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Volume 39
155
Luglio-Settembre 2009
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Industrie Grafiche Pacini, Pisa
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Medicina
INDICE numero 155 Luglio-Settembre 2009
Editoriale
Il tempo del bilancio e dei saluti
Pasquale Di Pietro......................................................................................................................................................................................133
GASTROENTEROLOGIA (a cura di Salvatore Auricchio)
Novità in Gastroenterologia: reflusso gastroesofageo ed esofagite eosinofila
Roberta Buonavolontà, Massimo Martinelli, Annamaria Staiano................................................................................................................135
L’Helicobacter pylori oggi
Gabriella Boccia, Salvatore Auricchio.........................................................................................................................................................141
Nuove tecniche di imaging ed endoscopiche in Gastroenterologia
Erasmo Miele, Carlo Di Lorenzo..................................................................................................................................................................147
REUMATOLOGIA (a cura di Alberto Martini)
Recenti novità nel trattamento delle malattie reumatiche
Clara Malattia, Alberto Martini ...................................................................................................................................................................153
La sindrome PFAPA 20 anni dopo: quando diagnosticarla, come trattarla?
Maria Antonietta Pelagatti, Roberta Caorsi, Silvia Federici, Marco Gattorno..............................................................................................157
La sindrome da antifosfolipidi
Sergio Davì, Sara Dalprà, Sara Verazza, Angelo Ravelli..............................................................................................................................162
Frontiere (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon)
Genome-wide array nella pratica clinica: certezze e dubbi
Orsetta Zuffardi, Annalisa Vetro..................................................................................................................................................................167
FOCUS SU: (a cura di Gianni Bona)
Lo stato della ricerca pediatrica in Italia
Ignazio Barberi, Lucia Marseglia................................................................................................................................................................ 172
linee guida (a cura di Riccardo Longhi)
La sincope in età pediatrica.................................................................................................................................................................... 177
Luglio-Settembre 2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 133-134
editoriale
Il tempo del bilancio e dei saluti
Con il Congresso di Padova si chiude il mio triennio di Presidenza della Società Italiana di Pediatria (SIP). Inevitabile, anche se forse ancora
un po’ troppo “a caldo”, sottrarsi alla tentazione di fare un primo bilancio del lavoro svolto e di condividere questo bilancio con tutti i Soci.
Sono comunque particolarmente contento di farlo dalle colonne di Prospettive in Pediatria, perché l’acquisizione di questa prestigiosa rivista
da parte della SIP fa parte di uno dei tanti impegni presi al momento della mia elezione e assolti nel corso del mandato. Quando nel 2006
presi la Presidenza della SIP il comparto editoriale della nostra Società stava attraversando un periodo critico, con l’Italian Journal (all’epoca
cartaceo) che, per ragioni che prescindevano dall’impegno della redazione e del direttore, stentava a decollare e l’assenza – lamentata
dalla grande maggioranza dei Soci – di una rivista scientifica della SIP in lingua italiana. Oggi Prospettive in Pediatria è la rivista scientifica
in italiano che mancava alla SIP e l’Italian Journal, opportunamente migrato sul web, sta bruciando le tappe di un meritato successo, con
i lavori pubblicati che vengono già regolarmente citati su PubMed e l’avvio ufficiale delle procedure presso la Thomson Reuters (ISI) per
ottenere un Impact Factor. Credo che a Sergio Bernasconi e alla sua autorevole redazione, che su mandato del Consiglio Direttivo SIP ha
creato e dirige la rivista, debba andare il sincero ringraziamento di tutta la SIP. È peraltro da sottolineare l’importanza che i soci hanno dato
in questo ultimo anno a I.J.P. visto che in meno di sei mesi la rivista conta di una riserva di oltre cento lavori scientifici.
Ma l’editoria non era, naturalmente, l’unico punto all’ordine del giorno della mia Presidenza. La SIP che ho ereditato aveva avviato da alcuni
anni un processo di rinnovamento che andava portato avanti, magari con qualche accelerazione in più rispetto al passato; aveva delle criticità da affrontare con urgenza così come delle aree in cui aveva lavorato in modo eccellente.
Quando ho assunto la Presidenza della SIP c’era bisogno – a mio avviso – di una maggiore coralità nel lavoro, di una più attiva partecipazione delle Sezioni Regionali alla vita della Società, di un maggior coinvolgimento dei gruppi di Studio e delle Società Affiliate. Oggi i
Consigli Nazionali non sono un rituale, ma un momento di lavoro, la Consulta Nazionale è una realtà che produce importanti documenti
(come l’ultimo: “Il pediatra, fulcro irrinunciabile della assistenza generale e specialistica dei soggetti in età evolutiva”), i Gruppi di Studio e le
Società Affiliate hanno lavorato in stretta sinergia tra di loro e con il Consiglio Direttivo, realizzando un numero di linee guida e di documenti
di consenso che mai prima d’ora la SIP aveva prodotto. In questo triennio tutti i membri del Consiglio Direttivo (e non solo), a partire dal Vice
Presidente, dal Segretario e dal Tesoriere hanno lavorato assumendosi in proprio l’onore e l’onere di portare a termine importanti incarichi.
Quando ho assunto la Presidenza della SIP c’era bisogno – a mio avviso – di valorizzare maggiormente la vocazione scientifica della nostra
Società, di realizzare un profondo rinnovamento del momento Congressuale, di rendere più presente la SIP a livello istituzionale.
Compatibilmente con le nostre limitate risorse abbiamo realizzato lo scorso anno una grande indagine nazionale sull’allattamento al seno,
affidata all’Istituto di ricerca ISPO del prof. Mannheimer, che ci è servita per fare maggiore luce su quello che può essere il ruolo del pediatra
non solo per la promozione dell’allattamento al seno, ma anche per il sostegno alle mamme che allattano. E quest’anno l’indagine si arricchirà di una parte specificatamente dedicata alle donne straniere.
Uno dei più significativi “patrimoni scientifici” della SIP era ed è l’indagine annuale su “Abitudini e Stili di Vita degli Adolescenti” voluta ben
13 anni fa da Giorgio Rondini e Gian Paolo Salvioli e realizzata annualmente da Maurizio Tucci. Continuare a far vivere l’indagine era, più che
una scelta, un dovere. È stata, invece, una scelta promuoverla sempre di più (oggi ha il patrocinio del Ministero della Gioventù), potenziarla,
affiancarla ad un monitoraggio costante dell’affollamento pubblicitario televisivo nella fascia oraria protetta (i nostri dati vengono costantemente trasmessi alla Commissione bambino e TV del Ministero delle Comunicazioni).
Avere a disposizione dati originali su due fenomeni così importanti come l’allattamento e la condizione adolescenziale ci ha messo, inoltre,
nelle condizioni di essere un punto di riferimento non solo in ambito pediatrico, ma presso tutti coloro che si occupano di infanzia e di adolescenza, a partire dalla Istituzioni, e di aprire canali di comunicazione importanti con l’esterno. Non a caso i media danno sempre grandissimo
spazio alle nostre ricerche e, complessivamente, la presenza della SIP sulla stampa laica è in costante aumento da anni.
Inoltre, come società scientifica abbiamo da protagonisti avviato studi e attività rilevanti per quanto riguarda settori di grande importanza
sociale-scientifica penso ai temi dell’ambiente alle problematiche del dolore in sanità e alla tematica del maltrattamento in età pediatrica.
Il Congresso di Genova (lo dico serenamente perché riporto il commento di molte centinaia di Soci) ha rappresentato una svolta significativa per la SIP. Non solo per la qualità degli interventi – tradizionalmente sempre di buon livello ai Congressi SIP – ma per l’innovatività del
tema conduttore (la comunicazione), per i seminari di eccellenza, per l’ampio spazio dedicato ai giovani colleghi e agli specializzandi, per il
rispetto riservato ai partecipanti manifestato anche attraverso piccoli segnali come la scheda di valutazione di ogni intervento, per la scelta,
coraggiosa ma vincente, di aprire una sessione plenaria (proprio quella in cui si parlava dei risultati della nostra indagine sugli adolescenti)
al pubblico.
Il rapporto con le Istituzioni ed i “decisori” non è mai semplice, In ambito sanitario la regionalizzazione di gran parte delle decisioni rende
ancora più difficile la cosa, Ciononostante la SIP in questi anni ha avuto spazi all’interno di tavoli istituzionali e accesso ai poteri decisionali
mai avuti prima d’ora. Cito solo due eventi recenti: l’invito rivolto alla SIP a partecipare alla commissione tecnica e alla unità di crisi attivata
dal Ministero della Salute per affrontare la questione dell’influenza A/H1N1 e la rapidità con la quale siamo stati convocati dal Ministero
della Salute, ricevendo ampie rassicurazioni in merito, quando l’Assemblea dei Soci SIP ha manifestato preoccupazione e disappunto per la
ventilata ipotesi di abolire il corso di laurea triennale per infermiere pediatrico.
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EDITORIALE
Quando ho assunto la Presidenza SIP ho trovato, invece, un ottimo lavoro svolto sul delicato tema dell’obesità infantile ed un interessantissimo studio prospettico sulla carenza di pediatri che si sarebbe determinata nei prossimi anni e della quale abbiamo iniziato, specie in
ospedale, a vedere gli effetti già oggi. Valorizzare questi lavori ha portato alla creazione di una task force obesità che ha avviato, tra l’altro, un
importante ciclo di eventi formativi sul territorio; alla creazione di una commissione sul risk managment che ha prodotto risultati eccellenti;
alla realizzazione di un importante documento sulle criticità pediatriche che sarà presentato proprio in sede congressuale a Padova.
Ritengo, inoltre, che sia stato importante - nell’ultimo anno del mio mandato - avere avviato un confronto aperto sulle criticità pediatriche
emergenti. La delicatezza del tema ha naturalmente suscitato un dibattito propositivo, a tratti anche vivace, nel Direttivo Nazionale, nel
Consiglio Nazionale e nella Consulta Nazionale che alla fine ha consentito di arrivare alla definizione di un documento di confronto autorevole
e condiviso che presenterò, insieme con i colleghi Martini, Navone e Sapia nel corso del Congresso di Padova.
Un buon Presidente – e sarete voi Soci a dire se lo sono stato – deve saper introdurre degli elementi di novità dove e quando lo ritenga
ragionevole, deve cercare di correggere gli eventuali errori passati, ma deve anche essere in grado di riconoscere e valorizzare i traguardi
già raggiunti.
Io, in questi tre anni, ho cercato sempre di comportarmi così.
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Pasquale Di Pietro
Presidente della Società Italiana di Pediatria
Luglio-Settembre 2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 135-140
gastroenterologia
Novità in Gastroenterologia:
reflusso gastroesofageo ed esofagite eosinofila
Roberta Buonavolontà, Massimo Martinelli, Annamaria Staiano
Dipartimento di Pediatria, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Napoli “Federico II”
Riassunto
Le prime linee guida sul Reflusso Gastroesofageo (RGE) sono state pubblicate nel 2001 dalla Società Nord Americana di Gastroenterologia Pediatrica
(NASPGHAN). Nello stesso periodo, in Europa erano state sviluppate linee guida, non adottate ufficialmente dalla Società Europea di Gastroenterologia Pediatrica (ESPGHAN), per cui nel 2007, si è sentita l’esigenza da parte di entrambe le Società di revisionare le linee guida esistenti e di preparare un singolo
documento con l’intento di migliorare la qualità dell’assistenza, di uniformare la gestione clinica e di assistere il pediatra nella diagnosi e nel management
di tale problematica clinica. Negli ultimi dieci anni si è assistito ad un rapido aumento dei pazienti sia adulti sia bambini affetti da una nuova patologia,
l’esofagite eosinofila (EE). L’EE è un disordine clinico-patogenetico, caratterizzato da 1) sintomi gastrointestinali alti, 2) biopsia esofagea che mostri > 15
eosinofili/HPF (campi ad alto ingrandimento) in uno o più campioni ed 3) assenza di Malattia da Reflusso Gastroesofageo, intesa come pH-metria negativa
e/o assente risposta ad alte dosi di inibitori di pompa protonica. Sebbene un numero crescente di bambini ed adulti risulti al momento affetto da EE, pochi
sono gli studi randomizzati controllati e la pratica clinica al momento si basa per lo più su dati limitati ed opinione di esperti.
Summary
The North American Society for Pediatric Gastroenterology, Hepatology and Nutrition (NASPGHAN) published the first clinical practice guidelines on pediatric
gastroesophageal reflux (GER) and gastroesophageal reflux disease (GERD) in 2001. Consensus-based guidelines on several aspects of GER and GERD were
developed in Europe at about the same time, but were not officially endorsed by the European Society of Pediatric Gastroenterology, Hepatology and Nutrition (ESPGHAN). In 2007, the Councils of ESPGHAN and NASPGHAN established a joint committee to review, update and unify these guidelines as a means
of improving uniformity of practice and quality of patient care. These guidelines are designed to assist pediatric health care providers in the diagnosis and
management of GER and GERD. During the last decade, clinical practice saw a rapid increase of patients with esophageal eosinophilia who were thought
to have gastroesophageal reflux disease (GERD) but who did not respond to medical and/or surgical GERD management. Subsequent studies demonstrated
that these patients had a “new” disease termed eosinophilic esophagitis (EE). EE is a clinicopathological disease characterized by 1) symptoms including
but not restricted to food impaction and dysphagia in adults, and feeding intolerance and GERD symptoms in children; 2) ≥ 15 eosinophils/HPF; 3) exclusion
of other disorders associated with similar clinical, histological, or endoscopic features, especially GERD (use of high dose proton pump inhibitor treatment or
normal pH monitoring). Appropriate treatments include dietary approaches based upon eliminating exposure to food allergens, or topical corticosteroids.
Introduzione
Nel 2007, si è costituito un Working Team, sul Reflusso Gastroesofageo (RGE), composto da cinque gastroenterologi pediatri facenti parte
della Società Europea di Gastroenterologia Pediatrica (ESPGHAN), tra
cui uno degli autori di questo articolo (AS), quattro membri della Società Nord Americana di Gastroenterologia Pediatrica (NASPGHAN) con
esperienza sul RGE e due pediatri generalisti con esperienza di epidemiologia clinica. Fu stabilito da entrambe le Società di revisionare le
linee guida esistenti e di preparare un singolo documento. È questa,
infatti, la prima volta che linee guida sono preparate da esperti delle
due Società, chiamati a lavorare insieme, con l’intento di migliorare la
qualità dell’assistenza, di uniformare la gestione clinica e di assistere
il pediatra nella diagnosi e nel management di questa problematica
clinica. Il documento è stato pubblicato nel 2009 su Journal Pediatric
Gastroenterology & Nutrition (Vandenplas et al., 2009).
Trattandosi, pertanto, di un argomento di grande interesse per l’attività
clinica dei pediatri, con possibilità di eccessi sia nella diagnosi che nell’uso di tecniche strumentali, abbiamo focalizzato l’articolo di “Novità
in Gastroenterologia” pressoché esclusivamente a questo argomento,
anticipando le conclusioni che saranno pubblicate anche altrove.
Obiettivi e metodologia della ricerca bibliografica
effettuata
Questa review si propone di illustrare le novità sul Reflusso Gastroesofageo (RGE) e sull’Esofagite Eosinofila (EE).
La ricerca degli articoli rilevanti sul RGE, inserendo come parole chiave
“gastroesophageal reflux”, “gastroesophageal reflux disease”, è stata
effettuata sulla banca bibliografica (Medline) utilizzando come motore di
ricerca PubMed. È stata valutata la letteratura relativa a partire dal 2001
(anno delle ultime linee guida) fino al 2008, inserendo come limiti l’età
pediatrica o, quando i dati erano insufficienti, riferendosi all’età adulta.
La ricerca degli articoli rilevanti sull’EE è stata effettuata sulla banca bibliografica (Medline) per gli anni 2006-2008, utilizzando come
motore di ricerca PubMed e Ovid, adoperando come limiti l’età pediatrica e inserendo come parole chiave “eosinophilic esophagitis”,
“allergic esophagitis”.
Il reflusso gastroesofageo
Il reflusso gastroesofageo (RGE) è il passaggio del contenuto gastrico in esofago accompagnato o meno da rigurgito o vomito. Tale
entità risulta essere un processo fisiologico che si verifica più volte
durante la giornata nei lattanti sani, nei bambini e negli adulti. La
maggior parte di questi episodi dura meno di 3 minuti, si verifica
nel periodo post-prandiale e non causa sintomi (Shay et al., 2004).
Anche il rigurgito si verifica in circa il 50% dei lattanti di età inferiore
ai 3 mesi e si risolve spontaneamente nel lattante sano tra i 12 e i
14 mesi di età (Martin et al., 2002).
È noto in letteratura che gli episodi di RGE si verificano spesso durante i rilasciamenti transitori dello sfintere esofageo inferiore non
accompagnati da deglutizione, il che permette che il contenuto gastrico risalga in esofago (Omari et al., 2005). Inoltre, alterazioni nei
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R. Buonavolontà et al.
meccanismi di protezione, quali scarsa clearance esofagea, ritardato svuotamento gastrico, riduzione dei riflessi neurali protettivi del
tratto aero-gastrointestinale, fanno in modo che il RGE fisiologico si
trasformi in Malattia da Reflusso Gastroesofageo (MRGE) (Vandenplas et al., 2002).
In accordo ad una recente Consensus internazionale (Sherman,
2009), la diagnosi di RGE è spesso esclusivamente clinica basata su
segni e sintomi suggestivi di RGE (Tab. I); ed in particolare, la MRGE
in età pediatrica è presente quando il reflusso del contenuto gastrico
è causa di sintomi fastidiosi e/o di complicanze, tali da avere un
impatto sulla qualità di vita del paziente. Spesso però tale diagnosi può non essere semplice in caso di sintomatologia aspecifica o
atipica, in particolare perché la severità dei sintomi non correla con
la severità del reflusso o dell’esofagite documentato con test pHmetrici o mediante esame istologico dell’esofago (Salvatore et al.,
2005). I sintomi della MRGE variano con l’età; infatti, nell’adolescente e nel bambino con età > 8 anni, i sintomi caratteristici di MRGE
sono come, nell’adulto, bruciore retrosternale, dolore epigastrico e
rigurgiti. Nel lattante e nel bambino < 8 anni, la diagnosi è più complessa. I sintomi che risultano essere più frequenti sono rifiuto del
cibo/anoressia, rigurgito/vomito, tosse. Il rigurgito nel lattante, così
come il dolore retrosternale nel bambino più grande, è un sintomo
caratteristico del RGE, ma non è né necessario né sufficiente per
porre diagnosi di MRGE, perché non è né specifico né sensibile.
Sulla base dei dati presenti in letteratura (Sherman, 2009), nel bambino neurologicamente sano di età maggiore di 8 anni e nell’adolescente, la “Sindrome del RGE Tipico” può essere diagnosticata sulla
base delle caratteristiche sintomatologiche, non essendo necessario
alcun approfondimento diagnostico.
Per quel che riguarda i sintomi atipici di MRGE, è noto che tale patologia può essere associata a disturbi del sonno, a tosse cronica, a laringite cronica, ad asma, a sinusite cronica, ad ALTE, ma una relazione di
causa-effetto con tali manifestazioni non è stata ancora provata.
Sebbene, infine, esistano numerosi test a sostegno della diagnosi di
MRGE, pochi studi in letteratura paragonano l’effettiva utilità di tali
approcci diagnostici: la diagnosi di MRGE è basata, innanzitutto, su
una corretta anamnesi ed un attento esame obiettivo, volti a escludere o sottolineare la presenza di segni d’allarme (Tab. II).
Per quanto riguarda la diagnosi di MRGE, l’Esofagogastroduodenoscopia (EGDS) rappresenta il gold standard per i sintomi tipici, mentre la pH-metria/pH-impedenzometria lo è per i sintomi atipici.
L’EGDS permette la visualizzazione diretta delle lesioni della mucosa
esofagea. Lesioni macroscopiche associate a MRGE includono iperemia, erosioni, essudato, ulcere e ernia iatale, sebbene la presenza
di una mucosa esofagea macroscopicamente normale non esclude
la diagnosi di malattia da reflusso non-erosiva o di esofagite (Furuta
et al., 2007). È fondamentale per la diagnosi l’esame istologico della
biopsia esofagea che consente di mettere in evidenza la presenza
di esofagite o di segni indiretti di reflusso, ma essa è anche di particolare aiuto nell’escludere altre patologie (es. Malattia di Crohn,
esofagite eosinofila…) (Dahm et al., 2004).
La pH-metria esofagea misura la frequenza e la durata degli episodi
di reflusso acido; i range dei valori di normalità sono stati stabiliti,
ma la severità del reflusso acido non sembra correlare con la severità dei sintomi clinici. Inoltre, la pH-metria può essere utile nel
valutare la efficacia della terapia anti-secretoria e nel correlare sintomi, quali tosse e dolore toracico, con gli episodi di RGE oppure per
selezionare i bambini con wheezing o sintomi respiratori nei quali il
RGE risulta essere un fattore aggravante. Purtroppo, la sensibilità e
la specificità della pH-metria in tali condizioni non sono state ancora
stabilite. Tale tecnica non è, inoltre, in grado di valutare reflussi diversi da quelli acidi. Tale limite, recentemente, è stato superato dall’introduzione nella pratica clinica della pH-impedenzometria, una
tecnica che permette la registrazione del movimento di liquidi, solidi
e gas in esofago, attraverso una modifica dell’impedenza elettrica
tra gli elettrodi posizionati lungo il catetere posto in esofago. La misurazione combinata pH-impedenzometrica permette di valutare la
presenza di reflussi acidi (pH < 4), non acidi (pH > 7) o debolmente
acidi (pH compreso tra 4 e 7) (Wenzl et al., 2002). Essa è superiore
alla pH-metria nella valutazione di una possibile relazione esistente
tra i sintomi e RGE, ma, al momento, non esistono ancora valori di
riferimento in età pediatrica.
La scintigrafia gastro-esofagea è stata messa a punto per valutare la
presenza di RGE e di aspirazione polmonare, utilizzando una formula
standard marcata con 99Tecnezio, ma la sensibilità e la specificità di tale indagine per la diagnosi di RGE risultano essere scadenti
(15-59% e 83-100%, rispettivamente), se comparate alla pH-metria
delle 24h, per cui la scintigrafia nucleare non è raccomandata nella
diagnosi e nel management di routine di un lattante o bambino con
RGE (Seibert et al., 1983; Ravelli et al., 2006).
Anche per quel che riguarda le tecniche contrastografiche che studiano il tratto gastrointestinale superiore, sensibilità, specificità e
Tabella I.
Sintomi e segni tipici ed atipici associati a reflusso gastroesofageo.
Sintomi e segni tipici
Sintomi e segni atipici
Rigurgito ricorrente con/senza vomito
Inarcamento del tronco e postura anomala del collo (Sandifer)
Irritabilità nel lattante, pianto post-prandiale
Apnea
Pirosi o dolore toracico
Apparent life threatening events (ALTE)
Ematemesi
Stridore laringeo
Disfagia, odinofagia, rifiuto dell’alimentazione
Tosse cronica
Perdita di peso
Wheezing, asma ricorrente steroido-resistente o dipendente
Esofagite
Raucedine, singhiozzo eccessivo, ipersalivazione
Stenosi esofagee
Laringite
Esofago di Barrett
Broncopneumopatia
Infiammazione laringea e/o faringea
Broncoreattività
Polmoniti ricorrenti
Polmonite ricorrente
Anemia
Ipoproteinemia
136
Novità in Gastroenterologia: reflusso gastroesofageo ed esofagite eosinofila
Tabella II.
Segni di allarme della malattia da reflusso gastroesofageo.
Vomito biliare
Sanguinamento gastrointestinale
• ematemesi
• ematochezia
Insorgenza del vomito dopo i 6 mesi di vita
Scarsa crescita
Diarrea
Stipsi
Febbre
Letargia
Epatosplenomegalia
Fontanella pulsante
Macro/microcefalia
Tensione o distensione addominale
Malattia cronica associata
valore predittivo positivo oscillano tra 28-86%, 21-83% e 80-82%,
rispettivamente, quando comparati alla pH-metria delle 24h. La breve
durata dell’esame, infatti, produce falsi negativi, mentre il verificarsi di
reflussi non patologici durante l’esecuzione dell’esame è responsabile
dei numerosi falsi positivi; l’esecuzione, quindi, di tale indagine non
è raccomandata di routine, ma solo allo scopo di valutare possibili
anomalie anatomiche, come stenosi, ernia iatale, acalasia, fistole tracheoesofagee o stenosi del piloro (Simanovsky et al., 2002).
Infine, anche per quel che riguarda l’uso dell’ecografia della giunzione esofago-gastrica, tale metodica non è affatto raccomandata
come test diagnostico nella MRGE; la sensibilità, infatti, risulta essere del 95% con una specificità solo dell’11% e non risulta esserci
correlazione tra frequenza di reflusso ecografico e indice di reflusso
pH-metrico (Jang et al., 2001).
Nella popolazione adulta è stato usato per la diagnosi di MRGE il trial
empirico con acido-soppressori, ma non esistono al momento attuale dati a favore di tale approccio in età pediatrica (Orenstein et al.,
2008), variando la risposta clinica al trattamento, in maniera considerevole, in base alla severità della malattia, alla dose del farmaco,
ai sintomi specifici e alle complicanze presentate dal bambino.
Per quanto riguarda la terapia della MRGE, le opzioni a nostra disposizione includono modifiche dello stile di vita (comprendenti modifiche alimentari e terapia posizionale), approcci farmacologici e,
infine, chirurgici.
Un sottogruppo di lattanti con allergia alle proteine del latte vaccino,
presenta sintomi indistinguibili da quelli del RGE: in questi bambini,
se allattati al seno, è raccomandato un trial dietetico materno senza
proteine del latte e uovo per 4 settimane; se allattati con latte formulato, un trial con idrolisati spinti o formule a base di aminoacidi
per 4 settimane (Iacono et al., 1996). Non esistono, invece, studi che
valutino in particolare il ruolo dell’allergia alla soia nel lattante che
vomita.
Attualmente la posizione migliore “anti-reflusso” risulta essere la
posizione prona, ma poiché si raccomanda di non far assumere al
lattante tale posizione per la prevenzione della sindrome della morte
improvvisa del lattante (SIDS), tale posizione è suggerita solo in caso
di stretta osservazione del piccolo paziente, nel caso di bambino con
età maggiore di 1 anno, in cui il rischio di SIDS sia superato, e in
bambini, nei quali, a causa di disordini maggiori alle vie respiratorie,
il rischio di morte per aspirazione da RGE sia maggiore del rischio
di morte da SIDS.
Per quel che riguarda, invece, il bambino e l’adolescente, non esistono studi in età pediatrica che impongano terapie posizionali o
modifiche dietetiche, ma sulla scia di studi condotti in età adulta si
consiglia di assumere la posizione di decubito laterale sinistro o con
la testa del letto sollevata e di evitare di assumere alcool, cioccolato,
cibi ricchi di grasso e di fumare (Veugelers et al., 2006).
I farmaci antiacidi tamponano direttamente il contenuto gastrico determinando riduzione della sintomatologia dispeptica e guarigione
mucosale, ma, sebbene tali farmaci sembrino essere sicuri, alte dosi
di idrossido di magnesio o di idrossido di alluminio possono determinare osteopenia, anemia microcitica, neurotossicità, “sindrome milkalcali”, ipocalcemia, alcalosi e insufficienza renale; per tali motivi la
terapia protratta con antiacidi non dovrebbe essere consigliata.
Uno studio clinico apparso di recente dimostra che l’alginato comparato al placebo riduce significativamente la frequenza e la severità del vomito nei lattanti e, sulla base di misure pH-impedenzometriche, dimostra riduzione dell’altezza dei reflussi (Del Buono et al.,
2005). Per quel che riguarda, invece, il sucralfato, questo composto,
negli adulti, risulta essere efficace nel ridurre i sintomi, ma i dati
disponibili nel bambino non sono sufficienti.
Gli antagonisti del recettore H2 (H2A) riducono la secrezione acida
inibendo i recettori istaminergici H2 sulle cellule parietali gastriche.
Esistono dati in letteratura in favore dell’uso degli H2A, in particolare nella terapia dell’adulto, mentre esiste un unico trial randomizzato
controllato (RCT) nel bambino che dimostra che la cimetidina è più
efficace del placebo nel determinare risoluzione dell’esofagite e un
RCT sull’uso della nizatidina nel bambino. Nonostante, però, non esistano RCT pediatrici su ranitidina e famotidina, esperti suggeriscono
l’uso di questi H2A in età pediatrica. Ciononostante, è noto, che gli
H2A sono meno efficaci degli inibitori di pompa protonica (IPP) nel
risolvere i sintomi e determinare risoluzione dell’esofagite e che, a
differenza degli IPP, l’efficacia si riduce con l’uso protratto. Inoltre, tali
farmaci determinano effetti collaterali, quali irritabilità, movimenti del
capo “simil-Sandifer”, mal di testa, sonnolenza e altri che, se interpretati come sintomi persistenti di RGE, possono portare ad aumentare
ulteriormente la dose del farmaco, in maniera impropria.
Gli IPP inibiscono la secrezione acida bloccando la pompa Na/K
ATPasi, presente sulle cellule parietali gastriche. Gli unici farmaci
di questa classe approvati in Europa per il bambino di età superiore
ad un anno sono l’omeprazolo e l’esomeprazolo, mentre non ve ne
è nessuno approvato nel lattante, nel quale l’uso è riservato solo a
casi di esofagite erosiva. Inoltre, tali farmaci determinano numerosi effetti collaterali, quali gastroenteriti, ipergastrinemia, aumento
delle infezioni respiratorie, candidemia e enterocolite necrotizzante.
Quando richiesta la terapia acido-soppresiva, dovrebbe essere usata
la dose minima efficace. La maggior parte dei pazienti richiede una
somministrazione di IPP giornaliera, mentre non esistono dati in favore di una somministrazione in due dosi giornaliere. In particolare,
l’uso degli IPP è riservato alla terapia nei bambini con età superiore
agli 8 anni e negli adolescenti, prescritta sulla base dei soli sintomi
clinici, senza ricorrere ad indagini strumentali; ed è riservata ai lattanti, nei quali sia stata documentata un’esofagite, dopo aver praticato EGDS oppure un RGE patologico, documentato per pHmetria o
pH-impedenzometria.
Infine, non ci sono al momento evidenze sufficienti per giustificare
l’uso di procinetici, quali cisapride, metoclopramide, domperidone o
baclofen nel trattamento routinario della MRGE, a causa dei numerosi effetti collaterali di questi farmaci di gran lunga superiori rispetto
ai potenziali effetti benefici.
137
R. Buonavolontà et al.
In sintesi, nel bambino con età superiore a 8 anni, nel sospetto clinico di MRGE, è prevista terapia antiacida; nel caso, invece, dei lattanti
il management terapeutico varia in base alla sintomatologia presentata. Nel caso di un lattante con rigurgito ricorrente, non complicato (cioè con buona crescita ponderale e in assenza di segni di
allarme), l’anamnesi e un buon esame obiettivo sono sufficienti per
rassicurare i genitori della mancata necessità di praticare ulteriori
approfondimenti diagnostici e terapie mediche. In questo caso, l’uso
di formule ispessite,nel bambino allattato con formula, può ridurre la
frequenza del rigurgito e/o del vomito.
Nel lattante con vomito ricorrente e perdita di peso, con pianto inspiegabile (dopo aver escluso cause neurologiche, infezioni, stipsi…), una valutazione iniziale dovrebbe prevedere esame delle
urine, emocromo con formula, elettroliti sierici, creatinina sierica e
azotemia. Sulla base della storia clinica e dei risultati di tali indagini,
si valuterà l’opportunità di praticare un trial dietetico, con formula a
base di idrolisati proteici o a base di aminoacidi per escludere l’allergia alle proteine del latte vaccino; di incrementare la densità calorica
della formula, di ridurre il volume delle poppate o di ispessirle. Se,
nonostante tali interventi, non si assiste ad un incremento ponderale, il piccolo dovrebbe essere sottoposto ad ulteriori indagini (EGDS,
in caso di sintomatologia tipica e pH-metria o pH-impedenzometria,
in caso di sintomi atipici) ed in caso di positività di tali indagini andrebbe instaurata una terapia medica con IPP.
Nel lattante con apnee o ALTE, una chiara associazione con la MRGE
non è stata dimostrata, tuttavia, quando i sintomi sono ricorrenti o il
sospetto di MRGE è forte, è indicato lo studio pH-impedenzometrico
in associazione con quello polisonnografico, per stabilire un reale
rapporto di causalità tra RGE e sintomatologia respiratoria e iniziare
adeguata terapia.
Esofagite eosinofila
Negli ultimi dieci anni, si è assistito ad un rapido aumento dei pazienti sia adulti sia bambini con eosinofilia esofagea, etichettati in
origine come affetti da Malattia da Reflusso Gastroesofageo (MRGE),
ma che non rispondevano alla terapia medica e/o chirurgica del
RGE. Basandosi su questo nuovo dato epidemiologico, sono nati numerosi studi volti a dimostrare che questi pazienti erano affetti da
una nuova patologia, l’esofagite eosinofila (EE).
Sebbene un numero crescente di bambini ed adulti risulti al momento
affetto da EE, pochi sono gli studi randomizzati controllati che possano
dare un indirizzo sulla gestione clinica, per cui la pratica clinica al momento si basa per lo più su dati limitati ed opinione di esperti.
L’EE è un disordine caratterizzato da un’intensa eosinofilia esofagea
con severa iperplasia squamosa epiteliale che generalmente si manifesta con sintomi gastrointestinali alti, in primis esofagei. In particolare, secondo le linee guida attuali (Furuta et al., 2007), si pone
diagnosi di EE in caso di 1) sintomi gastrointestinali alti, quali epigastralgia, pirosi, disfagia ecc.; 2) biopsia esofagea che mostri ≥ 15
eosinofili/HPF (campi ad alto ingrandimento) in uno o più campioni
ed 3) assenza di MRGE, intesa come pH-metria negativa e/o assente
risposta ad alte dosi di inibitori di pompa protonica (IPP).
I dati di incidenza più interessanti presenti in letteratura sono quelli
di uno studio epidemiologico basato su una popolazione pediatrica
condotto da Noel et al. tra il 2000-2003 (Noel et al., 2004). Gli autori
hanno calcolato in questi anni una incidenza di 1/10.000 casi all’anno,
con una prevalenza di 4/10.000. L’EE risultava inoltre più frequente nel
sesso maschile con una età media di circa 10,5 ± 5,4 anni.
Molto poco è noto in merito alla patogenesi di tale condizione; sono,
tuttavia, chiamati in causa diversi meccanismi che suggeriscono una
disregolazione immunologica e il contributo di allergeni sia alimentari
sia inalanti (Mishra et al., 2001). Gli eosinofili sono spesso aumentati
nei tessuti in caso di patologie allergiche, ma al momento non è ben
chiaro il ruolo di tali cellule nell’innescare la patologia. La cellula eosinofilica presenta granuli contenenti mediatori biologicamente attivi,
quali i leucotrieni, che sembrano svolgere un ruolo centrale nella contrazione delle cellule muscolari lisce. Recenti evidenze indicano, inoltre, l’interleuchina 5 e 13 come molecole chiave nella patogenesi e nel
perpetuarsi del danno esofageo e potrebbero rappresentare possibili
target per una eventuale futura terapia biologica (Mishra et al., 2003).
I pazienti affetti da EE presentano una storia familiare o personale
positiva per allergia nel 50-80% dei casi, con sintomi quali asma,
rinite, eczema (Liacouras et al., 2005; Rothemberg et al., 2004; Liacouras et al., 2003); in uno studio condotto da Orenstein et al (Orenstein et al., 2000) su una casistica di 30 pazienti pediatrici affetti da
EE, il 62% di essi presentava frequenti episodi di broncospasmo.
Inoltre l’eosinofilia periferica e l’aumento dei livelli sierici di IgE sono
riportati nel 20-60% dei casi osservati (Liacouras et al., 2003).
Clinicamente l’EE può presentarsi con una varietà di quadri sintomatologici. I bambini di età inferiore ai 7 anni presentano più comunemente sintomi quali dolori addominali, vomito e/o rigurgito,
inappetenza, scarsa crescita (Rothemberg et al., 2004; Liacouras et
al., 2003; Sant’Anna et al., 2004); nei bambini di età > 7 anni e negli
adolescenti la sintomatologia tipica è rappresentata da disfagia, dolore toracico, “food-impaction” (Khan et al., 2003) (Tab. III).
Sicuramente l’eosinofilia esofagea non è esclusiva dell’EE; vanno,
infatti, escluse altre patologie quali MRGE, Malattia di Crohn, malattie del collagene, esofagiti infettive (Herpes, Candida), esofagiti iatrogene, sindrome ipereosinofilica e gastroenterite eosinofila,
pertanto sarà d’obbligo, in corso di Esofagogastroduodenoscopia,
praticare anche biopsie gastriche e duodenali, che nel caso di EE,
mostreranno una mucosa perfettamente normale.
La diagnosi definitiva di EE si basa sull’identificazione di un infiltrato
eosinofilico isolato in un paziente con sintomi esofagei e resistente a terapia con acido-soppressori. È stato suggerito che esistano
dei quadri endoscopici che possano essere considerati specifici e
patognomonici di EE, anche se alcune caratteristiche endoscopiche
possono essere indistinguibili da quelle della MRGE.
Tabella III.
Sintomi suggestivi di esofagite eosinofila.
Bambini < 7 anni
Bambini > 7 anni
Rifiuto dell’alimentazione
Disfagia
Inappetenza
Food impaction
Vomito/rigurgito
MRGE resistente a terapia
MRGE resistente a terapia
Dolore toracico
Dolori addominali
Scarsa crescita
138
Novità in Gastroenterologia: reflusso gastroesofageo ed esofagite eosinofila
Tabella IV.
Caratteristiche endoscopiche e istologiche di esofagite eosinofila.
Caratteristiche endoscopiche
Caratteristiche istologiche
Granularità
≥ 15 eosinofili intraepiteliali/HPF
Friabilità
Microascessi eosinofilici (aggregati di 4 o più eosinofili in un cluster
Edema
Iperplasia della zona basale
Aspetto colonnare longitudinale
Fibrosi e infiammazione della lamina propria
Anelli transitori o fissi
Anello di Schatzki
Placche biancastre
Il quadro endoscopico può essere caratterizzato da granularità,
friabilità, edema, aspetto colonnare longitudinale, anelli transitori
o fissi, anello di Schatzki (un anello esofageo mucoso che causa
restringimenti a forma di anello dell’esofago distale in corrispondenza della giunzione squamocolonnare) o placche biancastre
della mucosa esofagea, in base alla densità dell’eosinofilia epiteliale (Khan, 2003; Liacouras et al., 2003). Sebbene nessuna di
queste caratteristiche possa essere considerata patognomonica
di EE, uno o più dei suddetti aspetti endoscopici (Tab. IV) possono essere fortemente suggestivi di tale patologia, in presenza di
sintomi clinici (Tab. III).
Il trattamento dell’EE resta tuttora controverso e poco studiato. Le
incertezze riguardanti l’eziologia e la probabile origine multifattoriale della patologia hanno portato alla sperimentazione di diverse
misure terapeutiche. Le possibili opzioni terapeutiche attualmente
includono diete elementari o di esclusione, steroidi per via sistemica o topica, montelukast (antagonista recettoriale dei leucotrieni),
mepolizumab (anticorpo monoclonale anti-IL 5), sodio cromoglicato,
dilatazione esofagea terapeutica e IPP. L’efficacia di diete elementari
o di esclusione, messa in luce in diversi studi, deriverebbe dal ruolo
contributivo svolto dagli allergeni alimentari nella patogenesi dell’EE
nel bambino (Kagalwalla et al., 2006). L’identificazione degli antigeni
causali tramite prick test e patch test e la loro successiva eliminazione porta ad un miglioramento sia sintomatico che istologico della
malattia. In alternativa è possibile ricorrere all’uso di steroidi per via
sistemica o topica; molti studi, infatti, evidenziano l’efficacia degli
steroidi nell’indurre una remissione sia clinica che istologica della
patologia (Schaefer et al., 2008); tuttavia, questa remissione risulta
essere temporanea con immediata ricaduta al termine della terapia.
La dilatazione dell’esofago resta una scelta terapeutica secondaria,
in quanto si limita ad un miglioramento della sintomatologia, senza
influenzare la patologia sottostante e non è scevra da complicanze,
quali lesioni mucosali e perforazioni; inoltre, nella maggior parte dei
pazienti sono richieste più sedute per raggiungere un miglioramento
accettabile (Straumann et al., 2003). L’utilizzo di una terapia a base
di IPP svolge nell’ambito dell’EE un ruolo prettamente diagnostico,
in quanto risulta essere inefficace; tuttavia, alcuni studi hanno dimostrato che in un piccolo numero di pazienti il RGE e l’EE possano
coesistere e una terapia a base di IPP può, pertanto, portare ad un
significativo miglioramento della sintomatologia (Ngo et al., 2006).
Infine, l’utilizzo di terapie biologiche quali anticorpi monoclonali
anti-IL5, rappresentano nuovi orizzonti terapeutici che necessitano
di trial randomizzati per poter essere meglio inquadrati nel trattamento dell’EE.
Box di orientamento
Linee guida pediatriche del reflusso gastroesofageo
Che cosa si sapeva prima
Le opzioni diagnostiche e terapeutiche per il RGE a nostra disposizione sono numerose, ma per lo più mutuate da studi condotti nell’adulto.
Cosa sappiamo adesso
Tra le numerose tecniche diagnostiche a nostra disposizione, sulla base di una revisione della letteratura, l’Esofagogastroduodenoscopia è da considerare il gold standard per i sintomi tipici e la pH-impedenzometria per i sintomi atipici. Per quel che riguarda l’uso dell’ecografia della giunzione
esofago-gastrica, tale metodica non è affatto raccomandata come test diagnostico nella MRGE.
Nel bambino con età superiore a 8 anni, nel sospetto clinico di MRGE, si può instaurare una terapia antiacida, solo sulla base dei sintomi clinici; nel
caso, invece, dei lattanti il management terapeutico varia in base alla sintomatologia presentata.
Per quanto riguarda gli Inibitori di Pompa Protonica, gli unici farmaci di questa classe approvati in Europa per il bambino di età superiore ad un anno sono
l’omeprazolo e l’esomeprazolo, mentre non ve ne è nessuno approvato nel lattante, nel quale l’uso è riservato solo a casi di documentata esofagite erosiva.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Dovrà essere ridimensionato e regolamentato l’uso di alcuni farmaci, in particolare di quelli non approvati in età pediatrica.
Esofagite eosinofila
Che cosa si sapeva prima
Alcune forme di RGE risultano essere resistenti alla terapia ad alte dosi con IPP.
Cosa sappiamo adesso
Abbiamo fatto luce su una patologia emergente, di cui si sa ancora poco e per cui si sente la necessità di valutare in maniera più approfondita sia la
patogenesi sia le possibili opzioni terapeutiche.
Quali ricadute sulla pratica clinica
È importante la valutazione di tale entità in pazienti con sintomatologia GI alta, resistente a terapie acido-soppressive.
139
R. Buonavolontà et al.
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Corrispondenza
dott.ssa Roberta Buonavolontà, via Mario Fiore 4, 80129, Napoli. E-mail: [email protected]
140
Luglio-Settembre 2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 141-146
gastroenterologia
L’Helicobacter pylori oggi
Gabriella Boccia, Salvatore Auricchio
Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli
Riassunto
L’infezione da Helicobacter pylori (Hp) interessa più della metà della popolazione mondiale. Il batterio colonizza la mucosa gastrica causando una gastrite
cronica attiva che nel tempo può evolvere determinado ulcere, atrofia, metaplasia, carcinoma. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato l’Hp
carcinogeno di classe 1 per l’adenocarcinoma gastrico.
Secondo il Position Statement della Società Nord Americana di Gastroenterologia Pediatrica (NASPGHAN) pubblicato nel 2000 è raccomandato eradicare il
bambino infetto in caso di ulcera gastrica/duodenale evidenziata endoscopicamente o di storia pregressa di malattia peptica, mucosal associated lymphoid
tissue (MALT) linfoma, gastrite atrofica/metaplasia. In caso di gastrite Hp correlata, non esistono sufficienti evidenze a supporto del trattamento. Non è indicato trattare: 1) bambini asintomatici con storia familiare di infezione e/o ulcera peptica e/o cancro gastrico; 2) bambini infetti con storia di dispepsia o dolori
addominali ricorrenti. L’anemia sideropenica inspiegata refrattaria alla terapia rappresenta un’ulteriore indicazione a testare e trattare i bambini Hp infetti.
Il trattamento di prima scelta è costituito dalla triplice terapia per la durata di 1-2 settimane. I dati derivati dal Registro Europeo Pediatrico per il trattamento
dell’Hp (PERTH 2007) hanno evidenziato l’inadeguatezza della raccomandazione del NASPGHAN 2000 ad utilizzare la triplice terapia con inibitori di pompa
protonica per 2 settimane. Infatti, 1) nella triplice terapia l’uso del Bismuto è risultato più efficace rispetto all’uso dell’Omeprazolo; 2) due settimane di
terapia non sono più efficaci di 1 settimana di terapia. Il miglior trattamento dovrebbe essere scelto in accordo al test di suscettibilità antibiotica, quando
possibile, o in accordo alle conoscenze relative all’antibiotico-resistenza presente nella regione di provenienza del bambino.
Summary
Helicobacter pylori (Hp) infects at least 50% of world’s population. It colonises the gastric mucosa and causes chronic active gastritis. Mucosal stress may
induce gastric and duodenal ulcers, atrophic gastritis, metaplasia, gastric cancer. The World Health Organization has classified Hp as a class I carcinogen
for gastric cancer. According to the North American Society for Pediatric Gastroenterology and Nutrition (NASPGHAN) Position Statement 2000, eradication
treatment is recommended for infected children who have a duodenal or gastric ulcer identified at endoscopy, or with prior history of documented duodenal
or gastric ulcer, mucosal associated lymphoid tissue (MALT) lymphoma, atrophic gastritis, intestinal metaplasia. In case of gastritis the Committee concluded that there is insufficient evidence to support either initiating or withholding eradication. Treatment is not recommended in: 1) infected children with
non ulcer dyspepsia or recurrent abdominal pain; 2) asymptomatic children who have a family member with either peptic ulcer disease or gastric cancer.
Iron deficiency anemia refractory to iron supplementation is an indication to test for Hp infection and for eradication therapy.
First line treatment consists of three medication for 1-2 weeks. Data derived from the Pediatric European Register for Treatment of Hp (PERTH 2007)
showed that:1) bismuth containing triple therapies appear more efficacious; 2) efficacy was not increased by 2 week treatment course. Therefore the suggestion to use a proton pump inhibitor -containing triple therapy for 2 weeks, as recommended by the NASPGHAN 2000 pediatric guideline, proved to be
ineffective. Would be auspicable to treat a child according to the result of the antibiotic-susceptibility test or to what is known about the rate of antibioticresistance in the region the child is coming from.
Obiettivi e metodologia della ricerca bibliografica
effettuata
Questa review si pone l’obiettivo di fornire un aggiornamento sulle
attuali conoscenze relative all’infezione da Helicobacter pylori (Hp)
in età pediatrica, in particolare per quanto concerne le indicazioni
alla diagnosi e la gestione terapeutica del bambino infetto.
La ricerca degli articoli rilevanti è stata condotta attraverso la banca bibliografica Medline utilizzando il motore di ricerca Pubmed. Le
parole chiave utilizzate sono state: H. pylori infection; management;
diagnosis; therapy. I limiti utilizzati sono stati: ages = all child: 0-18
years; language: English; type of articles: clinical trials, RCT, metaanalisis; reviewes; dates: 2006-2009. Studi rilevanti e linee-guida
utili alla revisione sono stati utilizzati anche se antecedenti al 2006.
Introduzione
L’Helicobacter pylori (Hp) è un batterio gram-negativo, flagellato spiraliforme capace di colonizzare lo stomaco umano causando una
gastrite cronica attiva. L’interazione tra i fattori di virulenza batterici
e le cellule mucosali ospiti, induce la produzione locale di mediatori
pro-infiammatori in grado di innescare un meccanismo a cascata;
il perpetuarsi di tale meccanismo è alla base della gastrite cronica
attiva e della sua evoluzione in malattia peptica, gastrite atrofica,
metaplasia ed infine cancro gastrico e MALT (mucosal associated
lymphoid tissue) linfoma.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha classificato l’Hp
come carcinogeno di classe I per il cancro gastrico. Dati epidemiologici mostrano che nella maggior parte dei casi l’infezione da Hp è
acquisita in età pediatrica e che anche in presenza di gastrite cronica attiva il bambino può non presentare specifici sintomi e segni
clinici.
Epidemiologia e trasmissione
L’infezione da Hp interessa più della metà della popolazione mondiale con una prevalenza di circa il 10-15% nei paesi industrializzati e
dell’80% nei paesi in via di sviluppo, ed un’incidenza annua rispettivamente dello 0,5% e del 3-10%. L’infezione è più comunemente
acquisita nella fascia d’età < 3 anni mentre il rischio è ridotto dopo
i 5 anni di età (Rowland et al., 2006). I principali fattori di rischio
associati allo sviluppo di infezione da Hp sono riportati nella Tabella
I. Una riduzione progressiva di infezione da Hp si è andata osservando negli ultimi anni specialmente nei paesi industrializzati, confermando la sua correlazione diretta con il miglioramento dello status
141
G. Boccia, S. Auricchio
Tabella I.
Fattori di rischio per infezione da Hp in età pediatrica.
Madre infetta
Familiare convivente infetto
Basso livello socio-economico
Uso prolungato del biberon /svezzamento ritardato
Famiglia numerosa
Predisposizione etnica/genetica
socioeconomico, nonché con un uso più appropriato degli strumenti
diagnostico-terapeutici disponibili (Tkachenko et al., 2007; Weyermann et al., 2009).
La trasmissione avviene da uomo a uomo attraverso la via oro-fecale; gastro-orale (vomito/rigurgito); oro-orale. Studi recenti basati su
metodi di identificazione genotipica hanno confermato il ruolo primario occupato dal nucleo familiare nella trasmissione genitori-figli
e fratello-fratello (Kivi et al., 2007; Puz et al., 2008). La madre rappresenterebbe la fonte principale di infezione soprattutto nelle popolazioni a bassa prevalenza di infezione (Weyermann et al., 2009).
Danni mucosali Hp indotti
Sono stati riconosciuti due tipi di danno mucosale da infezione da
Hp: 1) gastrite cronica attiva antrale-predominante, correlato con
la malattia ulceroso peptica (15% popolazione infetta, rischio di ulcera duodenale 95% vs ulcera gastrica 25%); 2) gastrite cronicaatrofica corpo-predominante, correlato ad un aumentato rischio di
adenocarcinoma (< 1% della popolazione infetta) e di MALT linfoma
(< 0,1% popolazione infetta).
L’ulcera peptica è una patologia rara in età pediatrica. Importanti
centri di endoscopia riportano un’incidenza di circa 5-7 bambini con
ulcera/anno con un aumento significativo del rischio di ulcera duodenale rispetto a quella gastrica nei bambini con infezione da Hp.
Un studio recente condotto su 751 bambini in Israele ha evidenziato
come 51 pazienti (6,8%) avessero ulcere peptiche, di questi il 55%
risultavano essere Hp positivi vs. il 45% Hp negativi. Nell’ambito del
gruppo di pazienti Hp-negativi ben il 65% delle lesioni ulcerose erano
di natura idiopatica e tendevano a comparire più precocemente rispetto alle lesioni Hp-correlate, che invece diventavano comuni soprattutto
dopo i 10 anni di età. Le ulcere gastriche Hp-correlate si manifestavano più precocemente (età ≥ 9 anni) rispetto a quelle duodenali, prevalenti nell’adolescenza (età ≥ 13 anni) (Egbaria et al., 2008).
Una peculiarità dell’età pediatrica è rappresentata dal quadro macroscopico di gastrite follicolare con un aspetto caratteristico di nodularità della mucosa antrale presente nel 30-100% dei bambini
infetti contro appena il 16% degli adulti (Fig. 1).
Manifestazioni cliniche
Dolori addominali ricorrenti ed infezione da Hp
L’associazione tra dolori addominali ricorrenti (DAR) ed infezione
da Hp è argomento molto dibattuto. Nel 2005 il Subcommittee
sul Dolore Addominale Cronico della North American Society for
Pediatric Gastroenterology and Nutrition (NASPGHAN) concludeva
che la coesistenza di DAR e positività per Hp ai test diagnostici di
laboratorio non è indicativa di un rapporto causa-effetto (Di Lorenzo et al., 2005). Studi recenti hanno confermato l’assenza di tale
associazione riportando una prevalenza di infezione da Hp simile
in bambini con DAR rispetto a bambini asintomatici (Malaty et al.,
142
Figura 1.
Quadro endoscopico macroscopico di gastrite antrale nodulare Hp correlata.
2006). In particolare i bambini con DAR di età ≤ 5 anni presentavano una prevalenza di infezione 3 volte superiore rispetto a quelli
di età > 10 anni suggerendo una maggiore associazione tra DAR e
acquisizione precoce di infezione. In uno studio condotto in Taiwan
su 135 bambini con DAR la prevalenza di infezione da Hp era del
23,7%. Una persistenza dei DAR veniva riscontrata sia nel 70,2%
dei pazienti non infetti che nell’86,7% dei pazienti Hp-infetti che
avevano fallito la terapia eradicante a 12 mesi di follow-up (Lin et
al., 2006).
In conclusione: tali dati confermano che la presenza dei DAR risulta
essere completamente indipendente dallo stato di infezione da Hp.
Manifestazioni extraintestinali
Numerose sono le manifestazioni extraintestinali descritte, apparentemente correlate all’infezione da Hp. Riportiamo in particolare i dati
relativi all’anemia sideropenica per la quale sembrerebbero esserci
maggiori evidenze.
Anemia sideropenica
L’indicazione allo screening e al trattamento in caso di anemia
sideropenica refrattaria al trattamento in bambini Hp positivi
è stata posta dal Canadian Consensus Group nelle linee-guida
relative alla gestione del bambino con infezione da Hp (Jones
et al., 2005) e confermata nel più recente Maastricht III Consensus Report (Malpherteiner et al., 2007). Non è ancora chiaro
se il meccanismo dell’anemia è maggiormente attribuibile alla
perdita di sangue occulto dalle lesioni gastro-duodenali o ad
un’azione specifica del batterio. In uno studio recente (Yokota et
al., 2008) è stato riportato che pazienti con anemia sideropenica
presentavano ceppi di Hp ad aumentata capacità di captazione
del ferro e rapida crescita ferro-dipendente. Tuttavia, Sarker et
al. (Gastroenterology 2008) hanno dimostrato che la terapia eradicante non migliora lo stato di sideropenia né riduce la presenza
di anemia in bambini che vivono in aree ad alta prevalenza di Hp
e di anemia sideropenica. Questi risultati non supportano la presenza di una relazione causale tra Hp ed anemia sideropenica né
l’efficacia di strategie preventive diagnostico-terapeutiche volte
ad eliminare l’infezione da Hp.
L’Helicobacter pylori oggi
Tabella II.
Infezione da Hp nel bambino: diagnosi e terapia - punti chiave.
L’infezione da Hp causa gastrite cronica nei bambini
L’infezione da Hp è associata alla presenza di ulcere duodenali nei bambini
L’eradicazione porta alla guarigione della gastrite
L’eradicazione porta alla remissione a lungo termine delle ulcere
Non ci sono evidenze in età pediatrica di associazione tra gastrite da Hp e DAR o dispepsia eccetto nei rari casi in cui sono presenti ulcere duodenali o
gastriche
Il trattamento dei bambini con gastrite Hp correlata in assenza di ulcere non sembra apportare benefici alla risoluzione dei sintomi. Pertanto screenare
bambini con sintomi dispeptici mediante test non invasivi non è indicato
I bambini dovrebbero essere testati solo se affetti da sintomi severi tali da giustificare il rischio delle terapie
L’EGDS rappresenta l’esame diagnostico di scelta in bambini con sintomi suggestivi di patologia organica
In caso di identificazione endoscopica di Hp il trattamento va sempre proposto
Nei bambini trattati per infezione da Hp, la risposta al trattamento dovrebbe essere monitorata mediante test non invasivi
Indicazioni allo screening e alla terapia
Le indicazioni allo screening e alla terapia eradicante fanno ancora oggi riferimento alle linee guida NASPGHAN pubblicate nel 2000
(Gold et al., 2000), confermate ed integrate successivamente dal
Maastricht III Consensus Report (Malfertheiner et al., 2007) relativo
alla gestione dell’Hp nell’adulto, nell’ambito della breve sezione dedicata all’età pediatrica. Due Consensus sono state pubblicate sull’argomento: la prima, della European Pediatric Task Force (Drumm
et al., 2000) e la seconda del Canadian Consensus Group (Jones et
al., 2005). Nuove linee-guida derivanti dal confronto dei gastroenterologi pediatri della European Pediatric Task Force sono state elaborate durante il 2008 e sono in corso di pubblicazione, di quest’ultime
pertanto non si potrà tenere conto nella nostra review.
Quando indagare?
In età pediatrica la maggior parte dei bambini infetti è asintomatica
e non esiste un quadro clinico caratteristico che indichi la necessità
ad effettuare uno screening nei bambini.
I DAR non rappresentano una indicazione per testare mediante
screening non invasivi e trattare l’infezione da Hp nei bambini. Test
diagnostici e trattamento sono indicati soltanto in presenza di sintomatologia gastrointestinale grave tale da richiedere una esofagogastroduodenoscopia nel sospetto di malattia organica importante
(ulcera peptica, esofagite, malattia celiaca, malattia infiammatoria
cronica intestinale); lo scopo è dunque determinare in primo luogo
la causa dei sintomi gastrointestinali e non la presenza di infezione
da Hp.
È assolutamente indicato praticare test diagnostici in bambini affetti da ulcere gastriche o duodenali evidenziate all’endoscopia o
confermate radiograficamente (livello di evidenza I); ed in presenza
di MALT linfoma (livello di evidenza II). Inoltre, in accordo al Maastricht III 2007, in caso di anemia sideropenica refrattaria è indicata
la ricerca dell’Hp dopo aver escluso altre possibili cause (malattia
celiaca, malattie infiammatorie croniche intestinali).
Non è invece raccomandato ricercare il germe nei seguenti casi:
1) bambini asintomatici (livello di evidenza II); 2) bambini con DAR in
assenza di patologia peptica documentata (livello di evidenza II); 3)
bambini con storia familiare di cancro gastrico o patologia ulceroso
peptica ricorrente (livello di evidenza II).
Uno screening post-terapia è indicato in presenza di patologia ulceroso-peptica complicata (sanguinamento, perforazione, ostruzione).
In particolare, nei pazienti ancora sintomatici dopo terapia eradicante, una endoscopia con biopsie è raccomandata al fine di valutare la
persistenza della patologia ulceroso-peptica Hp-correlata. Le conclusioni raggiunte dalla European Pediatric Task Force nel 2000 sulle
indicazioni alla diagnosi sono riportate nella Tabella II.
Tabella III.
Test diagnostici per infezione da Helicobacter pylori.
Test
Sensibilità (%)
Specificità (%)
Costo
- Sangue intero
70-85
75-90
$
- Siero
86-94
75-90
$
- ELISA
86-94
80-95
$$
• Antigene fecale
88-98
89-98
$$
• 13C-Urea Breath test
90-96
88-98
$$$
• Biopsia con CLOTest
90-95
95-100
$$$$
• Istologia
90-95
95-100
$$$$$
• Coltura
60-95
100
$$$$$
Non Invasivi
• Anticorpi IgG
Invasivi
143
G. Boccia, S. Auricchio
Come indagare?
I test diagnostici per l’infezione da Hp si distinguono in invasivi e non
invasivi. La sensibilità e specificità dei vari test assieme ai costi è
riportata in Tabella III. L’endoscopia rappresenta attualmente il gold
standard per la diagnosi dell’Hp in età pediatrica essendo l’unico
esame in grado di rilevare la severità, la distribuzione topografica ed
il tipo di danno mucosale. È importante effettuare biopsie multiple
dell’antro ed in caso di terapia con acido soppressori anche del corpo e della zona di transizione. L’esame colturale per la ricerca di Hp
permette non solo di identificare il germe ma anche il tipo di ceppo
e di avere informazioni sulla sensibilità antibiotica, attraverso l’antibiogramma allo scopo di scelte terapeutiche mirate. Sono in genere
necessari minimo 3 giorni per avere una risposta e la sensibilità del
test raggiunge circa l’85%.
Il test rapido per la ricerca dell’attività ureasica (CLO test) si basa su di
una reazione colorimetrica indotta dall’ureasi prodotta dall’Hp. Tale test
consente di ottenere una risposta rapida (da pochi minuti a poche ore)
rispetto agli altri test invasivi, è facilmente eseguibile ma l’affidabilità
dipende dal numero e dal sito dei frammenti bioptici, nonché dalla carica batterica e dall’uso di antibiotici o acidosoppressori.
Tra i tests non invasivi il 13C-Urea Breath test (UBT) rappresenta
quello di scelta per i suoi requisiti di alta sensibilità e specificità (Megraud et al., 2005) e trova attualmente utilizzo, assieme alla ricerca
dell’antigene fecale, nel follow-up post-eradicazione. Sebbene studi
recenti abbiano confermato la validità di tali test anche nei bambini
più piccoli (Dondi et al., 2006; Frenck et al., 2006), ulteriori validazioni sono necessarie in particolare nei bambini con meno di 2 anni.
I test anticorpali ematologici, non risultano sufficientemente attendibili in età pediatrica a causa dell’eccessiva variabilità tra i kit, della
variabilità di risposta interindividuale e della incapacità a distinguere
tra infezione in atto o pregressa. Nuovi metodi di tipizzazione molecolare dell’Hp su feci mediante PCR risultano, al momento, eccessivamente costosi ai fini diagnostici e non ancora sufficientemente
sensibili (Puz et al., 2008). Un nuovo recente test ematologico, il
13C-urea blood test, ha mostrato ottima sensibilità e specificità nella identificazione dell’Hp risultando comparabile all’istologia e ben
tollerato. L’esame consiste nel somministrare al paziente 75 mg di
13C-urea in 75 ml di acqua sterile. Dopo 30 minuti dall’ingestione
vengono prelevati 3 ml di sangue e l’isotopo viene analizzato mediante spettrometro di massa. Tale test potrebbe, in un prossimo futuro, sostituire i test invasivi (endoscopia), se i dati riportati saranno
confermati su più ampia scala (Jolley et al., 2007).
Chi trattare?
Differentemente dall’adulto dove una strategia “test and treat”, mediante UBT e antigene fecale è raccomandata in soggetti di età < 45
anni con dispepsia persistente, anemia sideropenica inspiegata e
porpora trombocitopenica idiopatica ed ancora, in parenti di I grado
di soggetti affetti da cancro gastrico, le indicazioni all’eradicazione
in età pediatrica sono molto più restrittive.
È raccomandato eradicare il bambino infetto in caso di ulcera gastrica/duodenale evidenziata endoscopicamente o di storia pregressa di malattia peptica; MALT linfoma; gastrite atrofica/metaplasia.
In caso di gastrite Hp correlata, non esistono sufficienti evidenze
a supporto del trattamento, la decisione andrebbe concertata tra
medico e genitori spiegando i potenziali rischi (Gold et al., 2000).
Non è indicato trattare bambini asintomatici con storia familiare di
infezione e/o ulcera peptica e/o cancro gastrico. Non ci sono sufficienti evidenze per il trattamento di bambini Hp infetti con storia di
dispepsia o DAR.
144
Tali indicazioni derivano dalle seguenti osservazioni: 1) nessuno degli schemi terapeutici ha una efficacia di eradicazione del 100% e
comunque l’efficacia in età pediatrica è inferiore rispetto a quella
negli adulti; 2) pochi dei farmaci utilizzati sono approvati per l’uso
pediatrico; 3) esiste un rischio reale di induzione di ceppi antibioticoresistenti di Hp ed anche di altri batteri; 4) non essendo la terapia
risolutiva dei sintomi nell’immediato, il rapporto costi benefici è allo
stato attuale a sfavore della pratica di un trattamento non controllato.
Il più recente Maastricht III 2007, confermando quanto riportato nelle precedenti linee-guida, raccomanda di eradicare un bambino Hp
infetto nel caso di sintomi gastrointestinali alti, ed in più in presenza
di anemia sideropenica refrattaria al trattamento, dopo l’esclusione
di tutte le altre possibili cause.
Come trattare?
Le linee guida NASPGHAN raccomandano come prima scelta l’uso
di una triplice terapia (due antibiotici + un acido-soppessore, somministrati bidie) per la durata di 1-2 settimane. I regimi terapeutici
suggeriti sono indicati nella Tabella IV. Il regime terapeutico di seconda scelta, in caso di fallimento della terapia eradicante o reinfezione, consiste nella quadruplice terapia con l’aggiunta del bismuto
e l’eventuale utilizzo delle tetracicline nei bambini di età > 12 anni.
Le seguenti conclusioni venivano riportate sulla base dei dati raccolti mediante il Registro Europeo Pediatrico per il trattamento dell’Hp
(PERTH) (Oderda et al., 2007): 1) il regime terapeutico più adeguato
per l’infezione da Hp nel bambino non è stato ancora trovato; 2) le
terapie usate nell’adulto non sembrano essere altrettanto efficaci
nel bambino; 3) nella triplice terapia l’uso del Bismuto è più efficace
rispetto all’uso dell’Omeprazolo sebbene quest’ultimo sia il più utilizzato; 4) 2 settimane di terapia non sono più efficaci di 1 settimana
di terapia; 5) la raccomandazione di utilizzare una triplice terapia
contenente un inibitore di pompa protonica (IPP) per la durata di 2
settimane suggerita nelle precedenti linee-guida (NASPGHAN 2000
e Canadian Consensus Group 2005) è inadeguata. Il miglior trattamento dovrebbe essere scelto in accordo al test di suscettibilità
antibiotica, quando possibile, o in accordo alle conoscenze relative
all’antibiotico-resistenza presente nella regione di provenienza del
bambino.
Novità in tema di terapia
Due piccoli trials, condotti presso lo stesso centro, hanno valutato
l’efficacia di un nuovo trattamento che prevede l’uso sequenziale di
3 antibiotici per la durata di 10 giorni (Lionetti et al., 2006; Francavilla et al., 2005) con un tasso cumulativo di eradicazione dell’88.5%
(Zullo et al., 2007); tali risultati sebbene promettenti necessitano di
ulteriori conferme su più ampia scala.
Tabella IV.
Terapia eradicante di prima scelta nel bambino.
(Linee guida NASPGAHN 2000)
IPP (1-2 mg/kg/die) + amoxicillina (50 mg/kg/die) + claritromcina (15
mg/kg/die)
IPP (1-2 mg/kg/die) + amoxicillina (50 mg/kg/die) + metronidazolo (20
mg/kg/die)
IPP (1-2 mg/kg/die) + metronidazolo (20 mg/kg/die) + claritromicina (15
mg/kg/die)
Per la durata di 1- 2 settimane
L’Helicobacter pylori oggi
Un altro nuovo regime terapeutico promettente è stato riportato
in uno studio effettuato in Russia dove un tasso di eradicazione
dell’86% veniva raggiunto utilizzando bismuto, nifuratel ed amoxicillina per 10 giorni (Nijevitch et al., 2007). Tuttavia, l’unica metanalisi
relativa all’efficacia della terapia eradicante in età pediatrica, pubblicata nel 2007, conclude dicendo che nuovi studi RCT sono necessari
soprattutto nei paesi in via di sviluppo (Khurana et al., 2007).
Studi recenti hanno valutato l’efficacia dei probiotici (Lactobacillus e
Bifidobacterium) in soggetti Hp positivi (Lionetti et al., 2006; Francavilla et al., 2008). I probiotici non sono da soli in grado di eradicare
l’Hp ma mantengono bassi i livelli del patogeno nello stomaco; in
combinazione con gli antibiotici sono in grado di aumentare il tasso
di eradicazione e ridurre gli eventi avversi associati alla terapia eradicante (Gotteland et al., 2006; Franceschi et al., 2007).
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
• L’Hp interessa più della metà della popolazione mondiale essendo prevalente nei paesi in via di sviluppo.
• Nell’ambito dei test diagnostici l’endoscopia rappresenta il gold standard per la ricerca dell’infezione. L’UBT pur essendo un test accurato necessita
di validazione in età pediatrica.
• Le indicazioni principali al trattamento dell’Hp nel bambino sono: ulcera gastrica-duodenale, gastrite atrofica/metaplasia, MALT linfoma.
• La triplice terapia composta da IPP + 2 antibiotici per la durata di 2 settimane rappresenta il trattamento eradicante di prima scelta in età pediatrica.
Cosa si sa adesso
• Negli ultimi anni progressiva riduzione dell’infezione da Hp nei paesi industrializzati.
• Si ribadisce l’assenza di associazione tra DAR e infezione da Hp.
• La validità dell’UBT viene confermata anche nei bambini più piccoli, tuttavia ulteriori studi sono necessari per la fascia di età < 2 anni.
• Il Maastricht 2007 aggiunge alle indicazioni allo screening e al trattamento dell’infezione da Hp nel bambino la presenza di anemia sideropenica
refrattaria. Tuttavia, dati ancora più recenti sembrerebbero a sfavore della presenza di una relazione causale tra Hp e anemia sideropenica.
• Conclusioni derivanti dal PERTH nel 2007 indicano che 1) nell’ambito della triplice terapia il bismuto è più efficace dell’omeprazolo; 2) 2 settimane
di terapia non sono più efficaci per l’eradicazione rispetto ad 1 settimana; 3) maggiore efficacia delle terapie somministrate sulla base del test di
suscettibilità agli antibiotici.
• La terapia sequenziale di 10 giorni sembra promettente in età pediatrica ma sono necessari studi su più ampia scala.
• I probiotici non sono in grado di eradicare l’Hp ma combinati agli antibiotici favoriscono l’eradicazione e riducono gli effetti collaterali della terapia.
Quali ricadute sulla pratica clinica
• Non è corretto screenare per infezione da Hp tutti i bambini affetti da DAR in quanto non esistono evidenze di associazione tra gastrite da Hp e DAR
o dispepsia tranne che in presenza di ulcere duodenali o gastriche.
• In caso di identificazione endoscopica di Hp il trattamento va sempre proposto.
• 1 settimana di terapia è sufficiente ad ottenere l’eradicazione riducendo i problemi derivanti dai possibili effetti collaterali dei farmaci.
• Una terapia mirata basata sulla conoscenza dei dati di suscettibilità antibiotica del germe è sempre auspicabile nel bambino.
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Nijevitch AA, Sataev VU, Akhmadeyeva EN, et al. Nifuratel-containing initial antiHelicobacter pylori triple therapy in children. Helicobacter 2007;12:132-5.
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** Tale lavoro deriva dall’analisi dei dati riportati nel registro europeo per il trattamento dell’Hp nel bambino, creato nell’ambito dell’ESPGHAN e disponibile sul
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Puz S, Innerhofer A, Ramharter M, et al. A novel noninvasive genotyping
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** Lo studio introduce per la prima volta una nuova metodica per la tipizzazione genotipica dell’Hp su campioni fecali. Tale metosdica risulta efficace per
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Rowland M, Daly L, Vaughan M, et al. Age-specific Incidence of Helicobacter
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Gli Autori riportano che il rischio di infezione è alto prima dei 3 anni e si riduce
dopoi 5 anni. Madre, fratello maggiore, uso del biberon fino ai 2 anni rappresentano fattori di rischi indipendenti di infezione.
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nei bambini. L’analisi dei dati pubblicati mostra che la terapia sequenziale della
durata di 10 giorni induce tassi di eradicazione più elevati rispetto alla triplice
terapia.
Corrispondenza
prof. Salvatore Auricchio, Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, via S. Pansini 5, 80131 Napoli. E-mail: [email protected]
146
Luglio-Settembre 2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 147-152
gastroenterologia
Nuove tecniche di imaging ed endoscopiche
in Gastroenterologia
Erasmo Miele, Carlo Di Lorenzo*
Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli “Federico II”; *Division of Pediatric Gastroenterology, Nationwide
Children’s Hospital, The Ohio State University, USA
Riassunto
I progressi delle tecniche di imaging del tratto gastrointestinale stanno determinando il rapido sviluppo della diagnostica delle malattie gastroenterologiche. L’enterografia o l’enteroclisi con risonanza magnetica (RM) offrono un grande potenziale per la diagnosi ed il follow-up delle malattie infiammatorie
intestinali (IBD), con il vantaggio di evitare l’esposizione alle radiazioni. La capsula endoscopica (CE) dovrebbe essere la metodica più sensibile per il rilievo
di alterazioni della mucosa del piccolo intestino, ma la sua specificità è ancora dibattuta. L’enteroscopia a doppio pallone (EDP) è un nuovo e stimolante
strumento che offre i vantaggi di poter effettuare biopsie ed essere operativa lungo tutto il tratto gastrointestinale. Tecniche avanzate di imaging, che
includono la cromoendoscopia, la magnificazione endoscopica, l’endomicroscopia confocale potrebbero essere di aiuto nella diagnostica dei disordini
gastrointestinali. Infine, la tomografia ad emissione di positroni potrebbe rappresentare un nuovo strumento diagnostico utile soprattutto nelle IBD. L’utilità
in gastroenterologia pediatrica di tutte queste nuove tecniche diagnostiche sarà discussa in questa review.
Summary
Advances in imaging techniques for gastrointestinal tract are driving the rapid development of modalities for diagnosing and assessing the gastrointestinal
diseases. Magnetic resonance (MR) enterography has shown great potential for the diagnosis of inflammatory bowel diseases (IBD) and assessment of its
distribution, with the benefit of avoiding radiation exposure. Capsule endoscopy might be the most sensitive modality for the detection of mucosal small
bowel disease, but its specificity remains in question. Double-balloon enteroscopy is an exciting new tool that has the distinct advantage of enabling biopsy
or treatment of lesions detected during the procedure. Advanced imaging techniques, including chromoendoscopy, magnification endoscopy, and confocal
endomicroscopy may aid in the diagnosis of GI disorders. Finally, positron emission tomography is an investigative tool for that may also aid in the detection
of inflammation in IBD in the next future. We will discuss all these new imaging techniques for diagnosing pediatric gastrointestinal diseases this review.
Introduzione
Recenti progressi in tecniche endoscopiche e di imaging potranno
rivoluzionare la diagnosi di alcune patologie del tratto gastrointestinale in età pediatrica. La RM-enterografia ha modificato la
modalità di valutazione radiologica non invasiva del tratto gastrointestinale. Questa tecnica offre il vantaggio, rispetto al tradizionale tenue seriato, di fornire informazioni sia luminali che
extraluminali. In particolare, la RM evita l’esposizione a radiazioni,
caratteristica estremamente rilevante in età pediatrica. I progressi
dell’endoscopia negli ultimi 5 anni sono rappresentati dall’utilizzo
della videocapsula endoscopica (CE) e dall’enteroscopia a doppio
pallone (EDP). Queste tecniche si vanno ad aggiungere a quelle
già a disposizione del gastroenterologo pediatra per la valutazione
del piccolo intestino, anche se il loro esatto ruolo negli algoritmi
diagnostici deve essere ancora definito. Inoltre, lo straordinario
sviluppo tecnologico ha permesso la realizzazione di una nuova
generazione di endoscopi ad alta risoluzione, che utilizzano l’elettronica applicata all’immagine, con notevole miglioramento delle
capacità diagnostiche (endoscopia ad alta risoluzione, a banda
stretta con magnificazione, endomicroscopia confocale, cromoendoscopia).
Nonostante le notevoli capacità nel delineare piccole alterazioni
strutturali, le correnti tecniche di imaging non sono ancora in grado di evidenziare molti stati patologici precoci di malattia. Per tale
motivo, nel prossimo futuro, l’utilizzo di ulteriori metodiche in grado
di fornire informazioni sull’attività molecolare (tomografia ad emissione di positroni) negli stati fisiologici e patologici potrà aumentare
la nostra capacità di evidenziare e caratterizzare diverse alterazioni
del tratto gastrointestinale.
In questa review saranno discusse queste nuove tecniche di imaging
ed endoscopiche e saranno inoltre valutate le principali e possibili
applicazioni in gastroenterologia pediatrica.
Obiettivi e metodologia della ricerca bibliografica
effettuata
Questa review si propone di illustrare le moderne tecniche di imaging ed endoscopiche, evidenziandone i possibili vantaggi in gastroenterologia pediatrica.
È stata realizzata una ricerca bibliografica degli ultimi 5 anni, utilizzando il motore di ricerca PubMed, con le seguenti parole chiave
e termini Medical Subject Heading (MeSH) da soli o in combinazione: “MR enterography”, “MR colonography”, “capsule endoscopy”,
“doubleballoon endoscopy”, “magnification endoscopy”, “confocal
endomicroscopy and chromoendoscopy”, “narrow band imaging” e
“positron emission tomography”.
Tecniche di imaging
La risonanza magnetica
Per diversi anni, la RM del piccolo intestino ha rappresentato un
campo inesplorato della diagnostica gastrointestinale. Dal 1998 il
numero di pubblicazioni relativo a tale metodica è aumentato pro-
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E. Miele, C. Di Lorenzo
gressivamente. Le difficoltà incontrate all’inizio erano dovute soprattutto all’inadeguatezza degli scanner a realizzare indagini in
assenza di artefatti legati al movimento. Con lo sviluppo di nuovi
hardware e software che hanno ovviato a questo inconveniente, si è
aperto un nuovo panorama di indicazioni all’utilizzo di tale metodica.
L’alta risoluzione di contrasto del tessuto morbido, l’acquisizione di
immagini multiplanari e la possibilità di ottenere informazioni funzionali rendono la RM un’interessante tecnica di imaging per la valutazione delle patologie del piccolo intestino. L’assenza di radiazioni
ionizzanti costituisce un’importante caratteristica delle indagini RM
dato che malattie infiammatorie, quali la malattia di Crohn (MC), richiedono studi ripetuti, soprattutto nei bambini e nei giovani adulti. Il
maggiore vantaggio della RM paragonato alle tecniche radiografiche
tradizionali è la diretta visualizzazione della parete del piccolo intestino. Questa caratteristica cambia drammaticamente il processo
di interpretazione dell’immagine. Il radiologo deve spostare la sua
attenzione dall’analisi del profilo mucosale e dal calibro del lume
alla valutazione diretta dello spessore della parete intestinale e delle
alterazioni infiammatorie parietali. La distensione intestinale è un
prerequisito importante per qualsiasi studio del piccolo intestino,
per tale motivo, ne sono stati studiati diversi metodi. Gli approcci
per la RM del piccolo intestino sono due: 1) studio successivo alla
somministrazione orale di mezzo di contrasto (Enterografia) (Fig. 1);
e 2) studio successivo alla distensione luminale ottenuta con mezzo
di contrasto introdotto con sondino nasogastrico (Enteroclisi) (Leighton, 2006). I mezzi di contrasto utilizzati sono classificati in accordo alla loro apparenza nelle sequenze dipendenti in T1 e in T2.
Mezzi di contrasto negativi producono un segnale di bassa intensità
sia nelle immagini dipendenti in T1 che in T2, mentre un contrasto
positivo nelle stesse sequenze produce un segnale di alta intensità.
Infine, mezzi di contrasto bifasici risultano di bassa intensità in una
sequenza e di alta nella restante. La maggior parte dei mezzi di contrasto bifasici presenta un basso segnale di intensità nelle immagini dipendenti in T1 ed un alto segnale nelle immagini in T2 (Fidler,
2007). Nella scelta del mezzo di contrasto, diversi autori concordano
che per l’enterografia pediatrica debbano essere preferiti agenti bifasici quali il PEG 4000 o altre soluzioni acquose non riassorbibili.
L’uso endovenoso di chelati del gadolinio, mezzo di contrasto positivo, risulta essere utile per la valutazione dello stato di attività. Gli
studi iniziali della RM realizzati nelle IBD hanno correlato il reperto
radiologico con i risultati della ileocolonoscopia e degli indici di attività di malattia (Paolantoni et al., 2009).
In studi pediatrici, la RM-enterografia ha mostrato una sensibilità
dell’84-96% e una specificità del 92-100% per la diagnosi di malattia
infiammatoria cronica o ileite erosiva in quelli sottoposti a ileocolonoscopia (Laghi et al., 2003). Al momento, non vi è nessuna evidenza che
dimostri la superiorità della RM enteroclisi rispetto alla RM-enterografia
in pazienti pediatrici con sospetta MC. Il riconoscimento di una stenosi
mediante RM risulta essere agevole, considerando che il normale diametro del piccolo intestino è di circa 2.5 cm (Fig. 1). La RM è in grado di
differenziare una stenosi fibrosa di lunga durata (strato intestinale sottile ipo-intenso in assenza di enhancement del contrasto) che richiede
terapia chirurgica, da una stenosi infiammatoria (con enhancement del
contrasto) che può beneficiare della terapia medica. La RM, inoltre, è
diventata la metodica di scelta per la valutazione delle fistole perianali
e delle complicanze della MC. Infatti, essa può definirne l’estensione e
la localizzazione della malattia, fornendo informazioni essenziali per il
trattamento chirurgico (Dabarbari et al., 2004).
Uno dei principali limiti della RM è costituito dalla inferiore risoluzione
spaziale e temporale rispetto alla tomografia assiale computerizzata
(TC). Grazie ai moderni TC scanner, è possibile ottenere con un singolo
atto respiratorio immagini dell’addome dai 2 ai 3 mm di ottima definizione, invece lo spessore delle scansioni ottenuto con i moderni scanner RM va dai 4 ai 6 mm e talvolta la loro acquisizione richiede diverse
interruzioni del respiro. Ciò determina una riduzione della risoluzione
temporale e della qualità delle immagini, soprattutto in un paziente
non collaborante, quale il bambino. Attualmente, esistono dati limitati
che paragonano la RM con la TC enterografia o enteroclisi (Bruining et
al., 2008). Esiste un unico studio prospettico, condotto su 50 pazienti
adulti affetti da diversi disordini del piccolo intestino, che ha dimostrato una sensibilità più alta della TC enteroclisi rispetto a quella RM
(Schmidt et al., 2003). Comunque, dati definitivi che paragonino la TC,
la RM ed eventualmente la CE, al momento, mancano.
La RM colonografia è stata valutata quale alternativa diagnostica
alle tecniche endoscopiche in pazienti con sospetta o accertata IBD.
Le conclusioni degli studi finora condotti in pazienti adulti risultano
essere discordanti. Infatti la sensibilità della tecnica varia dal 31%
all’84%. Per tale motivo il suo ruolo negli algoritmi diagnostici e nel
discernere una colite da MC da una colite ulcerativa rimangono incerti (Schreyer et al., 2005).
In conclusione, la RM offre grosse potenzialità nello studio del piccolo intestino. La RM-enterografia è una tecnica accurata e non invasiva per la diagnosi ed il follow-up della MC e delle sue complicanze
in età pediatrica. Al momento, la RM-colonografia rappresenta solo
una prospettiva.
Tecniche Endoscopiche
Figura 1.
RM-enterografia dopo distensione con PEG: reperto di stenosi ileale
(cerchio; sequenza dipendente in T2) in un ragazza di 14 anni affetta da
malattia di Crohn Ileo-colonica.
148
La videocapsula endoscopica
La CE rappresenta una delle più recenti invenzioni che ha già dimostrato di avere notevole impatto sul work-up diagnostico delle
malattie gastrointestinali, in particolar modo quelle del piccolo intestino, che non possono essere facilmente esplorato dalle tecniche endoscopiche tradizionali. Dall’approvazione del suo uso nei
Nuove tecniche di imaging ed endoscopiche in Gastroenterologia
bambini (10-18 anni), avvenuta negli Stati Uniti nel 2003, sono stati
pubblicati diversi studi relativi ai campi di applicazione di questo test
diagnostico in gastroenterologia pediatrica.
Il sistema include tre componenti: la CE, un’antenna ricevente esterna (rappresentata da 8 sensori), collegata ad un hard disc portatile
(data recorder) e una PC workstation con software dedicato per la
revisione e l’interpretazione delle immagini. La CE (11 mm ×26 mm,
3,64 g) è costituita da un chip che cattura le immagini, una lente
focale corta, una fonte luminosa di 6 diodi luminosi, 2 batterie ed un
trasmettitore telemetrico. Le caratteristiche delle immagini sono: un
campo di visione di 1400, una magnificazione di 1:8, una profondità
di visione da 1 a 30 mm, e una misura minima di rilevazione di
circa 0,1 mm. La CE attivata fornisce immagini, a una frequenza di
2 scatti per secondo fino ad esaurimento delle batterie, dopo circa
8 ore, permettendo al dispositivo di collezionare fino a 55.000 immagini. I pazienti da sottoporre all’indagine dovrebbero digiunare
per 12 ore prima di deglutire la CE. Dovrebbe essere effettuato un
lavaggio intestinale, come per una colonoscopia. Non è stato ancora
determinato quale sia la migliore preparazione intestinale, sembra
che l’uso di polietilenglicole, di sodio picosolfato, di solfato di sodio,
o di simeticone possa migliorare la qualità delle immagini. Al paziente è concesso bere liquidi chiari 2 ore dopo l’ingestione della CE e
assumere un pasto leggero 4 ore dopo.
La principale limitazione dell’uso in età pediatrica è data dalla incapacità di deglutire la CE, che ha dimensioni non trascurabili. Per tale
motivo, in casi selezionati, si preferisce utilizzare la metodica, che
permette il rilascio della CE al di là del piloro per mezzo di una esofagogastroduodenoscopia tradizionale. Con tale tecnica, si evita inoltre
lo stazionamento della CE nello stomaco, che talvolta prolungandosi,
non consente la visione completa di tutto il piccolo intestino.
La letteratura sull’uso della CE in età pediatrica è limitata. Negli
adulti, le principali indicazioni includono il sanguinamento gastrointestinale oscuro (SGIO), l’anemia sideropenica, la sospetta MC, i tuTabella I.
Potenziali indicazioni della CE in Gastroenterologia pediatrica.
Infiammazioni intestinali
• Malattia di Crohn
• Malattia celiaca
Sanguinamenti intestinali occulti o oscuri
• Malformazioni vascolari
• Vasculiti (Porpora Henoch-Schönlein)
• Diverticolo di Meckel
Enteropatia proteino-disperdente
mori del piccolo intestino e la malattia celiaca refrattaria. Allo stesso
modo, nei bambini, le principali indicazioni includono il SGIO e la
sospetta MC, anche se molte altre possibili indicazioni all’uso della
CE sono riportate in Tabella (Shamir et al., 2008).
La maggior parte degli studi condotti in età pediatrica riguardano
l’utilizzo della CE nella diagnosi della MC. In uno studio prospettico
pediatrico sulla diagnosi delle patologie del piccolo intestino, la CE
ha dimostrato la presenza di lesioni multiple riferibili a MC in 10 dei
20 soggetti arruolati (Guilhon de Araujo Sant’Anna et al., 2005). In un
altro studio, la CE veniva utilizzata in bambini con sospetta MC, non
evidenziabile con le tecniche endoscopiche e radiologiche tradizionali,
risultando essere diagnostica in sette dei 12 pazienti arruolati ed evidenziando lesioni soprattutto dell’ileo (Arguelles-Arias et al., 2004).
Un ulteriore studio prospettico in 16 bambini, che paragonava l’utilità
della CE nella diagnosi della MC rispetto alle tecniche endoscopiche
e radiologiche tradizionali, concludeva che la CE e la ileocolonoscopia
risultavano essere complementari nella definizione dell’estensione
della malattia (Thomson et al., 2007). In una revisione di 46 procedure, in 7 di 9 bambini, in cui si poneva una nuova diagnosi di MC, il
trattamento veniva modificato in seguito al reperto della CE (Moy et
al., 2007). In un recente studio retrospettivo italiano, che include la
più ampia casistica di pazienti pediatrici (87 soggetti, range d’età: 18
mesi-18 anni), la CE è risultata essere uno strumento molto utile nella
diagnostica delle patologie del piccolo intestino. L’alta frequenza di
procedure positive riscontrata veniva attribuita alla selezione accurata
delle indicazioni all’esame (de Angelis et al., 2007).
Recentemente la Società Nord Americana di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica (NASPGHAN) ha concluso, basandosi
tuttavia sulla letteratura dell’adulto, che la sensibilità della CE nell’identificare ulcerazioni o stenosi del piccolo intestino, sembra essere
superiore al tenue seriato ed all’enteroclisi (Bousvaros, 2007) (Fig. 2).
Il principale evento avverso legato all’uso della CE è rappresentato
dalla possibile ritenzione della capsula dovuta a stenosi, riportata
anche in età pediatrica. Il previo utilizzo della capsula patency, consigliato dal produttore in caso di sospetta stenosi, potrebbe, tuttavia,
ovviare a questo inconveniente. Questa capsula, costituita da un
polimero solubile, contente una barretta radio-opaca, viene escreta
intatta, a meno che non venga bloccata da una stenosi, nel qual
caso, si disintegra entro 40 ore (El-Matary, 2008).
In conclusione, la CE è un promettente strumento per la diagnostica
del piccolo intestino. Allo stato attuale, il suo uso in età pediatrica
è raccomandato nella diagnosi della MC del piccolo intestino, endoscopicamente negativa. Ulteriori studi pediatrici sono auspicabili
per verificare l’utilità e l’applicabilità della CE nelle altre affezioni del
piccolo intestino.
• Linfangectasia intestinale
Miscellanea
• Sindrome di Peutz-Jeghers
• Poliposi familiare e non familiare
• Enteropatia eosinofila
• Allergia alimentare
Danni mucosali
• Farmaci
• Chemioterapia
• Radioterapia
• Graft versus host disease
Neoplasie
Dolore addominale cronico
Figura 2.
Videocapsula endoscopica: ulcerazione della mucosa ileale (cerchio) in
un ragazzo di 14 anni affetto da malattia di Crohn ileale endoscopicamente negativa.
149
E. Miele, C. Di Lorenzo
L’enteroscopia a doppio pallone
Agli inizi del 2001, Yamamoto et al riportarono lo sviluppo del metodo a doppio pallone come nuova tecnica di inserzione enteroscopica
che consente l’osservazione dell’intero piccolo intestino (Yamamoto,
2001). Successivamente, nel 2003, veniva descritto un nuovo sistema di EDP per la diagnosi ed il trattamento dei disordini del piccolo
intestino (Yamamoto, 2003).
L’EDP consiste di un endoscopio di 200 cm di lunghezza con un pallone all’estremità finale, un tubo esterno flessibile di 145 cm con un
ulteriore pallone, e un sistema pneumatico che permette di gonfiare
e sgonfiare i palloni. In pratica, dopo aver spinto la sonda fino a che
è possibile avanzare si gonfia il palloncino per ancorare l’endoscopio
al punto di arrivo, dopodiché si fa avanzare il tubo esterno che “irrigidisce” il sistema e, gonfiato anche il secondo palloncino, si opera
una lieve trazione per “raddrizzare” le volute che si sono create con il
primo avanzamento; a questo punto, mantenendo gonfio il palloncino
del tubo coassiale e sgonfiando quello dell’enteroscopio si ricomincia
da capo. In questo modo, raccogliendo man mano il piccolo intestino sullo strumento è possibile esplorare l’intero tratto intestinale. La
procedura può essere eseguita sia oralmente che analmente (Fig. 3).
Il tempo medio di procedura nell’adulto ed in mani esperte è di circa
115 min, con l’86% di esami completati. Nonostante la sua natura
invasiva, il vantaggio della EDP rispetto alla CE è rappresentato dalla
capacità di ottenere biopsie e di essere eventualmente operativa. I
rischi legati alla EDP sono gli stessi dell’endoscopia tradizionale, quali
perforazione e danni derivanti da sedazione prolungata. Nell’adulto,
l’uso della EDP si sta rapidamente sviluppando, ma nel bambino resta
piuttosto limitato. May et al. hanno riportato i risultati di uno studio
prospettico di fattibilità in 137 pazienti adulti con sospetta malattia
del piccolo intestino. Il rendimento della EDP è stato dell’80% (109 su
137 pazienti), facendo porre una nuova diagnosi nel 34% dei casi (in
47 su 137 pazienti). In 18 pazienti veniva posta diagnosi di MC (May et
al., 2005). In un più recente studio di coorte su 40 pazienti adulti con
MC, l’EDP è risultata essere superiore al tenue seriato o all’enteroclisi
nell’evidenziare erosioni o piccole ulcerazioni nell’ileo distale (Oshitani, 2006). Il potenziale terapeutico della EDP è stato evidenziato da
reports su dilatazioni di stenosi e sul recupero di CE ritenute (Fig. 4).
In uno studio retrospettivo di Leung, sono state valutate procedure
con EDP, condotte in 26 pazienti (14 anterograde, 16 retrograde, 4 sia
anterograde che retrograde). Cinque soggetti erano più giovani dei 10
anni di età, 10 presentavano un’età compresa tra gli 11 e i 20 anni, e
11 tra i 21 e i 29 anni. Le indicazioni alla EDP includevano: sanguinamento gastrointestinale, dolore addominale ricorrente, MC, tubercolosi
intestinale e vomito con evidenza radiologica di stenosi. Per i pazienti
Figura 3.
Enteroscopio a doppio pallone.
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Figura 4.
Endoscopia a doppio pallone: emangioma del piccolo intestino in una
ragazza di 14 anni con anemia sideropenica e sangue occulto positivo.
La lesione era stata identificata dalla CE e rilevata dalla EDP a 315 cm
oltre il piloro (ileo medio).
con sanguinamento (8 soggetti), la diagnosi era di porpora di Schonlein-Henoch in 3, anomalie vascolari in 2, polipo in 1, sanguinamento
diffuso da anticoagulanti in 1, e indeterminata in 1. Per i pazienti con
dolori addominali (9 soggetti) la diagnosi era di enteropatia eosinofila
in 4, porpora di Schonlein- Henoch, ulcerazione del piccolo intestino in
2, ileite aspecifica in 1, e duplicazione intestinale in 1. Sei pazienti con
sospetta MC, furono sottoposti alla EDP per stadiazione delle lesioni del piccolo intestino. Un paziente affetto da tubercolosi intestinale
veniva sottoposto alla EDP per valutare una stenosi a 200 cm dalla
valvola ileo-cecale. Due pazienti venivano sottoposti alla procedura
per sospetta stenosi del piccolo intestino e vomito, ma non furono
evidenziate lesioni specifiche (Leung, 2007).
In conclusione, l’EDP è un sistema innovativo per lo studio del piccolo intestino, attualmente accettato nell’adulto. Nella popolazione
pediatrica l’EDP non è ancora ampiamente utilizzata, e comunque il
suo uso è limitato da diversi fattori: mancanza di opportunità di training per i gastroenterologi pediatri; mancanza di strumenti dedicati
al bambino e basso rapporto costo/efficacia dell’indagine, dovuto al
numero molto ridotto di indicazioni.
Il futuro delle tecniche di imaging ed endoscopiche?
È già iniziato!
Sebbene l’endoscopia ottica sia notevolmente migliorata negli ultimi
anni, vi è l’esigenza di una migliore qualità di immagine per identificare lesioni minime attribuibili a displasia o a cancro colo-rettale soprattutto nei pazienti affetti da IBD di lunga durata. Diverse tecniche
sono state ideate e la cromoendoscopia è risultata essere la tecnica
di maggiore successo. La cromoendoscopia offre il potenziale vantaggio di migliorare la sensibilità della sorveglianza colonosocopica
per neoplasia permettendo le biopsie mirate di mucosa che appare
anormale. La cromoendoscopia è una metodica che si basa sull’utilizzo di coloranti specifici impiegati durante gli esami endoscopici
per individuare con maggior precisione displasie e carcinomi. I coloranti utilizzati possono essere distinti in 4 categorie fondamentali:
vitali, che vengono assorbiti dalla mucosa, di contrasto, reattivi e per
tatuaggi. Trial prospettici in pazienti adulti affetti da colite ulcerativa
hanno riportato una migliore identificazione di displasia con l’uso di
blu di metilene e indigo carminio (Kiesslich, 2003; Rutter, 2004).
Nuove tecniche di imaging ed endoscopiche in Gastroenterologia
La endomicroscopia laser confocale è una ulteriore tecnica che facilita la visione della mucosa colonica. Un endomicroscopio rappresenta
l’integrazione di un microscopio laser confocale sull’estremità di un
colonoscopio convenzionale (EC3870K; Pentax, Tokio, Japan). Tale
integrazione permette l’identificazione in-vivo delle microstrutture
cellulari e subcellulari e consente, quindi, una diagnosi istologica di
tessuto in-vivo ed in tempo reale. Queste caratteristiche rendono la
microscopia confocale endoscopica potenzialmente utile nella diagnosi precoce di lesioni tumorali o displastiche, così come nella ottimizzazione delle biopsie e del trattamento endoscopico resettivo mirato.
Uno studio pilota realizzato applicando la cromoendoscopia associata
all’endomicroscopia laser confocale nello screening per cancro colonrettale ha dimostrato che questa tecnica può predire la presenza di
alterazioni neoplastiche con grande accuratezza (Kiesslich, 2004).
Endoscopia ad alta risoluzione (HR) è un termine coniato per descrivere l’avvento dell’elettronica applicata ai videoendoscopi e
rappresenta un ulteriore miglioramento delle proprietà meccaniche
e del campo di visione dei precedenti endoscopi. La risoluzione di
un’immagine endoscopica differisce dalla magnificazione e viene
definita come capacità di distinguere due punti vicini. L’alta risoluzione migliora la definizione del dettaglio, mentre la magnificazione
ingrandisce l’immagine (fino a 100 volte) che oltre certi livelli perde
di qualità. Un’ulteriore applicazione dell’elettronica all’endoscopia
è rappresentata dal sistema Narrow Band Imaging (NBI) (Olympus
Optical Co Ltd). L’NBI è un sistema nel quale le caratteristiche spettrali vengono modificate dal restringimento, per mezzo di filtri ottici,
della larghezza della banda spettrale di trasmissione. L’NBI modificata permette un migliore contrasto delle strutture, quali superficie
mucosale e microvasi, senza la necessità di colorazioni. L’NBI usa
due bande di luce: una blu a 415 nm ed una verde a 540 nm. La
banda ristretta blu evidenzia la rete capillare superficiale, mentre
la luce verde evidenzia quella sottoepiteliale e quando combinate
offrono un contrasto di immagine estremamente alto della superficie tissutale. L’HR-NBI rappresenta una tecnica molto promettente
che può aumentare le possibilità di riconoscere lesioni neoplastiche
precoci del tratto gastrointestinale ed aiutare ad effettuare biopsie
mirate nella sorveglianza di alcune condizioni a rischio. Al momento,
tuttavia, sia nell’adulto che nel bambino, non esistono studi che per-
mettono di definire l’ambito di impiego di questa nuova tecnologia
nelle diverse patologie gastrointestinali (Larghi et al., 2008).
Nell’ambito delle tecniche di imaging, quella molecolare, cioè il rilievo, la localizzazione spaziale, e la quantizzazione di specifici bersagli molecolari e di eventi che sono alla base di diverse patologie,
rappresenta un campo promettente che di sicuro verrà sviluppato
nel prossimo futuro. La tomografia ad emissione di positroni (PET) è
una delle tecniche di imaging molecolare e rappresenta un’attraente
metodica non invasiva che non richiede la preparazione intestinale
ed espone il paziente a minori radiazioni del tenue seriato. Essa è
capace di rilevare allo stesso tempo aree infiammate del piccolo intestino e del colon. La PET prevede l’uso di isotopi emettenti positroni, quali il fluoro- 2-desossi-glucosio marcato con fluorina 18 (FDG),
che possono aiutare a definire l’attività di infiammazione soprattutto
nelle IBD. Uno studio in età pediatrica condotto su 65 bambini (55
con IBD, 10 con dolore addominale ricorrente) ha paragonato l’efficacia della FDG-PET verso il tenue seriato e la colonoscopia nel rilevare infiammazione. La FDG-PET identificava infiammazione attiva
nell’80% dei bambini con IBD, verso l’83.3% della colonoscopia e il
75% del tenue seriato. Nei soggetti con dolore addominale ricorrente la FDG-PET non identificava alcuna area di infiammazione, dimostrandosi così un valido strumento diagnostico (Lemberg, 2005).
Conclusioni
Negli ultimi anni sono stati compiuti significativi progressi nel
campo delle tecniche diagnostiche delle malattie gastrointestinali.
Questi progressi sono stati realizzati soprattutto nell’ambito dell’endoscopia digestiva e della radiologia. La capsula CE e l’EDP
hanno permesso una completa visualizzazione della mucosa del
piccolo intestino. Tecniche endoscopiche avanzate quali la cromoendoscopia, la magnificazione endoscopica e l’HR-NBI possono
aiutare nell’identificare alterazioni della mucosa agli stadi iniziali.
La RM può essere utile quale indagine non invasiva nella diagnosi
e nel follow-up del bambino affetto da MC. Infine la FDG-PET può
rappresentare, in un futuro non lontano, un valido mezzo diagnostico per l’identificazione e la definizione dello stato di infiammazione nei soggetti affetti da IBD.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
• Nelle ultime decadi, significativi progressi sono stati realizzati nel campo delle tecniche diagnostiche delle malattie gastrointestinali.
• I progressi hanno riguardato soprattutto le tecniche di imaging ed endoscopiche del tratto gastrointestinale.
Cosa sappiamo oggi
• L’RM-enteroclisi o l’RM-enterografia permettono una valutazione accurata sia luminale che extra-luminale con il vantaggio di non esporre il paziente a radiazioni.
• La capsula endoscopica e l’enteroscopia a doppio pallone hanno permesso la visualizzazione completa di tutto il tratto gastrointestinale.
• Tecniche di imaging avanzate, quali la cromoendoscopia, la magnificazione endosocpica, l’alta risoluzione, la Narrow Band Imaging e l’endomicrospia laser confocale possono essere d’aiuto nella sorveglianza colonoscopica di malattie infiammatorie intestinali.
Cosa ci riserva il futuro
• L’imaging molecolare (es. PET) aggiungerà ulteriori informazioni alle tecniche tradizionali, sia endoscopiche che radiologiche, ed aiuterà il clinico
nell’evidenziare lesioni ad uno stadio precoce della malattia e nel definire l’efficacia della terapia più rapidamente rispetto alle altre tecniche tradizionali.
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Abbreviazioni:
RM: risonanza Magnetica
IBD: malattie infiammatorie intestinali
CE: capsula endoscopica
EDP: enteroscopia a doppio pallone
MC: malattia di Crohn
TC: tomografia assiale computerizzata
SGIO: sanguinamento gastrointestinale oscuro
HR: endoscopia ad alta risoluzione
NBI: narrow band imaging
PET: tomografia ad emissione di positroni
FDG: fluoro- 2-desossi-glucosio marcato con fluorina 18
Corrispondenza
dott. Erasmo Miele, Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli “Federico II”, via S. Pansini 5, 80131 Napoli. E-mail:[email protected]
152
Luglio-Settembre 2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 153-156
reumatologia
Recenti novità nel trattamento delle malattie
reumatiche
Clara Malattia, Alberto Martini
Dipartimento di Pediatria, Università di Genova, Pediatria II, Istituto G. Gaslini
Riassunto
L’artrite idiopatica giovanile è la più frequente malattia reumatica cronica del bambino ed una causa importante di disabilità acquisita in età pediatrica. La
recente disponibilità di farmaci in grado di neutralizzare le maggiori citochine proinfiammatorie ha rivoluzionato il trattamento di questa condizione.
Negli ultimi anni in particolare è stata dimostrata l’efficacia di due anticorpi monoclonali contro il TNF (Infliximab and Adalimumab) e di un inibitore dell’attivazione linfocitaria (Abatacept). Inoltre, dati ormai molto consistenti indicano nell’inibizione di IL-6 o di IL-1 le basi della futura terapia della forma
sistemica.
Summary
Juvenile idiopathic arthritis is the most common childhood chronic rheumatic disease and represents an important cause of acquired disability in the pediatric age. The recent availability of drugs able to specifically target the most important proinflammatory cytokines has deeply modified its treatment.
In the last few years in particular, the efficacy and safety of two anti-TNF monoclonal antibodies (Infliximab and Adalimumab) as well as that of an inhibitor
of lymphocyte activation (Abatacept) has been demonstrated. Moreover, it is now clear that the inhibition of IL-6 or of IL-1 will represent the basis for future
therapies of the systemic form.
Introduzione
Nonostante la sempre migliore comprensione dei meccanismi che
regolano la risposta immunitaria, la eziologia delle malattie reumatiche rimane ancora sostanzialmente ignota. Una eccezione è rappresentata dalla recente individuazione di un gruppo di malattie, chiamate autoinfiammatorie, dovute a mutazioni di geni che codificano
per proteine coinvolte nella regolazione della risposta immunitaria
innata; per la loro descrizione si rimanda ad un recente articolo di
Prospettive in Pediatria (Gattorno et al., 2006). Progressi significativi sono anche stati compiuti nella comprensione dei meccanismi
attraverso cui il sistema immune genera il danno; queste ricerche,
grazie alla disponibilità di versioni ricombinanti di inibitori naturali
e di anticorpi monoclonali che neutralizzano selettivamente singole
molecole o popolazioni cellulari, hanno permesso una autentica rivoluzione nel trattamento delle malattie infiammatorie croniche in
generale e delle malattie reumatiche in particolare. Quindi anche se
non disponiamo ancora di terapie causali in grado di guarire queste
malattie possediamo però potenti farmaci in grado di inibire il processo infiammatorio e quindi il danno d’organo.
Per questa revisione sono stati analizzati gli articoli comparsi su
Pubmed negli ultimi 3 anni digitando: juvenile idiopathic arthritis,
systemic lupus erythematosus, juvenile dermatomyositis, sistemic
sclerosis, vasculitis. Sono stati analizzati solo quegli articoli che hanno avuto un rilevante impatto sulla pratica clinica in età pediatrica.
Si tratta principalmente di studi che hanno riguardato la artrite idiopatica giovanile la più frequente tre le malattie reumatiche croniche
del bambino.
Artrite idiopatica giovanile
Come è noto l’artrite idiopatica giovanile (AIG) non costituisce una
singola malattia ma una diagnosi di esclusione che raggruppa tutte
le artriti croniche del bambino di causa sconosciuta; nel suo ambito,
sulla base di criteri clinici, sono stati identificate varie forme che
corrispondono ad entità cliniche diverse. Reviews generali recenti
sulla AIG sono disponibili sia nella letteratura internazionale (Ravelli
e Martini, 2007) che in Prospettive in Pediatria (Martini, 2008).
Negli ultimi tre anni i contributi di maggiore impatto sulla pratica
clinica hanno riguardato l’utilizzo dei farmaci biologici nella terapia.
Gli inibitori del TNF
Il tumor necrosis factor (TNF) è una citochina che svolge un ruolo
rilevante nell’infiammazione sinoviale e la sua neutralizzazione ha
rappresentato uno dei progressi più importanti nella terapia delle
artriti croniche sia nell’adulto che nel bambino. Le indicazioni all’impiego degli anti-TNF nell’ambito del trattamento dell’AIG sono state
di recente riviste in un articolo di Prospettive in Pediatria (Martini,
2008). Il solo farmaco anti-TNF fino ad ora registrato in Europa è
Etanercept (proteina di fusione in cui due molecole di un recettore
del TNF sono associate con il frammento costante di una immunoglobulina). Lo studio che ne dimostrò l’efficacia è del 2000 (Lovell
et al., 2000).
Al momento della introduzione degli anti-TNF in terapia gli effetti
collaterali più temuti erano rappresentati dalle infezioni e dalla possibile comparsa di tumori. Oggi una estesa letteratura, soprattutto
nell’adulto ma anche nel bambino, ha mostrato una bassa incidenza
di infezioni e, almeno fino ad oggi, nessuna chiara evidenza di una
aumentata incidenza di neoplasie. Sarà comunque necessario seguire i pazienti ancora per lungo tempo. Tra le infezioni particolare
attenzione deve essere posta a quelle dovute a patogeni intracellulari ed in particolare alla tubercolosi; la terapia con anti-TNF comporta
infatti un rischio concreto di riattivazione di un processo tubercolare
e tutti i pazienti devono essere sottoposti ad uno “screening” per la
tubercolosi prima di iniziare la terapia.
Negli ultimi anni sono comparsi numerosi dati non solo sulla efficacia
153
C. Malattia, A. Martini
a più lungo termine dell’Etanercept ma anche sulla sua tollerabilità
e sicurezza. Nel 2004 fu pubblicata una larga coorte di 322 bambini
trattati con Etanercept (Horneff et al., 2004) che testimoniava un
assai soddisfacente profilo di sicurezza del farmaco. Più di recente
un altro studio di follow-up su 146 bambini con JIA (Prince et al.,
2009) ha confermato una incidenza bassa di eventi avversi di rilievo
(0,029 per paziente per anno).
Nell’adulto numerosi studi hanno mostrato che l’associazione methotrexate anti-TNF è più efficace dell’anti-TNF da solo. Studi controllati
simili non sono stati condotti nel bambino ma recentemente uno
studio retrospettivo (Horneff et al., 2009), che ha valutato l’efficacia
della terapia a 12 mesi in 55 pazienti trattati con Etanercept ed in
376 che avevano ricevuto sia Etanercept che methotrexate, suggerisce una maggiore efficacia della terapia combinata.
Più recenti sono gli studi nell’AIG con due altri inibitori del TNF, entrambi anticorpi monoclonali.
Il primo, Infliximab, è un anticorpo chimerico, cioè costituito da una
componente umana e da una murina (quest’ultima limitata alla parte
variabile che lega il TNF). Uno studio contro placebo (Ruperto et al.,
2007) in 122 pazienti (di età compresa tra 4 e 17 anni) che non
avevano risposto al methotrexate non ha mostrato una differenza
statisticamente significativa rispetto al placebo alla 16a settimana.
Tuttavia questo risultato è probabilmente falsamente negativo e
ascrivibile ad un campione limitato di soggetti e ad un effetto placebo che, in questo studio, è stato particolarmente elevato. In effetti i
risultati a più lungo termine sono stati molto buoni e paragonabili a
quelli ottenuti con gli altri farmaci anti-TNF: a partire dalla 16 settimana tutti i pazienti venivano trattati con l’anticorpo (a una dose
di 3 o 6 mg/kg/die) in associazione al methotrexate ed alla 52 settimana circa il 70% aveva ottenuto un miglioramento del 50%. Questo studio ha anche fornito risultati importanti per quanto riguarda
la sicurezza del trattamento; pur essendosi le due dosi dimostrate
egualmente efficaci, i pazienti trattati con 3 mg/kg sviluppavano anticorpi contro la componente murina ed avevano una percentuale di
reazioni infusionali (il solo rilevante effetto avverso osservato nello
studio) che era tre volte superiore rispetto ai pazienti trattati con 6
mg/kg. Quest’ultima dose quindi risultava, a parità di efficacia, assai
meglio tollerata.
Il secondo anticorpo anti-TNF (Adalimumab) è interamente umano.
La sua efficacia è stata valutata in uno studio che ha impiegato un
disegno sperimentale spesso utilizzato nell’AIG e che ha lo scopo
di ridurre il più possibile l’esposizione al placebo (withdrawal design). Secondo questo disegno tutti i pazienti vengono trattati con
il farmaco attivo. Quelli che rispondono vengono poi randomizzati
in doppio cieco a ricevere o il farmaco o il placebo e l’effetto viene
valutato confrontando la percentuale delle ricadute che si osservano nei due bracci. L’esposizione al placebo è limitata perché non
appena il paziente ricade viene trattato nuovamente con il farmaco.
Nello studio (Lovell et al., 2009) sono stati trattati 171 pazienti (di età
compresa tra 4 e 17 anni) divisi in due bracci come schematizzato
nella Figura 1. Dopo la randomizzazione la percentuale di ricadute
fu significativamente maggiore nei pazienti che continuavano a ricevere il farmaco rispetto a quelli che avevano ricevuto il placebo;
il farmaco risultò anche ben tollerato. Dopo 104 settimane di terapia con Adalimumab circa il 70% di quei pazienti che avevano fin
dall’inizio risposto al farmaco mostrava un miglioramento del 70%.
Lo studio, oltre a dimostrare l’efficacia di Adalimumab, ha anche
suggerito che la contemporanea somministrazione di Adalimumab e
methotrexate dia risultati migliore della somministrazione isolata di
Adalimumab: alla 16a settimana di trattamento il 91% dei pazienti
che avevano ricevuto Adalimumab e methotrexate mostravano un
154
Figura 1.
Studio dell’efficacia di Adalimumab con un withdrawal design. I 171
pazienti hanno ricevuto tutti Adalimumab per un periodo di 16 settimane e sono stati divisi in due bracci: A rappresentato da pazienti che
erano già stati trattati con methotrexate (MTX) ma che non avevano
risposto ho avevano mostrato una risposta insufficiente B rappresentato
da pazienti che richiedevano una terapia di secondo livello ma che non
erano stati trattati con MTX. Ciascun braccio è stato poi randomizzato a
ricevere il placebo o il farmaco attivo per 32 settimane o fino a quando
non compariva la ricaduta.
miglioramento del 50% contro il 64% di quelli che avevano ricevuto
il solo Adalimumab. Sono risultati simili, come prima accennato, a
quelli ottenuti nello studio retrospettivo di Horneff et al. (2009) nei
pazienti trattati con etanercept e a quanto osservato nell’artrite reumatoide dell’adulto.
Non esistono studi che abbiano paragonato tra loro i differenti inibitori del TNF. Le percentuali di miglioramento ottenute negli studi che
hanno valuto i singoli farmaci sono risultate piuttosto sovrapponibili.
Nel complesso circa il 70% dei pazienti con AIG mostra una soddisfacente risposta agli inibitori del TNF.
L’artrite associata ad entesite rappresenta una forma particolare di
AIG e costituisce l’equivalente nel bambino delle spondiloartropatie dell’adulto, malattie caratterizzate da un interessamento dello
scheletro assiale (articolazioni sacro-iliache e colonna vertebrale),
delle articolazioni periferiche e delle entesi (aree di inserzione sull’osso dei tendini e dei legamenti). Nel bambino l’interessamento
dello scheletro assiale è infrequente e tardivo mentre prevale quello
delle articolazioni periferiche e delle entesi. Nelle spondiloartropatie dell’adulto i farmaci anti-TNF si sono dimostrati efficaci in studi
controllati. Nel bambino con artrite associata ad entesite l’efficacia
di questi farmaci è stata per ora osservata solo in alcuni studi non
controllati (Tse et al., 2005, 2006).
I farmaci anti-TNF sono stati di recente studiati anche come possibile terapia dell’iridociclite che colpisce circa il 30% dei pazienti con
AIG oligo o poliarticolare che sono positivi per gli anticorpi antinucleo
(Ravelli e Martini, 2007; Martini, 2008). Anche se la maggioranza dei
pazienti, specie se diagnosticati precocemente, risponde bene alla
terapia topica con steroidi e midriatici una percentuale significativa
è più resistente al trattamento ed ha un rischio concreto di sviluppare complicazioni a distanza (Thorne et al., 2007). Questi pazienti
vengono trattati con steroidi per via sistemica che, nei casi più resistenti, vengono associati ad immunosoppressori (in genere methotrexate o ciclosporina) in assenza però di studi clinici controllati che
abbiano fornito una chiara evidenza di efficacia. Il trattamento delle
uveiti severe resta pertanto un problema non risolto. Uno studio randomizzato su una piccola popolazione di pazienti (Smith et al., 2005)
Recenti novità nel trattamento delle malattie reumatiche
non aveva mostrato differenze tra i pazienti trattati con etanercept e
quelli che avevano ricevuto il placebo. Risultati simili erano stati ottenuti in un altro studio non controllato (Schmeling e Horneff, 2005).
Per contro numerosi recenti studi non controllati sembrano mostrare
una buona efficacia degli anticorpi monoclonali anti-TNF, sia Infliximab (Tynjälä et al., 2007; Foeldvari et al., 2007) che Adalimumab
(Biester et al., 2007; Tynjälä et al., 2008). Bisognerà comunque attendere studi controllati che confermino questi risultati.
Gli inibitori dell’attivazione linfocitaria
Le artriti croniche sono ritenute la conseguenza di una risposta
autoimmune secondaria all’attivazione di linfociti T autoreattivi. I
linfociti T per essere attivati devono riconoscere il peptide verso
cui sono specifici che viene presentato nel contesto delle molecole di istocompatibilità sulla superficie cellulare delle cellule che
presentano l’antigene (APC). Tuttavia questo segnale da solo non
è sufficiente anzi genera una anergia cellulare cioè uno stato di
resistenza all’attivazione. Perché quest’ultima avvenga è necessario che la APC fornisca al linfocita T anche un secondo segnale
attraverso l’espressione sulla superficie della cellula di molecole
cosiddette per l’appunto di attivazione. Abatacept è una molecola
di fusione in cui il frammento costante di una immunoglobulina è
legato ad un recettore linfocitario ricombinante che ha una alta
affinità per la più importante classe di molecole di attivazione. Il
legame tra abatacept e molecole di attivazione sulla superficie
dell’APC riduce la possibilità di queste ultime di attivare i T linfociti.
Abatacept si è mostrato efficace nella terapia dell’artrite reumatoide dell’adulto, indicazione per cui è già registrato. Risultati positivi
sono stati di recente ottenuti (Ruperto et al., 2008) in uno studio
controllato in 190 pazienti con AIG (di età compresa tra 6-17 anni)
che ha utilizzato anch’esso un withdrawal design e in cui la percentuale di ricadute si è mostrata superiore nel braccio che aveva
ricevuto il placebo. Le percentuali di risposta ottenute, come anche
la tollerabilità, sono state simili a quelle osservate negli studi che
avevano utilizzato inibitori del TNF. Lo studio ha anche suggerito
che Abatacept possa essere efficace in una discreta percentuale
di pazienti resistenti agli anti-TNF. Dei 190 pazienti infatti, 57 avevano fallito una precedente terapia con inibitori del TNF; di questi,
il 25% mostrò un miglioramento del 50% dopo 4 mesi di terapia
con Abatacept.
La terapia della AIG sistemica
La AIG sistemica differisce dalle altre forme di AIG per la presenza di sintomi sistemici importanti (febbre elevata ed intermittente,
rash, sierositi, epatosplenomegalia, linfoadenomegalie) accompagnati sul piano umorale da una marcata infiammazione. I farmaci
anti-TNF si sono mostrato meno efficaci nella AIG sistemica rispetto a quanto osservato nelle altre forme di AIG (Quartier et al.,
2003). In effetti studi effettuati negli anni ’90 avevano suggerito
che il processo infiammatorio in corso di AIG avesse caratteristiche particolari e che interleuchina-6 (IL-6), un’altra potente citochina proinfiammatoria, e non TNF vi svolgesse un ruolo centrale
(De Benedetti e Martini, 1998). Questa ipotesi è stata di recente
confermata dagli eccellenti risultati ottenuti da uno studio controllato giapponese in 56 pazienti (di età compresa tra 2 e 19 anni)
che utilizzando un withdrawal design ha impiegato un anticorpo
monoclonale (Tocilizumab) diretto contro il recettore di IL-6 (es-
senziale affinché la citochina possa esercitare la sua azione) (Yokota et al., 2008). Un secondo studio di conferma contro placebo
è attualmente in corso.
Pochi anni prima uno studio americano aveva osservato un marcato
effetto terapeutico anche con l’inibizione di interleuchina-1 (IL-1) in
9 pazienti con AIG sistemica (Pascual et al., 2005). Questo effetto
non è in contraddizione con quanto osservato con l’inibizione di IL-6
perché IL-1 è in grado di indurre la produzione di IL-6. Il farmaco
utilizzato nello studio era Anakinra, la forma ricombinante di una
molecola naturale (l’antagonista recettoriale di IL-1) che si lega al
recettore di IL-1 con un’affinità molto maggiore rispetto a IL-1 ma
che non è però in grado di indurre l’attivazione cellulare. Uno studio successivo su 22 pazienti (Gattorno et al., 2008) ha mostrato
come il trattamento con Anakinra sia in grado di caratterizzare due
differenti popolazioni nell’ambito dei pazienti con AIG sistemica. Un
gruppo di pazienti ha una risposta spettacolare alla terapia con completa normalizzazione dei segni clinici e di laboratorio nella spazio
di una settimana. Il secondo gruppo ha invece una risposta meno
evidente o anche del tutto assente. La risposta al trattamento nel
primo gruppo è molto simile a quella che si osserva nelle malattie
autoinfiammatorie (Gattorno et al., 2006). È quindi possibile che nell’ambito della AIG sistemica esistano forme ad eziologia diversa, alcune delle quali assimilabili alle malattie autoinfiammatorie. Questo
lavoro è un esempio di come l’efficacia di farmaci in grado di inibire
selettivamente singole molecole possa fornire informazioni di tipo
patogenetico. Questo processo, in cui i dati ottenuti al letto del malato forniscono informazioni utili a stimolare ricerche di laboratorio
sulla patogenesi della malattia, viene chiamata “reverse translation”
in contrapposizione alla classica “translational medicine” in cui le
ricerche di laboratorio rappresentano il punto di partenza per individuare terapie efficaci.
Un altro recente esempio di “reverse translation” è l’osservazione
della spettacolare efficacia di Anakinra, in 3 casi di pericarditi ricorrenti idiopatiche (Picco et al., 2009). Anche questa osservazione fa
supporre che almeno alcune forme di pericarditi ricorrenti idiopatiche possano rappresentare delle malattie autoinfiammatorie.
Altre malattie reumatiche croniche
Nelle altre malattie reumatiche l’introduzione dei farmaci biologici
non è ancora arrivata a modificare gli schemi terapeutici nonostante
i molti studi in corso e la varietà dei farmaci studiati.
Nel lupus eritematoso sistemico i nuovi potenziali approcci terapeutici sono molteplici ma tutti ancora in fase iniziale (per una
recente review vedi Karim et al., 2009). Rituximab, un anticorpo
monoclonale diretto contro l’antigene CD-20 (presente sulla superficie delle cellule B ma non delle plasmacellule), ha dato risultati positivi in vari studi aneddotici non ancora confermati in studi
controllati.
Non esistono ancora sostanziali novità terapeutiche per la dermatomiosite giovanile (per una review recente vedi Feldman et al., 2008)
e per la sclerodermia sistemica; per la terapia di quest’ultima sono
state di recente pubblicate le linee guida della Società Europea di
Reumatologia (Kowal-Bielecka et al., 2009) che valgono anche per
la forma giovanile. Per la malattia di Kawasaki sono state pubblicate
su Prospettive in Pediatria le linee guida italiane (Marchesi et al.,
2008).
155
C. Malattia, A. Martini
Box di orientamento
La recente disponibilità di farmaci in grado di neutralizzare specifiche molecole o gruppi cellulari sta rivoluzionando la terapia delle malattie infiammatorie croniche. Di recente è stata dimostrata l’efficacia di due anticorpi monoclonali contro il TNF (Infliximab, Adalimumab) e di un inibitore dell’attivazione linfocitaria (Abatacept) nell’artrite idiopatica giovanile (AIG); inoltre dati molto consistenti indicano come l’inibizione di IL-6 e quella di IL-1 abbiano
un ruolo molto importante nella terapia della artrite idiopatica giovanile sistemica.
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* L’unico studio controllato sull’impiego di infliximab, un anticorpo chimerico
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** Lo studio che ha dimostrato l’efficacia di Tocilizumab, monoclonale chimerico
contro il recettore di IL-6, nella terapia dell’AIG.
Corrispondenza
prof. Alberto Martini, Dipartimento di Pediatria, Università di Genova, Pediatria II, Istituto G. Gaslini, largo Gaslini 5, 16147 Genova. E-mail:
[email protected]
156
Luglio-Settembre 2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 157-161
reumatologia
La sindrome PFAPA 20 anni dopo:
quando diagnosticarla, come trattarla?
Maria Antonietta Pelagatti, Roberta Caorsi, Silvia Federici, Marco Gattorno
U.O. Pediatria II, Istituto G. Gaslini e Dipartimento di Pediatria, Università di Genova
Riassunto
Le manifestazioni cliniche associate alla sindrome PFAPA presentano un ampio grado di sovrapposizione con quelle presenti nelle febbri periodiche con
una precisa eziologia molecolare: la febbre familiare mediterranea, la sindrome TRAPS, e il deficit di mevalonato chinasi (o sindrome con Iper IgD). Per
questo motivo i criteri diagnostici attualmente in uso per la PFAPA si sono dimostrati poco specifici per tale condizione in quanto numerosi pazienti affetti da
febbri periodiche geneticamente determinate possono soddisfare tali criteri. Questa revisione è mirata ad illustrare le problematiche legate alla diagnostica
differenziale nei pazienti affetti da febbre periodica e le più recenti novità nell’approccio terapeutico alla sindrome PFAPA.
Summary
The clinical manifestations of PFAPA syndrome overlap with those of three monogenic periodic fevers: Familial Mediterranean Fever (FMF), tumor necrosis
factor (TNF) receptor-associated periodic syndrome (TRAPS) and Mevalonate kinase deficiency (MKD). The current diagnostic criteria for PFAPA syndrome
displayed a low specificity in the discrimination of patients with periodic fever carrying mutations of genes involved in inherited periodic fevers. Aim of the
present review is to illustrate the more recent progresses in the differential diagnosis of periodic fevers and the last novelties in the treatment of PFAPA
syndrome.
Introduzione
La sindrome PFAPA (dall’acronimo inglese: periodic fever, aphthous
stomatitis, pharyngitis and cervical adenitis) è una entità clinica di
origine infiammatoria caratterizzata da febbre periodica, associata
ad almeno uno delle seguente manifestazioni cliniche: aftosi orale,
faringo-tonsillite eritematosa o essudativa e linfoadenite latero-cervicale (Marshall, 1987). Tali episodi si distinguono dalle normali infezioni ricorrenti dei primi anni di vita per l’esordio in pieno benessere,
l’assenza di chiari segni di infezione delle alte vie respiratorie, la
peculiare tendenza ad una periodicità talvolta estremamente regolare, la tendenza all’auto-risoluzione con scarsa risposta alla terapia
antibiotica (Thomas, 1999; Padeh, 1999; Tasher, 2006).
La prima descrizione come entità clinica distinta risale al 1987,
quando Marshall e collaboratori descrivevano il primo gruppo di 12
bambini che presentavano le caratteristiche cliniche sopra citate
(Marshall, 1987). L’esordio della malattia avviene generalmente entro i 5 anni di età e si caratterizza per episodi ricorrenti di febbre elevata della durata di 3-6 giorni, con periodo intercritico regolare. Gli
Tabella I.
Criteri diagnostici per la sindrome PFAPA (da Marshall et al. 1989,
mod. da Thomas et al., 1999).
Episodi febbrili ricorrenti con esordio prima dei 5 anni di età
Sintomi costituzionali, in assenza di infezioni delle alte vie respiratorie
con almeno uno tra:
• Stomatite aftosa
• Linfadenite cervicale
• Faringite
Esclusione della neutropenia ciclica mediante controlli seriati dei globuli
bianchi prima, durante e dopo i periodi sintomatici
episodi febbrili sono in genere prontamente responsivi alla terapia
steroidea per via orale. I pazienti mostrano un completo benessere
nei periodi intercritici ed un normale accrescimento staturo-ponderale ed un adeguato sviluppo cognitivo. Gli esami di laboratorio
dimostrano un quadro di leucocitosi ed un aumento degli indici di
flogosi in concomitanza degli episodi febbrili, con completa normalizzazione di tali parametri negli intervalli tra gli attacchi.
La diagnosi di PFAPA è eminentemente clinica e viene stabilita sulla base
dei criteri proposti per la prima volta nel 1989 (Marshall, 1989) e successivamente modificati da Thomas et al. (Thomas, 1999), aggiungendo ai
criteri esistenti l’esclusione formale della neutropenia ciclica (Tab. I).
Sia i criteri diagnostici proposti nel tempo che le casistiche descritte
negli anni successivi non hanno tuttavia preso in considerazione la
Tabella II.
Principali cause di febbre periodica in età pediatrica.
Malattie Infettive
Infezioni ricorrenti delle alte vie respiratorie
Infezioni delle vie urinarie
Virali (EBV, Parvovirus B19, HSV 1 e 2)
Batteriche (infezioni occulte, Borrelia, Brucella)
Parassitarie (Malaria)
Difetti immunitari
congeniti
Immunodeficienze primitive
Neutropenia ciclica
Malattie
infiammatorie
multifattoriali
Malattia di Behcet
Lupus eritematoso sistemico
Malattia di Crohn
Malattie
Autoinfiammatorie
ereditarie
Febbre Familiare Mediterranea
Deficit parziale di mevalonato-chinasi (Iper IgD)
Sindrome TRAPS
Sindrome di Muckle-Wells
Periodi asintomatici tra gli accessi febbrili
Malattie neoplastiche Leucemia linfoblastica acuta
Leucemia mieloide acuta
Linfoma (Febbre di Pel Epstein)
Normale crescita staturo-ponderale e normale sviluppo psico-fisico
Forme idiopatiche
Sindrome PFAPA
157
M.A. Pelagatti et al.
Tabella III.
Basi genetiche e caratteristiche cliniche delle sindromi autoinfiammatorie ereditarie.
Febbri periodiche
Sindromi associate
alla famiglia NALP
Malattie piogeniche
Malattie granulomatose
Malattia
Gene
Ereditarietà
Caratteristiche cliniche
Febbre familiare mediterranea
MEVF
AR
Breve durata degli episodi febbrili associati a dolori
addominali e toracici.
Rash simil-erisipela al dorso del piede, artrite.
Risposta alla Colchicina
Sindrome da Iper IgD
MVK
AR
Esordio precoce
Durata episodi febbrile di 3-5 giorni
Rash cutaneo e interessamento addominale
TRAPS
TNFRSF1A
AD
Lunga durata degli episodi febbrili ( > 10 giorni).
Edema periorbitale, mialgie, dolore scrotale.
FCAS
S. di Muckle-Wells
CINCA
NALP3 (CIAS1)
AD
Orticaria e febbre scatenata dall’esposizione al freddo
Orticaria cronica, sordità neurosensoriale, amiloidosi
come sopra + displasie ossee, ritardo intellettivo, meningite cronica
Sindrome periodica
associata a NALP12
NALP12
AD
Lesioni orticarioidi, artro-mialgie e febbre scatenati
dall’ esposizione al freddo, sordità neurosensoriale
PAPA
CD2BP1(PSTPIP1)
AD
Episodi ricorrenti di artrite asettica responsiva a FANS/
steroide, pioderma gangrenoso, acne.
S. di Majeed
LPIN2
AR
Osteomielite cronica multifocale ricorrente associata ad anemia congenita diseritropoietica e dermatosi
neutrofilica
Sindrome di Blau
CARD15 (NOD2)
AD
Artrite poliarticolare granulomatosa ad esordio precoce
Rash cutaneo, panuveite
TRAPS: Tumor necrosis factor (TNF) receptor-associated periodic syndrome; TNFRI: recettore per TNF tipo I; FCAS: Familial cold autoinflammatory syndrome; CINCA: Chronic Infantile Neurological Cutaneous Articular syndrome; PFAPA: periodic fever, aphthous stomatitis, pharyngitis, adenitis; PAPA: Pyogenic
Sterile Arthritis, Pyoderma Gangrenosum, Acne
possibile sovrapposizione clinica tra la sindrome PFAPA e un gruppo di
malattie infiammatorie ricorrenti molecolarmente definite anch’esse
caratterizzate da febbre ricorrente: le febbri periodiche monogeniche.
Tali malattie presentano un ampio margine di sovrapposizione con la
PFAPA, tale da mettere in seria discussione la specificità dei criteri
diagnostici per la PFAPA attualmente utilizzati. È importante qui sottolineare che la sindrome PFAPA non riconosce al momento una chiara
origine genetica ed è caratterizzata, al contrario delle forme ereditarie,
da una evidente tendenza alla risoluzione spontanea nel tempo.
Obiettivi della revisione
Fare il punto sulla reale utilità della PFAPA, dei criteri diagnostici
attualmente in uso per la distinzione dalle forme periodiche molecolarmente definite sulla base delle evidenze emerse dalla recente
letteratura ed illustrare le principali novità relative alle possibili strategie terapeutiche.
A questo fine sono stati analizzati i lavori relativi a questi argomenti
pubblicati nel corso degli ultimi 5 anni utilizzando come motore di
ricerca PubMed con le seguenti parole chiave: PFAPA, treatment, differential diagnosis, tonsillectomy. Sono state anche considerate le
novità provenienti dall’ultimo congresso internazionale sulle sindromi
Autoinfiammatorie tenutosi a Roma nell’Aprile 2008 (Gattorno, 2009).
La diagnosi differenziale nelle forme febbrili
periodiche
La presenza di una febbre periodica o ricorrente non è assolutamente esclusiva di una PFAPA o di una febbre periodica su base molecolarmente definita. Di fronte a una condizione di questo genere è
158
pertanto necessario considerare un ampio ventaglio di condizioni
a genesi infettiva, autoimmune ed emato-oncologica che entrano
pertanto in diagnostica differenziale (Long, 2005) (Tab. II).
Tuttavia, le forme che più frequentemente presentano il più alto grado di sovrapposizione con la PFAPA sono le sindromi autoinfiammatorie periodiche molecolarmente definite. Si tratta di malattie infiammatorie periodiche che fanno parte del più ampio spettro delle
cosiddette malattie autoinfiammatorie, legate a mutazioni dei geni
coinvolti nella regolazione della risposta infiammatoria (Tab. III).
Come la PFAPA, anche le febbri periodiche su base molecolarmente
definite sono caratterizzate da accessi febbrili spesso accompagnati
da sintomatologia muco-cutanea, gastrointestinale e articolare. Si
tratta in particolare della Febbre Familiare Mediterranea, della sindrome TRAPS e della sindrome da difetto incompleto di mevalonatochinasi, già nota come Sindrome con IperIgD. Per una revisione recente di queste malattie si rimanda alle referenze (Gattorno, 2008a)
e (Touitou e Kone-Paut, 2008).
Limiti dei criteri diagnostici della PFAPA attualmente
esistenti
L’ampliamento delle conoscenze sulle caratteristiche cliniche proprie delle febbri periodiche monogeniche in età pediatrica (Frenkel,
2001; Bakkaloglu, 2003; D’Osualdo, 2005; D’Osualdo, 2006) ha permesso di comprendere il grado di sovrapposizione di queste ultime
forme con la forma idiopatica attualmente nota con il termine PFAPA,
come testimoniato da una serie di osservazioni cliniche (Atas, 2003;
Saulsbury e Wispelwey, 2005).
Un recente studio ha analizzato la specificità degli attuali criteri
PFAPA in una ampia casistica di 234 bambini con febbre periodica
La sindrome PFAPA 20 anni dopo: quando diagnosticarla, come trattarla?
Figura 1.
Distribuzione dei pazienti che soddisfano i criteri PFAPA tra quelli affetti
da febbri periodiche (Iper IgD, TRAPS, Febbre familiare mediterranea),
quelli portatori di mutazioni a bassa penetranza del gene TNFRS1A o
eterozigoti per MEFV e i pazienti geneticamente negativi.
caratterizzati dal punto di vista molecolare per le tre forme monogeniche note (geni MEFV, MVK e TNFRSF1A). Dei 112 pazienti che soddisfacevano i criteri clinici per PFAPA, ben 20 erano in realtà affetti
da malattie monogeniche autoinfiammatorie (15 Iper IgD, 4 TRAPS,
1 FMF) e altri 30 erano comunque portatori di mutazioni a bassa
penetranza (come la R92Q per il gene TNFRSF1A) o eterozigoti per
mutazioni del gene MEFV (Fig. 1) (Gattorno, 2008b). Tale dato indica
la bassa specificità dei criteri PFAPA nell’ individuare i pazienti con
febbre periodica di natura “idiopatica”, ma soprattutto la necessità
di dover formalmente escludere una forma periodica su base monogenica prima di poter porre diagnosi di PFAPA.
Uno score diagnostico per individuare i pazienti con
febbre periodica a più alto rischio di essere portatori
di mutazioni dei geni noti
L’indagine molecolare rappresenta ovviamente l’elemento diagnostico dirimente per poter distinguere le forme ereditarie di febbre
periodica dalla PFAPA. Tuttavia, la diffusione della conoscenza di
queste forme da parte della comunità pediatrica ha comportato un
notevole aumento di richieste delle analisi molecolare dei geni associati a febbre periodica, con la conseguente necessità di giungere ad
una razionalizzazione della loro esecuzione, anche in considerazione
degli alti costi e della complessità connessa a tali indagini.
Appare necessario pertanto individuare dei criteri clinici in grado di
individuare i pazienti con più alto rischio di essere portatori di mutazioni dei geni noti associati a febbre periodica.
In questo senso, l’analisi della casistica dei 234 pazienti con febbre
periodica sopra-riportata ha permesso di evidenziare quali sono i
sintomi clinici in grado di distinguere i pazienti affetti da febbre periodica geneticamente determinata (IperIgD, TRAPS, FMF) da quelli
negativi per i geni noti (Gattorno, 2008b).
Lo studio è stato condotto analizzando i dati clinici dei pazienti con sospetta febbre periodica nei quali è stato possibile analizzare tutti e tre i
geni (MEFV, MVK e TNFRSF1A). Per poter entrare nello studio i pazienti
dovevano presentare un febbre periodica o ricorrente (> 38°C) di natura
sconosciuta, con periodi intercritici liberi da sintomi clinici, incluso la
normalità degli indici di flogosi. Per ogni paziente venivano registrati i
sintomi associati all’episodio febbrile, nonché la frequenza con cui gli
stessi si ripresentavano ad ogni episodio (talvolta, spesso, sempre). La
Tabella IV mostra la diversa frequenza dei sintomi rilevati nelle forme
geneticamente determinate e nei pazienti geneticamente negativi.
L’analisi di regressione logistica univariata delle diverse variabili ha
permesso di identificare le manifestazioni cliniche in grado di distinguere i soggetti geneticamente positivi da quelli negativi per i
geni noti. Le variabili così ottenute sono state inserite in un modello
di analisi multivariata che ha permesso di individuare un insieme
di 6 variabili indipendenti (età di esordio, storia familiare positiva,
presenza di dolore addominale, dolore toracico e diarrea nel corso
dell’ episodio, assenza di stomatite aftosa) in grado di identificare
i pazienti a più alto rischio di essere portatori di una mutazione di
uno dei tre geni, tenendo anche in considerazione la frequenza delle
variabili considerate nei diversi episodi febbrili (Gattorno, 2008b).
La combinazione lineare di queste variabili, pesate ciascuna con il
coefficiente stimato dal modello logistico utilizzato, ha permesso di
mettere a punto uno Score Diagnostico in grado di determinare il
grado di probabilità per un determinato paziente di risultare positivo
al test genetico. La sensibilità e la specificità di questo Score Diagnostico sono state quindi verificate sul secondo sottogruppo di 71
pazienti (Validation set), mostrando un’elevata sensibilità (87%) e
specificità (72%) (Gattorno, 2008b).
Tabella IV.
Differenze cliniche tra i pazienti con febbre periodica negativi allo screening genetico e i pazienti con forme periodiche geneticamente determinate.
HIDS
N.
TRAPS*
TRAPS R92Q
MEFV omoz.
MEFV eteroz.
Negativi
18
7
15
13
39
142
P
Età di esordio in mesi (media ± DS)
10,4 ± 8,2
17,8 ± 17,1
58,8 ± 66,4
16,6 ± 11,2
29,6 ± 44
68 ± 102
0,0001
Durata attacco (giorni) (media ± DS)
4,3 ± 1,4
15,2 ± 7
4,7 ± 3,7
3,1 ± 2,0
5,8 ± 9,1
6,4 ± 10,3
0,001
Familiarità (%)
17
86
7
19
21
10
0,0001
Periodicità (%)
66
66
61.5
57.1
59.1
55
NS
Stomatite aftosa (%)
38
14
40
16
38
43
0,04
Faringite (%)
78
72
66
44
81
60
NS
Rash (%)
66
43
34
9
40
29
NS
Linfoadenopatia laterocervicale (%)
95
43
60
42
58
61
0,007
Dolore addominale (%)
100
86
60
92
62
45
0,0001
Diarrea (%)
72
57
44
25
41
19
0,0001
Artralgie (%)
72
43
27
42
47
42
NS
Mialgie (%)
50
50
54
44
16
44
0,01
Dolore toracico (%)
6
15
14
42
5
6
0,01
159
M.A. Pelagatti et al.
Pertanto, di fronte ad ogni paziente per il quale si sospetta una febbre
periodica, il calcolo dello score (facilmente eseguibile al sito www.
printo.it/periodicfever) permette di individuare il grado di rischio di
essere portatore di una mutazione. Secondo quanto descritto i pazienti ad alto rischio dovrebbero essere sottoposti ad analisi genetica, scegliendo il gene da analizzare sulla base di alcuni parametri
clinici (etnia, durata degli episodi febbrili, presenza di splenomegalia e/o vomito) (Fig. 2). I pazienti a basso rischio dovrebbero invece
essere seguiti longitudinalmente per valutare l’eventuale comparsa di nuove manifestazioni cliniche o la tendenza alla risoluzione
spontanea degli episodi febbrili, come spesso si osserva nei pazienti
PFAPA geneticamente negativi (Fig. 2). Uno studio ancora più recente ha confermato l’utilità dello Score Diagnostico nel distinguere, tra
i bambini che soddisfano i criteri PFAPA, i soggetti geneticamente
positivi da quelli negativi (Caorsi, 2008). Dal punto di vista pratico
appare pertanto proponibile avviare ad indagine genetica solo i pazienti con un fenotipo PFAPA ad alto rischio allo score diagnostico.
Al contrario, i pazienti con fenotipo PFAPA a basso rischio possono
essere diagnosticati come tali senza bisogno di escludere le altre
forme periodiche monogeniche tramite l’analisi genetica.
disfacente alla terapia profilattica con cimetidina (Thomas, 1999),
anche se tale dato non è stato successivamente confermati, neanche dalla recente analisi del registro internazionale per la PFAPA
riportata da M. Hofer (Losanna, CH) nel corso dell’ultimo Congresso
Internazionale sulle sindromi Autoinfiammatorie (Hofer, 2008).
Recentemente è stata riportata la risposta di 9 pazienti al trattamento continuativo con Colchicina (Tasher, 2008). I pazienti selezionati
presentavano un numero di episodi febbrili superiore a 2 al mese e
sono stati trattati con un dosaggio tra 0.5 e 1 mg per un periodo di
6-48 mesi. Il trattamento con colchicina ha indotto un significativo aumento dell’intervallo libero da episodi nella maggior parte dei
pazienti (8 su 9), passando da una media di un episodio ogni 1,7
settimane nel periodo pre-trattamento a 8,4 settimane nel follow-up
(Tasher, 2008). Come per altri studi, l’estrema esiguità della casistica e l’assenza di una randomizzazione non ha permesso di evitare
il bias più rilevante in questo tipo di studi sulla PFAPA che è legato
alla normale tendenza alla riduzione spontanea della frequenza degli
episodi nel corso del tempo. Ancor più anedottica la segnalazione di
una soddisfacente risposta alla talidomide in un paziente di 22 anni
con una lunga storia di episodi febbrili ricorrenti (Marque, 2007). La
scarsa maneggevolezza di questo farmaco legato al potenziale teratogeno ed il rischio di effetti collaterali per l’uso prolungato, come
la neuropatia periferica, sembra tuttavia limitare significativamente
l’effettiva utilità di questo approccio terapeutico.
Nel corso degli ultimi anni una serie di studi ha cercato di analizzare l’utilità della tonsillectomia nella PFAPA, con risultati abbastanza
discordanti (Dahn, 2000; Galanakis, 2002; Parikh, 2003; Licameli,
2008; Wong, 2008). Tale variabilità è verosimilmente legata all’esiguità delle casistiche riportate, alla scarsa omogeneità delle casistiche studiate e dalla difficoltà di poter discriminare il risultato dell’intervento dalla naturale tendenza alla risoluzione spontanea della
malattia (Leong, 2006).
In questo senso, recentemente è stato riportato da Renko e collaboratori il primo studio randomizzato che ha coinvolto 26 pazienti PFAPA
(Renko, 2007). Quattordici pazienti sono stati sottoposti ad intervento di tonsillectomia, risultando tutti liberi da sintomi dopo 6 mesi di
follow-up; dei 12 pazienti restanti, non sottoposti a chirurgia, solo 6
risultavano in remissione al follow-up. Pur con gli evidenti limiti legati
all’esiguità del follow-up successivo all’intervento, e qualche dubbio
sollevato in merito alla corretta caratterizzazione dei pazienti (Hofer,
2008), questo studio ha il merito di cercare di affrontare con metodo
scientifico il difficile argomento della valutatone oggettiva dei possibili
provvedimenti terapeutici nei pazienti affetti da PFAPA.
Principali novità terapeutiche per la PFAPA
Conclusioni e prospettive per il futuro
I pazienti PFAPA mostrano una drammatica risposta alla terapia steroidea per os, con pronta risoluzione dei sintomi anche in seguito
ad una mono-somministrazione del farmaco. Tale provvedimento,
previa attenta esclusione di episodi infettivi intercorrenti, rappresenta pertanto il trattamento di scelta, tanto da indurre alcuni Autori
a proporre di introdurre la pronta risposta allo steroide tra i criteri
clinici suggestivi di PFAPA.
L’osservazione di possibili fenomeni di rebound (riavvicinamento
degli episodi febbrili, aumento progressivo della dose minima di steroide efficace) e la mancanza di dati relativi alla persistenza dell’efficacia a lungo termine del trattamento con steroide all’occorrenza
hanno aperto l’interesse sull’eventuale efficacia di trattamenti di
fondo in grado di ridurre la frequenza e l’intensità degli episodi febbrili. Alcuni lavori avevano in passato evidenziato una risposta sod-
L’identificazione di un nuove forme di febbre periodiche di natura
genetica ha evidenziato la necessità di dover distinguere queste
ultime malattie dalla forma “idiopatica” costituita dalla PFAPA. Lo
score diagnostico recentemente messo a punto si è rilevato utile nel
distinguere i pazienti con più alta probabilità di essere portatori di
mutazioni dei geni responsabili di febbre periodica su base genetica
e si propone come un utile strumento evidence-based per razionalizzare il ricorso all’analisi molecolare e per la più precisa identificazione dei soggetti PFAPA su basi cliniche. Il miglioramento della
definizione diagnostica delle varie forme di febbre periodica potrà
permettere uno studio più accurato della storia naturale della PFAPA
e la messa a punto di studi in grado di analizzare adeguatamente la
reale efficacia dei possibili trattamenti proposti per ridurre l’impatto
della malattia sulla qualità di vita dei pazienti affetti.
Figura 2.
Proposta di flow-chart diagnostica nei pazienti con febbre periodica
(Gattorno, 2008). Lo score diagnostico può essere facilmente calcolato
sul sito www.printo.it/periodicfever, inserendo l’età di esordio, la presenza di familiarità e la frequenza nei diversi episodi di lesioni aftose al
cavo arale, dolore addominale, diarrea e dolore toracico.
160
La sindrome PFAPA 20 anni dopo: quando diagnosticarla, come trattarla?
Box di orientamento
Cosa si sapeva ieri
La definizione clinica della sindrome PFAPA risale a circa 20 anni or sono. I quel periodo non erano ancora noti i difetti molecolari responsabili delle
forme di febbre periodica che riconoscono una precisa eziologia molecolare. Il primo gene (MEFV) responsabile della Febbre familiare Mediterranea è
stato infatti individuato nel 1997.
Cosa si sa oggi
I criteri diagnostici attualmente in uso per la PFAPA si sono dimostrati scarsamente utili nel differenziare i pazienti PFAPA da quelli affetti dalle febbri
periodiche geneticamente determinate. L’analisi delle manifestazioni cliniche associate agli episodi febbrili in una ampia casistica di bambini con febbre
periodica ha permesso di mettere a punto uno score diagnostico in grado di identificare i soggetti a maggior rischio di essere portatori di una forma di
febbre periodica su base genetica.
Cosa ci attendiamo nel futuro
L’utilizzo dello score diagnostico permetterà una razionalizzazione dell’impiego dell’analisi molecolare e una più puntuale classificazione dei soggetti
con febbre periodica. La possibilità di disporre di casistiche più omogenee faciliterà l’esecuzione di studi clinici controllati in grado di valutare la storia
naturale della malattia, il reale impatto sulla qualità di vita e l’efficacia dei trattamenti proposti.
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Corrispondenza
dott. Marco Gattorno, U.O. Pediatria II, Istituto G. Gaslini, largo G. Gaslini 5, 16147 Genova. Tel. +39 010 5636793. E-mail: [email protected]
161
Luglio-Settembre
2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 162-166
Frontiere
reumatologia
La sindrome da antifosfolipidi
Sergio Davì, Sara Dalprà, Sara Verazza, Angelo Ravelli
Dipartimento di Scienze Pediatriche G. De Toni, Università di Genova e Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico
G. Gaslini, Genova
Riassunto
La sindrome da antifosfolipidi (SAF) è una causa importante di trombosi vascolare in età pediatrica. Questa condizione è caratterizzata dalla presenza di
anticorpi antifosfolipidi (aFL) circolanti, i più comuni dei quali sono l’anticoagulante lupico, gli anticorpi anticardiolipina e gli anticorpi anti-β2 glicoproteina
I. Con l’ovvia eccezione della morbilità gravidica, la maggior parte delle manifestazioni cliniche della SAF osservate in pazienti adulti sono state anche
descritte nei bambini e negli adolescenti con la sindrome. La sede più frequente di trombosi venosa è rappresentata dalle vene profonde degli arti inferiori
inferiori, mentre le trombosi arteriose coinvolgono principalmente le arterie cerebrali. Oltre alle occlusioni vascolari, la cui correlazione con gli aFL è ben
definita, i pazienti con la SAF possono presentare manifestazioni non-trombotiche, come livedo reticularis, corea, malattia valvolare cardiaca, ischemia
cerebrale transitoria, mielite traversa, emicrania, anemia emolitica e piastrinopenia, che non sono, tuttavia, universalmente accettate come componenti
della sindrome. Numerosi studi hanno dimostrato che la trombosi associata agli aFL tende a recidivare. Vi è quindi ampio consenso circa l’opportunità di
sottoporre i pazienti con SAF a profilassi antitrombotica per prevenire le ricorrenze. La durata e l’intensità di questo trattamento non sono, tuttavia, stabilite.
Poiché la SAF è rara in età pediatrica, non esistono studi terapeutici controllati. La terapia è, quindi, basata sui dati ottenuti nei pazienti adulti. Recenti trial
randomizzati hanno suggerito che la terapia con warfarin mirata a raggiungere un INR compreso tra 2,0 e 3,0 conferisca una protezione adeguata nei
soggetti con trombosi associata agli aFL.
Summary
Antiphospholipid syndrome (APS) is a leading cause of vascular thrombosis in the pediatric age. This syndrome is characterized by the presence of circulating antiphospholipid antibodies, namely the lupus anticoagulant, the anticardiolipin antibodies, and the anti- β2 glycoprotein I antibodies. With the obvious
exception of pregnant morbidity, most of the clinical features that may occur in adults with APS have been described also in children. The deep veins of
the lower limbs represent the most common site of venous thrombosis, whereas arterial thombosis is observed most commonly in the cerebral arteries.
Beside vascular occlusions, whose relationship with aPL is well established, patients with APS may develop several non-thombotic clinical manifestations,
including livedo reticularis, chorea, cardiac valve disease, transient cerebral ischemia, transverse myelitis, migraine, hemolytic anemia, and throbocytopenia. However, these clinical manifestations are not universally recognized as component of the syndrome. A number of studies have shown that aPLrelated thrombosis tends to recur. There is, therefore, consensus about the need to give these patients anti-thombotic prophylaxis to prevent recurrences.
The intensity and duration of this treatment are not established, however. Because APS is rare in childhood, no therapeutic studies exist. Management is,
therefore, guided by information obtained in adult patients. Recent randomized, controlled trials have suggested that warfarin administered with a target
INR of 2.0 to 3.0 confer an adequate protection in patients with aPL-associated thrombosis.
Introduzione
Metodologia della ricerca bibliografica
La sindrome da antifosfolipidi (SAF) è una condizione autoimmune sistemica caratterizzata dall’associazione di trombosi venose
o arteriose e aborti ricorrenti con la presenza in circolo di anticorpi antifosfolipidi (aPL), in particolare dell’anticoagulante lupico
(LAC) e degli anticorpi anticardiolipina (aCL) (Harris et al., 2003;
Levine et al., 2002). Questa sindrome può svilupparsi isolatamente
oppure manifestarsi in associazione con una malattia sistemica,
soprattutto con il lupus eritematoso sistemico (LES). La prima descrizione della SAF in età pediatrica risale al 1979. Negli anni più
recenti la SAF è stata descritta con frequenza crescente in bambini
e adolescenti (Avcin, 2008; Cimaz et al., 2006; Ravelli et al., 1994;
Ravelli et al., 2007). Tuttavia, fino a poco tempo fa le informazioni disponibili su questa sindrome in ambito pediatrico derivano
in massima parte da segnalazioni singole o da casistiche esigue.
Recentemente è stato creato un registro multinazionale di pazienti
pediatrici con SAF, che ha consentito di analizzare le caratteristiche di questa condizione in un ampio gruppo di pazienti (Avcin et
al., 2008).
In questo articolo vengono illustrate le caratteristiche principali della
SAF in età pediatrica e viene discusso l’approccio terapeutico alla
trombosi correlata agli aPL nel bambino.
La ricerca degli articoli rilevanti sulla sindrome da antifosfolipidi in età
pediatrica è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline utilizzando come motore di ricerca PubMed e come parole chiave “Antiphospholipid syndrome and children” e “Antiphospholpid antibodies
and children”. Gli articoli citati sono stati selezionati sulla base della
loro rilevanza per l’argomento. Sono stati, inoltre, inclusi gli articoli generali più importanti sulla sindrome da antifosfolipidi conosciuti dagli
autori. La descrizione degli approcci terapeutici è stata basata principalmente sulle evidenze fornite da trial controllati e randomizzati.
162
Gli anticorpi antifosfolipidi
Gli aPL sono il marker sierologico centrale della SAF (Bertolaccini et
al., 2006; Wilson et al., 1999) e costituiscono un gruppo eterogeneo
di anticorpi con caratteristiche patogenetiche differenti. Gli aPL più
strettamente associati con le manifestazioni cliniche della SAF sono
quelli che interagiscono prevalentemente con le proteine seriche
che legano i fosfolipidi (in passato definiti “cofattori”), piuttosto che
con i fosfolipidi di per sé. Le più comuni di queste proteine sono la
β2-glicoproteina I (β2-GPI) e la protrombina. Oltre a questi anticorpi, ne esistono altri che si legano direttamente ai fosfolipidi. Questi
La sindrome da antifosfolipidi
anticorpi compaiono in genere in pazienti con infezioni, come la sifilide, la mononucleosi infettiva o l’HIV o a seguito della esposizione a
particolari farmaci e non sono in genere patogeni.
Gli aPL più comuni sono il LAC, gli aPL e gli anti-β2-GPI. Il LAC è determinato attraverso la dimostrazione di un allungamento del tempo di
coagulazione con test funzionali, mentre gli aCL e gli anti-β2-GPI sono
identificati con metodiche ELISA. Relativamente alle manifestazioni cliniche della SAF, il LAC ha maggiore specificità, mentre gli aCL sono più
sensibili. L’isotipo IgG di entrambi gli anticorpi ha specificità superiore
rispetto agli isotipi IgM e le IgA. I pazienti con SAF presentano a volte la
cosiddetta falsa positività dei test standard per la sifilide, che valutano
la capacità degli aPL di precipitare un antigene, ad esempio la VDRL,
contenente una miscela di cardiolipina, fosfatidilcolina e colesterolo.
Criteri di classificazione e aspetti diagnostici
Nel 1998 sono stati proposti dei criteri diagnostici della SAF (cosiddetti criteri di Sapporo) (Wilson et al., 1999). Questi criteri sono stati
aggiornati nel 2005 a Sydney (Myakis et al., 2006) (Tab. I). Sebbene
questi criteri diagnostici siano stati proposti per assicurare il corretto
inserimento dei pazienti con SAF negli studi di ricerca e nei trial clinici,
essi vengono utilizzati nella pratica clinica come guida diagnostica in
singoli pazienti. Esistono, tuttavia, pazienti con probabile SAF che non
soddisfano i criteri, in quanto presentano manifestazioni cliniche e di
laboratorio, come livedo reticularis, corea, malattia valvolare cardiaca, ischemia cerebrale transitoria, mielite traversa, emicrania, anemia
emolitica e piastrinopenia, che non sono universalmente accettate
come componenti della sindrome (Cervera et al., 2002). Rispetto ai
criteri di Sapporo, i criteri di Sydney riconoscono l’importanza di alcune di queste manifestazioni cliniche per la diagnosi di SAF, anche
se non per l’inclusione dei pazienti nei trial clinici. Inoltre, i criteri del
2005 hanno sostituito la denominazione di SAF primaria e secondaria
con quella di SAF associata o non associata a una malattia reumatica
e hanno riconosciuto come condizioni separate la SAF catastrofica a la
presenza isolata di aPL in assenza di sintomatologia clinica.
Sul piano pratico, la ricerca degli aPL deve essere considerata nei
bambini e negli adolescenti che presentano trombosi arteriosa o
venosa di natura non determinata, soprattutto in caso di episodi
ricorrenti (Tab. II). Analogamente, l’insorgenza di trombocitopenia,
anemia emolitica, corea, livedo reticularis e di un prolungamento
del tempo di tromboplastina parziale di eziologia non chiara deve
indurre a determinare gli aPL.
Meccanismi patogenetici
Nonostante la stretta associazione tra gli aPL e l’insorgenza di trombosi, i meccanismi responsabili della formazione del trombo vascolare
in vivo non sono stati ancora elucidati. I meccanismi fisiopatologici ad
oggi considerati possono essere suddivisi in almeno 4 gruppi principali (Espinosa et al., 2003): 1) interferenza degli aPL con la funzione
delle proteine leganti i fosfolipidi coinvolte nella cascata coagulativa,
con conseguente induzione di uno stato pro-coagulante; 2) attivazione delle cellule endoteliali, con aumentata espressione di molecole
di adesione e ipersecrezione di citochine e prostaglandine ad azione
pro-coagulativa; 3) danno endoteliale ossidativo, secondario all’attivazione macrofagica mediata dalle lipoproteine ossidate a bassa densità; 4) attivazione piastrinica, con conseguente accresciuta adesione
delle piastrine o aumentata sintesi di trombossano. Studi in modelli
animali hanno, inoltre, suggerito che peptidi virali o batterici possano
indurre la produzione di aPL patogeni attraverso un meccanismo di
mimetismo molecolare. Gli effetti degli aPL sulle cellule endoteliali, sui
monociti e sulle piastrine sono schematizzati nella Figura 1.
Indipendentemente dal meccanismo patogenetico, è presumibile
che altri fattori svolgano un ruolo determinante nell’indurre lo sviluppo di trombosi nei pazienti con aPL. In effetti, la maggior parte dei
pazienti con livelli persistentemente elevati di questi anticorpi non
sviluppano trombosi. È pertanto necessario un secondo fattore perché si sviluppi la trombosi (Giron-Gonzalez et al., 2004; Hudson et
al., 2003). Ad esempio, molti altri fattori pro-trombotici come il fumo,
la pillola contraccettiva, l’obesità, l’ipertensione e l’aterosclerosi,
possono aumentare il rischio di trombosi nei soggetti aPL-positivi.
Manifestazioni cliniche
Con l’ovvia eccezione della morbilità gravidica, la maggior parte
delle manifestazioni cliniche descritte nei pazienti adulti con SAF
Tabella I.
Criteri diagnostici della sindrome da antifosfolipidi.
Criteri clinici
1. Trombosi vascolare: uno o più episodi clinici di trombosi vascolare arteriosa, venosa o dei piccoli vasi in qualunque organo o tessuto.
2. Patologia gravidica:
a) uno o più morti fetali con feto morfologicamente normale alla decima settimana di gestazione o successivamente, oppure
b) uno o più parti prematuri con neonato morfologicamente normale alla 34a settimana di gravidanza o prima, a causa di severa pre-eclampsia
o eclampsia oppure di severa insufficienza placentare, oppure
c) tre o più aborti spontanei e di origine non determinata prima della decima settimana di gestazione, in assenza di anomalie materne ormonali
o anatomiche o di patologie cromosomiche paterne o materne.
Criteri di laboratorio
1. Anticorpi anticardiolipina di classe IgG e/o IgM a titolo intermedio o elevato nel siero o nel plasma (ad esempio, oltre 40 unità fosfolipidiche G o M oppure a titolo superiore al 99° centile), presenti in due o più occasioni a distanza di almeno 12 settimane, determinati con un metodo ELISA standardizzato
per gli anticorpi anticardiolipina β2-glicoproteina I-dipendenti.
2. Anticoagulante lupico presente nel plasma in due o più occasioni a distanza di almeno 12 settimane, dimostrato secondo le linee guida della International Society on Thrombosis and Hemostasis (Scientific Subcommittee on Lupus Anticoagulant/Phospholipid-Dependent Antibodies).
3. Anticorpi anti β2-glicoproteina I di classe IgG e/o IgM nel siero o nel plasma (a titolo superiore al 99° centile), presenti in due o più occasioni a distanza
di almeno 12 settimane, determinati con un metodo ELISA standardizzato, in accordo con le procedure suggerite.
La diagnosi di sindrome da antifosfolipidi viene posta in presenza di almeno un criterio clinico e di almeno un criterio di laboratorio.
163
S. Davì et al.
Tabella II.
Diagnostica differenziale della trombosi vascolare associata agli
anticorpi antifosfolipidi.
Presenza del fattore V di Leiden (resistenza alla proteina C attivata)
Deficienza di proteina C
Deficienza di proteina S
principalmente le arterie cerebrali. Gli aPL più frequentemente riscontrati sono stati gli aCL (81% dei casi), seguiti dal LAC (72%)
e dagli anti-β2-GPI (67%). I pazienti con SAF primaria erano più
giovani e avevano una frequenza più elevata di eventi trombotici
arteriosi, mentre quelli con SAF associata ad una malattia sistemica
avevano età maggiore e presentavano più comunemente trombosi
venose associate a manifestazioni ematologiche e cutanee.
Deficienza di antitrombina III
Iper-omocisteinemia
Mutazione della protrombina (G20210A) nel 3’ non tradotto del RNA
messaggero
Sindrome nefrosica
Assunzione di contraccettivi orali
Malattie mieloproliferative
Sindrome di Behçet
Vasculite sistemiche
Trombosi da eparina
sono state osservate anche nei bambini con questa sindrome. I
fenomeni trombotici possono virtualmente colpire qualunque distretto arterioso e venoso e produrre un ampio spettro di sintomi
clinici (Tab. III).
Allo scopo di descrivere le caratteristiche cliniche della SAF in età
pediatrica, è stato recentemente istituito un registro internazionale
(Avcin et al., 2008). A tutto il 2007, questo registro ha raccolto 121
casi pediatrici di SAF provenienti da 14 paesi. La maggior parte di
questi pazienti erano di sesso femminile (54%) e l’età media all’esordio della SAF era di 10,7 anni (1,0-17,9 anni). La metà circa
dei pazienti (49,5%) aveva una malattia sistemica autoimmune, più
frequentemente il LES. Il 60% dei pazienti ha presentato trombosi
venosa, il 32% trombosi arteriosa, il 6% trombosi dei piccoli vasi
e il 2% trombosi mista, arteriosa e venosa. La sede più frequente
di trombosi venosa è stata rappresentata dalle vene profonde delle estremità inferiori, mentre le trombosi arteriose hanno coinvolto
Sindrome antifosfolipidica catastrofica
Nei pazienti con SAF gli episodi trombotici insorgono di solito singolarmente e le recidive compaiono in genere a distanza di mesi o anni
dall’evento iniziale. Sono stati, tuttavia, descritti casi occasionali di
SAF nei quali la sindrome si è manifestata in maniera acuta e devastante, con l’insorgenza di occlusioni vascolari simultanee e multiple
in numerosi distretti dell’organismo. In questa condizione, denominata SAF catastrofica (Asherson et al., 2003), gli eventi trombotici
tendono a colpire più raramente i grandi vasi, mentre si manifestano
soprattutto con una microangiopatia acuta che colpisce i piccoli vasi
di organi multipli. Il rene rappresenta l’organo più frequentemente
coinvolto, seguito dal polmone, dal sistema nervoso centrale, dal
cuore e dalla cute. La SAF catastrofica ha mortalità elevata, dell’ordine del 50%. Sono stati descritti numerosi eventi precipitanti della
SAF catastrofica, come infezioni, procedure chirurgiche, neoplasie,
riaccensioni di LES, brusca interruzione della terapia anticoagulante
e terapia contraccettiva.
SAF neonatale
È stato dimostrato che nelle donne in gravidanza che presentano
aPL, questi anticorpi possono attraversare la barriera placentare ed
essere ritrovati nel sangue del neonato, dove permangono per circa
6 mesi, per poi scomparire (Avcin, 2008; Ravelli et al., 2007). Ciò
nonostante, la trombosi neonatale, secondaria al passaggio transplacentare di aPL, rappresenta un evento eccezionale. Sono stati,
comunque, riportati di recente casi di trombosi vascolari in neonati
Figura 1.
Effetto degli anticorpi antifosfolipidi sulle
cellule endoteliali, sui monociti e sulle piastrine.
164
La sindrome da antifosfolipidi
Tabella III.
Principali sedi di trombosi vascolari nella sindrome da antifosfolipidi.
Vasi sanguigni colpiti
Manifestazioni cliniche
Circolo venoso
• Vene degli arti
Trombosi profonda
Trombosi superficiale
• Grandi vasi venosi
Trombosi della vena cava superiore
o inferiore
• Vene polmonari
Embolia polmonare
Ipertensione polmonare
• Vene cutanee
Livedo reticularis
• Vene cerebrali
Trombosi dei seni venosi cerebrali
• Vene epatiche
- Grandi vasi venosi
Sindrome di Budd-Chiari
- Piccoli vasi venosi
Epatomegalia, elevazione degli enzimi epatici
• Vene oculari
Trombosi della vena retinica
• Ghiandole surrenali
Malattia di Addison
Circolo arterioso
• Arterie cerebrali
Infarto cerebrale, attacchi ischemici transitori
• Arterie renali
- Grandi vasi arteriosi
Trombosi dell’arteria renale
- Piccoli vasi arteriosi
Microangiopatia trombotica
• Arterie degli arti
Ischemia, gangrena
• Arterie coronarie
Infarto miocardico
• Arterie epatiche
Infarto epatico
• Arterie intestinali
Trombosi dell’arteria mesenterica
di madri aPL-positive. Non è tuttavia chiaro se gli anticorpi trasmessi
al neonato abbiano avuto un ruolo primario dell’indurre la trombosi
oppure abbiano semplicemente rappresentato un secondo fattore
pro-trombotico capace di facilitare lo sviluppo di trombosi in neonati
esposti ad altri fattori di rischio, come il posizionamento di un catetere ombelicale. È stato recentemente stabilito, nel contesto dell’European APL Forum, un registro internazionale volto a raccogliere casi
di trombosi neonatale associati alla presenza di aPL nella madre
(Boffa et al., 2004).
Terapia della SAF
Soggetti asintomatici con positività degli aPL
Sia gli aCL che il LAC possono essere ritrovati in bambini che non
presentano alcuna evidenza di malattia (Avcin, 2008; Ravelli et al.,
2007). Si tratta in genere di anticorpi a basso titolo, correlati a pregresse infezioni o vaccinazioni. Poiché questi anticorpi sono spesso
transitori, la loro positività deve essere sempre verificata con determinazioni successive alla risoluzione dell’infezione.
Nonostante l’associazione tra la presenza di aPL e lo sviluppo di
trombosi sia chiaramente stabilita, la maggior parte dei soggetti in
cui viene scoperta casualmente la presenza di aPL non va incontro fenomeni trombotici. L’indicazione alla profilassi antitrombotica nei soggetti che mostrano persistente positività degli aPL, ma
non hanno mai avuto trombosi, è controversa, in quanto il rischio
trombotico in questi casi non è noto (Alarcon-Segovia et al., 2003;
Harris et al., 1991). Alcuni non ritengono necessaria alcuna profilassi, mentre altri preferiscono somministrare una terapia antiaggregante con aspirina a basse dosi. Il quesito verrà probabilmente
chiarito dagli studi controllati ad ampio raggio attualmente in corso. L’idrossiclorochina, che possiede una qualche attività anticoagulante, può essere utile nei pazienti con LES e positività degli aPL
a scopo preventivo.
Poiché i soggetti pediatrici sono esposti in misura minore rispetto agli adulti ai fattori pro-trombotici concomitanti sopra citati,
è presumibile che il rischio di trombosi nei bambini aPL-positivi
asintomatici sia molto più basso che negli adulti. In questi bambini è tuttavia necessario monitorare con attenzione l’esposizione
ad altri fattori pro-trombotici che possono aumentare il rischio di
trombosi. L’esecuzione di una profilassi eparinica dovrà, ad esempio, essere considerata in caso di immobilizzazione prolungata
o intervento chirurgico, o in presenza di un’altra anomalia della
coagulazione. Gli adolescenti aPL-positivi devono essere informati
circa la necessità di evitare altre situazioni di rischio, come il fumo
o la pillola contraccettiva.
Non è ancora chiaro se i bambini aPL-positivi che non hanno avuto
trombosi, ma presentano altre manifestazioni cliniche, come livedo reticularis, piastrinopenia, anemia emolitica, corea, vegetazioni
valvolari cardiache o disturbi cognitivi, debbano essere sottoposti a
profilassi anticoagulante.
Pazienti aPL-positivi con trombosi
La terapia della trombosi vascolare nei pazienti con SAF è simile a
quella dei pazienti con trombosi dovuta ad altre cause. Il trattamento
con steroidi a dosaggio elevato, ciclofosfamide e plasmaferesi volto a
ridurre il livello degli aPL circolanti, assieme alla terapia anticoagulante, è indicato soltanto nelle situazioni più drammatiche, come la SAF
catastrofica. In questa condizione sono stati recentemente riportati risultati favorevoli con l’uso del rituximab. In altre istanze, il trattamento
immunosoppressivo non è indicato, in quanto gli aPL ritornano rapidamente al livello iniziale dopo la sospensione della terapia. Inoltre,
questi farmaci non sono in grado di prevenire le recidive trombotiche.
Numerosi studi retrospettivi nell’adulto hanno dimostrato chiaramente che la trombosi associata agli aPL tende a recidivare. Vi
è quindi ampio consenso circa l’opportunità di sottoporre questi
pazienti a profilassi antitrombotica per prevenire le ricorrenze
trombotiche (Khamashta et al., 1995). La durata e l’intensità di
questo trattamento non sono, tuttavia, stabilite e sono controverse.
Gli studi più recenti, randomizzati e controllati, hanno suggerito
che la terapia con warfarin mirata a raggiungere un INR compreso
tra 2.0 e 3.0 conferisca una protezione adeguata nei soggetti che
non abbiano avuto precedenti recidive di trombosi durante trattamento con anticoagulanti orali (Crowther et al., 2003; Finazzi et
al., 2003). Sebbene non esistano dati specifici per l’età pediatrica,
l’approccio attuale alla trombosi aPL-correlata nel bambino si rifà
agli schemi dell’adulto. Rimangono tuttavia numerosi quesiti ancora irrisolti: non è, ad esempio, ancora stabilito se la trombosi
arteriosa e venosa richiedano la stessa intensità di trattamento
anticoagulante, se e quando la profilassi con warfarin possa essere sospesa e se i pazienti che sviluppano trombosi in associazione
ad altri fattori di rischio debbano essere trattati diversamente da
quelli che non hanno altri fattori di rischio al di fuori degli aPL.
Inoltre, il trattamento ottimale dei pazienti che presentano ricorrenze di trombosi nonostante la terapia anticoagulante a intensità
elevata è tuttora ignoto.
165
S. Davì et al.
Box di orientamento
Che cosa di sapeva prima
Fino a pochi anni fa la possibile associazione tra lo sviluppo di trombosi e la presenza di anticorpi antifosfolipidi circolanti era poco nota in età pediatrica.
Conseguentemente, la determinazione di questi anticorpi veniva raramente inclusa nell’iter diagnostico dei bambini e degli adolescenti che presentavano un’occlusione vascolare di eziologia non determinata. Inoltre, l’approccio terapeutico ai pazienti con questa sindrome non era stabilito.
Cosa sappiamo adesso
Negli anni più recenti vi è stato un considerevole aumento delle segnalazioni di casi di sindrome di antifosfolipidi in età pediatrica. Poiché diverse
indagini in pazienti adulti hanno dimostrato che la trombosi associata agli anticorpi anti-fosfolipidi tende a recidivare, vi è ampio consenso circa la
necessità di sottoporre i bambini con questa condizione a profilassi anticoagulante a lungo termine. La durata ottimale di questa profilassi e la sua
intensità non sono, tuttavia, definite. Analogamente, non è ancora chiaro se i pazienti con anticorpi antifosfolipidi circolanti che non hanno mai avuto
trombosi richiedano un trattamento preventivo antiaggregante o anticoagulante.
Quali sono le ricadute sulla pratica clinica
La sindrome da antifosfolipidi è una causa importante di trombosi vascolare in età pediatrica. È quindi necessario inserire la determinazione degli
anticorpi antifosfolipidi nell’iter diagnostico dei bambini e degli adolescenti che presentino trombosi vascolare di natura non determinata. I pazienti con
trombosi vascolare associata agli anticorpi anti-fosfolipidi devono essere sottoposti per un tempo indefinito a profilassi antitrombotica per prevenire le
ricorrenze. Una protezione adeguata può essere ottenuta somministrando warfarin a dosaggio sufficiente a mantenere un INR compreso tra 2.0 e 3.0.
Poiché l’approccio ottimale ai pazienti con anticorpi antifosfolipidi circolanti che non hanno mai avuto trombosi non è stabilito, non possono ad oggi
essere fornite raccomandazioni circa l’opportunità di sottoporre questi soggetti a profilassi antiaggregante o a nessun trattamento.
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** Questa review fornisce una descrizione dettagliata di tutti gli aspetti della
sindrome da antifosfolipidi in età pediatrica. Viene in particolare analizzata nel
dettagli la sindrome da antifosfolipid neonatale ed è dedicato molto spazio alla
descrizione delle manifestazioni cliniche non trombotiche della sindrome.
Avcin T, Cimaz R, Silverman ED, et al. Pediatric antiphospholipid syndrome: clinical and immunologic features of 121 patients in an international registry. Pediatrics 2008;122:e1100-7.
** Questo studio riporta i risultati dell’analisi dei casi pediatrici di sindrome da antifosfolipidi raccolti nel contesto del primo registro internazionale di questa condizione.
Vengono descritte la caratteristiche cliniche, la frequenza dei diversi anticorpi antifosfolipidi, le differenze tra la sindrome primaria e secondaria, le scelte terapeutiche
compiute dai diversi centro e l’evoluzione a lungo termine nei 121 pazienti raccolti.
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* Questo lavoro riporta la descrizione delle manifestazioni cliniche e delle caratteristiche immunologiche in un’ampia popolazione di pazienti con sindrome da antifosfolipidi. Viene anche effettuato un confronto tra pazienti adulti e pazienti pediatrici.
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* Questo trial terapeutico randomizzato in doppio cieco condotto in pazienti con
pregressa trombosi associata a positività degli anticorpi anti-fosfolipidi ha portato a stabilire che il trattamento con warfarin a dosaggio sufficiente a mantenere
l’INR tra 2,0 e 3,0 è appropriato nei pazienti con questa condizione.
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* Questa review descrive nel dettaglio le ipotesi principali circa I meccanismo
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** Questo lavoro riporta la revisione più recente dei criteri diagnostici della sindrome da antifosfolipidi.
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** Questa review fornisce una descrizione dettagliata delle manifestazioni cliniche
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* Questo lavoro riporta i cosiddetti criteri di Sapporo, che rappresentano i criteri
diagnostici originari della sindrome da antifosfolipidi. Questi criteri sono stati
recentemente aggiornati (vedi voce bibliografica 25).
Corrispondenza
prof. Angelo Ravelli, Pediatria II, Istituto G. Gaslini, largo G. Gaslini 5, 16147 Genova. Tel. +39 010 5636386. Fax +39 010 5636211. E-mail: [email protected]
166
Luglio-Settembre 2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 167-171
FRONTIERE
Frontiere
Genome-wide array nella pratica clinica:
certezze e dubbi
Orsetta Zuffardi* **, Annalisa Vetro*
*
Genetica Medica, Università di Pavia; **Fondazione IRCCS Casimiro Mondino, Pavia
Riassunto
L’analisi dell’intero genoma (sia mediante array-CGH che SNP-array) fa ormai parte del percorso diagnostico di molte malattie, in primis del ritardo mentale idiopatico. L’approccio metodologico di questa tecnologia è lo stesso della citogenetica convenzionale nel senso che, con un unico esperimento, si analizza l’intero
genoma ma la risoluzione è enormemente più alta. Inoltre con questa tecnologia non solo si identificano sbilanciamenti genomici di dimensioni inferiori al limite
di risoluzione del cariotipo ma si ottengono immediate informazioni su quali siano i geni contenuti nella regione deleta o duplicata. Tuttavia, il vecchio principio
secondo cui uno sbilanciamento cromosomico, specie se de novo, è la causa del fenotipo anomalo non può essere totalmente utilizzato nell’interpretazione del
cariotipo molecolare. Infatti ciascuno di noi presenta variazioni del numero di copie di regioni genomiche (delezioni e duplicazioni) di dimensioni varianti da 1 kb
a qualche Mb apparentemente prive di effetti fenotipici. Questo fatto e l’inattesa frequenza di sbilanciamenti associati a dominanza incompleta può complicare
l’interpretazione finale dei dati sperimentali.
Summary
The analysis of the entire genome through array (both array-CGH and SNP-array) is now part of the diagnostic flow-chart of many diseases, first at all of
idiopathic mental retardation. The approach of this technology is the same of conventional cytogenetics, involving the analysis of the entire genome, but
the resolution is extremely higher. As a consequence, genome-wide array (also known as molecular karyotype or cytogenetic-array) is not only able to
reveal imbalances (deletions or duplications) of genomic regions smaller than 5-10 Mb, that is the resolution limit of conventional cytogenetics, but it is
also able to identify which genes are contained within the deletion/duplication region. Among these genes, those dosage-sensitive should be responsible
for the patient’s phenotype. However, the old principle that a visible chromosomal imbalance, particularly when de novo, can be assumed to be the cause
of a child’s mental retardation or developmental abnormalities, cannot be immediately applied to the interpretation of molecular karyotype. In fact, each of
us has copy number variations (deletions or duplications usually 1 kb to 1 Mb) that do not appear to have any evident effect on the phenotype. This finding
and the unexpected high frequency of incomplete penetrance can complicate the final interpretation of the experimental results.
Introduzione
Variazioni genomiche “benigne” del numero di copie
L’analisi del genoma tramite array genomici, siano essi array-CGH (CNP: copy number polymorphisms)
(Comparative Genomic Hybridization) o SNP-array (Single Nucleotide
Polymorphism), è ormai entrata nella flow chart diagnostica di diverse
patologie, in primis del ritardo mentale idiopatico. L’approccio è quello
della citogenetica convenzionale e cioè l’analisi dell’intero genoma,
ma la risoluzione è enormemente più alta. Ne consegue che l’analisi genome-wide array (da qui in poi “cariotipo molecolare” o “array
citogenetici”) non solo permette di evidenziare sbilanci (delezioni o
duplicazioni) di regioni genomiche al di sotto delle fatidiche 5-10 Mb,
considerate il limite di risoluzione della citogenetica, ma permette anche di identificare quali sono i geni contenuti nella regione sbilanciata.
Fra questi, quelli sensibili al dosaggio dovrebbero essere alla base
del fenotipo del paziente. Tuttavia, il principio che ha guidato i clinici
nell’interpretazione delle correlazioni genotipo-fenotipo delle anomalie citogenetiche, e cioè che uno sbilancio visibile citogeneticamente,
specie se de novo, è la causa del ritardo psicomotorio o mentale del
paziente, non può essere esteso sic et simpliciter all’interpretazione
del cariotipo molecolare. Infatti ciascuno di noi, individui normali o
ritenuti tali, presenta una serie delezioni, duplicazioni o amplificazioni per diverse regioni genomiche. Il dato inatteso che una parte
del nostro genoma non è diploide pur senza apparenti conseguenze
fenotipiche, comporta che nell’interpretazione degli array citogenetici
occorra filtrare gli sbilanci noti come benigni. Tuttavia una serie di problematiche può comunque complicare l’interpretazioni del cariotipo
molecolare rendendo talvolta il referto finale di dubbio valore circa la
patogenicità degli sbilanci identificati.
Si tratta di delezioni e duplicazioni di sequenze genomiche con dimensioni da 1 kb a qualche Mb che costituiscono i maggiori responsabili
della diversità genetica e fenotipica nell’uomo. I CNP sono spesso in
stati allelici multipli (alcuni variano da zero a più di 10 copie) e contengono geni coinvolti, fra l’altro, nell’immunità, nella percezione sensoriale, nella risposta ai farmaci. Queste variazioni sono reperibili in
uno specifico database (Database of Genomic Variants, http://projects.
tcag.ca/variation/) che raccoglie tutte le variazioni strutturali maggiori
di 1 kb identificate in campioni di controllo sani e dà informazioni sulla presenza di varianti genomiche comuni nella regione di interesse.
Tuttavia è importante sottolineare che al momento attuale 1) non è
possibile escludere che la variante in studio sia un fattore di suscettibilità per una qualche patologia in un certo campione di pazienti e 2)
la mancanza di varianti nella regione genomica in studio non significa
necessariamente che in quella regione non vi siano varianti comuni.
Altri studi di popolazione sono necessari per completare la lista delle varianti comuni e occorreranno diversi anni prima di definire quali
varianti agiscono come fattori di suscettibilità per certe malattie e in
quali condizioni di numero di copie. Inoltre, dal momento che il database è stato costruito utilizzando dati provenienti da studi di popolazione effettuati con piattaforme sia di sonde a BAC (80-200 kb) che
a oligomeri (poche decine di paia di basi), alcune regioni considerate
varianti attraverso i BAC possono rappresentare dei falsi positivi nel
senso che solo una parte della regione coperta dal BAC è effettivamente variante (Fig. 1). In generale, le regioni identificate come va-
167
O. Zuffardi, A. Vetro
Figura 1.
Esempio di un polimorfismo per numero di copie (CNP) riportato nel
Database of Genomic Variants. Fra 95 individui normali (Sample Size)
il BAC RP11-129E3 (in verde nella figura) è stato trovato duplicato in 2
(Observed Gain) e deleto in uno solo (Observed Loss). Il BAC sottende
il gene SOX9, che in aploinsufficienza è responsabile di nanismo campomelico. L’esempio dimostra come il BAC, delle dimensioni di 200
kb (vedi Genomic Position) non possa essere una variante di popolazione per tutta la sua dimensione, in quanto l’unico individuo riportato
dal database con la delezione non presenta nanismo campomelico ma
appartiene alla popolazione di controllo. In questo esempio la reale dimensione del polimorfismo è stata quindi sovrastimata.
rianti in studi diversi sono quelle più credibili, mentre quelle trovate
in un singolo studio sono da considerare come estremamente rare o
comunque con maggiore cautela.
Ciascuno di noi ha in media di 3-7 varianti genomiche, per una media totale di 540 kb (0,02% del genoma). Il 5-10% degli individui
sani ha nel suo genoma una variante di dimensioni maggiori alle 500
kb e l’1-2% una variante di più di 1 Mb. Come regola generale, tanto
maggiore è la densità genica e la taglia della variante quanto più
essa è rara nella popolazione (Itsara et al., 2009). Rimane comunque
il fatto che l’attuale paucità di dati sulle varianti rare crea non pochi
problemi nell’interpretazione degli array citogenetici.
Interpretazione delle variazioni del numero di copie (CNV)
La valutazione di delezioni/duplicazioni (CNV) non presenti nel database delle varianti richiede quasi sempre l‘estensione dell’indagine
ai genitori.
CNV de novo
Se la CNV risulta de novo è molto probabile che abbia un significato
clinico. Infatti il 99% delle varianti benigne è risultato essere ereditato (McCarrol et al., 2008). Quindi la probabilità che la variante
de novo sia un polimorfismo raro è estremamente bassa. Occorre
tuttavia tener presente la possibilità di non paternità, per cui varianti
apparentemente de novo potrebbero invece essere presenti nel padre biologico. Se la CNV ricopre regioni già riportate in associazione
alla sindrome del paziente l’interpretazione è immediata, mentre,
se non è mai stata precedentemente descritta e non è riportata nei
principali database di correlazione fra sbilanci genomici e relativi fenotipi (DECIPHER, ECARUCA), occorre valutarne il contenuto genico
mediante consultazione di database genomici (Ensembl o UCSC). In
alcuni casi questo approccio permette di identificare geni plausibilmente correlabili con la patologia del paziente, sulla base della loro
168
espressione tissutale o del loro ruolo in pathway biologici già noti.
Più spesso, l’attuale mancanza di dati su quali geni siano sensibili
al dosaggio impedisce tali correlazioni e occorre aspettare che altri
laboratori raccolgano casi simili. Questo evidentemente implica che,
ai fini di una buona diagnostica, il laboratorio faccia parte di una
rete internazionale di contatti con i gruppi che operano in questo
settore.
Un altro problema interpretativo è posto da quelle delezioni/duplicazioni che interessano regioni genomiche prive di geni (desert
regions). Si stanno infatti moltiplicando gli esempi che dimostrano
come l’espressione di molti geni dipenda da sequenze di DNA localizzate anche parecchie kb a monte o a valle del gene stesso.
La perdita o la duplicazione di tali regioni, pur prive di sequenza
codificante, altera di fatto i livelli di espressione genica e può risultare in sintomatologie parzialmente o totalmente sovrapponibili a
quelle date dalla mutazione del gene. Un esempio calzante è quello
di delezioni a monte o a valle del gene SOX9 (Benko et al., 2009) che
possono risultare nella sequenza Pierre Robin (micrognatia e palatoschisi), mentre le mutazioni di SOX9 sono associate a nanismo campomelico, caratterizzato fra l’altro da micrognatia e palatoschisi.
CNV ereditate da un genitore non affetto
Sebbene inizialmente ci sia stata una tendenza a sottovalutare queste situazioni e la delezione/duplicazione ereditata venisse ritenuta
una variante benigna rara, attualmente l’approccio è quello di considerare due possibilità: 1) oltre alla CNV ereditata, il paziente ha
la mutazione di un gene compreso nella regione di delezione sul
cromosoma omologo. Questa situazione crea quindi una patologia
autosomica recessiva nel probando con un genitore deleto e l’altro
mutato per il gene-malattia, oppure 2) la CNV ha una penetranza
incompleta e/o un’espressività variabile. Sebbene la prima possibilità sembri un’evenienza rara, non pochi lavori hanno riportato
questa situazione (si vedano ad esempio: Lesnik Oberstein et al.,
2006; Balikova et al., 2009; van Kullenberg et al., 2009). Per quanto
riguarda la penetranza incompleta, un esempio pregnante è dato
dalla sindrome di TAR (trombocitopenia ipomegacariocitica e aplasia
radiale bilaterale). In 30 pazienti con la patologia de novo è stata
identificata una microdelezione di 200 kb in 1q21.1. L’analisi dei
genitori non affetti ha identificato la stessa delezione nel 75%, mentre nel 25% dei casi essa risultava de novo (Klopocki et al., 2007).
Inoltre la delezione risultava assente in una coorte di 700 individui
di controllo. Questo dato indica che la delezione (o meglio l’aploinsufficienza per uno dei geni nella regione di delezione) è necessaria
ma non sufficiente al manifestarsi della sindrome. Dal momento che
il tipo di eredità della sindrome non si accorda né con una modalità
autosomica recessiva né con imprinting genomico, appare verosimile una situazione oligogenica come osservato per la sindrome
di Bardet-Biedl (Katsanis, 2004). Gli esempi di sbilanci associati a
penetranza incompleta/espressività variabile sono sempre più numerosi (del/dup1q21.1, Brunetti-Pierri et al., 2008 e Mefford et al.,
2008; dup7q11.23, Torniero et al., 2008; del/dup15q13, van Bon et
al., 2009; del16p11.2, Weiss et al., 2008) tanto da considerare questa situazione uno dei fattori di maggior impatto nell’interpretazione
dell’analisi e nella consulenza genetica.
L’importanza di un’interpretazione coordinata fra il medico
e il laboratorio
Nell’interpretazione dei dati degli array citogenetici, può capitare che
il laboratorista nell’analizzare il contenuto genico di una CNV vi trovi
dei geni che in dosaggio alterato si associano ad una sindrome non ri-
Genome-wide array nella pratica clinica: certezze e dubbi
conosciuta come tale dal medico richiedente, che ne aveva segnalato
solo alcuni aspetti patologici più affini alla propria branca specialistica.
Ad esempio, l’epilettologo può inviare ad analisi un paziente con epilessia e ritardo mentale; l’identificazione di una delezione in 2q22.3
che comprenda fra gli altri il gene ZEB2 orienterà verso la sindrome
di Mowat-Wilson e, grazie all’interazione fra medico e laboratorio, si
valuterà la presenza nel paziente di altri sintomi precedentemente
sottovalutati (stitichezza, dismorfismi facciali caratteristici). Si parla in
questo caso di “reverse genetics”. Quest’approccio, lungi dallo sminuire le capacità diagnostiche del medico, è fondamentale per chiarire
le basi molecolari di fenotipi complessi, dove gli effetti patogenetici
dello sbilancio di uno specifico gene possono essere complicati dalla
concomitante delezione/duplicazione di più geni.
È quindi importante che ciascun risultato di laboratorio venga sempre discusso con il medico richiedente prima di essere comunicato
al paziente.
La consulenza genetica
Nel caso di CNV de novo, dal momento che l’array non vede riarrangiamenti bilanciati, occorre escludere che il genitore abbia un’inserzione della regione deleta/duplicata nel probando su un alro cromosoma. Allo scopo, è opportuno analizzare le metafasi dei genitori
tramite FISH con sonde della regione deleta/duplicata per escludere
questa possibilità. Il rischio di ricorrenza in caso di inserzione è ovviamente alto. Inoltre, laddove il risultato dell’analisi evidenzi una
traslocazione sbilanciata, occorre effettuare l’indagine citogenetica
dei genitori per valutare se uno dei due sia portatore del corrispondente riarrangiamento bilanciato.
Un problema legato all’indagine genome-wide array riguarda la possibilità di evidenziare CNV responsabili di malattie a esordio tardivo e
non correlate al motivo dell’analisi.
Aspetti tecnici
Un problema spesso dibattuto riguarda quale sia la migliore piattaforma per l’analisi del cariotipo molecolare. La maggior controversia
è se siano più adatte le piattaforme a BAC o quelle a oligomeri e
quale sia la risoluzione ideale.
La differenza sostanziale fra le due piattaforme di array genomici
consiste nella lunghezza delle sonde utilizzate. Negli array a BAC
(Bacterial Artificial Chromosomes) si tratta di grossi inserti genomici (fra le 80 e le 200 kb) che, pur garantendo una buona specificità di ibridazione con il DNA bersaglio, mancano di precisione
nella definizione molecolare della taglia della CNV, sovrastimando
la dimensione dello sbilancio. Inoltre, considerando che CNV più
piccole della dimensione della sonda non sono ovviamente identificabili, il limite di risoluzione non può comunque essere inferiore a
circa 80 kb, anche utilizzando piattaforme a BAC con alta copertura
(tiling-path). Nelle piattaforme ad oligomeri ad alta densità, invece, la sonda ha dimensioni notevolmente ridotte (nelle più diffuse
60 basi), permettendo una migliore definizione molecolare dello
sbilancio. La minore specificità della sonda corta viene superata
ponendo come soglia per l’identificazione della CNV un minimo di
più sonde consecutive che risultino omogeneamente delete/duplicate. Questo espediente permette di identificare CNV di dimensioni
molto inferiori alle 80 kb e di ridurre il numero di falsi positivi.
Inoltre le piattaforme ad oligomeri sono in genere più flessibili ed
è possibile, in molti casi, servirsi di un disegno personalizzato per
investigare a maggior risoluzione (fino a poche centinaia di paia di
basi) specifiche regioni genomiche.
Fra le piattaforme a oligomeri l’utilizzo di array-CGH anziché di SNP
array dipende dall’esperienza dei singoli laboratori. L’array-CGH è più
sensibile nell’identificare variazione del numero di copie, mentre gli
SNP-array compensano a questa mancanza fornendo informazioni
aggiuntive ad esempio su eventuali regioni di disomia uniparentale.
L’utilizzo di array a BAC a risoluzione non superiore alle 500 kb impedisce sia di identificare sbilanci causativi di piccole dimensioni
che di effettuare precise correlazioni genotipo-fenotipo, vanificando
lo scopo primario di queste tecniche. È auspicabile che, nell’approccio al paziente con ritardo mentale idiopatico o autismo, si arrivi ad
un accordo nella comunità scientifica per l’utilizzo di piattaforme
con risoluzione non inferiore a 10-20 kb, con lo stesso principio che
ha portato negli anni passati ad analizzare questi pazienti con cariotipo a risoluzione non inferiore alle 500 bande (Curry et al.,1997). Va
invece considerato ormai completamente superato l’approccio con
piattaforme di array “targeted”, nelle quali cioè vengono coperte da
sonde (a BAC o ad oligomeri) soltanto discrete regioni genomiche,
già note per essere associate a sindromi da microdelezione/duplicazione. Queste piattaforme, che avevano inizialmente incontrato il
favore di molti laboratori specialmente negli Stati Uniti, impediscono
l’identificazione di CNVs in regioni inattese e andrebbero continuamente aggiornate per coprire regioni di delezione/duplicazione associate alle nuove sindromi che si stanno via via delineando. Sono
state quindi in gran parte sostituite da piattaforme che oltre a regioni
genomiche attese coprono anche le altre regioni del genoma eventualmente ad una risoluzione più bassa.
Una volta identificato uno sbilancio genomico, esso viene in genere
confermato o ripetendo l’analisi o con metodiche indipendenti. Va
comunque sottolineato che la probabilità che l’analisi genome-wide
array generi dei falsi positivi diminuisce con l’aumentare della dimensione dello sbilancio e che i sistemi di controllo di qualità forniti
dai software di analisi sono molto efficaci ad indicare la bontà e la
qualità dell’esperimento.
Nuove Sindromi identificate mediante genome-wide
array
Negli ultimi anni un’intensa collaborazione fra vari laboratori con
grande esperienza nel campo degli array genomici ha permesso di
definire un numero crescente di nuove sindromi da microdelezione/
duplicazione, generalmente note come disordini genomici.
Ne elenchiamo di seguito solo due fra quelle finora meglio descritte
e con penetranza completa.
Sindrome da microdelezione 17q21.31
Ne sono riportati oltre trenta casi. La prevalenza stimata della sindrome è di 1:16,000 nati e la sua incidenza nel ritardo mentale
idiopatico dello 0,64%. La sindrome è attualmente riconoscibile
sulla base di alcuni tratti caratteristici. In tutti i casi la regione di
delezione si estende per circa 480 kb e contiene 6 geni. Si tratta
infatti di un riarrangiamento ricorrente nella popolazione, in quanto
la delezione è mediata da duplicazioni segmentali altamente omologhe mediante un meccanismo noto come ricombinazione omologa non allelica (NAHR). La delezione è sempre de novo e in tutti
i casi esaminati si è sempre verificata alla meiosi di un genitore
portatore di un comune polimorfismo di inversione di 900 kb in
17q21.31. Tale polimorfismo sembra quindi il fattore necessario
per il verificarsi della delezione. Le caratteristiche cliniche, ampiamente definite da Koolen et al. (2008) comprendono ritardo dello
sviluppo, ipotonia, una facies piuttosto tipica, e un comportamento
particolarmente socievole.
169
O. Zuffardi, A. Vetro
Sindrome da duplicazione di Xq28
Ne sono riportati oltre cinquanta casi. Questa duplicazione è presente
nel 2% dei maschi con encefalopatia grave, probabilmente causata
dall’alterato dosaggio del gene MECP2. Come noto, mutazioni di questo
gene si associano alla sindrome di Rett nelle femmine. Le duplicazioni
riportate, che non hanno punti di rottura ricorrenti, variano da 200 kb
a qualche Mb e possono comprendere oltre a MECP2 altri geni. Nella
maggior parte dei casi sono compresi nella regione duplicata i due
geni fiancheggianti MECP2: FLNA e IRAK1. Si ritiene la pseudostruzione
intestinale e le infezioni gravi e ricorrenti, spesso riportate in questi
pazienti siano associate alla duplicazione di questi due geni. Questo
riarrangiamento può essere presente nella stessa famiglia in femmine
non affette. Per una più precisa descrizione della sintomatologia, si vedano Clayton-Smith et al. (2009) e Lugtenberg et al. (2009).
Oltre all’identificazione di nuove sindromi, l’applicazione di genomewide array in grossi campioni di pazienti con autismo e schizofrenia
ha inoltre portato a identificare numerose CNV associate ad un rischio
aumentato di malattia. Questi studi hanno permesso di identificare geni
di suscettibilità, molti dei quali responsabili della corretta morfologia e
funzione delle sinapsi (Glessner et al., 2009; Need et al., 2009).
Quando richiedere l’analisi genome-wide array;
prima o dopo l’analisi cromosomica?
L’analisi genome-wide è spesso richiesta in quei casi in cui il quadro
fenotipico del paziente è fortemente evocativo di un’anomalia cromosomica ma il cariotipo è risultato normale. Di fatto questo approccio è
limitante rispetto alle potenzialità della tecnica e sempre più numerosi
sono gli esempi di microdelezioni/duplicazioni associate ad anomalie
fenotipiche lievi. Ad esempio in una donna di 22 anni con disprassia
verbale che aveva avuto uno sviluppo psicomotorio leggermente ritardato (caso 1 in De Gregori et al. 2007), è stata identificata una delezione de novo di circa 8 Mb in 7q22.3-q31.1 contenente, fra gli altri, il
gene FOXP2 la cui aploinsufficienza è causa di disordini del linguaggio.
Quindi in generale, quest’indagine andrebbe richiesta non soltanto con
i criteri con i quali si richiede l’indagine citogenetica ma ogni qualvolta
il clinico si trovi di fronte a situazioni non inquadrabili come sindromi
cromosomiche o mendeliane. Dal punto di vista costi-benefici sarebbe
forse più corretto richiedere l’array genomico in prima battuta anche
se la maggior diffusione dell’analisi citogenetica convenzionale rende
attualmente poco verosimile questo approccio. Va anche notato che
l’array genomico non vede i riarrangiamenti bilanciati quindi non va
utilizzato in coppie con infertilità o aborti ripetuti nelle quali si possono
trovare traslocazioni reciproche o robertsoniane.
Lo studio genome-wide di riarrangiamenti
identificati mediante citogenetica convenzionale
ha rilevato dati inattesi
Figura 2.
Il paziente F.G., con ritardo mentale ed epilessia, è risultato portatore di una traslocazione reciproca de novo tra il cromosoma 2 e
il cromosoma 7 (vedi cariotipo a sinistra). Il profilo del cromosoma
2 dopo analisi mediante array-CGH alla risoluzione di circa 20 kb
(array 244K, Agilent) mostra una delezione in 2q22.3q23.1 di circa 1,13 Mb. L’aploinsufficienza per il gene MBD5 contenuto nella
regione di delezione è primariamente responsabile del fenotipo del
paziente, come dimostrato da casi simili in letteratura. L’ingrandimento a destra mostra anche i geni contenuti nella regione di
delezione.
la sua conseguente aploinsufficienza, 3) disomia uniparentale per uno
dei cromosomi traslocati se questo contiene geni imprinted. Vari studi
mediante genome-wide array hanno dimostrato che almeno il 40%
di questi riarrangiamenti non è realmente bilanciato ma si associa a
perdita di materiale sia a livello dei punti di rottura della traslocazione
che altrove nel genoma (Fig. 2) (De Gregori et al., 2007; Baptista et al.,
2008). In tutti i casi di traslocazioni de novo apparentemente bilanciate, sia associate ad anomalie fenotipiche che identificate in diagnosi
prenatale, occorre quindi vagliare l’eventuale presenza di delezioni
tramite genome-wide array. In diagnosi prenatale il rischio residuo di
anomalie fenotipiche causate dalla traslocazione per i casi negativi al
cariotipo molecolare è quindi poco maggiore del 3%.
I cromosomi ad anello presentano talvolta duplicazioni
genomiche associate alle delezioni attese
Sebbene si sia da sempre ritenuto che le anomalie fenotipiche associate ai cromosomi ad anello fossero dovute a perdita di materiale
ad uno o ambedue le estremità dell’anello, l’analisi mediante array
genomici di un campione di pazienti con cromosomi ad anello ha
dimostrato che nel 20% di essi oltre alla delezione è presente una
duplicazione contigua. Questo dato va tenuto presente per associazioni genotipo-fenotipo (Rossi et al., 2008).
Il cariotipo molecolare può rilevare anomalie
Fin dal 1991 Warburton aveva evidenziato che il 6,1% dei soggetti cromosomiche in mosaico
Le traslocazioni reciproche associate a fenotipi anomali
portatori di traslocazioni cromosomiche de novo apparentemente bilanciate presentano fenotipo anomalo (ritardo mentale di vario grado
e anomalie congenite). L’effetto patogenetico di tali riarrangiamenti
potrebbe essere dovuto a: 1) perdita di materiale genetico conseguente al formarsi della traslocazione, 2) rottura di un gene sensibile al
dosaggio in corrispondenza dei punti di rottura della traslocazione e
170
Il mosaicismo cromosomico è sempre stato citato come possibile
causa di ritardo mentale idiopatico sebbene la frequenza di questa situazione sia poco nota a parte che nella sindrome di Pallister-Killian
dove l’isocromosoma 12p soprannumerario è presente nei fibroblasti
cutanei piuttosto che nei linfociti. Vari lavori in passato hanno suggerito
l’importanza di estendere l’indagine del cariotipo a tessuti diversi dai
Genome-wide array nella pratica clinica: certezze e dubbi
linfociti periferici in pazienti con asimmetria corporea e/o anomalie della pigmentazione (Curry et al., 1997). Il cariotipo molecolare potrebbe
superare alcuni problemi di selezione delle cellule normali rispetto a
quelle aneuploidi in quanto non richiede la coltura della cellule. Di fatto
molti recenti lavori dimostrano che la presenza dell’isocromosoma 12p
viene facilmente rilevata mediante array genomici anche su cellule da
sangue non coltivate (Theisen et al., 2009). La soglia di rilevamento
del mosaicismo mediante array genomici varia nei diversi laboratori.
In generale si può assumere che il mosaicimo è sospettabile anche
al di sotto del 30% se la regione deleta/duplicata è sufficientemente
grande. Ad esempio trisomie di interi cromosomi sono più facilmente
sospettabili rispetto a regioni di dimensioni sotto ad 1 Mb.
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ECARUCA - http://agserver01.azn.nl:8080/ecaruca/ecaruca.jsp
DECIPHER - https://decipher.sanger.ac.uk/application/
Corrispondenza
prof.ssa Orsetta Zuffardi, Genetica Medica, via Forlanini 14, 27100 Pavia. E-mail: [email protected]
171
Luglio-Settembre 2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 172-176
Focus su:
Lo stato della ricerca pediatrica in Italia
Ignazio Barberi, Lucia Marseglia
U.O.C. Terapia Intensiva Neonatale, Dipartimento di Scienze Pediatriche Mediche e Chirurgiche, Policlinico “G. Martino”,
Università di Messina
Riassunto
La ricerca scientifica in Italia soffre da sempre di una drammatica penuria di finanziamenti che minaccia di portare l’Italia fuori dal novero dei paesi
culturalmente avanzati. Nonostante abbia sottoscritto l’agenda di Lisbona dell’Unione Europea, con la quale gli Stati membri si impegnano a investire in
ricerca e sviluppo il 3% del prodotto interno lordo, l’Italia ha la percentuale di PIL dedicata alla ricerca tra le più basse dei paesi del G8. Le principali fonti
di finanziamenti destinata alla ricerca in Italia provengono dal Ministero della Salute e dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR),
dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), dall’Unione Europea e da una quota irrisoria di investimenti da parte di enti privati. Per quanto concerne la ricerca
in ambito pediatrico qualità e quantità hanno sempre presentato un andamento altalenante. La Società Italiana di Pediatria ha inoltre organizzato un Osservatorio della ricerca pediatrica in Italia, coordinato dalla Commissione formazione e ricerca, con lo scopo di monitorare ogni anno lo “stato di salute” della
ricerca pediatrica italiana. Si tratta di un Database interattivo, con aggiornamento periodico, delle pubblicazioni (reperibili su PubMed) prodotte da Gruppi
italiani che hanno avuto un ruolo leader nella conduzione della ricerca italiana, sia clinica che di base, nei vari settori pertinenti alla pediatria, catalogate
per categorie specialistiche e per riviste. Nel periodo compreso tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2008 l’osservatorio ha reperito e catalogato 2064 articoli.
1022 (49,5%) sono frutto del lavoro di Ricercatori appartenenti ad istituzioni pediatriche, versus 1042 prodotti da ricercatori senza “affiliation” pediatrica.
L’osservatorio della ricerca pediatrica della SIP ha lo scopo di monitorare lo stato di salute della ricerca pediatrica “made in Italy” e di divulgare nell’ambiente pediatrico i risultati dell’attività scientifica dei gruppi di ricerca italiani. Sarebbe auspicabile un ruolo della SIP anche nell’azione di orientamento della
ricerca in direzione delle aree che presentano maggiori lacune di evidenze. Summary
Italian scientific research constantly suffers from a dramatic shortage (lack) of fundings that threatens to leave Italy far away from culturally advanced
countries. Although Italy subscribed the Lisbon’s agenda of the European Union, that commits all the member States to invest 3% of the Gross Domestic
Product (GDP) in research and progress, its GDP’s percentage earmarked for research is one of the lowest of G8 countries. In Italy, the main sources of
research fundings come from the Health Ministry, the Education and Research Ministry, the Italian Agency of Drugs, the European Union and, for the smallest part, from private organizations. Concerning pediatric research, its quality and quantity has always been fluctuating. The Italian Pediatric Society (SIP)
created an “Observatory” of the pediatric research in Italy, coordinated by the formation and research Commission, in order to monitor yearly the “health
state” of pediatric Italian research. It consists of a periodically updated interactive Database containing all the papers (available on PubMed) published by
Italian leader groups in clinical and basic research; all the papers are classified according to the specific field of research and to the publication journal.
Between January 1st and December 31st 2008, the Observatory found and catalogued 2064 articles. 1022 (49.5%) are from researchers affiliated to
pediatric institutions, while 1042 (50.5%) are from researchers with no pediatric affiliation. The Observatory of pediatric research of the SIP has the aim to
monitor the health state of pediatric research in Italy and to divulge the results of the scientific activity of Italian research groups. A role of the SIP could be
helpful also for directing the research in the fields with a more urgent need of investigations. Introduzione
Se “Scientia est potentia” grande problema degli Stati moderni è
come promuovere e allevare i migliori intelletti, favorirne la libera
attività e svilupparne la ricerca. E non è soltanto un problema di
investimenti, ma anche di regole, di educazione, di mentalità, e dunque di cultura.
La ricerca scientifica in italia
La ricerca scientifica in Italia, soffre da sempre di una drammatica
penuria di finanziamenti che, con l’acuirsi delle difficoltà economiche del paese, è diventata ormai insostenibile e minaccia di portare
l’Italia fuori dal novero dei paesi culturalmente avanzati (European
Commission, 2007). I ricercatori italiani sono pochissimi. Secondo
l’ormai famoso articolo pubblicato su Nature dall’inglese David King,
in Italia vi sono meno di 3 ricercatori per 1000 lavoratori attivi, mentre in Giappone ve ne sono 9, negli USA 8 e la media nell’Unione
Europea si attesta attorno a 6 (King, 2004). Si potrebbe affermare
che il numero non conta. Gli Enti di Ricerca Italiani vantano collaborazioni internazionali di altissimo livello e numerosi successi di
172
grande valore scientifico. Se si misura il valore dei ricercatori di un
paese dal numero delle citazioni che i loro lavori scientifici ricevono
nell’ambito di altri lavori scientifici, le citazioni delle pubblicazioni
dei ricercatori italiani, se normalizzate per il numero dei ricercatori
stessi, si collocano al settimo posto di una graduatoria internazionale, in una posizione migliore anche di quella del paese che viene
in genere considerato lo standard d’oro della ricerca (gli USA) o di
altri paesi di grande tradizione (Tab. I). L’alta qualità è testimoniata
dal livello di reclutamento di studenti e ricercatori italiani al di fuori
del nostro Paese: la “fuga dei cervelli”, triste fenomeno per il sistema università e ricerca, è anche, paradossalmente, prova della sua
apprezzata capacità formativa (Editorial. Nature Materials, 2004). Si
profila certa la perdita, per il sistema, di una intera generazione di
ricercatori attualmente precari in Italia: all’impossibilità pratica di
reclutamento nelle università e negli enti di ricerca si aggiungono la
drastica riduzione del turn-over nel triennio 2009-2012 e la cancellazione delle stabilizzazioni, con tempi strettissimi per eventuali assunzioni prima della eliminazione dei contratti a tempo determinato
(Ministero dell’Università e della Ricerca). Tutto ciò si pone in netto
contrasto con l’inesorabile invecchiamento della classe docente. Da
un recente documento del Comitato Nazionale per la valutazione del
Lo stato della ricerca pediatrica in Italia
Tabella I.
Distribuzione della produzione scientifica nelle 25 aree subspecialistiche.
Categoria
% del
totale
Senza
IF%
IF
0-2,5%
IF
2,6-5%
Pediatria generale, Neonatologia, perinatologia
13,22
40
28
32
Neurologia, Neuropsichiatria infantile, Psicologia
11,47
7
60
22
IF
5,1-10%
IF
10,1-20%
11
Endocrinologia Diabetologia
7,69
17
38
41
4
Ematologia Oncologia
7,58
12
45
41
4
Genetica, Malattie metaboliche
6,49
53
35
12
Cardiologia, Cardiochirurgia, Medicina vascolare
6,25
53
33
8
3
3
Gastroenterologia, Epatologia
4,88
12
46
23
4
15
Allergologia, Immunologia
4,80
12
24
44
20
Infettivologia
4,10
6
19
50
25
Nefrologia, Urologia
3,93
11
55
30
4
Chirurgia, Chirurgia pediatrica
3,81
14
86
Biochimica, Biologia, Fisiologia
2,98
37
21
42
Anestesia/rianimazione, Emergenze
2,73
60
40
Reumatologia
2,77
29
29
42
Trapianti
2,60
4
80
16
Farmacologia
2,39
45
44
11
Varie
2,19
60
20
20
Anatomia patologica
1,82
6
33
33
13
Pneumologia
1,74
12
62
13
13
Nutrizione
1,49
85
11
4
Otorinolaringoiatria
1,36
100
Diagnostica per immagini
1,24
83
17
Oculistica
0,45
50
50
Dermatologia
0,80
86
14
Ortopedia
0,12
100
sistema universitario emerge che, secondo le distribuzioni in funzione dell’età, entro il 2017 oltre il 50% degli attuali docenti/ricercatori
sarà collocato a riposo (Fig. 1) (Silos Labini et al., 2007; National
Research Council, 2007).
Ma un paese che non finanzia adeguatamente la ricerca è destinato
al declino, ed è ciò che sta accadendo ora in Italia. Nonostante nel
2000 abbia sottoscritto l’agenda di Lisbona dell’Unione Europea, con
Figura 1.
Età dei docenti universitari italiani ed europei.
15
la quale gli Stati membri si impegnano a investire in ricerca e sviluppo il 3% del prodotto interno lordo, l’Italia ha la percentuale di PIL
dedicata alla ricerca tra le più basse dei paesi del G8, raggiungendo
a malapena l’1,07% (meno della metà di quanto spendono Francia e
Germania) (Mannucci, 2005).
I finanziamenti alla ricerca scientifica
Le principali fonti di finanziamenti destinata alla ricerca in Italia
provengono dal Ministero della Salute e dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR), dall’Agenzia Italiana
del Farmaco (AIFA), dall’Unione Europea e da una quota irrisoria di
investimenti da parte di enti privati. La Commissione nazionale per
la ricerca sanitaria del Ministero della Salute stabilisce i criteri di
assegnazione dei fondi per la ricerca sanitaria previsti dalla Legge
Finanziaria (Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali). Tali fondi (in base all’art. 12 bis del decreto legislativo 502
del 1992 e successive modificazioni) sono riservati alle Regioni,
all’ Istituto Superiore di Sanità, all’ Istituto Superiore di Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro, all’Agenzia per i servizi sanitari regionali, agli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico e agli
Istituti zooprofilattici sperimentali. Gli altri enti di ricerca, comprese le Università, gli istituti privati e le imprese pubbliche e private,
possono concorrere alla realizzazione di tali progetti, ma solo sulla
173
I. Barberi, L. Marseglia
Tabella II.
Investimenti e prodotti della ricerca: confronto tra Italia ed altri paesi europei, ed USA.
Intensità di spesa in R&S
finanziata dallo Stato
Quota delle spese in R&D
universitarie finanziate
dalle imprese
Pubblicazioni per
Ricercatore Universitario
Pubblicazioni più citate
(top 1%) per ricercatore
Italia
0,51
3,8
5,8
0,06
Regno Unito
0,59
6,7
7,0
0,10
Francia
0,95
3,2
4,1
0,05
Germania
0,83
9,2
4,8
0,06
UE-15
0,69
6,1
4,6
0,04
Stati Uniti
0,85
5,7
6,8
0,13
(da King DA. The Scientific Impact of Nations. Nature 2004;430:311-6, mod.).
base di specifici accordi o convenzioni con i suddetti Destinatari
Istituzionali di tali finanziamenti.
In totale nella Finanziaria 2007 si è trattato di:
• 76 milioni di euro finalizzati al trasferimento di conoscenze
scientifiche tra laboratorio, clinica e innovazione nell’organizzazione dei servizi sanitari;
• 15 milioni di euro riservati ai giovani ricercatori “under 40”;
• 6 milioni di euro per la ricerca sulle cellule staminali;
• 6 milioni di euro per la ricerca nel campo della salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Tra i contributi del MIUR al sostegno della ricerca scientifica spiccano i finanziamenti annualmente assegnati ai Programmi di Ricerca di interesse nazionale (PRIN). I fondi riservati all’area medica
sono stati nel 2004 pari a 23.722.00 €, dei quali 761.000 € destinati a progetti di interesse pediatrico (3,2%); nel 2005 26.953.000
€ con 982.000 € (3,5%) di finanziamenti pediatrici; nel 2006, a
fronte di una riduzione del totale dei fondi stanziati per l’area medica (15.828.880 €) si è assistito ad un aumento della percentuale
(6,9%) assegnata ai gruppi di ricerca pediatrica (937.000 €). In
controtendenza nel 2007 tra i progetti finanziati, per un totale di
19.222.637 €, la percentuale assegnata ai progetti di interesse
pediatrico è stata solo del 2,3% (466.000 €) (Programmi di Ricerca
di interesse nazionale).
L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) è organismo di diritto pubblico
che opera sulla base degli indirizzi e della vigilanza del Ministero
della Salute. Tra gli obiettivi dell’AIFA si legge:
• “promuovere la conoscenza e la cultura sul farmaco e la raccolta e valutazione delle best practices internazionali”
• “favorire e premiare gli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&S)
in Italia …”
Figura 2.
Progetti di ricerca di interesse nazionale: percentuale dei finanziamenti
delle ricerche pediatriche sui totali.
174
In particolare l’AIFA ha costituito nel 2006, anticipando altre nazioni,
il Gruppo di lavoro sui farmaci per i bambini per garantire i bisogni
(e il diritto) dei bambini di disporre di farmaci efficaci, sicuri e utilizzati in modo razionale (AIFA). Attualmente solo il 30% dei medicinali
usati in pediatria in Europa hanno indicazioni pediatriche. Le ragioni di questa mancanza sono da cercarsi sia nella difficoltà etica e
complessità scientifica della ricerca in campo pediatrico, che nella
mancanza di convenienza economica, per le case farmaceutiche,
ad investire mezzi consistenti nella ricerca di farmaci con ristretto
mercato. A tale proposito è inquietante notare come, in tutto il mondo, meno del 15% di tutti i farmaci commercializzati e meno del
50% di quelli espressamente destinati al bambino vengano commercializzati sulla base di prove cliniche attestanti le specifiche caratteristiche di rischio/beneficio nel bambino. In Italia, in particolare,
nel 1997 i farmaci commercializzati sulla base di evidenze cliniche
dimostrate nel bambino erano solo 123, pari all’1,3% su un totale
di circa 10.000 farmaci commercializzati. Purtroppo la mancanza
di studi clinici pediatrici comporta che i farmaci vengano utilizzati
nel bambino ‘off-label’ ossia con dosaggi, indicazioni e formulazioni
non provati specificatamente per l’età pediatrica. È pertanto importante ricordare l’attività di promozione e finanziamento della ricerca
indipendente promossa e gestita dall’AIFA nel periodo 2005-2007:
anche questa un’iniziativa esclusiva a livello internazionale. In accordo con il mandato ricevuto, il Gruppo ha suggerito temi di ricerca ritenuti prioritari per l’area pediatrica con soddisfacente esito:
la “popolazione fragile” che comprende i bambini tra 0 e 18 anni è
oggetto di 36 studi approvati e finanziati, pari al 23,8% del totale dei
progetti finanziati dall’ AIFA.
L’impegno della SIP e il ruolo della Commissione
Formazione e Ricerca Per quanto concerne la ricerca in ambito pediatrico qualità e quantità hanno sempre presentato un andamento altalenante e la Società Italiana di Pediatria (SIP) è da sempre molto attenta a questo
aspetto. Al punto 1 dell’articolo 3 dello statuto si legge che “La SIP
persegue i seguenti obiettivi: a) promuovere la ricerca e la divulgazione scientifica in campo pediatrico.” Per tale motivo si è costituita
la Commissione Formazione e Ricerca.
La Società Italiana di Pediatria ha inoltre organizzato un Osservatorio della ricerca pediatrica in Italia, coordinato dalla Commissione
formazione e ricerca, con lo scopo di monitorare ogni anno lo “stato
di salute” della ricerca pediatrica italiana, in generale, nei vari settori specialistici e in relazione alla sua competitività internazionale
(SIP). L’Osservatorio ha l’obiettivo di diffondere le informazioni nella
Lo stato della ricerca pediatrica in Italia
comunità pediatrica nazionale per facilitare le collaborazioni e quindi
l’efficienza della ricerca e migliorare le possibilità di interazione per
l’acquisizione di finanziamenti nazionali ed internazionali. La raccolta delle informazioni avviene tramite parole chiave in database di
internet (per es. PubMed), per invio diretto di informazioni da parte
dei ricercatori, delle Società affiliate e dei Gruppi di studio. Si tratta
pertanto di un Database interattivo, con aggiornamento periodico,
delle pubblicazioni (reperibili su PubMed) prodotte da Gruppi italiani
che hanno avuto un ruolo leader nella conduzione della ricerca italiana, sia clinica che di base, nei vari settori pertinenti alla pediatria,
catalogate per categorie specialistiche e per riviste. Le informazioni
raccolte dall’Osservatorio sono reperibili sul sito internet della SIP,
nell’area riservata al’Osservatorio stesso. Annualmente, in occasione del Congresso Nazionale SIP, il Coordinatore della Commissione
Formazione e Ricerca espone il consuntivo del lavoro svolto dall’Osservatorio con lo scopo di effettuare un’analisi dell’andamento
della ricerca in campo pediatrico in Italia in termini sia qualitativi che
quantitativi e metterla a confronto con gli altri paesi europei. Nel periodo compreso tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2008 l’osservatorio
ha reperito e catalogato 2064 articoli. Le riviste indicizzate,con relativo impact factor (IF) riferito all’anno 2007 sono state circa 1000,
82 delle quale di esclusivo interesse pediatrico. I lavori sono stati
divisi in base all’ argomento trattato e alla rivista sulla quale erano
pubblicati in 25 categorie, di seguito elencate nella Tabella I con
relativa percentuale.
Andando a valutare le diverse categorie sulla base dell’IF si evince un netto contrasto: nonostante gli articoli inerenti argomenti di
Pediatria Generale e Neonatologia rappresentino numericamente la
percentuale più cospicua (13,22%), le riviste sulle quali sono pubblicati per circa il 40% non hanno IF, per il 30% circa hanno un IF inferiore a 2,5 e per il restante 20% hanno un IF compreso tra 2,5 e 5. È
infatti risaputo che la rivista pediatrica più prestigiosa, Pediatrics, ha
un Impact Factor di appena 4,473 (aggiornato al 2007).
L’area specialistica con il maggior numero di lavori pubblicati risulta essere la neurologia/neuropsichiatria (11,47% del totale degli
articoli pubblicati), seguita dall’endocrinologia/diabetologia (7,69%),
dall’ematologia/oncologia (7,58%), dalla genetica /malattie metaboliche (6,49%). Se, invece, si prende in considerazione l’impact factor
delle riviste, la gastroenterologia/ epatologia e l’anatomia patologica
sono le aree specialistiche con la maggiore percentuale di articoli
pubblicati con IF > di 10 (15%), seguite dall’endocrinologia/diabetologia e dall’ematologia/oncologia (4%).
Dei 2064 articoli prodotti, 1022 (49,5%) sono frutto del lavoro di
Ricercatori appartenenti ad istituzioni pediatriche (Fig. 3), vs. 1042
(50,5%) prodotti da ricercatori senza “affiliation” pediatrica. Se suddivisi per IF si evidenzia che dei 1022 lavori l’ 11% sono stati pubblicati su riviste senza IF, l’11% su riviste con IF compreso tra 0 e 1,
il 58% tra 1 e 3, il 13% tra 3 e 5, il 6% tra 5 e 10, l’1% dei lavori è
stato pubblicato su riviste con Impact Factor maggiore di 10.
Figura 3.
Divisione per Impact Factor delle pubblicazioni dei ricercatori “Pediatri”.
La provenienza di questi ricercatori con affiliation pediatrica è l’Università per il 60%, gli IRCSS per il 20%, l’Ospedale per il 16%.
Conclusioni
La Ricerca Italiana vanta un buon livello qualitativo riconosciuto senza riserve anche in ambito internazionale, ma i punti critici del sistema sono ben noti: dalla necessità di meritocrazia nel reclutamento
e progressione di carriera dei ricercatori e docenti che ha permesso
l’instaurarsi di un fenomeno di precariato cronico, all’utilizzo a volte
inappropriato delle (scarse) risorse.
In ambito pediatrico, risulta importante l’attività di promozione e finanziamento della ricerca promossa e gestita dall’AIFA. Nel biennio
2005-2007 circa un quarto dei progetti finanziati hanno riguardato
la popolazione pediatrica.
La ricerca di interesse pediatrico in Italia è per la metà diretta da ricercatori pediatri che sono per il circa 2/3 di afferenza universitaria,
ma è fondamentale la collaborazione e l’integrazione con la ricerca
di afferenza non pediatrica.
L’osservatorio della ricerca pediatrica della SIP ha lo scopo di monitorare lo stato di salute della ricerca pediatrica “made in Italy” e
di divulgare nell’ambiente pediatrico i risultati dell’attività scientifica
dei gruppi di ricerca italiani.
Sarebbe auspicabile un ruolo della SIP anche nell’azione di orientamento della ricerca in direzione delle aree che presentano maggiori
lacune di evidenze. Ciò è quanto intrapreso dall’European Medicines
Agency con la creazione di un elenco, il “Priority list”, di 25 aree
terapeutiche prioritarie nei bambini per le quali si ritiene necessario
condurre studi clinici (specificando su quali farmaci e per ottenere
quali precise informazioni).
Box di orientamento
L’Italia ha la percentuale di Prodotto Interno Lordo dedicata alla ricerca tra le più basse dei paesi del G8. Le principali fonti di finanziamenti destinata
alla ricerca in Italia provengono dallo stato con una quota irrisoria di investimenti da parte di privati.
Attualmente solo il 30% dei medicinali usati in pediatria in Europa hanno indicazioni pediatriche. È pertanto importante ricordare l’attività di promozione
e finanziamento della ricerca indipendente promossa e gestita dall’AIFA.
La Società Italiana di Pediatria (SIP) ha organizzato un Osservatorio della ricerca pediatrica in Italia con lo scopo di monitorare ogni anno lo “stato di
salute” della ricerca pediatrica italiana. I risultati sono pubblicati periodicamente sul sito della SIP con lo scopo di monitorare lo stato di salute della
ricerca pediatrica “made in Italy” e di divulgare nell’ambiente pediatrico i risultati dell’attività scientifica dei gruppi di ricerca italiani.
175
I. Barberi, L. Marseglia
Bibliografia
AIFA.http://www.agenziafarmaco.it/INFO_SPER_RIC/section7444.
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King DA. The Scientific Impact of Nations. Nature 2004; 430:311-6.
Editorial. Uncertain times for Italian Science. Nature Materials 2004;3:575.
European Commission, Remuneration of Researchers in the Public and Private
sectors, April 2007 (http://ec.europa.eu/euraxess/pdf/final_report.pdf).
Silos Labini F, Zapperi S. Reverse Age Discrimination. Nature Physics 2007;3:582-3.
Mannucci. Il futuro dell’Italia è la ricerca scientifica. Lancet, Edizione Italiana
2005;1:N. 3.
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Ministero dell’Università e della Ricerca, L’Università in cifre 2007. http://statistica.miur.it/
National Research Council, Statistics on Research and Innovation,ITALY, 2007
http://www2.ceris.cnr.it/ceris/scienza_e_tecnologia_in_cifre/2007/Statistics%
20on%20Research%20and%20Innovation%20-%20Italy.pdf
Piano Sanitario Nazionale 2006 - 2008. http://www.ministerosalute.it/dettaglio/
phPrimoPiano.jsp?id=316Programmi di Ricerca di interesse nazionale www
prin.miur.it
Società Italiana di Pediatria. http://www.sip.it/rp/index/atom/1145.
Corrispondenza
prof. Ignazio Barberi, UOC Patologia Neonatale e TIN, Policlinico Universitario “G. Martino”, via Consolare Valeria 1, 98125 Messina. E-mail: barberii@
unime.it
176
Luglio-Settembre 2009 • Vol. 39 • N. 155 • Pp. 177-192
LINEE GUIDA
La sincope in età pediatrica
Linea Guida a cura di:
SIP, SIMEUP, SICP, FMSI, AIAC, SIC Sport, FIMP, GSCP, GSMESPO, SINPIA, LICE, SINC, SINP
Società Italiana di Pediatria (SIP), Società Italiana di Medicina di Emergenza-Urgenza (SIMEUP), Società Italiana
di Cardiologia Pediatrica (SICP), Federazione Medico Sportiva Italiana (FMSI), Associazione Italiana Aritmologia
e Cardiostimolazione (AIAC), Società Italiana di Cardiologia dello Sport (SIC Sport), Federazione Italiana Medici
Pediatri (FIMP), Gruppo di Studio di Cardiologia Pediatrica della SIP (GSCP), Gruppo di Studio di Medicina Sportiva
della SIP (GSMESPO), Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA), Lega Italiana
Contro l’Epilessia (LICE), Gruppo di Studio di Neurofisiologia Clinica in età pediatrica della Società Italiana di
Neurofisiologia Clinica (SINC), Società Italiana di Neurologia Pediatrica (SINP)
Gruppo di Lavoro
U. Raucci1 (coordinatore), P. Di Pietro2, R. Longhi3, A. Palmieri2, M. Osti1, S. Scateni1, A. Tozzi1 (SIP); A. Reale1 (SIMEUP);
A. Rimini2 (SICP); F. Giada4 (FMSI); G. Foglia Manzillo5, G.M. Francese6 (AIAC); F. Ammirati7, F. Drago1 (SIC Sport); G. Semprini8 (FIMP); M. Campisi9, F. Rando10 (GSCP); U. Giordano1 (GSMESPO); P. Veggiotti11 (SINPIA);
F. Vigevano1 (LICE); M. Di Capua1, M.G. Natali-Sora 12 (SINC); S. Savasta13, A. Suppiej14 (SINP)
IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma; 2 IRCCS Ospedale G. Gaslini, Genova; 3 Azienda Ospedaliera
S. Anna, Como; 4 Ospedale Dell’Angelo, Mestre Venezia; 5 Ospedale Valduce, Como; 6 Ospedale Garibaldi-Nesina,
Catania; 7 Ospedale G.B. Grassi, Ostia Roma; 8 Pediatra di Famiglia, Genova; 9 Ospedale Ferrarotto, Catania; 10 Pediatra di Famiglia, Messina; 11 IRCCS Istituto Neurologico C. Mondino, Pavia; 12 IRCCS Ospedale S. Raffaele, Milano; 13 Fondazione IRCCS, Policlinico S. Matteo, Università di Pavia; 14 Dipartimento di Pediatria-Azienda Ospedale,
Università di Padova
1 Con la consulenza della Commissione Tecnica Linee Guida della SIP:
Coordinatore: R. Longhi
Componenti: M. Osti, A. Palma, S. Santucci, R. Sassi, A. Villani, R. Zanini
Definizioni
La sincope è definita come una forma di perdita di coscienza,
transitoria, con o senza prodromi, improvvisa, con incapacità a mantenere il tono posturale e con possibile caduta a terra, breve, con
risoluzione spontanea solitamente completa e rapida. Il meccanismo fisiopatologico è da ricercare, principalmente, in un’alterazione
della funzione cerebrale diffusa dovuta a ipoperfusione transitoria
globale 1-9. In alcuni soggetti, può essere preceduta da prodromi con
sintomi aspecifici quali scotomi, nausea, sudorazione, debolezza
muscolare, offuscamento del visus che rappresentano un avvertimento dell’incombente perdita di coscienza 3 4.
La pre-sincope è caratterizzata da una sensazione di malessere
con restringimento dello stato di coscienza tale che il soggetto percepisce l’incombenza della perdita di coscienza; i sintomi di solito
sono aspecifici (vertigini, astenia, offuscamento del visus, nausea,
difficoltà a mantenere la posizione eretta) e spesso si sovrappongono a quelli associati con la fase prodromica della sincope.
Il termine lipotimia, ancora talvolta impiegato nella terminologia
corrente, per indicare una breve, parziale compromissione dello stato
di coscienza, associata o meno a sintomi di probabile origine neurovegetativa è obsoleto, quindi da abolire dalla terminologia medica.
La perdita improvvisa della coscienza da episodio sincopale in età
pediatrica rappresenta ancora oggi un motivo di grande preoccupazione e ansia, non solo per i genitori e il bambino, ma anche per il
personale insegnante e gli operatori sanitari. La prima difficoltà gestionale è quella di differenziare la sincope “vera” da altre condizioni
simili, ma non causate necessariamente da ipoafflusso cerebrale
(epilessia, cefalea, disturbi metabolici, TIA vertebro-basilare, ipossia)
o con perdita di coscienza solo apparente (drop attacks, disturbi di
somatizzazione e/o conversione, iperventilazione psicogena, attacchi di panico, sindrome di Munchausen per procura) 1 4 8.
Scopo della Linea Guida
Lo scopo dell’elaborazione della Linea Guida (LG) è quello di pervenire
a un percorso clinico condiviso dai referenti nominati dalle Società
Scientifiche che hanno aderito al progetto e di fornire una sintesi di
raccomandazioni basate sull’evidenza. La LG non considera l’età neonatale ed è indirizzata ai soggetti di età superiore a 1 mese ed inferiore a 18 anni. Il gruppo di lavoro è costituito da figure professionali
con competenza pediatrica, cardiologica, aritmologica, neurologica,
neuropsichiatrica, neurofisiologica, epidemiologica. La mancanza di
LG dedicate esclusivamente all’età pediatrica è uno dei motivi che ha
condotto la Società Italiana di Pediatria (SIP) a scegliere tale sintomopatologia, poiché attualmente sono presenti solo LG orientate essen-
177
Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 65-70
zialmente alla gestione del soggetto adulto e nelle quali è dedicato un
breve spazio al soggetto in età pediatrica 1-5 10-13.
Il sistema ideale di gestione, oltre alla diagnosi differenziale tra le varie forme di perdita di coscienza transitoria, dovrebbe portare ad una
rapida stratificazione del paziente anche in età pediatrica, come già è
avvenuto per l’età adulta, in: pazienti a basso rischio, gestibili ambulatorialmente in tempi ordinari dal pediatra o dallo specialista; pazienti a
rischio intermedio, da gestire in tempi brevi in ambulatorio specialistico
o tramite osservazione breve in Dipartimenti di emergenza; pazienti a
rischio elevato, che necessitano di ricovero in urgenza, con l’esecuzione immediata di adeguate procedure diagnostiche e terapeutiche 14.
Destinatari
Pediatri, Cardiologi, Medici dello Sport, Neuropsichiatri, Neurologi e
altre figure professionali coinvolte nell’iter diagnostico della sincope.
Implementazione
a) Presentazione e discussione al Congresso Nazionale della SIP, delle
Società affiliate e delle Società Scientifiche che hanno aderito alla realizzazione della presente LG; b) Pubblicazione sul sito internet della SIP
e altri siti interessati; c) Pubblicazione su riviste scientifiche; d) Corsi di
formazione e aggiornamento (presentazione teorica pratica a gruppi di
discenti); e) Audit delle procedure d’implementazione delle LG a livello
locale con identificazione dei punti critici.
Valutazione di efficacia
Monitoraggio di indicatori specifici per la valutazione dell’efficacia
della LG:
• percentuale di pazienti con diagnosi di ingresso in PS di sincope
che eseguono ECG (target 100%);
• percentuale di pazienti con diagnosi di ingresso in PS di sincope
che eseguono misurazione della PA e FC (target 100%);
• percentuale di pazienti con diagnosi di ingresso in PS di sincope
che vengono inviati a ricovero (target < 30%);
• percentuale di pazienti con diagnosi di ingresso in PS di sincope
che eseguono esami ematochimici (target < 20%);
• percentuale di pazienti con diagnosi di sincope che eseguono il
Tilt Test (target < 20%);
• percentuale di pazienti con diagnosi di sincope che eseguono
EEG (target < 20%).
Aggiornamento
Un aggiornamento sarà effettuato ogni 3 anni o prima, in caso compaiano in letteratura nuove evidenze che possono modificare le raccomandazioni del documento.
Finanziamenti e conflitti d’interesse
Nessuno degli estensori ha ricevuto finanziamenti di alcun genere per
la stesura di questa LG o ha indicato potenziali conflitti d’interesse.
178
La sincope in età
LINEE
pediatrica
GUIDA
Metodologia
È stata effettuata una revisione sistematica della letteratura ricercando i lavori scientifici sulla base della piramide delle evidenze,
considerando in ordine di priorità: 1) revisioni sistematiche con o
senza metanalisi; 2) studi randomizzati controllati in doppio cieco;
3) studi randomizzati controllati; 4) studi di coorte; 5) studi casocontrollo; 6) serie di casi; 7) case reports; 8) editoriali-review, report
di congressi, idee e opinioni di esperti.
Per il reperimento delle fonti (identificazione e analisi della letteratura) è stata effettuata una ricerca bibliografica, mediante parole
chiave variamente combinate e con stringhe di ricerca orientate,
sulle banche dati PubMed/Medline, Embase, Cochrane Library, BIOSIS, Cochrane Controlled Trials Register, fino al 31 dicembre 2008.
Inoltre, sono stati ricercati altri documenti rilevanti non indicizzati,
attraverso motori di ricerca generici e LG già pubblicate sull’argomento. I risultati di tale ricerca sono stati inviati a tutti i componenti
che hanno integrato la ricerca, in modo specifico per il compito affidato, con dati bibliografici raccolti personalmente.
Per la stesura delle LG, è stato consultato il manuale metodologico
del Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG) dell’Istituto Superiore di Sanità (www.snlg.it) 19. Le prove di efficacia e le raccomandazioni contenute nelle LG sono state classificate basandosi sui
livelli di evidenza del SNLG. Tali livelli hanno lo scopo di riflettere il
grado di validità dei risultati e delle conclusioni riportate nei singoli
lavori utilizzati, portando alla formulazione della forza delle raccomandazioni (Box 1, 2).
In considerazione del fatto che lo scopo finale della LG è di fornire
raccomandazioni specifiche per il percorso diagnostico del soggetto
con sincope, sono state date indicazioni, seguendo un percorso simile a quello già attuato in LG pubblicate sull’adulto 2-4, anche quando i dati della letteratura non erano esaustivi e definitivi, basandosi
sul consenso del gruppo di lavoro.
Il gruppo di lavoro ha focalizzato l’attenzione su alcuni quesiti:
1. Quali elementi vanno considerati nell’anamnesi per il corretto inquadramento diagnostico e nosografico del soggetto con sincope?
2. Quali segni dell’esame obiettivo vanno accuratamente valutati
per la diagnosi?
Box 1
Livelli di evidenza o di prova.
I
Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o da revisioni sistematiche di studi randomizzati.
II
Prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno
adeguato
III
Prove ottenute da studi di coorte non randomizzati con
controlli concorrenti storici o loro metanalisi
IV
Prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo
o loro metanalisi.
V
Prove ottenute da studi di casistica (serie di casi) senza
gruppo di controllo.
VI
Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato in linee guida o consensus conference, o basata su opinioni del gruppo di lavoro
responsabile di queste linea guida.
La sincope in età pediatrica
Box 2
Forza delle raccomandazioni.
A
L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata. Indica una particolare
raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona
qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II.
B
Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura o intervento debba essere sempre raccomandata,
ma si ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata.
C
Esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento.
D
L’esecuzione della procedura non è raccomandata.
E
Si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura.
3. Quali esami ematochimici o strumentali vanno eseguiti nella valutazione iniziale?
4. Quando eseguirli in urgenza (stratificazione del rischio)?
5. Come stratificare il rischio del soggetto con sincope e quali sono
le modalità d’intervento?
6. Una volta inquadrato il paziente in uno dei raggruppamenti diagnostici specifici, quale risulta essere l’iter diagnostico da eseguire?
7. Quali sono le indicazioni alla consulenza specialistica?
8. Quali sono i criteri di appropriatezza al ricovero?
9. Il paziente con sincope può praticare attività sportiva?
Questa LG potrà portare alla riduzione di test diagnostici e ricoveri impropri che comportano un costo eccessivo in termini di spesa
sanitaria, di risorse dell’ospedale e d’impegno psicologico del paziente 6 15-18.
LINEE GUIDA
In Italia, nel 2005, sono stati registrati poco più di 4000 ricoveri con
diagnosi principale di sincope (ICD IX CM:780.2) sul territorio italiano
in bambini fino a 14 anni. Di questi, oltre 2800 dai 5 ai 14 anni. La
degenza media dei casi registrati è di circa 3 giorni, con un carico
complessivo di quasi 12.000 giornate di degenza (dati www.ministerosalute.it) 31. Episodi sincopali possono essere associati a vaccinazione con tassi di frequenza variabili tra 0,28 e 0,54 casi per milione
di dosi di vaccino somministrate annualmente, di cui la maggior parte
segnalati in adolescenti dopo 15 minuti dall’esecuzione della vaccinazione ed inquadrate generalmente come sincopi neuromediate 32.
Eziologia
La distribuzione nosografica delle sincopi è piuttosto complessa, pur potendosi distinguere 2 gruppi principali (Tab. I) 3 6-9 16 31 32. La situazione è
ulteriormente complicata dall’esistenza di episodi di perdita di coscienza transitoria che non presentano le caratteristiche della sincope e rientrano nel gruppo delle “non sincopi” o pseudo-sincopi (Tab. II) 3 6-9 16 31 3.
La maggior parte degli episodi nella popolazione pediatrica è il risultato di una reazione vasovagale usualmente benigna; tuttavia,
alcune condizioni cardiache, potenzialmente fatali con elevata
mortalità se non diagnosticate, possono avere il sintomo sincope come iniziale manifestazione 9 29 30 33-35. Inoltre, il paziente può
essere a rischio di importanti traumatismi secondari alla caduta
improvvisa per la perdita della coscienza e del tono posturale.
Ancora oggi, l’inquadramento nosografico del soggetto con sincope può essere difficile, permanendo l’origine indeterminata nel
15-20% dei casi, con percentuale sicuramente migliorata rispetto
al 40% del passato 3 9 26.
Tabella I.
Classificazione delle sincopi.
Sincopi cardiovascolari extracardiache o da anomalie del tono-controllo-volume vascolare o autonomiche
Sincopi riflesse o neuromediate
• Sincope vasovagale
• Sincope situazionale (Tabella III)
• Breath holding spell o sincope infantile o “spasmi affettivi”
Ipotensione ortostatica (idiopatica, disautonomia familiare)
Epidemiologia
Sincopi cardiache
Studi su adulti hanno indicato che la sincope è una causa frequente
di accesso al Dipartimento di Emergenza-Accettazione (DEA) essendo responsabile del 3-5% degli accessi e del 1-6% dei ricoveri 3 13 20.
Difficile è la stima del fenomeno in età pediatrica. L’incidenza dei casi
di sincope in età pediatrica che richiedono intervento medico è stimata in 125.8/100.000 soggetti 21 ed il 15% dei bambini può aver avuto
esperienza di un episodio sincopale entro i 18 anni 3 6 9. La sincope è responsabile di un ricorso al PS pediatrico nello 0.4-1% degli accessi annuali 15 22 23 e del 3,4-4,5% delle consulenze cardiologiche 24 25. Nel 5%
dei soggetti, l’eziologia è determinata da una condizione tipicamente
pediatrica, definita come breath holding spells o “spasmi affettivi” o
sincope infantile 9 21 22. La sincope neuromediata è sicuramente la più
frequente (61-80%), seguita dalle non-sincopi neurologiche-neuropsichiatriche (11-19%) e dalla sincope cardiaca (6-11,5%) 6 7 11 17 23 25-28.
L’incidenza di morti improvvise in bambini apparentemente sani è di
1-1,5 per 100.000 per anno; la valutazione retrospettiva rivela spesso un’anamnesi positiva per sincope 29. Inoltre, va considerato che la
morte improvvisa rappresenta il 10% delle varie cause di morte in età
pediatrica; almeno in 1 paziente su 6 la causa rimane sconosciuta 30.
Strutturali
• Cardiopatia valvolare
• Cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva
• Mixoma striale
• Dissezione aortica acuta
• Malattie del pericardio, tamponamento cardiaco
• Embolia polmonare, ipertensione polmonare
• Anomalie coronariche congenite o acquisite (malattia di Kawasaki)
• A seguito di intervento cardiochirurgico di malattie congenite
(in particolare intervento di Mustard, Senning, Fontan)
Aritmiche: tachiaritmiche o bradiaritmiche
• Disfunzione sinusale
• Disturbi della conduzione atrioventricolare
• Tachicardie parossistiche sopraventricolari e ventricolari
• Sindromi ereditarie (S. del QT lungo, S. di Brugada)
• Malfunzionamento di dispositivi impiantabili
• Proaritmia indotta da farmaci
179
Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 65-70
La sincope in età
LINEE
pediatrica
GUIDA
Tabella II.
Classificazione di altre forme di perdita di coscienza transitoria attribuibili a “non sincope” o pseudo-sincope (comunemente ed erroneamente diagnosticate come sincope).
Tabella III.
Situazioni predisponenti alla sincope riflessa o neuromediata situazionale.
Stimolazione vie aeree
Bagno caldo
Origine metabolica (ad esempio ipossiemia, ipoglicemia)
Apnea
Minzione
Intossicazione da farmaci-sostanze da abuso
Pressione seni carotidei
Emicrania
Origine neurologica (epilessia, cefalea, accidenti cerebrovascolari, traumi)
Bevande fredde
Oculo-vagale
Origine psicogena (disturbi di somatizzazione e/o conversione, depressione, iperventilazione psicogena, attacchi di panico, sindrome di Munchausen per procura)
Tosse
Post-prandiale
Defecazione
Procedure mediche
Diving in apnea
Rasatura barba
Post-esercizio
Starnutire
Fisiopatologia
Riflesso glossofaringeo
Stiramento
A prescindere dalle diverse cause eziologiche, la patogenesi dell’episodio sincopale è da ricondurre alla riduzione del flusso ematico cerebrale per riduzione della gittata cardiaca o per vasodilatazione o per entrambi i meccanismi, con conseguente perdita
transitoria della coscienza e del tono posturale 3 7. Infatti, la perdita
di coscienza nella sincope è l’espressione di una disfunzione cerebrale improvvisa, transitoria e diffusa, secondaria a una brusca
riduzione del flusso ematico globale. La pressione di perfusione
cerebrale dipende direttamente dalla pressione arteriosa sistemica, pertanto tutti i fattori che determinano una riduzione della
gittata cardiaca comportano una diminuzione della pressione arteriosa sistemica ed un’ipoperfusione cerebrale, con improvvisa
riduzione dell’apporto di ossigeno a livello corticale 3. Un’ischemia
cerebrale della durata di 8-10 secondi comporta una completa
perdita di coscienza e, se si prolunga per più di 15 secondi, può
associarsi a contrazioni tonico-cloniche generalizzate, fenomeni
convulsivi secondari causati dall’ipoperfusione cerebrale 9. Questi
ultimi fenomeni convulsivi associati vanno distinti da quelli primitivi che sono espressione di alterazioni elettriche parossistiche del
sistema nervoso centrale come nell’epilessia. La maggior parte
delle attuali nozioni fisiopatologiche si basa sull’analisi di soggetti
normali adulti o in età pediatrica sottoposti a stress ortostatico
durante una prolungata posizione eretta per sincope situazionale o
riflessa di tipo neuromediato (Tab. III) 36-44.
Pettinarsi
Deglutizione
Altitudine
Strumenti a fiato
Doccia calda
Manovra di Valsalva
Iperventilazione
Vomito
Vaccinazioni
Calo ponderale
Caratteristiche cliniche
Se è vero che le manifestazioni cliniche delle varie forme di sincope
sono simili, essendo causate dallo stesso meccanismo patogenetico
(ipoafflusso cerebrale), è altrettanto vero che esistono delle peculiarità che sono proprie di ciascuna forma.
Sincope riflessa o neuromediata. È spesso causata da situazioni
quali posizione eretta prolungata o stazionamento in ambienti caldi o affollati. Inoltre, molti pazienti presentano una sincope durante
malattie intercorrenti virali o durante l’assunzione di farmaci o per
lieve disidratazione, spesso associata a scarsa assunzione di fluidi e sale o nel sesso femminile durante il ciclo mestruale. Questi
pazienti con sincope situazionale hanno generalmente dei triggers
stereotipati che determinano fenomeni ricorrenti (Tab. III). Soggetti
sani sviluppano sincope dopo esercizio fisico intenso 45. Il meccanismo sottostante implica aggiustamenti autonomici complessi come
l’iperventilazione e la relativa disidratazione che entrano in gioco
alla cessazione dell’esercizio fisico. Tale tipo di sincope segue tipicamente l’esercizio fisico e non avviene durante, come accade nei
pazienti con patologia cardiaca.
180
I pazienti con sincope riflessa presentano tipicamente tre fasi: fase
prodromica, perdita di coscienza, periodo di recupero. La prima
può durare da secondi ad alcuni minuti ed è spesso ricordata dal
paziente, sebbene di breve durata. Sintomi comuni sono: vertigini, confusione, nausea, dolore addominale, sensazione di caldo o
freddo, diaforesi, modificazioni dell’udito o della vista, cefalea e
anticipazione della perdita di coscienza 21. La fase successiva, caratterizzata da perdita di coscienza e di durata variabile da pochi
secondi ad alcuni minuti (in genere 5-20 secondi), non viene ricordata dai pazienti sebbene alcuni abbiano la sensazione di sentirsi
“disconnessi”, con capacità di udire le voci dei presenti, ma con
incapacità a rispondere. Durante questa fase, gli osservatori descrivono il paziente pallido, cinereo con cute fredda e sudorazione
profusa, dilatazione pupillare (occasionale), incontinenza (rara). La
fase di recupero dura da 5 a 30 minuti ed è caratterizzata da fatica,
vertigini, debolezza, cefalea e nausea, con successivo ritorno alla
normalità. Tuttavia, alcuni pazienti possono presentare tali sintomi
per alcune ore.
Spasmi affettivi. I bambini in età prescolare possono presentare
particolari episodi sincopali detti spasmi affettivi o apnea infantile o
sincope infantile (Breath Holding Spells, nella lingua inglese). Sono
manifestazioni comuni 46 47, prevalentemente benigne, spesso fonte di
notevole ansia per i familiari. La diagnosi è basata sul riconoscimento
di una specifica e stereotipata sequenza di eventi clinici. Iniziano con
un evento scatenante (rabbia, frustrazione, dolore) che porta a pianto
o stato emozionale, seguito da una silenziosa e prolungata espirazione
forzata, associata a variazione del colorito cutaneo e, nelle forme severe, a perdita di coscienza e del tono posturale, con possibile presenza di spasmi clonici generalizzati, opistotono e bradicardia. Nel 1967
Lombroso 47 ne ha distinti due tipi: cianotico e pallido. Lo “spasmo affettivo” cianotico è caratterizzato da pianto vigoroso, il bimbo presenta
dispnea, gasping, arresto del respiro, cianosi e perdita di conoscenza.
Il meno comune “spasmo affettivo” pallido viene associato a maggior
gravità ed è caratterizzato da un pianto più flebile o assente (in genere
scatenato da dolore più che da rabbia) e da perdita di coscienza che
si instaura rapidamente, con perdita del tono posturale, in seguito ad
una asistolia che può durare anche molti secondi. In questi bambini, si
è dimostrato un esagerato riflesso oculocardiaco che porta, nel 60%
LINEE GUIDA
La sincope in età pediatrica
dei casi, ad asistolia, mentre nei bambini con tipo cianotico ciò avviene solo nel 25% dei casi 46 48.
L’età di insorgenza varia dai 6 ai 12 mesi di età, raramente si presenta nella prima settimana di vita o dopo i due anni. La frequenza
media degli episodi varia da giornaliera a settimanale e il picco di
frequenza si ha tra i 13 e 24 mesi. In genere, terminano verso i 3-4
anni e raramente durano fino a 6-7. La distribuzione nei due sessi è
simile. Il 10-15% dei soggetti può arrivare a presentare spasmi clonici generalizzati (convulsioni anossiche) 49 ed il 15-20%, terminati
gli spasmi, può soffrire in età peripuberale di sincopi vasovagali 48. È
presente familiarità nel 25-30% dei casi e si suppone un’ereditarietà
dominante con ridotta penetranza 47 48.
Per quanto riguarda l’etiopatogenesi, da lungo tempo è conosciuta
l’associazione tra spasmi e carenza marziale 50, probabilmente per
il ruolo rivestito dal ferro nel metabolismo delle catecolamine, nel
funzionamento di enzimi e neurotrasmettitori nel sistema nervoso
centrale 51 52. Di Mario 48, in uno studio prospettico, non ha rilevato
nessuna significativa differenza clinica al follow-up tra bambini con
i due tipi di spasmi affettivi ed ha inoltre notato che alcuni bambini
presentavano indifferentemente apnee infantili dei due tipi. Questo
ha portato ad ipotizzare che sia presente una comune unificante
patogenesi, ossia una disregolazione del sistema nervoso autonomo che, nella maggior parte dei casi, può portare ad una iperattività del simpatico, nel caso delle apnee infantili cianotiche o ad
una iperattività del parasimpatico, nel caso delle pallide; tuttavia, in
alcuni soggetti si verifica un’alternanza di queste due possibilità. La
proporzione tra le varie forme è 50% per le cianotiche, 30% per le
pallide e 20% per entrambe.
La raccolta di una accurata anamnesi è il cardine diagnostico e usualmente, da sola, suggerisce la diagnosi 53, ma le forme più severe, con
perdita di coscienza seguiranno, ovviamente, l’iter delle sincopi, con
l’esecuzione di un elettrocardiogramma (ECG) (in letteratura sono segnalati casi infausti di sindrome del QT lungo scambiati per spasmi
affettivi) 54. Nei casi in cui la distinzione con gravi aritmie rimane incerta, come in un bambino con intervallo QTc borderline, può essere di
utilità un monitoraggio ECG continuo (tipo loop-recorder) (vedi capitolo
esami cardiologici) 22. Nei casi che permangono di dubbia origine tra
forma epilettica o sincopale, può essere effettuata in ambiente specialistico l’elicitazione del riflesso oculomotore durante l’esecuzione di un
EEG videoregistrato, con contestuale esecuzione di ECG, che dimostri
la tipica risposta dello spasmo affettivo pallido 55.
cità di concentrazione, sintomi gastrointestinali in particolar modo
nausea 59. Dal riscontro di livelli plasmatici tendenzialmente elevati
di adrenalina e noradrenalina 61 62, si è ipotizzato che le alterazioni
della frequenza cardiaca siano correlate alla diminuita funzione αadrenergica in un contesto di intatta innervazione cardiaca, da ciò la
tachicardia. L’incremento della frequenza cardiaca durante la posizione eretta è dunque un meccanismo compensatorio per mantenere a livelli adeguati la pressione sistemica sanguigna e la perfusione
cerebrale 63.
La POTS può essere di origine acquisita o ereditaria 57 63-65. I pazienti
presentano una disabilità quotidiana, a differenza dei pazienti con
sincopi neuromediate benigne. I tradizionali test di funzionalità neurovegetativa sono generalmente normali, ma si osserva un pattern
specifico al tilt test che inizia al passaggio dal clinostatismo all’ortostatismo e prosegue nei minuti seguenti, suggestivo per la diagnosi;
inoltre una delle caratteristiche distintive è che durante la sperimentazione dell’evento sincopale, la pressione arteriosa è mantenuta o
diminuisce minimamente, mentre la frequenza cardiaca aumenta
fortemente.
I criteri diagnostici per la POTS, identificati da Low. nel 1997 58, sono
stati successivamente studiati da altri Autori e sono riassunti nella
Tabella IV 66.
Sindrome da tachicardia posturale ortostatica (POTS). È una forma di insufficienza vegetativa 56 che si estrinseca nella inabilità del
sistema vascolare periferico a vasocostringersi adeguatamente, in
risposta allo stress ortostatico. Questa sindrome è la più frequente causa che porta pazienti adulti, con intolleranza all’ortostatismo,
all’attenzione del medico e ormai si tende a valutarla come una variante della intolleranza ortostatica in quanto non prevede la presenza di ipotensione. Colpisce generalmente le giovani adolescenti,
in particolare dopo il menarca, con un rapporto maschi:femmine di
1:1.5, e si presenta in più del 50% dei casi con un esordio brusco,
a seguito di un episodio infettivo minore, talvolta un trauma o un
intervento chirurgico 57.
La POTS è caratterizzata da tachicardia e sintomi di ipoperfusione
cerebrale che si manifestano durante la stazione eretta 58. I pazienti
si lamentano di palpitazioni e sensazione di testa leggera, intolleranza all’esercizio fisico, visione offuscata, tremori, talvolta segni di
edema e acrocianosi e possono sperimentare episodi sincopali 59 o
pre-sincopali 60. I pazienti possono, inoltre, sperimentare sintomi di
origine non ortostatica, come fatica, cefalea, dolore al petto, incapa-
Incremento della frequenza cardiaca persistente > 30 battiti al minuto
rispetto alla frequenza basale, nei primi 10 minuti dall’assunzione della
posizione eretta o dall’inizio del tilt test
Sincope cardiaca. L’importanza di un corretto inquadramento diagnostico clinico, basato sulla triade anamnesi/esame obiettivo/ECG,
è fondamentale per distinguere la sincope neuromediata da altre
forme di sincope potenzialmente fatali (cardiaca o collegata ad
accidenti cerebrovascolari). Nei bambini e adolescenti, la sincope
può rappresentare il sintomo di esordio di condizioni life threatening quali la sindrome del QT lungo, la sindrome di Kearn-Sayre
(oftalmoplegia associata a progressivo blocco cardiaco), sindrome
di Brugada, fibrillazione atriale in pazienti con sindrome di WolffParkinson-White, tachicardia ventricolare polimorfa catecolaminergica, aritmie in pazienti con cardiopatie congenite, cardiomiopatia
Tabella IV.
Criteri diagnostici per sindrome da tachicardia posturale ortostatica
(POTS) 66.
Criteri diagnostici
Ritmo cardiaco basale sinusale in assenza di evidenze di aritmia o di
patologia cardiaca
Frequenza cardiaca > 120 battiti al minuto nei primi 10 minuti dall’assunzione della posizione eretta o dall’inizio del tilt test e che si risolve con
l’assunzione del clinostatismo
Sintomi presenti da più di 3 mesi: sensazione di testa leggera, debolezza,
palpitazioni, visione offuscata, difficoltà respiratorie, nausea, cefalea
Criteri di esclusione
Ipotensione ortostatica definita come diminuzione della pressione arteriosa sistolica di 30 mmHg o più nei primi 3 minuti del tilt test
Gravidanza o allattamento
Presenza di altre cause di insufficienza vegetativa
Presenza di patologie sistemiche che possono interessare il Sistema Nervoso Autonomo
Terapie concomitanti con anticolinergici, α-adrenergici e antagonisti βadrenergici o altre farmaci che possono interferire
nella valutazione delle funzioni vegetative
181
Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 65-70
La sincope in età
LINEE
pediatrica
GUIDA
Tabella V.
Stratificazione del rischio nel paziente con sincope in età pediatrica.
1
Pazienti a rischio basso
Pazienti senza elementi di rischio per potenziale patolo- Gestione ambulatoriale in tempi ordinari dal pediatra
gia cardiaca (Tabella VI) oppure soggetti con sincope già e/o dallo specialista di competenza
definita dopo la prima valutazione
2
Pazienti a rischio intermedio
Pazienti con elementi di potenziale rischio per patologia Gestione in tempi brevi in ambulatorio specialistico o tracardiaca (Tabella VI) o con un episodio transitorio di per- mite osservazione breve in Dipartimento di Emergenza
dita di coscienza non definito
3
Pazienti a rischio elevato
Pazienti risultati positivi per patologia cardiaca.
Vedi criteri per ricovero in Tabelle XII, XIII
ipertrofica, anomalie delle arterie coronariche, ipertensione arteriosa
polmonare o miocarditi, tumori intracardiaci (Tab. I) 29 30.
Prognosi
La prognosi del paziente con sincope dipende dalla patologia sottostante in quanto la perdita transitoria di coscienza può essere
il sintomo sia di alterazioni del sistema nervoso autonomo che
di patologie cardiache, neurologiche, metaboliche e psichiatriche 6 9 22 23, con prognosi decisamente più infausta per quelle cardiache. La maggior parte degli episodi sincopali nella popolazione
pediatrica rientra nel gruppo delle sincopi autonomiche, caratterizzate da una prognosi usualmente benigna; tuttavia, alcune condizioni cardiache, potenzialmente fatali, con elevata mortalità se
non diagnosticate, possono avere il sintomo sincope come iniziale
manifestazione 9 33-35. Inoltre, il paziente può essere a rischio di importanti traumatismi secondari alla caduta improvvisa da perdita
della coscienza e del tono posturale.
La prognosi appare particolarmente grave ed infausta qualora
coinvolga soggetti d’età compresa nel primo anno di vita con
accertata eziopatogenesi sincopale cardiaca sia di tipo cardioaritmico che con alterazioni morfostrutturali, raggiungendo una
mortalità pari al 18-33%. È necessario, per migliorare l’approccio diagnostico e quindi prognostico, riferirsi a delle linee guida
pediatriche che inseriscano il paziente con sincope in un protocollo specifico e scrupoloso che sia in grado di identificare il
soggetto a rischio di mortalità 67-71.
Gestione in regime di ricovero in urgenza con l’esecuzione immediata di adeguate procedure diagnostiche
e terapeutiche
riosa (PA) in ortostatismo/ clinostatismo e l’esecuzione di un ECG a 12
derivazioni potrà portare alla diagnosi nella maggior parte dei pazienti
senza cardiopatia senza eseguire altri esami 1-5 9-13 73-75.
La tempistica nell’esecuzione dell’ECG o di altri esami ed il completamento dell’iter diagnostico devono essere stabiliti in relazione
alla stratificazione del rischio in pazienti a rischio basso, intermedio
o elevato (Tab. V). Il fine è quello di individuare situazioni, sintomi o
segni di allarme, suggestivi di potenziale eziologia cardiaca della
sincope 1 16 23 76 77 (Tab. VI).
Raccomandazione 1
L’iter diagnostico del paziente con sincope comprende nella fase iniziale l’anamnesi accurata mirata, l’esame obiettivo
orientato e l’ECG. Le modalità e la tempistica dell’ECG e di ulteriori esami dipendono dalla stratificazione del rischio che viene
effettuata in questa prima fase.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione A
Tabella VI.
Elementi suggestivi di sincope a potenziale eziologia cardiaca.
Familiarità
Inspiegabile morte improvvisa in soggetti di età inferiore ai 40 anni
Aritmia o malattia cardiaca familiare nota (S. QT lungo, cardiomiopatia)
Infarto miocardico precoce
Anamnesi personale remota
Malattia cardiaca strutturale nota
Iter diagnostico
Valutazione iniziale
La valutazione iniziale del paziente con sospetto episodio sincopale dovrà fornire al medico gli elementi per confermare o meno la
diagnosi, intuire l’eziologia, poter programmare il piano diagnostico
futuro. L’eterogeneità dell’eziologia, le intuibili difficoltà e le insidie
diagnostiche hanno portato alcuni Autori ad affermare che l’anamnesi e l’esame obiettivo accurati non erano in grado di identificare
i pazienti con una eziologia cardiaca della sincope 35; tuttavia un
protocollo diagnostico che comprenda nello screening un’anamnesi
familiare e personale, un esame obiettivo con misurazione della PA
ed un ECG sarebbe in grado di identificare, con una sensibilità pari al
96%, una sincope di origine cardiaca, come è risultato in uno studio
condotto da Ritter 72.
Pertanto, una valutazione che comprenda un’attenta anamnesi rivolta
al paziente (compatibilmente con l’età) e ai testimoni, l’esame obiettivo, il controllo dei parametri vitali, la misurazione della pressione arte-
182
Aritmia nota
Sospetta patologia cardiaca (intolleranza all’esercizio fisico, astenia recente)
Anamnesi patologica prossima
Sincope preceduta da palpitazioni o dolore toracico
Sincope che avviene durante l’esercizio fisico o stress
Sincope in piscina
Sincope che avviene in posiziona supina
Sincope senza prodromi
Sincope dopo rumore forte/fastidioso
Eventi che necessitano di rianimazione cardiopolmonare
Eventi con sequele neurologiche
Esame obiettivo alterato: ritmo irregolare, toni e soffi cardiaci
patologici, sfregamento pericardico
ECG alterato
(da Massin, 2007 76, mod. e bibliografia correlata 1 16 23 77).
La sincope in età pediatrica
Raccomandazione 2
È raccomandata la misurazione della pressione arteriosa (PA)
e della frequenza cardiaca (FC) in clinostatismo e ortostatismo
con stand-up di 1-3-5-10 minuti; la fattibilità di quest’ultima
procedura è chiaramente dipendente dall’età del paziente
Livello di evidenza VI – Forza della raccomandazione A
Anamnesi
L’anamnesi svolge un ruolo centrale nell’iter diagnostico. Essa, rivolta anche ai testimoni dell’evento, deve comprendere: storia familiare,
anamnesi patologica, farmaci e/o sostanze eventualmente assunti,
fattori ambientali, modalità d’esordio con ricerca dei fattori determinanti-scatenanti, sintomi avvertiti dal soggetto in fase prodromica,
di stato e del periodo post-critico, con descrizione dell’evento e della
sua durata, segni e/o sintomi associati (Tab. VII). L’anamnesi, eseguita correttamente ed in maniera sistematica, può essere diagnostica
sino al 45% dei casi o, comunque, risultare di notevole aiuto per
suggerire l’eventuale strategia di valutazione 9 78 79.
Anamnesi familiare. Occorre ricercare la presenza di morte improvvisa sotto i 40 anni, infarto miocardico sotto i 30 anni, cardiopatie
congenite e/o aritmogene familiari, episodi di perdita di coscienza
in familiari di primo grado (la ricorrenza familiare è comune e tipica
nelle sincopi benigne neuromediate, anche se, raramente, potrebbe
nascondere una pericolosa cardiopatia aritmogena genetica) 19 79.
Tabella VII.
Importanti aspetti anamnestici 2.
Valutazione sulle circostanze immediatamente
prima della sincope
Posizione (supina, seduta o in piedi)
Attività (riposo, cambiamento di postura, durante o dopo esercizio, durante o immediatamente dopo minzione, defecazione, tosse o deglutizione)
Fattori predisponenti (ad es., luoghi caldi e affollati, prolungato ortostatismo, periodo postprandiale) ed eventi precipitanti (paura, dolore intenso,
movimenti del collo)
Valutazione circa i prodromi della sincope
Nausea, vomito, dolore addominale, sensazione di freddo, sudorazione,
aura, dolore al collo o alle spalle, offuscamento del visus
Domande sulla sincope (ai testimoni)
Modalità della caduta (caduta improvvisa o piegando le ginocchia), colore della pelle (pallore, cianosi, arrossamento), durata della perdita di
coscienza, modalità di respirazione (russante), movimenti (tonici, clonici,
tonico-clonici o minime mioclonie, automatismi) e loro durata, esordio dei
movimenti e la loro relazione con la caduta, morsicatura della lingua
Domande sulla fine della sincope
Nausea, vomito, sudorazione, sensazione di freddo, confusione, dolori
muscolari, colorito della cute, lesioni, dolore al petto, palpitazioni, incontinenza urinaria o fecale
Domande sui precedenti
Storia familiare di morte improvvisa, malattia cardiaca aritmogena congenita o pregressi episodi sincopali
Precedente malattia cardiaca
Storia di malattia neurologica (epilessia, narcolessia)
Disturbi metabolici (diabete, ecc.)
Farmaci (antiipertensivi, antianginosi, antidepressivi, antiaritmici, diuretici
e agenti che allungano il QT)
(In caso di sincopi ricorrenti) Informazioni sulle recidive così come sul tempo trascorso dal primo episodio sincopale e sul numero degli attacchi
LINEE GUIDA
Anamnesi personale. Bisogna focalizzare l’attenzione su pregresse cardiopatie e aritmie, problematiche neurologiche, malattie metaboliche e farmacoterapie. Non è mai da escludere la possibilità di
una incongrua assunzione di farmaci, alcool o altre sostanze tossiche (soprattutto nella prima infanzia) o l’eventuale uso di sostanze
stupefacenti. Nei casi di sincope ricorrente, si dovranno raccogliere
informazioni sull’età di esordio, sulla frequenza degli episodi, con
particolare riguardo alle caratteristiche, alla durata e alla presenza
di stereotipia dei vari episodi.
Anamnesi specifica. Deve indagare l’ambiente, le sensazioni avvertite dal paziente prima dell’evento, le caratteristiche dell’evento
stesso e la ripresa.
Tipologia di ambiente: luoghi affollati e/o caldi, immersione o tuffo
o doccia con acqua fredda o calda, eventuale intossicazione da monossido di carbonio.
Posizione: in piedi, seduto o supino.
Ora del giorno e intervallo dall’ultimo pasto
Attività: esercizio fisico o evento stressante (importante stabilire se
prima-durante-dopo sforzo), cambio di postura, rapporto con minzione o defecazione, tosse, sputo, deglutizione, starnuto o utilizzo di
strumenti a fiato.
Fattori precipitanti l’evento: prolungata posizione eretta, digiuno, malattie febbrili intercorrenti, disidratazione, movimenti bruschi del collo, pressione dei glomi carotidei, compressione oculare, spazzolarsi i
capelli o stirarsi, manovre ortodontiche, traumi dentali, toracentesi e
paracentesi, situazioni stressanti o emozionali (paura e dolore anche
minimi, come veno-puntura e vista del sangue), traumi.
Inizio dell’attacco (prodromi): nausea, vomito, dolori addominali, cefalea, senso di freddo, sudorazione, offuscamento del visus, aura,
sensazioni visive o uditive, dolore a torace/collo/spalle, palpitazioni,
nessun segnale premonitore.
Manifestazioni dell’attacco: modalità di caduta a terra (brusca o scivolando sulle ginocchia), colorito cutaneo (pallore, cianosi o arrossamento), durata della perdita di coscienza, caratteristiche del respiro,
morsicatura della lingua, deviazione dello sguardo, opistotono, movimenti (tonici, tonico-clonici o minimo mioclono, automatismi) con
loro durata ed inizio rispetto alla perdita di coscienza.
Fine dell’attacco: nausea, vomito, sudorazione, senso di freddo,
tempo di ripresa (breve o prolungato), dilatazione pupille, colorito
cutaneo, confusione, incontinenza fecale e urinaria, dolori muscolari, dolori retrosternali, palpitazioni, ferite, necessità di rianimazione
cardiopolmonare e sequele neurologiche.
Esame obiettivo
L’esame obiettivo deve essere completo ed orientato verso l’esclusione di patologie cardiache o neurologiche e deve comprendere anche
la misurazione dei parametri vitali. L’esplorazione cardiovascolare
dovrà includere il reperimento di anomalie della frequenza e/o del
ritmo cardiaco, la presenza di soffi cardiaci patologici, toni aggiunti
o fissamente sdoppiati, click, ritmo di galoppo, fremiti, sfregamento
pericardico e la valutazione dei polsi periferici (arti superiori e inferiori) valutandone la qualità, la ritmicità e la simmetria 69. L’esame
deve includere la misurazione della PA sia basale in clinostatismo,
sia dopo 1-3-5-10 minuti di ortostatismo. Negli adolescenti, una PA
sistolica in ortostatismo inferiore ad 80 mmHg andrebbe considerata un segno di “allarme clinico”; diagnostico di ipotensione ortostatica è un calo di 20-30 mmHg o più della PA sistolica o un calo di
10 mmHg o più della diastolica, entro 3 minuti dall’assunzione della
posizione eretta, soprattutto se associata sensazione di annebbiamento visivo; suggestivo per “sindrome da tachicardia ortostatica
posturale” è un anomalo incremento della frequenza cardiaca (oltre
28-30 bpm) in assenza di ipotensione ed associato ad annebbia-
183
Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 65-70
mento visivo, affaticamento, presincope, capogiri dopo 10 minuti di
postura eretta 19 21 36 80. A tale proposito, il gruppo ritiene utile indicare
come riferimento le tabelle dei valori pressori a riposo divise per
sesso, da 1 anno in su che, secondo il percentile di altezza, forniscono i relativi percentili della PA pubblicate su Pediatrics nel 2004 81.
La valutazione neurologica deve essere completa e tendere ad
escludere la presenza di segni derivanti da patologie del sistema
nervoso quali alterazioni dello stato di coscienza, deficit focali, disturbi del movimento, atassia 82-85. Inoltre, vanno escluse nell’esame obiettivo generale condizioni pre-esistenti particolari associate
a sindromi cardiovascolari e neurologiche quali fenotipo Marfan,
dismorfie facciali, sordità, chiazze caffè-latte e palatoschisi. Infine,
particolare attenzione dovrebbe essere posta a considerare lo stato
di idratazione ed ematosi del paziente.
Elettrocardiogramma
L’ECG rappresenta l’esame strumentale fondamentale nella valutazione iniziale del paziente con sincope e la sua utilità è stata suggerita da
vari Autori 3-8 69 73-75. Hegazy, in uno studio retrospettivo su 234 pazienti, ha riscontrato alterazioni ECG in 25 di essi (10,7%), indicando che
tale metodica è fortemente raccomandata nel paziente con sincope 28.
Vari lavori 3 5 12 23 69 76 77 individuano i fattori di rischio utili (Tab. VI) per
stabilire una stratificazione del rischio (Tab. V). L’ECG va eseguito di
routine nei pazienti con sincope e refertato da un cardiologo, ponendo particolare attenzione al ritmo, alla conduzione, alla presenza di
onde delta o al prolungamento dell’intervallo QT. Oltre ad essere utile
per identificare condizioni aritmiche come la sindrome del QT lungo
e la sindrome di Brugada, esso può far sospettare malattie cardiache
strutturali sottostanti 13. Vi sono infatti anomalie elettrocardiografiche
diagnostiche di sincope aritmica ed altre che suggeriscono una sincope aritmica (Tabb. VIII IX) 5-7. Un’anormalità dell’ECG di base è un
possibile predittore di sincope cardiaca e suggerisce la necessità di
Tabella VIII.
Elementi diagnostici di sincope aritmica 2.
Blocco atrioventricolare di secondo grado di tipo Mobitz II o di terzo grado
Blocco di branca destra e sinistra alternante
Tachicardia parossistica sopraventricolare veloce o tachicardia ventricolare
Malfunzionamento di pacemaker con bradiaritmie, malfunzionamento di
defibrillatore impiantabile (ICD), eventi proaritmici indotti da farmaci
Tabella IX.
Anormalità ECG suggestive, anche se non diagnostiche di sincope
aritmica 2.
Blocco bifascicolare (definito come blocco di branca sinistra o blocco di
branca destra combinato con emiblocco anteriore o posteriore sinistro)
Altre anomalie della conduzione intraventricolare (durata del QRS ≥ 0,12 sec)
Blocco atrioventricolare di secondo grado di tipo Mobitz 1
Bradicardia sinusale asintomatica (età dipendente) o blocco senoatriale o
pause sinusali > 3 secondi in assenza di farmaci cronotropi negativi
Complessi QRS preeccitati
QT lungo
Blocco di branca destra con ST sopraslivellato in V1-V3 (sindrome di Brugada)
Onde T negative nelle derivazioni precordiali, onde epsilon e potenziali tardivi ventricolari suggestivi di displasia aritmogena del ventricolo destro
Onde Q suggestive di infarto miocardico
184
La sincope in età
LINEE
pediatrica
GUIDA
eseguire una consulenza cardiologica. Alcuni Autori 13 86 hanno evidenziato che l’interpretazione dell’ECG da parte di un cardiologo con
competenza pediatrica può ridurre il rischio di non diagnosticare una
patologia aritmica potenzialmente fatale; tuttavia, gli Autori sottolineano che le discordanze maggiori nella interpretazione dell’ECG risultano clinicamente non significative 86.
Raccomandazione 3
L’ECG a 12 derivazioni è l’unico esame strumentale da effettuare nella valutazione iniziale del paziente con sincope. La tempistica nell’esecuzione dell’ECG è legata alla stratificazione del
rischio.
Livello di evidenza V - Forza della raccomandazione A
Raccomandazione 4
La refertazione dell’ECG dovrebbe essere effettuata da un cardiologo, preferenzialmente con competenza pediatrica.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione B
Il Gruppo di Lavoro ritiene che i risultati della valutazione iniziale
(anamnesi, esame obiettivo, ECG, misurazione della PA in clino- ed
ortostatismo) siano diagnostici dell’eziologia della sincope nei seguenti casi:
a. sincope vasovagale, se eventi precipitanti come paura, intenso dolore, forte emozione, prelievo ematico/procedure analoghe o prolungato ortostatismo sono associati con i tipici sintomi prodromici;
b. sincope situazionale, se essa si verifica durante o immediatamente dopo la minzione, la defecazione, la tosse o la deglutizione;
c. sincope ortostatica, quando c’è la documentazione di ipotensione ortostatica associata a sincope o pre-sincope. La misurazione
della PA è raccomandata dopo 5 minuti di decubito supino; la PA
viene misurata dopo 1 o 3 minuti di ortostatismo e ulteriormente
monitorata se la PA continua a scendere al terzo minuto;
d. sincope aritmica, se l’ECG mostra:
• bradicardia sinusale (FC età dipendente) o blocchi senoatriali ripetitivi o pause sinusali > 3 sec;
• blocco atrioventricolare di secondo grado tipo Mobitz 2 o di
terzo grado;
• blocco di branca destra e sinistra alternante;
• tachicardia parossistica sopraventricolare veloce o tachicardia ventricolare;
• malfunzionamento del pacemaker con asistolia;
e. sincope ischemica, in caso vi sia evidenza di ischemia acuta
all’ECG, con o senza alterazioni indicative di infarto miocardico
ed indipendentemente dalla causa dell’ischemia.
Raccomandazione 5
I risultati della valutazione iniziale sono diagnostici della eziologia della sincope nella maggior parte dei casi con sincope
vasovagale, situazionale, ortostatica, aritmica, ischemica (vedi
testo).
Livello di evidenza VI – Forza della raccomandazione A
Esami ematochimici
Gli esami ematochimici non vanno eseguiti routinariamente, in assenza di segni e/o sintomi clinici che indichino l’utilità nel corso del-
La sincope in età pediatrica
la valutazione del paziente all’esecuzione di glicemia, emocromo,
elettroliti sierici, emogasanalisi, esame urine, carbossiemoglobina,
screening tossicologico. In uno studio su una popolazione pediatrica composta di 154 soggetti con sincope, 116 sono stati sottoposti
ad esami ematochimici; alterazioni sono state riscontrate solo in 3
soggetti, ognuno dei quali con una storia clinica definita e suggestiva per possibile disidratazione 26. L’utilizzazione indiscriminata di
esami viene criticata, in assenza di segni e sintomi clinici suggestivi
di patologia metabolica, coma o possibile intossicazione di farmaci/
sostanze in uno studio su 140 soggetti 13.
Raccomandazione 6
Gli esami ematochimici sono indicati solamente se si sospetta
che la sincope sia dovuta a emorragia o disidratazione o nei
quadri clinici simil sincopali, quando si sospetta una causa metabolica.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione A
Valutazioni ed indagini specialistiche
Valutazione cardiologica
La consulenza specialistica del cardiologo, preferibilmente con
competenza pediatrica, è indicata quando la valutazione iniziale
individua situazioni, sintomi o segni di allarme, suggestivi di potenziale eziologia cardiaca della sincope 1 16 23 76 77 (Tab. VI), ponendo la
possibile presenza nel paziente di una cardiopatia strutturale e/o
aritmica quale causa di sincope.
Raccomandazione 7
La consulenza specialistica del cardiologo, preferibilmente con
competenza pediatrica, è indicata quando la valutazione iniziale evidenzia il dubbio di una cardiopatia strutturale e/o aritmica
quale causa di sincope.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione A
Valutazione neurologica, elettroencefalogramma
La consulenza dello specialista con competenza neurologica e l’elettroencefalogramma (EEG) sono indicati nei pazienti con perdita di coscienza prolungata, attività convulsiva e fase post-ictale con letargia.
Raccomandazione 8
La valutazione specialistica neurologica è indicata nei pazienti
in cui la perdita di coscienza non è attribuibile a sincope o a
disturbi metabolici, specialmente nei primi anni di vita.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione A
Molti Autori hanno sottolineato la sovrautilizzazione dell’EEG ed il suo
basso valore diagnostico nei pazienti con sincope 82 87 88. L’utilità dell’EEG
è stata valutata in uno studio condotto in 534 soggetti in cui l’esame
era richiesto nell’iter diagnostico di condizioni neurologiche comuni; nei
19 pazienti con sincope l’esame è sempre risultato normale 82. All’utilizzazione dell’EEG nel paziente con sincope tra i 5 ed i 16 anni è stato
attribuito scarso significato diagnostico in uno studio su 547 soggetti
(54 con sincope), che eseguivano l’esame nella valutazione di comuni
patologie neurologiche 87. La sincope di origine non definita,invece, può
essere il primo sintomo di una epilessia, specialmente nel sesso femminile. Quindi si rende necessario in questi pazienti un follow-up EEGneurologico di almeno 1 anno. L’importanza dell’EEG e del follow-up
neurologico è stata enfatizzata in uno studio su 18 soggetti con sincope
indeterminata dopo work-up diagnostico completo; durante il follow-up
(7-19 mesi), la diagnosi di epilessia è stata posta in 4 (EEG con anomalie
LINEE GUIDA
epilettiche focali) dei 18 pazienti (prevalenza sesso femminile), trattati
con successo con terapia antiepilettica 83.
Raccomandazione 9
L’EEG è indicato solo nel sospetto di epilessia e nei soggetti
con disturbo dello stato di coscienza non definito, quindi non
attribuibile a sincope o a disturbi metabolici, soprattutto nei
primi anni di vita.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione A
Neuroimaging
Le indagini di tipo neuroradiologico vanno considerate in casi selezionati. Vari autori hanno indicato l’eccesiva utilizzazione di Tomografia Computerizzata (TC) o di Risonanza Magnetica Nucleare (RMN)
cerebrale in pazienti con sincope, risultate sempre negative nei
pazienti con esame neurologico normale. Le neuroimaging sono indicate solo nei pazienti con deficit neurologici focali o altri segni e
sintomi di interessamento del sistema nervoso centrale 13 23.
Raccomandazione 10
Le indagini neuroradiologiche (TC) o di neuroimaging (RMN)
vanno eseguite solo nei soggetti con segni focali o altri segni
o sintomi suggestivi di interessamento del sistema nervoso
centrale e possibilmente concordate dopo visita neurologica
specialistica.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione A
Valutazione psichiatrica
Nell’ambito della diagnosi differenziale, va anche considerata la
“non sincope” o pseudo-sincope di origine psicogena, di pertinenza
dello specialista con competenza psichiatrica, disturbo di tipo funzionale con manifestazioni sia di conversione isterica che di attacchi
di panico. Il quadro clinico è costituito da paura intensa soggettiva, tremore con caratteristiche palpebre “tremolanti” e semichiuse,
iperventilazione, tachicardia sinusale (> 120 bpm) o altri sintomi
non associati a variazioni della PA 89.
Raccomandazione 11
La valutazione psichiatrica è indicata quando i sintomi suggeriscono un episodio di “non sincope” di origine psicogena o se il
paziente ha una malattia psichiatrica già diagnosticata.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione A
Altri esami di competenza cardiologica
Altri esami di pertinenza cardiologica come l’ecocardiogramma, il
Tilt test, l’Holter ECG 24 ore, il monitoraggio della PA 24 ore, il monitoraggio mediante loop recorder e lo studio elettrofisiologico vanno
eseguiti su indicazione dei dati clinico-anamnestici ed ECG desunti
dalla prima valutazione e concordati con il cardiologo in modo da
seguire l’iter diagnostico più appropriato.
Ecocardiogramma
L’ecocardiogramma è frequentemente usato nella popolazione adulta come test di screening per individuare malattie cardiache nei
pazienti con sincope. Sebbene numerosi “case reports” pubblicati
abbiano enfatizzato l’importante ruolo dell’ecocardiogramma nell’identificare la causa o il meccanismo della sincope, studi più ampi
hanno dimostrato che il potere diagnostico dell’ecocardiogramma
è basso, sia in età adulta 90-92 che in età pediatrica 28 72 93 94, in assenza di rilievi anamnestici, obiettivi o elettrocardiografici suggestivi
di cardiopatia. L’ecocardiogramma va considerato nella valutazione
185
Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 65-70
La sincope in età
LINEE
pediatrica
GUIDA
iniziale quando è presente una anamnesi positiva per sincope da
sforzo e/o intolleranza all’esercizio fisico, una familiarità positiva per
aritmie o morti improvvise, un esame obiettivo cardiologico alterato,
un ECG patologico o un sospetto clinico di patologia cardiaca 30 72.
Tabella X.
Indicazioni e controindicazioni al tilt test.
Raccomandazione 12
L’ecocardiogramma non va considerato come esame di routine,
ma è raccomandato nel paziente con sincope quando è sospettata una malattia cardiaca.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione A
Sincopi da causa ignota senza evidenza di cardiopatia significativa
Tilt test
Il tilt test è un esame impiegato per ricercare le cause della sincope
e consiste nel posizionamento del paziente su un lettino basculante
che viene progressivamente innalzato fino alla posizione verticale
(60°-90°) durante monitoraggio elettrocardiografico e pressorio. Il
test viene considerato positivo quando il paziente presenta i sintomi
di una sincope o pre-sincope.
Principi e razionale del tilt test. Per effetto dello stimolo gravitazionale,
nell’individuo sano l’assunzione della posizione ortostatica è seguita da
un sequestro di sangue nel distretto venoso ad alta capacitanza situato
al di sotto del cuore, stimato nell’ordine di 300-800 ml. Ne consegue
una riduzione della pressione venosa centrale, della gittata cardiaca e
della pressione arteriosa sistemica. Le concomitante disattivazione dei
meccanismi inibitori barocettivi arteriosi e cardiopolmonari produce una
riduzione dell’attività vagale ed un aumento riflesso dell’attività nervosa
simpatica con conseguente vasocostrizione venosa e arteriosa e incremento della frequenza e dell’inotropismo cardiaci tali da mantenere i
valori di pressione e di perfusione cerebrale. Inoltre, la distensione del
distretto vascolare splancnico attiverebbe afferenze nervose simpatiche
che con meccanismo a feedback positivo potrebbero concorrere a sostenere il globale incremento di attività nervosa simpatica. L’alterazione
a carico di uno dei citati meccanismi nervosi di regolazione cardiovascolare può portare ad una intolleranza ortostatica occasionale (per
esempio sincope vasovagale) o abituale (intolleranza ortostatica idiopatica e intolleranza ortostatica cronica) 95.
Protocolli di tilt test. Il protocollo di esecuzione può variare, sebbene alcune regole generali siano state pubblicate nel 1996 come documento ufficiale da un’apposita commissione 96. La sala dove viene
eseguito il test deve essere priva di rumori e con luce soffusa 97. I
pazienti devono essere digiuni da almeno due ore prima del test
e rimanere in posizione supina 15-20 minuti prima del tilt. Questo
intervallo di tempo è stato proposto per diminuire la probabilità di
una reazione vasovagale in risposta all’incannulazione venosa 98 99.
Si consiglia un monitoraggio della PA non invasivo battito-battito,
che ha dimostrato di essere altamente accurato e ripetibile anche
nei bambini 100, sebbene la misura intermittente della pressione con
lo sfigmomanometro sia ancora praticata, soprattutto nei bambini.
Il tavolo del tilt deve essere in grado di far assumere la posizione
ortostatica rapidamente e di far riprendere la posizione supina altrettanto velocemente (in meno di 10 secondi) quando il test è finito,
per evitare le conseguenze di una prolungata perdita di coscienza.
L’esame è solitamente indicato nei soggetti di età non inferiore a 7
anni, istruiti sulle modalità di esecuzione del test unitamente al genitore/tutore, al fine di evitare la riduzione di sensibilità e specificità
ed ottenere risultati più attendibili 101. Dai pochi dati di letteratura
disponibili, nella routine pediatrica, il tilt test ha un basso potere diagnostico, con molti falsi positivi e falsi negativi, per cui non dovrebbe
essere considerato come gold standard nella diagnosi della sincope
neuromediata 41 102 103 e inoltre, non risulta essere un buon predittore di ricorrenza della sincope o di efficacia del trattamento 104.
Sincope indotta o associata ad attività fisica
186
Indicazioni
Sincopi ricorrenti con > 2 episodi ogni 6 mesi
Anche singolo episodio sincopale se è stato causa di trauma o di incidente (soprattutto se avvenuto in situazioni potenzialmente pericolose)
Presenza di una cardiopatia che potrebbe non essere la causa dell’episodio sincopale, dopo che sono state comunque escluse cause cardiache
Ricorrenti episodi convulsivi da causa ignota, con EEG ripetutamente negativi e che non rispondono a terapia standard
Controindicazioni
Cardiopatia ostruttiva ventricolare sinistra severa (per esempio stenosi
aortica e/o mitralica)
Cardiopatia ostruttiva ventricolare destra
Ipertensione polmonare
Coronaropatia ostruttiva prossimale
Malattia cerebrovascolare ostruttiva critica
L’esecuzione dell’esame con stimolo farmacologico (isoproterenolo
o nitroglicerina sublinguale) può essere indicata in casi selezionati,
in soggetti con sincope non definita 105. Le indicazioni e le controindicazioni all’utilizzazione del tilt test sono riassunte in Tabella X.
Raccomandazione 13
L’esecuzione del tilt test in condizioni basali e/o con stimolo
farmacologico (isoproterenolo o nitroglicerina sublinguale) è
indicata in casi selezionati, in soggetti con sincope atipica o
ricorrente non definita o nella diagnosi differenziale tra sincope
e forme non sincopali di origine psicogena e/o epilettica.
Livello di evidenza III – Forza della raccomandazione B
Risposte al tilt test. Mediante l’analisi dei quadri delle risposte emodinamiche al tilt test, Pongiglione nel 1990 (Tab. XI) 43 e Sutton 106
hanno proposto una classificazione delle risposte positive.
Tabella XI.
Classificazione delle risposte positive al tilt test 43.
Risposta tipo 1 mista
FC: al momento della sincope vi è una riduzione del 10%, ma si mantiene
sempre > 40 b/min o cala a meno di 40 b/min per meno di 10 s, con o
senza asistolia < 3 s. PA: può inizialmente salire, ma cala prima che la FC
inizi a scendere
Risposta tipo 2A cardioinibitoria
FC: al momento della sincope vi è una riduzione a valori < 40 b/min per
più di 10 s o compare un’asistolia per più di 3 s. PA: può inizialmente
salire, ma cala prima che la FC inizi a scendere
Risposta tipo 2B cardioinibitoria
FC: al momento della sincope vi è una riduzione a valori < 40 b/min per
più di 10 s o compare un’asistolia per più di 3 s. PA: può inizialmente
salire e cala a livelli ipotensivi (< 80 mmHg) solo contemporaneamente o
successivamente al calo della FC
Risposta tipo 3 vasodepressiva pura
FC: la FC sale progressivamente e non scende più del 10% (rispetto al
valore massimo) al momento della sincope. PA: la PA cala fino a causare
la sincope
LINEE GUIDA
La sincope in età pediatrica
Complicanze. Il tilt test è una procedura sicura e la percentuale di
complicanze è molto bassa. Sebbene siano state descritte pause
asistoliche fino a 73 secondi 107, la presenza di una prolungata asistolia durante una risposta positiva non può essere considerata una
complicanza, poiché questo è uno degli scopi del test.
Monitoraggio elettrocardiografico (non invasivo e invasivo)
Il monitoraggio ECG (monitoraggio Holter 24-48 ore, monitoraggio
prolungato ECG o loop recorder esterno o impiantabile) è una procedura impiegata per la diagnosi di bradi- e tachiaritmie intermittenti.
Tuttavia, la tecnologia del monitoraggio ECG ha attualmente importanti limiti. È improbabile riuscire a porre una diagnosi con l’Holter
convenzionale in pazienti con sincope molto rara, con recidive nell’arco di mesi o di anni, perché la probabilità di correlazione sintomo-ECG è molto bassa. In queste circostanze, si deve considerare il
registratore ECG impiantabile 6. Indicato nella popolazione adulta 108,
utilizzato in età pediatrica in casistiche selezionate 109-112, può essere
sostituito in età pediatrica da registratori a memoria digitale che
permettono la registrazione prolungata nei giorni (7-10 giorni) o per
eventi (loop recorder esterno, event recorder).
Raccomandazione 14
L’esecuzione del monitoraggio elettrocardiografico (invasivo o
non invasivo) è raccomandato nelle seguenti condizioni:
1. monitoraggio ospedaliero (a letto/telemetria), in caso di significative cardiopatie, ad alto rischio di aritmia, potenzialmente letali;
2. monitoraggio Holter 24-48 ore, in pazienti che presentano
caratteristiche cliniche o ECG che suggeriscono una sincope aritmica ed episodi sincopali frequenti (almeno 1 per
settimana) e nei pazienti con cardiopatia strutturale, nei
quali si sospetti un’aritmia e non la cardiopatia di per sé
quale causa della sincope;
3. loop recorder esterno o impiantabile in pazienti con episodi
sincopali ricorrenti, soprattutto se con traumi e caratteristiche cliniche e/o ECG suggestive di una sincope potenzialmente aritmica o di eziologia indeterminata dopo valutazione completa.
Livello di evidenza IV – Forza della raccomandazione A
Raccomandazione 15
Il monitoraggio elettrocardiografico è diagnostico quando si
evidenzia una correlazione tra la sincope e una anomalia elettrocardiografica (bradi- o tachiaritmia); ai fini prognostici è utile evidenziare una “non correlazione” tra episodio sincopale ed
anomalia elettrocardiografica.
Livello di evidenza IV – Forza della raccomandazione A
Monitoraggio della pressione arteriosa 24 ore
Il monitoraggio della pressione arteriosa 24 ore (Ambulatory Blood
Pressure Monitoring – ABPM) è una metodica ampiamente validata, sia nell’adulto sia in età pediatrica, che consente di programmare un registratore oscillometrico a registrare i valori pressori ad
intervalli stabiliti, fornendo circa 70 misurazioni/24 ore. Ciò permette la valutazione dell’andamento circadiano, con i valori medi
di pressione arteriosa sistolica, diastolica e media nel corso del
giorno e della notte. Sono stati pubblicati studi che provvedono a
valori medi di riferimento per l’altezza, a partire dal 50° centile di
PA 113. Dati non ancora pubblicati di un partecipante il gruppo di
lavoro (Giordano) su una popolazione di 146 bambini di età compresa tra 3 e 18 anni (età media 9,4 ± 5,6 anni) giunti al DEA per
sincopi ripetute di tipo neuromediato e sottoposti ad ABPM, hanno
mostrato valori medi di pressione arteriosa inferiori al 50° centile
nell’91% dei casi, suggerendo l’ipotensione arteriosa (molto spesso familiare) come situazione predisponente allo sviluppo di episodi sincopali. L’ABPM è in grado di rafforzare i sospetti di sincope
neuro mediata, quando la storia è suggestiva, senza imporre la
significativa componente emotiva che genera invece l’esecuzione
del tilt test. Può inoltre essere eseguito in pazienti non collaboranti all’esecuzione del tilt test, vista l’attendibilità del test anche in
bambini molto piccoli 114.
Raccomandazione 16
L’esecuzione del monitoraggio della pressione arteriosa 24 ore
è indicata nei pazienti con storia suggestiva di ipotensione familiare o costituzionale, di età superiore ai 3 anni.
Livello di evidenza V – Forza della raccomandazione B
Test da sforzo
Il test da sforzo dovrebbe essere eseguito nei pazienti che hanno
avuto un evento sincopale durante uno sforzo fisico e non immediatamente o dopo poco dalla fine dello sforzo 37 115-127. La diagnosi
differenziale è fondamentale in quanto, nel primo caso, la sincope è sicuramente di origine cardiaca (aritmie ventricolari maggiori,
cardiomiopatie ostruttive, valvulopatie gravi) 2 mentre la seconda e
generalmente neuromediata 2 115 117 118 128, spesso favorita dalla disidratazione per sudorazione.
Raccomandazione 17
L’esecuzione del test da sforzo è raccomandata solo in pazienti
che presentano sincope durante lo sforzo fisico.
Livello di evidenza IV – Forza della raccomandazione A
Raccomandazione 18
Il test da sforzo è diagnostico quando induce sincope durante
o immediatamente dopo sforzo, in presenza di alterazioni ECG
e/o emodinamiche oppure se induce blocco atrioventricolare
(BAV) di secondo grado tipo Mobitz 2 o di terzo grado, anche
senza sincope.
Livello di evidenza IV – Forza della raccomandazione A
Lo studio elettrofisiologico, il cateterismo cardiaco e l’angiografia
vengono eseguiti in casi selezionati e solo su indicazione di un cardiologo esperto in aritmologia.
Indicazioni al ricovero
La ragione principale per ricoverare un paziente con sincope dovrebbe essere che il paziente sia stato classificato ad elevato rischio
per eventi disritmici o per morte improvvisa e che l’osservazione
clinica ed il monitoraggio del paziente possano condurre ad un adeguato trattamento.
Per il pediatra, è fondamentale saper differenziare, nell’ambito delle
perdite di coscienza transitorie, gli episodi non sincopali dalle sincopi
vere e proprie e, nell’ambito di queste ultime, le sincopi benigne, generalmente gestibili nell’ambito della medicina generale pediatrica, da
quelle potenzialmente pericolose da inviare ad appropriati accertamenti
specialistici e che potrebbero necessitare di ricovero ospedaliero.
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La sincope in età
LINEE
pediatrica
GUIDA
Tabella XII.
Indicazioni al ricovero a scopo diagnostico.
Raccomandazione 19
Il ricovero viene raccomandato nei soggetti con:
Cardiopatia strutturale, nota o sospetta, clinicamente rilevante
a) sincope da causa non determinata o che sono affetti da
scompenso cardiaco e/o da cardiopatia congenita o acquisita;
Anamnesi positiva per scompenso cardiaco, patologia valvolare cardiaca
emodinamicamente significativa, aritmie, crisi ipossiche,
“spasmi affettivi pallidi” che richiedano vigorosa stimolazione per risolversi;
Sincope durante attività fisica o associata a dolore toracico o a trauma
grave o improvvisa insorgenza di palpitazioni poco prima della sincope,
anche in soggetti non cardiopatici
Episodio sincopale che abbia richiesto rianimazione cardiopolmonare
Anomalie ECG indicative di possibile sincope aritmica (Tabelle VIII, IX)
Anamnesi familiare positiva per morte improvvisa giovanile < 40 anni
Cardiopatia di grado minimo o lieve qualora vi sia elevato sospetto clinico
di sincope cardiogena
Sincope insorta in posizione supina e/o recidive sincopali frequenti
Importanti patologie extracardiache associate (esempio anemia significativa)
Gravi effetti collaterali da farmaci di pertinenza specialistica o necessità
di importanti modifiche terapeutiche;
Ingestione di sostanze tossiche
Ictus o deficit neurologici focali, stato epilettico, segni di irritazione meningea
Nei casi in cui l’eziologia rimane indeterminata dopo la valutazione
iniziale, per decidere se ricoverare o meno, può essere utilizzato
un sistema di stratificazione del rischio (Tab. V). Nei pazienti in cui
l’eziologia della sincope è stata individuata dopo la valutazione iniziale, la decisione di ospedalizzare è subordinata alla prognosi della
patologia sottostante e/o al tipo di trattamento necessario per questi
pazienti.
Anche l’età costituisce un criterio importante. Infatti un episodio
sincopale che si verifichi al di sotto dell’anno di età non dovrebbe
prudenzialmente mai essere considerato benigno, in quanto più frequentemente imputabile a cause pericolose (apnea, epilessia, aritmie cardiache). In questa fascia di età sarebbe prudente ricorrere
al ricovero, salvo che l’episodio sincopale abbia le caratteristiche
cliniche di uno spasmo affettivo cianotico.
La decisione di ospedalizzare può essere presa in considerazione
con due diversi scopi: diagnostico (Tab. XII) o terapeutico (Tab. XIII). Si
dovrebbe inoltre tener conto che l’interpretazione dell’ECG da parte
di un cardiologo pediatra prima di pianificare il ricovero ospedaliero
potrebbe ridurre in parte tale necessità. Alcuni studi riportano, infatti,
una discrepanza di interpretazione dell’ECG in un dipartimento di
emergenza compresa fra il 13% ed il 24%. (17,21). Data l’attuale
disponibilità di fax e/o di trasmissione elettronica di dati, quando
possibile, si dovrebbero sottoporre gli ECG con interpretazione dubbia o sospetti patologici al giudizio di un cardiologo pediatra, prima
di programmare un ricovero sulla base dello stesso.
Tabella XIII.
Indicazione del ricovero a scopo terapeutico.
Sincope causata da aritmie cardiache
Sincope causata da ischemia miocardica
Sincope secondaria a patologie strutturali cardiache o cardiopolmonari
(Tabella I)
Ictus o deficit neurologici focali
188
b) sincope con caratteristiche cliniche che portino alla loro
stratificazione come soggetti a rischio elevato per eventi
avversi.
Livello di evidenza VI – Forza della raccomandazione B
Trattamento della sincope
Il trattamento della sincope deve essere stabilito in funzione dell’inquadramento nosografico del paziente. Le sincopi di origine cardiaca (Tab. I) e le non sincopi (neurologiche, psichiatriche, metaboliche)
(Tab. II) dovranno essere seguite in collaborazione con lo specialista
di competenza.
Il trattamento della sincope neuromediata sarà principalmente di
tipo comportamentale; i pazienti ed i genitori, come prima cosa, devono essere rassicurati sulla benignità dell’evento e istruiti sui meccanismi d’azione della sincope riflessa, in modo da poter prevenire
la sincope all’insorgenza dei sintomi ed eseguire le manovre che ne
impediscono lo sviluppo. In generale, il primo approccio a tutte le
forme neuromediate è solamente di tipo comportamentale (evitare
ambienti caldi e/o affollati, la disidratazione e quindi l’ipovolemia). In
questo caso, si consiglia di mantenere un adeguato introito sodico e
idrico per evitare l’ipovolemia, eseguire manovre capaci di sottrarre sangue agli arti inferiori e/o generanti aumenti della pressione
arteriosa (indossare calza contenitive, accavallare le gambe o assumere la posizione di “squatting”, hand-grip). Suggerire di eseguire
cambi di postura non repentini così come, se obbligati alla stazione
eretta, cercare di muovere i piedi per mantenere la pompa venosa.
Se questi consigli non sortiscono gli effetti desiderati, deve essere
sottolineata la necessità, all’insorgenza dei sintomi premonitori, di
assumere rapidamente la posizione supina, possibilmente a gambe
leggermente sollevate. In queste condizioni, l’utilizzo di sostanze stimolanti, quali caffeina (anche coca-cola), teina o cioccolata possono
aiutare il paziente ad una ripresa più rapida, anche se l’utilizzo cronico è sconsigliato visto l’effetto anche diuretico di queste sostanze
che contribuirebbe di conseguenza a successiva, relativa, disidratazione. Studi clinici hanno consigliato, anche se con controversie, il
“tilt training”, cioè un allenamento a mantenere per tempi sempre
più lunghi la posizione eretta, possibilmente con la schiena poggiata
sul muro, partendo da cinque minuti fino ad arrivare anche a 15 -30
minuti.
Se i sintomi continuano, può essere necessario instaurare un trattamento farmacologico, specie se gli episodi sincopali hanno generato
traumi fisici. Studi prospettici, randomizzati, controllati con placebo
hanno evidenziato tre agenti farmacologici efficaci in età pediatrica:
• la midodrina (cominciando con 5 mg due/tre volte al dì), un alfaagonista selettivo, è indicata in quanto diminuisce la capacitanza
venosa ed è efficace a dosaggi che non determinano aumento
della PA 129. Il farmaco non attraversa la barriera emato-encefalica, quindi non ha effetti collaterali sul SNC. Negli USA viene
considerato come un trattamento di prima scelta 130 e studi su
adulti ne hanno dimostrato l’efficacia nel trattamento preventivo
delle recidive 131 132;
LINEE GUIDA
La sincope in età pediatrica
• la paroxetina un inibitore selettivo del reuptake della serotonina,
è considerata efficace nel trattamento delle POTS 133 134;
• il fludrocortisone serve a favorire il mantenimento della volemia;
• non sono risultati, invece, efficaci i betabloccanti.
La terapia farmacologica può essere interrotta quando trascorre un
periodo sufficientemente lungo senza sintomi (almeno 12 mesi) ed
eventualmente ripresa, se i sintomi si ripresentano 135.
Terapia degli spasmi affettivi. Nella maggior parte dei casi, si può limitare ad un accurato counseling familiare. La conoscenza della storia naturale della malattia e ciò che essa prevede può notevolmente
sollevare l’ansietà dei genitori. È stato dimostrato che il trattamento
con ferro porta a miglioramento dei bambini con deficit 51 136 137. I
casi con prolungata asistolia possono necessitare dell’ impianto di
un pacemaker permanente 138. L’atropina è stata proposta in passato come efficace nel ridurre la severità e la frequenza delle sincopi,
ma sono frequenti effetti avversi, quali perdita di concentrazione,
secchezza delle fauci, disturbi intestinali e alterazioni dell’umore 139.
Alcuni Autori hanno riportato l’efficacia del piracetam 140 141.
Raccomandazione 20
In caso di sincope riflessa o neuromediata il trattamento è soprattutto comportamentale per prevenire eventuali successivi
episodi. Quando possibile, oltre ai genitori/tutore, deve essere
coinvolto anche il paziente.
Livello di evidenza VI – Forza della raccomandazione A
Idoneità sportiva
Al pediatra viene spesso richiesto un parere sull’opportunità che un
paziente con sincope possa iniziare/continuare un’attività sportiva.
Nella maggioranza degli atleti giovani, la sincope ha un’origine neuromediata ed una prognosi benigna. Tuttavia, essa può costituire
l’epifenomeno di una patologia cardiaca misconosciuta, anche a
prognosi fatale e rappresentare un potenziale marker di rischio di
morte improvvisa. Inoltre, a prescindere dalla causa, la sincope può
associarsi al rischio di traumatismi, soprattutto in atleti praticanti
sport a rischio intrinseco elevato. Nella valutazione iniziale dell’atleta che ha avuto una sincope vanno perseguiti tre obiettivi prioritari:
differenziare la sincope da altre condizioni presunte non cardiogene;
ricercare gli elementi clinici in grado di suggerire la diagnosi; valutare l’eventuale presenza di cardiopatia. Sono già state pubblicate Linee guida su protocolli cardiologici per il giudizio di idoneità sportiva
agonistica, anche in pazienti con malattie cardiovascolari 142-144.
Raccomandazione 21
Si raccomanda l’astensione/sospensione dall’attività sportiva
Bibliografia
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nel paziente con perdita di coscienza transitoria fino a diagnosi
avvenuta
Livello di evidenza VI – Forza della raccomandazione A
La sincope neuromediata nell’atleta sembra avere prognosi favorevole. Quindi, una volta accertato che la perdita di coscienza è dovuta a tale meccanismo, l’atleta potrà essere riammesso allo sport
competitivo. Tuttavia, criteri restrittivi devono essere adottati negli
atleti praticanti sport a rischio intrinseco elevato, nei quali la perdita
di coscienza può comportare un’elevata possibilità di gravi eventi
avversi per l’atleta.
Raccomandazione 22
Al paziente con sincope riflessa o neuromediata il medico deve
consentire di praticare attività sportiva.
Livello di evidenza VI – Forza della raccomandazione A
Nelle sincopi di origine cardiaca aritmica, la concessione dell’idoneità
dovrà essere basata sul tipo di aritmia riscontrata e/o sull’eventuale
patologia cardiovascolare associata, nonché sui risultati dell’eventuale studio elettrofisiologico. Le sindromi da QT lungo congenito controindicano in senso assoluto ogni tipo di attività sportiva, anche in
assenza di aritmie ventricolari maggiori documentate. Ricordiamo che
nel soggetto con sindrome del QT lungo, la bradicardia può essere uno
degli elementi del quadro clinico (specie nel giovane e nel bambino).
Pertanto, nel soggetto bradicardico, va sempre esclusa la presenza
di QT prolungato. I soggetti asintomatici con PR corto e QRS stretto
possono essere fatti idonei. Sebbene non possano essere stilate linee di comportamento generali valide in tutti i casi, vi sono patologie
che, per gravità e/o complessità, controindicano di per sé la pratica
sportiva agonistica. A questo gruppo appartengono: anomalia di Ebstein; atresia della tricuspide; atresia della polmonare, a setto integro
o con difetto interventricolare (quando non è stato possibile il recupero
completo del ventricolo destro); sindrome di Eisenmenger; ipertensione polmonare primitiva; trasposizione congenitamente corretta delle grandi arterie; trasposizione delle grandi arterie corretta secondo
Mustard o Senning; difetti associati dell’efflusso ventricolare sinistro;
origine anomala delle arterie coronarie; cuore univentricolare; sindrome di Marfan; sindrome di Ehlers-Danlos. Debbono essere inoltre
comprese tutte le cardiopatie in cui la correzione chirurgica implichi
l’apposizione di condotti protesici e/o protesi valvolari.
Raccomandazione 23
Al paziente con sincope di origine cardiaca aritmica e/o strutturale, l’idoneità alla pratica sportiva sarà certificata dal pediatra
curante, dopo opportuna valutazione del cardiologo pediatra.
La certificazione allo sport agonistico è ovviamente a cura dello
specialista in Medicina dello Sport.
Livello di evidenza VI – Forza della raccomandazione A
4
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Corrispondenza
dott. Umberto Raucci, DEA-Pediatria dell’Emergenza, IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, piazza Sant’Onofrio 4, 00165 Roma. E-mail: [email protected]
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