NATALE ANNO ZERO “Clandestini! Di sicuro sono clandestini!”. Il

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NATALE ANNO ZERO “Clandestini! Di sicuro sono clandestini!”. Il
NATALE ANNO ZERO
“Clandestini! Di sicuro sono clandestini!”.
Il giudizio era stato forse un po’ troppo categorico, ma in quel piccolo paese della
Giudea che solo le mappe geografiche più dettagliate riportavano e dove tutti
conoscevano tutti, a chiunque avesse un aspetto non familiare veniva riservata una
non poco incoraggiante dose di diffidenza.
“Ma no -diceva un altro-. Non vedi che sono forestieri solo di passaggio e che le circostanze della
vita hanno costretto a cercare ospitalità da noi? ”.
Fra quelle quattro case dove gli unici argomenti vertevano di volta in volta, secondo
le stagioni, sulla raccolta delle olive, sulla semina del grano o sulla tosatura delle
pecore, quella stella luminosa apparsa nel cielo e il canto festoso di angeli sopra una
misera capanna erano diventati gli unici riferimenti di interesse di quella gente. Di
uscio in uscio e di cortile in cortile l’unico motivo di dialogo sulla bocca di tutti era la
storia di quei due giovani sposi costretti a festeggiare in una stalla l’avvenimento più
bello della loro vita: la nascita di un figlio.
“Ma non potevano andare alla locanda? -commentò un tale, subito zittito-. “Io ero là quando quei
due sono entrati a chiedere ospitalità, ma non avendo potuto pagare, l’oste li aveva
sgarbatamente cacciati fuori, tacciandoli come vagabondi e fannulloni”.
I vicoli stretti dell’umile borgo con ancora addosso il profumo delle mimose
selvatiche appena sbocciate si spartivano le indiscrezioni raccolte: voci ascoltate da
un passante, che a sua volta le aveva raccolte da un suo vicino di casa, al quale le
aveva riferite un amico che poi…
Gente semplice e povera, certo, ma di cuore; quel cuore che spontaneamente aveva
sensibilizzato la coscienza di tutti, alimentando quel sentimento capace di
riconoscersi nella situazione di quei due giovani sfortunati. In ognuno, soprattutto
fra le donne che più di ogni altra persona capivano la tenerezza di una maternità,
s’era creata una spontanea gara di solidarietà: chi portava un pane ancora caldo, chi
una coperta di lana ricamata con le proprie mani, chi un pezzo di formaggio o
candide tovagliette per avvolgere il bimbo appena nato. Tutti volevano fare la
propria parte, cercando nella misera dispensa la risposta alla loro generosità.
Gli unici a non essere ancora contagiati da tanto scalpore erano un gruppo di giovani
amici che, forse intenti a giocare dentro un cortile, non si erano preoccupati ne poco
ne tanto di quello che succedeva attorno a loro.
Un viandante, incamminato verso la capanna, aveva preso l’iniziativa di informare i
ragazzi, dando senza fermarsi qualche dettaglio su ciò che stava accadendo. Il
consenso fu unanime ed immediato
“Sì, dai! Andiamo anche noi”
Mentre si spartivano i compiti che li avrebbero accompagnati verso la mangiatoia:
chi correva in casa e ritornava con un grezzo carrettino di legno, chi con un disegno.
Un altro recava biglie di vetro, uno zufolo, sassi colorati. Ma non tutti erano così
bendisposti perché fra loro c’era chi era talmente povero, ma povero davvero, da
non aver proprio niente da regalare e non possedeva neppure dei vestiti decenti che
sarebbe buona cosa indossare quando si va a trovare una persona, tanto più se è
una persona che non si conosce.
“No, io non ci posso venire -si schermiva giustificandosi- andate voi e poi mi racconterete quello
che avete visto. Io non ho niente da offrire e anche se il mio cuore non desidera altro, le mie mani
vuote la pensano diversamente. “Neanche per sogno! O si va tutti o non ci va nessuno!
Non siamo forse amici fin da quando eravamo bambini? E allora tutti assieme si va a vedere da
che cosa nasce questa voglia di correre verso una stalla. Se proprio poi hai qualche timore tu
rimani dietro. Ci pensiamo noi a nasconderti e vedrai che nessuno con la confusione che ci sarà si
accorgerà di te”.
La richiesta era stata così esplicita che il povero ragazzo non se l’era proprio sentita
di addossarsi tutte le colpe di quella rinuncia e, camminando dietro agli altri con gli
occhi bassi ne seguiva il percorso, cercando di non mostrare le mani vuote che
nascondeva goffamente dentro un logoro maglione tutto rattoppato.
“Ecco il posto ideale per osservare senza essere osservato”
Pensava tra sé e sé, incuneandosi in un anfratto semibuio della piccola mangiatoia,
mentre la generosità della gente si adoperava per offrire quel poco che aveva
portato.
“Quanta tenerezza in quella madre”
pensava, osservandola dal suo provvidenziale nascondiglio. Ecco! Ora amorevolmente
china sopra il suo piccolo fardello, raccoglierlo delicatamente fra le sue braccia,
stringerselo forte al seno, riempirlo di baci e….
“Oh ! Viene proprio verso di me! Lo sapevo che prima o poi mi avrebbero scoperto!”.
A quel punto bisognava trovare un compromesso tra la paura e la vergogna. Il
rossore, anche se apparentemente non si poteva notare nell’oscurità, aveva
pervaso tutto il corpo e non solo il suo viso, generando un batticuore così evidente
da dare l’impressione che sussultasse persino la terra sotto i suoi piedi. Ma il viso
sorridente di Maria in quell’istante raccoglieva tutte le sembianze della dolcezza
materna mentre, avvicinandosi a lui, consegnava la sua creatura fra le braccia dello
spaurito ragazzo.
“Tu sei il solo che ha le mani vuote: vuoi tenere il mio bambino e cullarlo un poco intanto che io mi
distendo sulla paglia a riposare?”
Non c’erano risposte da dare: solo l’incontenibile contentezza e il battito
accelerato del suo cuore sapevano esprimere l’emozione di quei momenti perché
solo chi aveva le mani vuote poteva stringere e coccolare il piccolo Gesù.
Ma quante mani vuote anche oggi dopo duemila anni da quel Natale: mani vuote di pane,
mani vuote di sogni, di speranze, di futuro. Noi che ogni giorno riempiamo i notiziari di tutto il
mondo con parole come globalizzazione, risorse umane e facciamo convegni sul come
sconfiggere la fame nel mondo, parlando di colture alternative e di organismi geneticamente
modificati. Noi che buttiamo tonnellate di cibo scaduto e distruggiamo i frutti della nostra terra
per conservarne il valore commerciale.
Noi che… ma poi…?
…poi tutto finisce in una foto ricordo con tanto di sorrisi e strette di mano senza che ci si renda
conto che solo nel tempo della consueta programmata abbuffata sono morti di fame duemila
bambini (proprio di quella fame che costoro con la pancia piena avevano dichiarato di
sconfiggere). Bambini che hanno ancora le mani vuote nonostante le inutili bugie raccontate.
Almeno noi non lasciamo allora che le fragili dita di questi innocenti si richiudano ogni sera
piene solo di lacrime senza averci messo dentro un poco della nostra generosità, delle nostre
speranze, della nostra felicità per farli partecipi un domani di un futuro migliore. Solo così
avremo la certezza di essere i destinatari di quella pace promessa in terra agli uomini di buona
volontà, cantata dagli angeli sopra l’umile capanna di Betlemme.
Ci basta solamente un po’ di coraggio e un sorriso in più per farci e far star meglio milioni di
bambini che forse questa notte non vedranno accendersi le stelle sopra il loro cielo e sono
rimasti là ai bordi di una discarica con le loro manine vuote e la speranza morta con loro.
Elio Sacco
artista e poeta
di Oggiona con S. Stefano (Varese)