui beni di fortuna, nascita o ogni altra condizione”.
E’ stato così statuito che la politica, l’economia e la società devono inderogabilmente
farsi carico di evitare che un uomo si senta umiliato per il fatto di esistere per come è
nato e per come, nel corso dell’intera vita, cresce, e necessariamente cambia le sue
idee: da una parte, dunque, si deve riconoscere e garantire la vita dell’essere umano
come tale, ossia per il solo fatto di esserci (art. 2, co. 1, e segg., in particolare 9 e 10
Legge 4.8.1955, n. 848), dall’altra, é imposto di tutelare l’uomo dalla denigrazione ad
opera di altri uomini (art. 14 legge citata).
Di per sé, comunque, la legge italiana ha attuato i disposti della Costituzione della
Repubblica in punto libertà di pensiero e tutela da forme lesive della dignità umana
connesse a determinati modi di estrinsecazione del libero pensiero. E’ stato così
previsto nel 1967, con riguardo all’appartenenza al gruppo etnico, nazionale, razziale,
religioso, e nel 1975, con riguardo all’estrinsecazione del pensiero che diffonda idee
fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, etnico, nazionale ovvero discrimini o inciti
a discriminare per ragioni etniche, razziali, nazionali o religiose, un compiuto quadro
normativo di tutela e salvaguardia del diritto umano d’esserci come si é per razza, per
etnia, per religione e per nazione. Con l’art. 3 legge 25.6.1993, n. 205 si è oltretutto
considerata come circostanza aggravante ad effetto speciale quoad poenam la finalità
di per sé dell’atto, già integrante un illecito in sé; finalità, questa, connessa alla
volontà del soggetto attivo di ledere o porre in pericolo il bene giuridico tutelato dalla
norma penale unicamente o prevalentemente per calpestare la dignità umana sottesa
alla coscienza dell’appartenenza ad un determinato gruppo razziale, etnico, nazionale,
religioso.
Allora si può dire che, anche e soprattutto sotto il profilo normativo, é l’atto in quanto
tale che rende evidente la differenza tra l’essere dall’esserci: tutto, infatti, può
umiliare l’uomo come tale, quindi discriminarlo differenziandolo agli occhi degli altri
per come é o per come appare, ma né razza né etnia né religione né nazione né
pensiero in generale possono in sé giustificare in alcun modo azioni specifiche contro
un uomo.
Integra l’estremo del reato ex legge 654/1975 già il tenere una qualsiasi condotta
che, in sé lecita, sia comunque finalizzata a discriminare o a incitare alla
discriminazione o a esprimere l’odio o incitare all’odio per il solo fatto della razza,
dell’etnia, della religione, della nazione. Se, poi, l’atto in quanto tale é illecito, la citata
causale - estranea di per sé alla struttura del reato commesso - diventa fine in sé
della condotta e, di conseguenza, integra una circostanza aggravante che il legislatore
ha considerato ex art. 3 legge 205/1993 ad effetto speciale. E’, pertanto, l’atto che va
esaminato in sé perché si possa giudicare l’uomo sulla base del suo pensiero e
verificare se la finalità della condotta, espressione del pensiero, coincida col il
movente dell’atto stesso. Del resto, nessun dubbio può sussistere, sul fatto che la
conoscenza della causa sia tanto quanto la conoscenza del perché: da questo punto di
vista é talora necessario indagare sulla causa per potere giungere a sostenere la
sussistenza di una circostanza di reato o del reato stesso.
E, nel caso di specie, causa e fine coincidono sotto il profilo della necessaria
conoscenza per un giudizio di sussistenza della circostanza di reato o del reato stesso,
ma, essendo la causa sostanzialmente interiorizzata e custodita nel segreto
dell’animo, é il fine della condotta che di per sé svela la natura del pensiero, e il fine si
coglie o dalla modalità di comportamento o dal contesto fattuale nel quale la condotta
si é sostanziata.
Per quanto anzidetto risulta che la legislazione antirazzista offre un ampio quadro di
tutela da forme di discriminazione e di pregiudizio dettate da ragioni di diversità
razziale,
etnica, nazionale, religiosa.
Esistono condotte di per sé penalmente illecite che, ove commesse per motivo
razziale, sono aggravate ai sensi dell’art. 3 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito in
legge 25 giugno 1993, n. 205 (cd. legge Mancino): in tali ipotesi la causale, di per sé
estranea alla struttura del reato, diviene fine in sé della condotta e, quindi, é
giocoforza provare il perché si é agito illecitamente. Se per l’integrazione del delitto di
cui all’art. 582 c.p. non rileva sapere - se non quoad poenam - il perché il soggetto
bianco A ha cagionato una lesione al soggetto nero B, risulta assolutamente
indispensabile conoscere il movente della condotta allorquando questa - secondo
l’accusa - sia stata finalizzata alla causazione di una lesione in danno del soggetto B
unicamente perché di colore di pelle diverso.
Esistono poi condotte che di per sé non sono illecite, ma che lo diventano in quanto
commesse per motivo di differenziazione razziale, etnica, nazionale, religiosa. Ad
esempio, il soggetto A di etnia non-zingara non é obbligato a contrarre con il soggetto
B di etnia zingara, e nessuno può dire che la discriminazione in sé assurga ad illecito,
né civile né penale. La medesima condotta, peraltro, diviene illecita allorquando il
soggetto A manifesti la ragione della propria condotta negativa in relazione alla
particolare etnia del soggetto B, sicché il fine di per sé é la causa in sé della condotta,
e la causa in sé della discriminazione assurge di per sé sola a illecito non solo penale
ai sensi della legge 13 ottobre 1975, n. 654, ma anche civile: e, invero, é illecito civile
ogni discriminazione che sia riconducibile ai casi di cui all’art. 43 cpv. lett. a, b, c, d, e
del d.lgs. n. 286/1998, così come successivamente modificato. Se così un soggetto A
di etnia non-zingara gestisce un bar aperto al pubblico e si rifiuta di servire una bibita
al soggetto B di etnia zingara solo perché B é zingaro ovvero fa pagare a B un prezzo
maggiorato solo perché é zingaro, il soggetto A commette un illecito civile e anche un
illecito penale. E, ancora, se il soggetto A di etnia non-zingara stipula con il soggetto C
di etnia non-zingara un contratto di vendita di un immobile per persona da nominare e
poi la persona da nominare viene individuata nel soggetto B di etnia zingara, il
soggetto A non può rifiutare la vendita adducendo la ragione della differenza di etnia
del soggetto B. A parte l’illiceità civile del fatto in via generale, si profila anche un
addebito penalmente sanzionato. La condotta di A é stata, in entrambi i casi, in sé
causata dal fine di per sé illecito.
H. Soggetto passivo.
Se soggetto attivo della condotta criminosa é il quivis de populo, il soggetto passivo è
certamente colui che sopporta le conseguenze immediate dell’attività criminosa. In
tale senso, dunque, il soggetto passivo é colui che viene ritenuto inferiore ovvero
odiato per ragione di razza o di etnia, ovvero viene discriminato per motivi razziali,
etnici, nazionali o religiosi. Ma il soggetto passivo non é l’oggetto materiale del reato,
non é cioè la persona (o la cosa) su cui cade la condotta posta in essere dal soggetto
attivo. Così, invero, quando oggetto materiale é una persona, esso può coincidere con
il soggetto passivo: se un barista commette un atto di discriminazione etnica nei
confronti di un extracomunitario marocchino o russo o filippino rifiutando di servirgli
un caffè per la chiara ragione che l’avventore é un marocchino, un russo o un filippino,
oggetto materiale e soggetto passivo coincidono.
Individuare il soggetto passivo richiede, dunque, il preventivo accertamento
dell’interesse giuridico, il vero oggetto della tutela giuridica. Più possono essere gli
interessi pregiudicati dalla condotta criminosa: si tratta di interessi eventuali. Ma,
certamente, almeno un interesse deve essere pregiudicato dalla condotta di reato:
questo interesse necessario é quello che comunque viene sempre offeso e, dunque,
deve essere in primis tutelato. Il vero oggetto della tutela penale é l’interesse che é
strettamente legato con la nozione stessa di reato. Individuato tale interesse, resta
individuato il soggetto passivo, il quale é certamente e necessariamente titolare di
questo interesse. Il soggetto passivo é così il titolare dell’interesse la cui offesa
costituisce l’essenza del reato di che trattasi. Nel caso di specie é indubbio che
esistano due soggetti passivi: il reato di cui all’art. 3, comma 1, della legge n.
654/1975 pone quantomeno in pericolo non un solo bene, ma più beni diversi. Si
tratta cioè di un reato plurioffensivo, dal momento che i beni diversi (ordine pubblico
stricto sensu e dignità umana) appartengono a soggetti distinti. Non rileva, ai fini della
configurazione dell’ipotesi di reato contestata agli imputati, la distinzione tra tutela di
persone singolarmente individuate e tutela dell’intero gruppo etnico o razziale: la
formulazione della norma incriminatrice e la genericità del riferimento normativo
(incitamento o provocazione nei confronti di persone appartenenti al gruppo etnico)
non postula che l’atto criminoso si diriga contro persone fisicamente e singolarmente
individuate, ma consente di ravvisare la sussistenza del reato anche nel caso di
attentati indiscriminatamente indirizzati ad appartenenti alle comunità protette. Nel
caso di specie l’incitamento alla discriminazione, insito nell’invito alla popolazione
veronese a firmare una petizione indirizzata ai politici presenti nell’assemblea e nel
governo locale, é stato chiaramente appuntato contro (tutti) gli appartenenti alla
comunità etnica zingara veronese in quanto ritenuta ingiustamente privilegiata dagli
amministratori comunali i quali, in via di fatto, avevano consentito l’occupazione
abusiva di siti al di fuori delle statuizioni adottate in conformità alla L.R. n. 54/1989.
I. Reato di condotta e reato di pericolo.
Il costrutto giuridico evidenzia che si tratta di un reato di pura condotta. Il reato di
che trattasi, invero, si perfeziona col compimento della sola azione di diffusione di idee
fondate sulla superiorità o sull’odio razziale ovvero di commissione o incitamento alla
commissione di atti di discriminazione per ragione (di diversità) razziale, etnica,
nazionale o religiosa. Il danno o il pericolo é, di conseguenza, ravvisato nel solo fatto
che sia stata posta in essere la condotta vietata. Non rileva così che nell’immediatezza
del fatto l’incitamento o la provocazione non siano stati accolti dai presenti o dai
destinatari dell’incitamento o della provocazione né che, ai fini del reato contestato
commesso nei confronti di una collettività etnica, l’offesa sia percepita da tutti i
componenti del gruppo: il conseguimento degli effetti perseguiti con l’incitamento o la
provocazione non é, invero, richiesto dalla norma incriminatrice, la quale si limita a
prevedere un reato di pura condotta e di pericolo astratto. Quando si parla di reato di
pericolo astratto si intende generalmente la caratteristica di un reato a produrre un
pericolo generico e indeterminato che non deve essere di volta in volta accertato,
dunque provato. Vero é che nel concetto di pericolo astratto si annida un equivoco di
fondo: se il pericolo é probabilità dell’evento temuto, e l’evento é quello giuridico,
dunque sempre ravvisabile in relazione a qualsiasi tipo di reato, non si può
propriamente parlare di un pericolo in cui questa probabilità manchi. Quello che, così,
si definisce (impropriamente) astratto é un pericolo propriamente concreto, a meno di
non considerare il pericolo come elemento qualificante della condotta tipica, nel qual
caso, non andando il pericolo oltre la condotta, il suo accertamento esigerà un giudizio
di prognosi postuma. Quando si parla di pericolo astratto si intende, pertanto, fare
riferimento ad una presunzione di pericolo, la quale non ammette la prova contraria. Il
reato di che trattasi é, di conseguenza, un reato di pura condotta e (propriamente) di
pericolo presunto. E non é che si possa dire che, pur conforme allo schema descrittivo
tipico, il fatto privo di contenuto lesivo sia penalmente irrilevante: la prova stessa che
il fatto sia conforme allo schema tipico di reato é essa stessa prova del pericolo
presunto
in sé nel tipo di reato ravvisato.
L. Elemento oggettivo.
L.1. La diffusione.
Diffusione significa propagazione e divulgazione. Si tratta, così, di un reato che la
dottrina germanica inserisce tra i cd. Äuâerungsdelikte. Per la consumazione di tale
tipo di reati non importa il modo in cui avviene la diffusione (scritta od orale) del
pensiero né il mezzo attraverso cui questo viene divulgato (volantini, striscioni,
lettere, telefono, internet, ecc.), mentre é necessario che l’espressione offensiva per
la razza o l’etnia pervenga a conoscenza di un’altra persona, non importa se
appartenente alla razza o all’etnia offesa. Occorre cioè che l’espressione offensiva sia
comunque percepita in qualche modo che sia di per sé significativo del concetto di
diffusione. E’, dunque, il pensiero che, ove espressivo di un atto di discriminazione
razziale, etnica, nazionale o religiosa o di un’idea di superiorità della razza o dell’etnia
di appartenenza ovvero di odio per la razza o l’etnia altrui, diviene di per sé
penalmente rilevante e, pertanto, sanzionabile.
Il delitto in questione, essendo un reato di pericolo, non richiede, ai fini della sua
configurazione, che il soggetto passivo si sia sentito offeso nella propria dignità di
uomo a causa dell’idea espressa dal soggetto attivo. Non rileva nemmeno che il
biasimo possa avere trovato credito presso coloro che hanno appreso il pensiero
diffuso, e dunque non é richiesto che l’idea positiva di razza o di etnia di appartenenza
dell’offeso abbia subito una menomazione o una distruzione nel pensiero degli altri.
Si tratta comunque di considerazioni di secondo ordine, atteso che la perfezione (=
momento consumativo) del reato si ha allorquando il diffuso pensiero di superiorità o
di odio razziale o etnico sia venuto a conoscenza di altre persone ovvero quando il
soggetto passivo possa essere discriminato da un atto posto in essere per ragioni di
differenziazione razziale, etnica, nazionale o religiosa. La manifestazione offensiva per
la razza o l’etnia altrui ha un significato che, per quanto legato alle parole pronunciate
o scritte, oppure ai gesti effettuati, non é sempre identico per tutti. Ciò che, quindi, é
decisivo é il significato obiettivo: il senso che l’espressione ha nell’ambiente in cui il
fatto si é svolto, secondo l’opinione della generalità degli uomini, opinione di cui il
giudice di fatto si deve fare interprete. La stessa considerazione vale anche per il
valore offensivo della parola o dell’atto. Ai fini della configurazione del reato di che
trattasi non é, di conseguenza, necessario avere riguardo alla particolare suscettibilità
né dell’offeso né di qualche particolare soggetto che ha percepito l’offesa.
Va sottolineato che il valore offensivo di un’espressione é un concetto assai relativo,
variando esso notevolmente con i luoghi, i tempi e le circostanze. Quello che, tuttavia,
la legislazione antirazzista ha imposto é il rispetto dell’altro uomo, diverso per razza o
etnia: l’offensività dell’espressione, dunque, ove relazionata alla razza o all’etnia
dell’offeso, é di per sé rilevante penalmente, a prescindere dal luogo, dal tempo e
dalle circostanze. Non può, quindi, darsi diverso peso alla parola offensiva della razza
o dell’etnia altrui secondo che essa sia pronunciata in una riunione seria o in una
festa. Non rileva nemmeno che il valore offensivo di una simile espressione sia
riferibile ad un uomo di alto, medio o basso stato o grado sociale o culturale. Esiste,
invero, un senso minimo della dignità umana che coincide con la coscienza della
propria esistenza: per il solo fatto di essere uomo e di avere coscienza della propria
dignità di uomo, ciascuno ha il diritto ad essere rispettato come tale; dunque é tale
diritto che costituisce il retro dell’obbligo negativo di divulgazione di pensieri che,
fondandosi su idee di superiorità o di odio per motivo della razza o dell’etnia, sono
vietati dalla legge n. 654/1975. Diversamente dalla ragione della superiorità o
dell’odio di razza o etnia, fatti comunque penalmente rilevanti, commessi o tentati per
finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, sono
aggravati ai sensi dell’art. 3, comma 1 d.l. 26 aprile 1993, n. 122.
Nel caso di specie, dunque, può ben dirsi che vi sia stata diffusione nell’accezione
propria del termine. I pensieri diffusi sono quelli contenuti nei manifesti appesi sui
muri della città di Verona e di altri centri limitrofi al capoluogo scaligero; i pensieri
diffusi sono quelli contenuti nei volantini distribuiti alla gente lungo le vie della città,
particolarmente in zone di mercato e in prossimità dei banchetti di raccolta delle firme
a sostegno della petizione pubblica finalizzata a cacciare gli zingari dalla città di
Verona.
Non si é, cioè, trattato di semplici opinioni di foro interno ovvero esternate ad una
ristrettissima e riservata cerchia di persone, ma di vera e propria diffusione su larga
scala di idee preconcette a sfondo razzista.
L.2. La superiorità e l’odio razziale o etnico.
Le idee diffuse devono esternare il sentimento di superiorità della razza o dell’etnia di
appartenenza del soggetto attivo ovvero di odio per la razza o l’etnia di appartenenza
del soggetto passivo.
E’ penalmente rilevante sia diffondere idee fondate sulla superiorità della propria razza
o etnia, dunque sull’inferiorità dell’altrui razza o etnia, sia diffondere idee fondate
sull’odio razziale o etnico, ossia idee che, per ragioni connesse alla diversità della
razza o etnia altrui, il soggetto attivo manifesta concretamente quali espressione di un
profondo ed irriducibile sentimento di avversione per l’altro, diverso da sé per razza o
etnia.
Fatto salvo il rispetto delle leggi, che attuano le norme di cui ai commi 2, 3, 4, 5, 6
dell’art. 21 Cost. e assicurato il bilanciamento con altri interessi costituzionalmente
tutelati, va osservato che, quale espressione della libertà personale, il pensiero é
comunque inviolabile in re ipsa e, quindi, manifestabile liberamente con la parola, lo
scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art. 21, co. 1 Cost.). Di per sé, dunque, il
pensiero é libero, tranne laddove esso sconfini nella violazione delle norme
costituzionali appena citate: in tale caso la libera manifestazione del pensiero diviene
illecita. E, invero, la Repubblica ha l’obbligo costituzionale di «riconoscere e
garantire», ossia di tutelare in qualsiasi modo e in qualsiasi sede, i diritti inviolabili
della persona: tali sono i diritti che sono espressione “dell’uomo, sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”: tale obbligo costituzionale
«richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale» (art. 2 Cost.). Da questo punto di vista, due sono le categorie di condotta con
la quale si discrimina. Si discrimina il singolo o i singoli uomini; si discrimina il gruppo
di
uomini o i gruppi di uomini. Ciò che distingue la categoria della condotta, dunque, è
l’oggetto della discriminazione: l’uomo che c’é come tale, ovvero come tale é nel
consociativismo d’esserci quale gruppo.
Il concetto di gruppo, dunque, é importante. Con la parola “gruppo” si indica la
riunione di una moltitudine di cose o di persone, assimilabili tra loro da interessi e fini
comuni ovvero da segni e caratteristiche naturali essenziali. Il gruppo é, dunque, ciò
che caratterizza la moltitudine, ossia la quantità considerevole di tutto ciò che é. La
discriminazione, finalizzata all’eliminazione fisica - in tutto o in parte - del gruppo di
uomini ovvero alla distinzione tra gruppi della specie umana attraverso marchi e segni
di distinzione, é prevista e sanzionata dalla legge 9 ottobre 1967, n. 962 con il nomen
juris di “genocidio”, a prescindere dalle modalità di attuazione del fine, dunque anche
attraverso semplice pubblica apologia o pubblica istigazione o mero accordo a tale
fine, sempre che il gruppo di uomini discriminato sia perseguitato in ragione della
nazionalità, dell’etnia, della razza o della religione.
La legge, in ogni caso, non ha tralasciato di considerare la previsione che anche un
solo uomo, e pertanto più uomini, possano essere discriminati – indipendentemente
dal gruppo, ossia dall’insieme di uomini che danno origine alla nazione, all’etnia, alla
razza o alla religione - per ragioni che comunque siano riconducibili all’appartenenza
ad una certa nazione, etnia, razza o religione. La legge 13 ottobre 1975, n. 654
sanziona qualunque condotta di violenza o di provocazione o di incitamento alla
violenza e alla provocazione in danno di chiunque per motivi di razza, di etnia, di
nazione o di religione, nonché reprime qualsiasi comportamento che in ogni modo
diffonda idee fondate sulla superiorità dell’etnia o della razza o sull’odio razziale o
etnico, e che comunque discrimini o inciti a discriminare per motivi di razza, di etnia,
di nazione o di religione. Interessante é notare che linguisticamente il legislatore
affianca all’uso dell’espressione “discriminare-discriminazione” la parola “odio”. Il
sostantivo “odio” o il verbo “odiare” non compaiono mai nel testo della legge 9 ottobre
1967, n. 962, e ciò solo perché in detta legge si usano altre espressioni che, in
maniera inequivocabile, evidenziano il concetto stesso di “odio”: si fa cenno alla
«distruzione di tutto o di parte di un gruppo nazionale, etnico, razziale e religioso»,
all’«impedimento o alla limitazione delle nascite» di detti gruppi con l’ovvio fine di
distruzione, alla «discriminazione » del gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso
attraverso condotte che «lo marchi o lo segni in modo distintivo». Non é di secondaria
importanza poi la circostanza che il legislatore del 1975 abbia contemplato anche il
concetto di “odio” quale modalità di condotta capace di estrinsecare la volontà
discriminatoria. Invero, la parola “odio” significa “sentimento di profonda ed
irriducibile avversione per qualcuno, tale da fare desiderare nei suoi confronti tutto il
male possibile”. Con tale parola si richiama alla mente il concetto di persecuzione, dal
latino “persecutio-tionis”, composto dal prefisso “per” (con valore intensivo) e dal
verbo “sequor”, “seguire”:
con le espressioni “perseguire-persecuzione” si indica, dunque, l’accanito, intenso e
pervicace “inseguimento”, cioè la vessazione psichica di una persona così da
perseguitarla, ossia osteggiarla nell’esplicazione del proprio sé, “avversarla in ogni
modo, prendendola di mira, disturbandola, importunandola, infastidendola, irritandola,
molestandola, ossessionandola, subissandola, tormentandola”, e ciò solo per motivi di
razza, di etnia, di nazione, di religione. La manifestazione di odio dunque, non richiede
il compimento di una violenza fisica in danno di un essere vivente, essenzialmente di
una persona: basta “perseguitarla”.
Il concetto linguistico, dunque, é chiarissimo: l’odio é una forma storica di
persecuzione dell’esserci per come si é e per come ad altri non (si) piace. Nel
particolare legislativo di cui alla citata legge del 1975 l’odio é punito se é il movente
che é a base dell’azione discriminatoria in ragione della nazione, dell’etnia, della razza,
della religione.
Esiste, peraltro, il più ampio concetto di odio quale sentimento di persecuzione verso
tutto ciò che esiste di diverso da come é l’uomo, sia come singolo sia come
formazione sociale.
L. 3. Il razzismo.
Il Collegio osserva immediatamente che il razzismo non appare mai allo stato puro,
ma é sempre mascherato. In ogni sua forma di manifestazione, invero, il razzismo si
può confondere con il nazionalismo, con l’etnismo, con l’imperialismo coloniale, con
l’eugenismo, con il darwinismo sociale, l’etnocentrismo, la xenofobia e via dicendo.
Già Georg Wilhelm Friedrich Hegel aveva osservato che “Il noto in genere, appunto
perché noto, non é conosciuto”.
Solitamente si pensa che il razzismo sia quella dottrina che afferma l’esistenza di una
gerarchia tra le razze umane. Ma nel razzismo non si ha a che fare soltanto con una
dottrina, visto che non tutti i pregiudizi razzisti presuppongono l’esistenza di una scala
di valori, biologici e culturali, tra i gruppi umani classificati secondo “razze”.
Oggi parlare di “razza”, riferendo il termine all’uomo, evoca un tabù, richiama alla
mente un concetto ideologicamente sospetto. Si evita così di parlare di razza umana
dopo la sconfitta del regime nazista che l’aveva ampiamente sfruttata a fini
propagandistici.
Oggi, invece, non é un tabù parlare di “razzismo”, tanto che se ne parla in riferimento
alle situazioni più disparate, così assumendo un significato approssimativamente
uguale a termini come “esclusione”, “odio”, “rigetto”, “paura fobica”, “ribrezzo”,
“disprezzo”. Ne consegue che la parola “razzismo” risulta desemantizzata
e si oppone alla delegittimazione scientifica e politica della parola “razza”, al carattere
di tabù di quest’ultima che si usa per lo più in modo virgolettato. Questo significa che
oggi si pensa al “razzismo” come modo di manifestazione non esplicita dell’idea di
esclusione senza che debba essere per forza fatto accenno a questa o quella “razza”.
La parola “razzismo” é, per quanto sopra detto, una parola impropria per il modo in
cui essa viene oggigiorno usata. Le definizioni classiche del “razzismo” non sono più
sufficienti. Il vecchio e il nuovo si mischiano. Così é “razzista” colui che, pur
dichiarando pubblicamente di non credere nella “disuguaglianza tra le razze”, insiste
sull’incompatibilità delle culture, delle mentalità, delle civiltà al fine di giustificare delle
misure di esclusione, di espulsione, di emarginazione di coloro che sono ritenuti e/o
additati come “inassimilabili” o “non-integrabili”.
Si tratta, come si può bene notare, di un evidente paradosso. Si tratta del paradosso
che nasce da un modo contraddittorio di esprimersi. Come ha rilevato Jean Paulhan:
“Tutto é stato detto, probabilmente, se le parole non avessero cambiato senso, e i
sensi, parole”.
Quando il razzismo diviene fenomeno non evidente, si pone il problema di quali siano i
criteri per identificare e riconoscere le sue forme.
Se il razzismo si considera come un fenomeno universale, esso si confonde con
l’etnocentrismo, l’autopreferenza dell’endogruppo, la svalutazione, l’ostilità e
l’intolleranza verso gli altri gruppi. Ma se il razzismo fosse solo etnocentrismo si
finirebbe per non riconoscere più alcuna distinzione tra razzismo, tribalismo,
xenofobia, imperativo territoriale.
Se il razzismo, invece, mantiene una sua identità concettuale, allora si deve
riconoscere che esiste una storia del razzismo, emerso in Europa nel periodo
moderno. Si tratta di un’invenzione occidentale che, divenuta ideologia e insieme di
pratiche sociopolitiche, si é diffuso nel mondo grazie all’imperialismo coloniale, allo
schiavismo, al segregazionismo, al nazionalismo, alle utopie eugenetiche ed etniciste
di purificazione della razza, di difesa o realizzazione della purezza etnica o culturale.
Se, peraltro, il razzismo viene ristretto concettualmente all’idea di diversità tra le
razze secondo una scala gerarchica che evidenzia la superiorità di una e l’inferiorità
dell’altra, allora si finisce per dimenticarne l’evoluzione ideologica nei vari contesti
sociopolitici.
Razzismo é, allora, solo ciò che residua dopo avere (almeno mentalmente) cancellato
dal fatto discriminatorio tutte le componenti di per sé indicative di nazionalismo,
etnismo, colonialismo. La scomposizione della formazione sincretica in cui il razzismo
si cela consente di cogliere il vero senso del fenomeno razzista. A tale proposito non
va sottaciuta la circostanza essenziale secondo la quale, tranne rare eccezioni di
dottrine più o meno codificate, il razzismo non si presenta affatto sotto la forma di una
teoria esplicita ovvero di atti flagranti accompagnati da chiare ed esplicite
manifestazioni di idee di rivendicazione o legittimazione di condizioni o di status
particolari.
Il razzismo allora, per come lo si riesca a definire, é quasi sempre un fenomeno
implicito:
spesso non si richiama all’ineguaglianza, alla differenziazione biologica tra le razze
umane, alla dottrina nazista, non ingiuria in maniera che dall’espressione verbale si
ricavi l’idea di un prorompente senso di ripudio, di odio, di ribrezzo per il diverso da sé
in quanto tale di per sé. Solo un lavoro di decifrazione delle singole parti della
condotta e un esame critico della stessa nel suo insieme consentono di individuare il
razzista in colui che attua il compromesso tra le pulsioni di ostilità nei confronti
dell’Altro diverso da Sé per razza, etnia o nazione, ed il rispetto della norma
antirazzista, interiorizzato grazie all’educazione od al senso di utilitaristico interesse
socio-politico-economico.
Ebbene, la norma penale italiana consente di annoverare nell’interdetto antirazzista
anche fenomeni di cd. razzismo implicito. Se, ad esempio, si sostituisce il termine
“cosmopolita” o “sionista” al termine “ebreo” si può pensare di eludere il criterio di
identificazione dell’antisemitismo e, di conseguenza, la norma penale antirazzista, ma
questa resterebbe in sé comunque violata quando invece, pur in presenza del citato
cambio di vocabolo, la percezione dell’intenzione antiebraica di per sé risultasse dal
contesto dei fatti evidente. Lo stesso discorso vale per numerose altre pratiche
discriminatorie che, ad esempio, possono colpire alcune categorie di immigrati
extracomunitari regolari sul suolo dello Stato italiano (lavoro, casa, ecc.), ma che non
vengono rivendicate o legittimate espressamente “in nome della razza, del colore della
pelle, del pregiudizio” bensì semplicemente per un ripensamento, una migliore offerta
economica, un’assunta incapacità del soggetto richiedente di farsi carico degli oneri e
degli obblighi conseguenti all’eventuale accettazione contrattuale.
La nozione di razzismo, rilevante ai fini dell’applicazione delle norme contro la
discriminazione razziale, così come di quelle che vietano la riorganizzazione del partito
fascista (legge 20 giugno 1952, n. 645), indica così tutte le dottrine che postulano
l’esistenza di razze diverse, superiori ed inferiori, le prime destinate al comando, le
seconde alla sottomissione.
Il razzismo é, invero, la dottrina che ammette l’esistenza di razze diverse nella specie
umana, considerando tali differenze come fattori essenziali della storia e deducendo il
diritto delle razze superiori a dominare quelle inferiori.
Nel 1972 Colette Guillaumin ha proposto la seguente definizione di razzismo: qualsiasi
atteggiamento di esclusione che assume il carattere della permanenza.
L’argomento della disuguaglianza biologica ha ceduto il passo all’assolutizzazione della
differenza tra le culture. Il cliché dell’antirazzismo classico, basato sul culturalismo e
sul differenzialismo, non é così più valido nell’ottica di una visione esclusivista del
razzismo perché, ove ciò fosse, le tesi e le argomentazioni dell’antirazzismo
tenderebbero
a confondersi con quelle del neorazzismo differenzialista e culturale.
Il “neorazzismo” é un razzismo sostanzialmente simbolico in quanto sottilmente ed
indirettamente infuso nelle menti sulla base di sottintesi con i quali artatamente si
gioca al fine di modificare il senso della realtà che le belle parole usate fanno
immaginare.
Il neorazzismo simbolico é il razzismo proprio dell’epoca antirazzista, é il razzismo
adattato all’epoca postnazista, ossia al periodo storico contemporaneo di diffusa critica
e fermo rifiuto del razzismo stesso.
Orbene, indubbiamente é vera la distinzione che anche il Procuratore della Repubblica
ha sostenuto in sede di requisitoria orale, tra pensiero in sé e pensiero di per sé.
Ciò che si pensa non sempre coincide con ciò che é la condotta. Eppure la condotta è
conseguenza di un pensiero, così si distinguono i pensieri a seconda del fatto che
restino in foro interno ovvero si estrinsechino nella realtà mediante comportamenti,
attivi od omissivi. Quando si parla di razzismo come di un qualsiasi altro fenomeno
che é frutto dell’umano pensare, è lecito distinguere tra razzismo in sé e razzismo di
per sé. Oggi come ieri é corretto parlare di razzismo in sé come distinzione tra Ciòche-è e Ciò-che-non-é, tra Me e Te, tra Io-Te-Noi e Altri-Voi-Loro. Si distingue
lecitamente in sé tra razze umane, una delle quali é giudicata più umana delle altre.
Si tratta di un pensiero in sé ricorrente nella mente dell’uomo che, purtuttavia,
continua a ripetere che di per sé, qualsiasi sia la verità delle forme umane, sull’intera
superficie della terra c’é un’unica specie di uomini. Di per sé l’uomo insiste nel dire
che l’etnocentrismo culturale va combattuto e che é sbagliato sia il pensiero di
disumanizzazione degli Altri sia il processo di inferiorizzazione e di barbarizzazione di
chi è diverso, al punto da considerare il diverso come un incivile o un immorale o, per
l’appunto, semplicemente un diverso. Ma alla tesi unitarista e universalista si affianca
l’idea pluralista e relativista che concepisce nella diversità culturale, etnica o razziale
un valore di per sé e, nell’intento di unificare ciò che invece é naturalmente diviso o è
stato diviso dallo stesso uomo nel corso della propria storia, si ritiene corretta
l’uguaglianza di tutte le diversità di cultura e civiltà.
L’identificazione del razzismo come derivato dell’etnocentrismo destoricizza il
problema e solo l’approccio sociologico permette di salvare il modello di intelligibilità.
L’uomo declassato é l’uomo degradato, é l’uomo la cui differenza sociale, culturale,
etnica, di civiltà da altri uomini é stata cancellata dalla percezione. La conseguenza
discende logicamente dalle premesse: esiste un gruppo superiore e dominante e un
gruppo inferiore e dominato.
Tra pregiudizio razziale e comportamento razzista, tra razzismo ideologico e razzismo
della persecuzione e dello sterminio non esiste prova di esistenza di relazione causale.
Ciò significa che non é possibile prevedere comportamenti sociali definiti come razzisti
solo a partire dalla conoscenza di un pregiudizio razziale, di un’attitudine o di
un’opinione razzista o xenofoba o simile.
Eppure si ritiene comunemente che il pregiudizio razziale conduca inevitabilmente
all’atto violento che evidenzia, di conseguenza, il pregiudizio e la visione razzista in
quanto tale. E, invero, non occorre un indottrinamento di matrice razzista perché si
possa assistere a comportamenti razzistici. Il razzismo opera indipendentemente dal
riferimento alla razza in senso biologico. Richiamarsi al dato biorazziale o
etnoculturale significa creare un rapporto funzionale delle categorie distintive delle
razze (bianchi, ariani, indoeuropei, occidentali) rispetto alle attitudini, disposizioni,
atteggiamenti, ecc. Si crede, allora, di potere dedurre un tipo di pensiero di un
individuo dalla sua appartenenza a questa o a quella razza, etnia nazione, cultura.
Comunemente, dunque, il razzismo contemporaneo é essenzialista o tipologico. Tale
tipo di razzismo non é propriamente sfruttamento, dunque non va confuso con il
colonialismo, l’imperialismo, lo schiavismo, il segregazionismo. Tale tipo di razzismo,
invece, può presentarsi come universalista (eterofobo) - fondato sulla negazione
dell’identità e, dunque, sul disprezzo per le forme culturali particolari a seconda di
determinate scale di valori - ovvero come differenzialista (eterofilo) - fondato sulla
negazione della comune umanità e, quindi, sull’assolutezza dell’identità e delle
differenze razziali, etniche, culturali, nazionali del gruppo.
Il pensiero razzista di oggi presenta alcuni assiomi:
a) si crede che esistano categorie di uomini differenti (= inferiori) da altri in maniera
anomala, il che si traduce nell’introduzione di differenze nella differenza. Ai diversi si
rimprovera non il fatto di essere diversi, ma di esserlo in modo anomalo, dunque
cattivo o brutto secondo la morale, l’etica, la civiltà del gruppo di appartenenza
dell’uomo superiore. Non si stigmatizza lo zingaro per essere zingaro, ma perché egli
vive come uno zingaro, dunque come si ritiene che vivano tutti gli zingari,
prediligendo il nomadismo, l’accattonaggio, la nullafacenza, la ruberia;
b) si ritiene che gli uomini anormalmente diversi siano anche pericolosi e inutili per il
proprio gruppo di appartenenza. A coloro che si considerano anormalmente diversi
spetta, per natura, il rifiuto sociale in modo incondizionato in quanto inassimilabili
(nazionalismo razzializzato) o inadatti (utilitarismo capitalista, immaginario eugenista)
L. 4 L’incitamento a commettere atti di discriminazione.
L’uso del verbo “incitare”, pur diverso da quello solitamente usato in casi analoghi (=
istigare), esprime l’idea di “mettere in movimento” un pensiero che, altrimenti, non
esisterebbe in quanto tale ovvero esisterebbe in maniera diversa.
Sì incita taluno quando lo si incoraggia ad agire ovvero ad agire meglio o
diversamente ovvero a desistere. In questo senso, dunque, il verbo “incitare” é
sinonimo di “pungolare”, “sospingere”, “spronare”, “stimolare”.
L’incitamento, secondo la dottrina e la giurisprudenza, non é così propriamente
sinonimo di istigazione. L’incitamento indica qualcosa di diverso e di più tenue rispetto
all’istigazione; indica, peraltro, qualcosa di diverso e di più penetrante rispetto
all’apologia. Se l’istigazione significa spingere, stimolare, spronare qualcuno a fare
qualcosa, e l’apologia significa espressione di un proprio pensiero in adesione a quello
di un altro che si esalta enormemente e che, peraltro, non viene in alcun modo
alterato nella sua essenza dal pensiero proprio, l’incitamento non stimola né sprona
all’azione ma alla formazione di un certo tipo di pensiero dal quale poi, nell’intenzione
di chi stimola e sprona, ci si auspica discenda un certo tipo di condotta.
L’incitamento alla discriminazione razziale e la partecipazione ad associazioni che
abbiano come scopo tale incitamento, integra il reato di cui all’art. 3 della legge n.
654/1975 non solo se compiuto in danno di italiani, ma anche se compiuto a danno di
stranieri: la norma penale vieta, infatti, gli, atti di incitamento all’odio razziale
indipendentemente dall’appartenenza a uno Stato straniero delle persone
discriminate, e ciò in esecuzione della Convenzione di New York del 17 marzo 1966,
resa esecutiva in Italia con la legge n. 654 citata.
Non rileva assolutamente, ai fini dell’integrazione della fattispecie di che trattasi, che
l’incitamento sia stato accolto da colui al quale era rivolto. Ciò che unicamente rileva
ai fini della norma in contestazione é che l’incitamento sia idoneo ad influire sul
pensiero altrui nel senso di essere capace di formare in altri un determinato schema
mentale da cui possa discendere un certo tipo di condotta, quella condotta che
primariamente lede il bene giuridico tutelato dalla norma di che trattasi (la dignità
umana) mettendo in pericolo la tranquillità e la sicurezza (ordine pubblico).
Nel caso di specie risulta integrata anche l’ipotesi dell’incitamento, non tanto e non
solo con riguardo al pensiero dei cittadini spronati ad agire in un certo modo
(sottoscrivendo la petizione popolare), ma soprattutto con riguardo al pensiero dei
pubblici amministratori di Verona, ossia a coloro che reggono le sorti amministrative
della collettività e che, per ragioni politiche, sono sensibili alle opinioni espresse dalla
collettività amministrata. Da questo punto di vista, dunque, la condotta contestata agli
imputati sotto il profilo dell’incitamento appare subdolamente posta in essere nei
confronti dell’amministrazione, atteso che - seppure é vero che il pubblico
amministratore deve amministrare la comunità secondo principi di democrazia, civiltà
e pluralismo - é indubbia l’influenza sul politico amministratore di una “massa di
pensieri” espressi in una certa direzione da un considerevole numero di consociati, e
ciò quand’anche questa “massa di pensieri” sia negativa nei confronti di una parte
della stessa popolazione amministrata (di etnia zingara, italiana e/o straniera,
formalmente residente o non in Verona) e, quindi, non sia propriamente conforme ai
dettati di civiltà, democrazia e pluralismo ai quali si ispira la legislazione vigente.
M. Elemento soggettivo.
Si tratta di reato a dolo specifico. La fattispecie che sanziona la discriminazione
commessa per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, siccome delineata dall’art. 3,
comma 1, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, come modificato dall’art. 1 del d.l. 26
aprile 1993, n. 122, configura un delitto a dolo specifico: l’agente opera con coscienza
e volontà di offendere la dignità della vittima in considerazione di fattori razziali,
etnici, nazionali o religiosi. Il pensiero e la condotta in sé discriminatori,
rispettivamente, si diffonde e si tiene proprio perché si possa percepire il pregiudizio,
il dispregio, l’odio che si nutre per l’Altro. L’illiceità del fatto risiede proprio in questo,
nella specificità della colpevolezza che esplicita di per sé la condotta discriminatoria.
N. Diritto di critica: esclusione.
Non si ravvisa nella condotta contestata agli imputati l’ipotesi di un legittimo diritto di
critica nei confronti degli zingari abusivamente stanziati sul territorio del Comune di
Verona in zone non classificate come campi nomadi regolari ai sensi della l.r. n.
54/1989. La protesta attuata dagli esponenti della Lega Nord veronese per il ripristino
della assunta legalità violata é stata, invero, accompagnata da atti palesemente
esulanti dall’ambito del lecitamente consentito: esiste, invero, stretto collegamento tra
la protesta di discriminazione etnica resa pubblica con le scritte (volantini, manifesti,
titolo della petizione popolare) e la contestuale raccolta di firme finalizzate a dare
contezza agli organi politici dell’amministrazione comunale del dissenso dei cittadini
firmatari della petizione popolare in ordine alla presenza di zingari nella città di Verona
e, quindi, a persuadere l’amministrazione comunale a cacciare di fatto tutti gli zingari
dal territorio scaligero.
Non può essere dato ingresso ad un giudizio di liceità di una critica ovvero di un
pensiero manifestato in dispregio alla dignità umana, diritto che preesiste alla
Costituzione:
il rispetto della dignità umana costituisce l’essenza di uno Stato democratico, e sul
principio di tale rispetto si fondano tutti gli altri diritti fondamentali.
La libertà di critica e di manifestazione del pensiero é una libertà che é lecitamente
esercitatile nel limite del rispetto della dignità umana, atteso che si tratta proprio di
libertà finalizzate allo sviluppo e alla più completa realizzazione della personalità
umana. Indipendentemente, dunque, dalla circostanza che la propria opinione (anche
di critica) sia di maggioranza o di minoranza, essa deve comunque essere un’opinione
espressa nell’assoluto rispetto della dignità umana dell’interlocutore, individuale o
collettivo. Questo concetto é quello che più corrisponde ai principi contenuti nei
Trattati internazionali, non da ultimo nella Costituzione europea firmata a Roma a fine
del 2004, la quale stabilisce che “Nessuna disposizione della presente Carta deve
essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o
compiere un atto che miri a distruggere i diritti o la libertà riconosciuti nella presente
Carta o ad imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste nella
presente Carta”. La Costituzione europea, dunque, riproduce quanto già la
Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo espressamente statuiva facendo divieto a
chiunque di “compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà
riconosciuti nella presente Carta”.
Il senso di tali principi é, dunque, chiarissimo: da una parte si afferma l’assoluto
principio del rispetto, in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro
settore della vita pubblica, della dignità umana a prescindere dalla razza, dal colore,
dall’ascendenza, dall’origine nazionale o etnica; dall’altra si riconosce la libertà di
pensiero e di critica nel limite imprescindibile del rispetto dei principi sanciti in tema di
dignità umana. La Corte europea ha più volte affermato che non si può abusare
dell’esercizio di un diritto, nel caso di specie dell’esercizio del diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero, al fine di offendere altri diritti fondamentali,
principalmente quello superiore della dignità dell’uomo.
Si tratta di un principio che era stato affermato solennemente anche nel corso della
II^ Conferenza Mondiale della lotta contro il razzismo, tenutasi a Ginevra nel 1983:
per eliminare il razzismo occorre combatterlo nella sua fase preliminare, in quella fase
cioè che si manifesta sotto la forma della diffusione del pensiero, a prescindere dal
come il pensiero é diffuso e dall’intensità della diffusione, da quella più blanda
dell’espressione del pensiero a quella più incisiva che si concretizza nell’incitamento.
La giurisprudenza internazionale é nel senso di negare le rivendicazioni dei cd.
negazionisti, ossia di coloro che si presentano come vittime di un attentato
ingiustificato alla libertà di espressione del pensiero. Molte legislazioni hanno recepito
questo orientamento giurisprudenziale. Il senso di questo orientamento é chiaro: si
vuole reprimere qualsiasi discorso a sfondo razzista di cui il negazionismo é una
sottospecie. I tentativi effettuati dai negazionisti di vedere riconosciuto il diritto ad
esprimere la loro posizione sostanzialmente razzista sono stati decisamente respinti.
O. Conclusioni.
Non é illecito avere pregiudizi in sé, nemmeno se tali pregiudizi sono di tipo razziale,
etnico, nazionale, religioso. E’ illecito se, e solo se, il pregiudizio in sé razziale, etnico,
nazionale, religioso si trasforma da pensiero intimo del singolo uomo a pensiero che
l’uomo (singolo o in gruppo) diffonde in qualunque modo argomentando la superiorità
della propria razza, etnia o nazione o compiendo o incitando a compiere atti di
discriminazione per ragioni di razza, etnia, nazione, religione. Poiché l’uomo sa dire
cose che non pensa e sa pensare cose che non dice, va da sé che la verità o la falsità
di ciò che si pensa non sempre è la verità o la falsità di ciò che si dice.
E dunque: é vero ciò che gli imputati hanno fatto credere di essere nel settembre
2001 o é vero ciò che oggi essi dicono di sé “ora per allora”?
Il giudizio deve essere formulato ex ante con riguardo al cd. pensato. E non vi é chi
non veda come esternare il pensiero con frasi come “via (tutti) gli zingari dalla città”,
“cacciamo gli zingari” e altre proposizioni universali simili, sia un modo di
manifestazione non consentito e non tutelabile in quanto evidenzia nei fatti un
pensato in sé chiaramente preconcetto.
Si é liberi di formulare ipotesi, ma si deve essere consci del fatto che a quelle ipotesi
deve seguire un controllo empirico mediante deduzione dall’esperienza dei fatti,
siccome espressi secondo i termini delle asserzioni di base. Si é, così, liberi di pensare
in sé che gli zingari siano tutti dei ladri, ma si deve accettare consapevolmente che,
ove esternato, quello stesso pensiero diviene di per sé oggetto di critica sulla base di
fatti empirici: e basta l’asserzione di base che, secondo esperienza, anche un solo
zingaro, non sia un ladro perché sia negata validità alla proposizione universale,
quand’anche questa sia stata affermata secondo protocolli osservativi di matrice
neopositivistica, di per sé accettati ed accettabili solo per accordo convenzionale
nell’ambito di una comunità particolare e non anche al di fuori di un accordo
generalizzato.
Ogni scelta é espressione di volontà, e non esiste discriminazione di sorta se non
come conseguenza di una libera scelta di foro interno che, in quanto consciamente
estrinsecata in un comportamento, fa parlare di volontà di colui che l’ha operata. E
così é l’atto di scelta, quale atto di volontà, a fondare la valutazione della
discriminazione umana come libera preferenza dell’esserci in modo lecito ovvero
illecito rispetto al dettato normativo.
Si può, dunque, pensare liberamente secondo propria volontà, ma si deve ricordare
che non é essenziale per “esserci” in una società civile il comportarsi come si vuole,
ma “come si deve secondo la norma di legge”. E la legge vieta e sanziona che si possa
umiliare un proprio simile per il solo fatto che egli sia quello che é, che egli sia tale e
quale é, ossia che egli esista essenzialmente in quanto essere umano con le proprie
qualità, le proprie caratteristiche, le proprie idee, le proprie inclinazioni.
Orbene, oggi si sostiene la tesi secondo la quale gli imputati volevano semplicemente
ripristinare la legalità che essi assumevano violata a seguito della condotta degli
zingari che avevano occupato aree pubbliche (demaniali o patrimoniali) del Comune di
Verona diverse da quella di Forte Azzano. Ma é anche possibile che gli imputati
avessero, al tempo delle condotte in contestazione, fatto credere ai cittadini di Verona
che l’intenzione del partito Lega Nord veronese fosse quella di cacciare o fare cacciare
(dalla giunta comunale pro-tempore) tutti gli zingari dalla città.
Allora: mentivano gli imputati quando hanno fatto credere ai cittadini veronesi che
essi volevano cacciare o fare cacciare tutti gli zingari dalla città di Verona?
Secondo la dottrina della “cassatio”, allorquando gli imputati affermano oggi che essi
stavano mentendo in passato dicendo quello che a loro carico viene provato dal tenore
letterale delle parole usate nei manifesti, nei volantini e nei testi delle interviste alla
stampa e della conferenza pubblica di presentazione dell’iniziativa di petizione
popolare, essi in realtà non dicono alcunché di particolare: la valutazione e il giudizio
della proposizione “E’ vero o é falso che gli imputati volevano cacciare o fare cacciare
tutti gli zingari dalla città di Verona” non possono essere presi in considerazione
nell’analisi della proposizione stessa. Ma l’analisi va presa in considerazione nella
valutazione e nel giudizio. Tale modo di procedere presuppone l’implicazione di una
sorta di gerarchia del linguaggio che, in relazione a tipi di proposizioni come quelle
anzidette, non esiste affatto.
Allora: Quale delle due tesi va accolta, quella dell’accusa o quella della difesa ?
Il Collegio ritiene, a tale fine, che non possa essere omesso il richiamo al radicale
distinguo esistente tra i vari tipi di proposizioni (vocali, scritte, mentali) e che, nel
caso che qui ci occupa, il dato testuale delle parole usate (ad es. “Sabato 15
settembre firma anche tu per mandare via gli zingari da Verona”, “Per la sicurezza
della cittadinanza, via gli zingari da casa nostra, sgombero immediato”, “i nomadi
Sinti devono essere allontanati dal territorio comunale, l’unica soluzione é
un’ordinanza definitiva di allontanamento”) chiarisce, al di là di ogni ragionevole
dubbio, il senso effettivo del pensato, sicché fare passare oggi per “battaglia per il
ripristino della legalità” ciò che é stata, per il tipo di parole e per i toni usati, solo
propaganda di partito non corrisponde al dato di fatto. Ogni altra interpretazione
sarebbe sfalsamento della realtà.
E’, dunque, falso che gli imputati abbiano mentito facendo credere di avere voluto
cacciare o fare cacciare tutti gli zingari dalla città di Verona. E’, invece, vero il
contrario: nel caso di specie gli imputati, diffondendo “tout court” pensieri fondati su
idee di superiorità e di odio razziale, hanno incitato a commettere atti di
discriminazione per ragioni razziali ed etniche nei modi indicati in imputazione. Va
notato, a tale proposito, che eventuali condotte illecite, sotto il profilo della norma di
cui all’art. 633 c.p. ovvero di altre norme penali, andavano e vanno denunciate in
relazione a singoli soggetti in ossequio alla personalità della responsabilità penale.
Da quanto sopra discende che, nell’ideologia propagandata dagli imputati siccome
evincibile dai fatti a loro contestati, non può indiscutibilmente negarsi che il discorso
sull’“Altro” oscilli tra etnopluralismo, differenzialismo culturale e xenofobia esplicita.
Per come é emerso, invero, gli imputati hanno propugnato una visione del mondo
differenzialista: il pensiero che essi hanno diffuso si fonda sull’idea secondo la quale il
diritto da conquistare e difendere non é quello alla uguaglianza ma quello alla
differenza.
La parola d’ordine da rispettare e fare rispettare é, pertanto, incentrata
essenzialmente sulla stigmatizzazione dell’ibridazione, sull’appello mixofobico al rifiuto
del mescolamento (cd. meticciato), sulla necessità di difesa attiva nei confronti di altre
culture, percepite come nemico.
Il differenzialismo culturale é stato usato in chiave metapolitica come risposta al
potere culturale dominante e tramite questa ideologia gli imputati hanno auspicato
l’attuazione dell’idea di separazione come condizione per la salvaguardia delle singole
identità etniche, in particolare dell’identità veneta veronese. Vero é che il
differenzialismo culturale non vuole dire peraltro esprimere, al contrario del razzismo
biologico, un giudizio di valore sulle superiorità di un popolo o di un’etnia su altri.
Vero é, peraltro, che il differenzialismo politico rifiuta l’etichetta di teoria razzista che,
invece, le é propriamente attribuita da politologi, filosofi, sociologi e storici: tale
ideologia é, invero, razzista di per sé, dal momento che essa può essere usata come
forma di travestimento tattico del razzismo inegualitario mediante una sua
riformulazione più socialmente accettabile. Stabilendo l’irriducibilità delle culture e
l’imperativo alla loro separazione, il differenzialismo si traduce di fatto in un
meccanismo di chiusura sociale e di esclusione dell’“Altro”.
Il messaggio lanciato dagli imputati attraverso la diffusione del loro pensiero é stato
quello di esaltazione, in linea generale, dell’identità etnico-culturale dei popoli o delle
varie leghe popolari, concepiti, nelle singole ramificazioni locali, come vere e proprie
unità di lingua e di tradizioni, unici veri collanti della classe popolare piuttosto che di
uno Stato-nazione.
L’idea propagandata é stata, dunque, quella del populismo che rivendica la propria
identità culturale a tutti i costi, anche quando i costi sono quelli che si impongono
all’“Altro” solo in ragione della sua posizione di estraneo al gruppo, proprio perché
“Altro”. Tale idea non può che essere letta se non, da una parte, in chiave
essenzialista come dedizione assoluta dell’individuo alla collettività leghista, e,
dall’altra, in termini esclusivistici come attitudine all’affermazione del cd. endogruppo
e all’emarginazione di chi a questo sia estraneo.
Gli imputati hanno certamente commesso un errore, un errore consistito nell’avere
tenuto una condotta vietata dalla legge penale: 1) hanno diffuso, tramite l’iniziativa
della pubblica raccolta di firme sotto forma di petizione popolare indirizzata
all’amministrazione del Comune di Verona, idee fondate sulla superiorità e sull’odio
razziale ed etnico nell’accezione dei termini sopra specificati; 2) hanno anche incitato
con la medesima condotta i pubblici amministratori Veronesi competenti a commettere
atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici.
A costituire un concreto turbamento, mediante la richiesta ai cittadini di un’adesione
in forma diffusa all’iniziativa discriminatoria da loro patrocinata, alla coesistenza
pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale veronese al quale il messaggio era
indirizzato, é stato il tenore letterale del testo dei volantini, dei manifesti pubblicitari,
delle interviste alla stampa e della conferenza di presentazione dell’iniziativa di
petizione pubblica.
Pertanto, l’assunto di conclusione del giudizio collegiale si fonda essenzialmente sul
richiamo all’art. 2 Cost. come norma che sancisce il valore assoluto della persona
umana. Si tratta di una norma a carattere precettivo e non programmatico, sicché
ogni proiezione della persona nella realtà sociale è suscettibile di assurgere a rango di
diritto soggettivo perfetto con la conseguente configurabilità di una tutela risarcitoria
in caso di lesione. Nel caso di specie ogni zingaro Sinto, in quanto persona, ha diritto
di vivere e di, stabilirsi, di circolare e di permanere nel Comune ove risulta
anagraficamente iscritto, al pari di ogni altro cittadino veronese. Soprattutto nel
comune di residenza l’essere umano ha diritto di esplicitare tutto quello che costituisce
la sua quotidianità (scuola, lavoro, mantenimento di relazioni affettive e sociali), ossia
di mantenere tutti quei vincoli che costituiscono l’oggetto di un diritto soggettivo
perfetto a mente dell’art. 2 Cost. Ebbene, tali diritti sono stati certamente posti in
pericolo dalla campagna di raccolta di firme preordinata alla cacciata degli zingari dalla
città, e non al ripristino della legalità violata. Con la condotta loro contestata gli
imputati hanno lanciato un messaggio chiarissimo agli zingari della comunità Sinta,
facendoli sentire stranieri nella città cui essi appartengono a pieno titolo quali residenti
regolarmente iscritti all’anagrafe.
La legge regionale del Veneto n. 54/1989 é stata totalmente calpestata dalla
campagna di raccolta delle firme promossa dagli imputati i quali, per le modalità con
cui è stata presentata alla cittadinanza la loro battaglia politica, hanno di fatto lanciato
il seguente implicito messaggio: si nega qualsiasi diritto agli appartenenti alla
comunità zingara.
I Sinti sono stati discriminati non solo per il fatto di essere stati spersonalizzati e
genericamente abbinati ad episodi di criminalità, ma anche per essere stati
concretamente esposti al pericolo di essere allontanati dalla città di Verona che é
anche la loro città.
L’istruttoria dibattimentale ha, dunque, messo in luce due dati: da una parte, la
campagna di raccolta delle firme preordinata alla cacciata di un gruppo genericamente
individuato e, dall’altra, il turbamento dell’animo degli appartenenti al gruppo Sinti,
concretizzatosi in un sentimento di paura, di preoccupazione, di ansia per la sorte loro
e dei loro figli. L’azione criminosa é stata ampliamente pubblicizzata con conferenze
stampa e con manifesti affissi in tutta la città di Verona e, per come ha ricordato il
teste Fior, anche fuori dalla città di Verona, in particolare nel comune di Villafranca.
La lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato Flavio Tosi alla stampa (vds. Articoli
sul giornale L’Arena del 2 agosto 2001, 11 agosto 2001, 8 settembre 2001, 15 e 16
settembre 2001) é sufficiente per negare l’attendibilità della tesi difensiva che vuole
ricondurre l’iniziativa della raccolta delle firme “Via gli zingari da casa nostra” - e le
modalità di pubblicità di tale iniziativa - ad una battaglia politica, sostenuta dal partito
Lega Nord veronese, per il ripristino della legalità violata in nome di esigenze di
esclusivo carattere economico e sociale.
I toni e le parole usate nella campagna di raccolta delle firme non sono giustificati
dalla scriminante relativa all’esercizio del diritto di critica, poiché questo non é stato
legittimamente attuato: il messaggio “Firma anche tu per mandare via gli zingari” era,
invero, rivolto all’intera cittadinanza ed ampliamente trasmodava il limite dell’assoluta
correttezza del linguaggio che ogni manifestazione del pensiero deve rispettare
quando coinvolge la dignità dell’altro uomo. E se di critica politica si ritiene che si sia
trattato, allora giova ricordare che la giurisprudenza di legittimità é orientata ad
imporre, pur nella possibile maggiore asprezza dei toni e delle espressioni, l’assoluto
rispetto dei limiti di verità e di interesse sociale. Le parole scritte sui manifesti affissi
sui muri della città, inneggianti all’allontanamento definitivo degli zingari, hanno
indignato molti cittadini veronesi che hanno ritenuto di rivolgersi alle istituzioni per
fare interrompere quella campagna di raccolta delle firme reputandola
manifestamente razzista. E non va sottaciuto che la Verona che si é indignata é una
Verona variegata dal punto di vista di colore politico: sono stati escussi testi, indicati
dalle parti civili, che non sono accomunati ideologicamente o per formazione culturale,
ma che si sono tutti sentiti ugualmente indignati per i toni della campagna di raccolta
delle firme, siccome pubblicizzata ed attuata dagli imputati con le modalità loro
addebitate. L’istruttoria dibattimentale ha così fornito ampiamente la prova
dell’esistenza del reato contestato agli imputati anche nella sua dimensione
soggettiva. La campagna di raccolta delle firme, per le modalità, per i toni e per le
spiegazioni che l’hanno accompagnata, é stata una campagna oggettivamente
razzista: sono state usate argomentazioni generalizzanti relative alla correlazione tra
episodi di criminalità e di degrado sociale e l’intera indistinta etnia Sinta, in tale modo
avendo favorito la rappresentazione degli zingari come profezia sociale
compiutamente realizzata sul versante della negatività. La consulenza tecnica ha
spiegato che il pregiudizio atavico contro gli zingari, che l’opinione pubblica spesso
permette o accetta - così provocando azioni repressive contro questo o quel membro
dell’etnia -, é un pregiudizio etnico chiaramente discriminatorio.
Correttamente ha osservato la parte civile che ciò che nei confronti della cittadinanza
verrebbe vista come una misura di inaudita gravità diviene, invece, di normale
amministrazione nei confronti di questa minoranza etnica (i Sinti) la cui identità
sociale viene così quotidianamente e radicalmente disumanizzata.
P. Il trattamento sanzionatorio e le statuizioni civilistiche. […].
P.Q.M.
Visti gli artt. 533-535 c.p.p. dichiara gli imputati […] colpevoli del reato loro ascritto e,
concesse le attenuanti generiche, li condanna alla pena di mesi sei di reclusione
ciascuno, oltre al pagamento in solido delle spese processuali.
Visto l’art. 1 bis d.l. 26.4.1993, n. 122, convertito nella legge 25.6.1993, n. 205
applica a tutti gli imputati la sanzione accessoria del divieto di partecipare, in qualsiasi
forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative
per un periodo di anni tre.
Visto l’art. 163 c.p. ordina la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena
principale e della pena accessoria per tutti gli imputati per la durata di anni cinque
sotto le comminatorie di legge.
Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p. condanna gli imputati a risarcire alle parti civili
costituite il danno morale che si liquida definitivamente in complessivi euro diecimila
in favore dell’Opera Nazionale Nomadi e in euro cinquemila ciascuno in favore di […];
condanna infine gli imputati a rifondere alle parti civili le spese di costituzione e di
difesa, che si liquidano complessivamente in euro 4.000,00 per ciascun difensore;
Visto l’art. 544, comma 3 c.p.p.; fissa il termine di giorni novanta per il deposito della
motivazione.