La violenza, l`arcipelago della menzogna e il

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La violenza, l`arcipelago della menzogna e il
La violenza, l’arcipelago della
menzogna e il larice immortale
A Lidia e Mihai Balint,
a tutta la loro famiglia
e al popolo romeno
PER INIZIARE
Dobbiamo plaudire al neonato editore Uroboros e ai loro fondatori per due motivi. Il primo
è di ordine materiale: in un momento di difficoltà economiche e di mancanza di idee, dei
giovani trentenni prendono il coraggio a quattro mani e decidono di fondare una casa
editrice, ben consci dei rischi cui vanno incontro. Il secondo riguarda l’aspetto più
propriamente culturale dell’operazione. Per chi crescono le rose della brava Ingrid Beatrice
Coman è una delle prime pubblicazioni di Uroboros e il primo romanzo di una collana dal
suggestivo titolo «Bookarest», che si propone di diffondere parte della letteratura dei nuovi
paesi entrati nell’Unione Europea, così ricca e profonda. La sfida è notevole, soprattutto
perché la stragrande maggioranza degli italiani, anche colti, ritiene che dall’Est e in
particolare dalla Romania – terra natale di Ingrid Beatrice Coman – si possano importare
solo la delinquenza e le badanti, al massimo qualche muratore. Pur tutt’e tre elementi sociali
utili,1 la Romania custodisce invece altri generi di tesori.
La Coman non è un’esordiente e ha già al suo attivo tre opere letterarie,2 così Edizioni
Uroboros si è garantito una penna di prima scelta. E che la Coman sia una grande scrittrice,
il lettore lo capirà sin dalle prime pagine di questo romanzo, esile come un fiore di campo
ma robusto come una quercia.
È all’apparenza una storia d’amore, che però contiene una parte di storia d’Europa – la
Romania sotto Nicolae Ceausescu – e alcuni tratti essenziali del carattere romeno. Certo, un
1
È nota la funzione di muratori e badanti, assai meno quello della delinquenza (peraltro minoritaria e del tutto più
concentrata tra i rom o, per meglio dire, tra gli tzigani), che serve come esercizio di stile per certa “informazione” e
grandi manovre politiche europee.
2
Traggo dalla biografia che lei stessa mi ha inviato: La Città del Tulipani (Luciana Tufani editrice, Ferrara, 2005), «il
suo primo romanzo, dedicato al popolo afgano, è storia di gente comune, anonimi eroi di una guerra quotidiana da
vincere o da perdere in silenzio, lontano dalla luce dei riflettori»; Tè al samovar (L’Harmattan, Torino, 2008) «ci porta
nella Russia sovietica degli anni Cinquanta, a vivere insieme ai suoi protagonisti una storia d’amore faticosa e
commovente, nata sullo sfondo del Grande Terrore, in cui i personaggi cercheranno di mettere insieme la difficile
memoria del passato da dimenticare al presente che invece chiede di essere vissuto». Ancora del 2008 è la raccolta di
racconti e pièce teatrali Non spegnete la luce (La Memoria del Mondo, Milano).
1
romanzo non può sostituire la ricerca storiografica, ma un romanzo come questo invita ad
approfondire la conoscenza di un Paese che, a causa di pregiudizi e ignoranze varie, si
conosce poco o nulla, e male.
Lo dico senza timore di apparire poco oggettivo: amo la Romania e il suo popolo, amo la
sua storia gloriosa. Ed è per questo che, quando l’editore e Ingrid mi hanno chiesto di
scrivere questa prefazione non ho esitato un istante, provando al contempo orgoglio e un po’
di timore. Insomma, non è mai facile scrivere di ciò che si ama, però riempie il cuore e, tra
l’altro, offre la possibilità di raccontare cose che sui giornali, per svariati motivi, non riesce
a trovare ospitalità. Mi sono pertanto permesso di esondare e offrire al lettore alcuni spunti
di riflessione e di studio sulla terra che fu dei Daci e dell’imperatore Traiano, la cui storia
attraversa i secoli con il magnifico incedere di un guerriero.
Ceausescu prese il potere nel 1965 e lo mantenne per oltre vent’anni, ossia fino ai giorni
precedenti il Natale del 1989. Al contrario di molti capi comunisti, non salì al potere con la
forza. Infatti già dalla fine della seconda guerra mondiale, la Romania era finita sotto il
giogo rosso. Il regime precedente a quello di Ceausescu era di stretta obbedienza stalinista, e
a capo vi erano Ana Pauker (al secolo Hannah Rabinshon), della quale parleremo
diffusamente più oltre, e Vasile Luca, anch’egli di origini ebraiche e di sicuro ungherese (il
suo vero nome era Laszlo Luka). La Romania poté quindi “godere” di una delle più lunghe
dittature comuniste della storia e, vedremo, di quella che è, almeno agli occhi di molti,
senza dubbio la più controversa.
E adesso per prima cosa, dobbiamo osservare da vicino alcune caratteristiche speciali del
popolo romeno, le quali ci aiuteranno meglio a cogliere il peso del comunismo in questo
Paese.
«ANIMA NATURALITER CHRISTIANA». MA NON SOLO
Sono solito sovente ripetere che al mondo non c’è niente di più antitetico al comunismo che
lo spirito del popolo romeno. La storia della Romania, dall’antica Dacia sino agli anni della
seconda guerra mondiale, raccontano una genesi e una struttura profondamente spirituali,
direi metafisiche, eroiche e coscienti di avere una missione nel mondo. I romeni, ad
esempio, erano cristiani prima di Cristo, e Mircea Eliade ha scritto che la Romania ha
un’anima naturaliter Christiana. Cristiani prima di Cristo potrebbe sembrare un paradosso,
forse per taluni un’offesa, ma non lo è.
Sebbene la conversione ufficiale della Romania al cristianesimo risalga al VII secolo, già
nel IV i daco-romani, progenitori dei romeni, si stavano cristianizzando. In questa parte
d’Europa essi furono i primi ad accogliere la fede in Gesù, e, al contrario di altre nazioni
che vi giunsero non solo parecchio tempo dopo ma altresì forzatamente attraverso decreti o
battesimi pubblici (la Russia fu battezzata nel 988, l’Italia si convertì per mezzo dell’editto
di Costantino), i romeni e i daco-romani accolsero il Vangelo spontaneamente, attraverso i
missionari. D’altra parte l’antico culto di Zalmoxis, che apparteneva alla Dacia ed è il più
antico che si conosca in quest’area, può essere considerato un prodromo cristiano.
Non si sa se Zalmoxis fosse una divinità celeste o terrestre. Poco conta: questa sublime
“ambiguità” è presente anche in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo a un tempo. Di sicuro
sappiamo ciò che Zalmoxis aveva insegnato alle sue genti: la morte non è la fine della vita,
bensì un mutamento di dimora. Per i geto-daci (i più antichi progenitori dei romeni,
precedenti all’arrivo dei romani) il primato nella vita di un uomo spetta allo spirito. Essi
2
credevano nell’immortalità dell’anima, e avevano pertanto in disprezzo dolore e morte
fisica, come ampiamente dimostreranno affrontando i moltissimi invasori.
Lungi dall’essere un culto “primitivo”, nel senso sbagliato e degenere del termine, quello di
Zalmoxis era invece assai sviluppato, nonché eroico, davvero antesignano dell’autentico
cristianesimo. Questo culto era talmente possente e profondo, che colpì persino Platone.3
La mitologia di Zalmoxis è suggestiva. Pare fosse stato discepolo di Pitagora. Secondo
Erodoto, il primo greco che dia testimonianza di questo culto, ciò non sarebbe stato
possibile, poiché Zalmoxis (che a questo punto si presenta come un essere umano ma
divinizzato!) sarebbe vissuto molto tempo prima del filosofo di Samo. Se l’obbiezione dello
storico greco è verisimile, se non addirittura reale, saremmo dinnanzi a un fatto
sorprendente, poiché sarebbe attestata l’identità tra la dottrina di Zalmoxis e quella
pitagorico-platonica; e ciò testimonierebbe in favore di un idem sentire degli antichi, di una
base dottrinale e metafisica che ebbe il suo completamento finale nel Cristo, l’ultima e
definitiva rivelazione.
Da notare che Zalmoxis è una divinità unica, non ve ne sono altre accanto a lui. Possiamo
quindi parlare di monoteismo in tempi non sospetti. Inoltre un’altra caratteristica era la
promessa dell’unione con la divinità: un processo non dissimile, anzi assai vicino a quello
dell’unio mystica e della divinizzazione presente nel cristianesimo filocalico e in molti Padri
della Chiesa. Sono questi altri due aspetti che mettono in relazione il culto di Zalmoxis con
quello cristiano.
Oltre a quello di Zalmoxis,4 vi sono altri due miti importanti per la formazione del popolo
romeno: quello di Mastro Manole e quello contenuto nel poema intitolato Miorita. Entrambi
sono assai antichi e hanno molto in comune con il mito cristiano.
Mastro Manole da dieci anni tentava di costruire una fortezza, ma non riusciva mai a
terminarla. Era necessario un sacrificio. Così Mastro Manole decise di murare viva una
persona all’interno dell’edificio che stava costruendo, la prima che si fosse avvicinata al
cantiere. Arriveranno non una ma ben due persone, che erano purtroppo la moglie e il figlio
del maestro, il quale non poté sottrarsi al suo compito (la donna sarà murata insieme al
piccolo, ma sia gli occhi, sia il seno per allattare, saranno lasciati liberi). Si tratta di un rito
edificatore: per assicurare la permanenza di qualsiasi edificio, esso dev’essere “animato”
attraverso un sacrificio.
L’altro mito è meno cruento. La Miorita parla di un pastore messo in guardia da un agnello
(miorita significa, guarda caso, proprio agnello) che sarà ucciso da compagni invidiosi. Il
pastore, anziché fuggire, accetta serenamente il proprio destino, e attende la morte. Come si
vede, anche in Miorita, la morte è accettata di buon grado, anzi in maniera eroica e stoica. Il
paragone tra questi culti comunemente definiti “pagani” e il cristianesimo non deve
scandalizzare. Nei Vangeli abbiamo testimonianza della preesistenza di Gesù. In Giovanni
la troviamo nei primi versetti del Prologo e poi in 8,58, allorché il Cristo dice: «Prima che
Abramo fosse, io sono».
Entrambi questi miti, per il modo in cui è considerata la morte e per il tema del sacrificio,
sono del tutto affini al cristianesimo. Gesù fonda la Chiesa prima di morire, ossia si sacrifica
affinché essa nasca e permanga, e accetta il proprio sacrificio senza tentare di sfuggirvi e per
assecondare la volontà del Padre. «La morte – scrive il grande storico delle religioni Mircea
3
Nel Carmide, 156 D-E. 4
Sui traci, i geto-daci e poi su Zalmoxis vedere M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, 3 voll., Rizzoli,
Milano, 2008, vol. II, pp. 173-181.
3
Eliade – non è uno sminuimento dell’essere umano; ma, al contrario, ne è un accrescimento,
da un punta di vista metafisico, naturalmente».
Questi due miti furono dati ai progenitori degli attuali romeni anche per far fronte alle
molteplici invasioni da cui furono assediati per mille e cinquecento anni (dal II al XVIII
secolo d.C.). Fu infine il cristianesimo il motivo e al tempo stesso la forza che sottendeva
alla resistenza di questo popolo davanti alle continue e a volte sanguinose invasioni di
barbari e pagani.
I romeni, figli anche della più pura latinità portata in quelle zone dall’imperatore Traiano,
sono sopravvissuti e sopravvivono in mezzo a grandi nemici (ultimi in ordine di tempo sono
il comunismo e l’Unione Europea).
Due fattori hanno contribuito a questa sopravvivenza (a volte i romeni hanno davvero
sopravvissuto resistendo, ma in loro è sempre stato presente un principio vitale creativo). Il
primo è il legame con la terra, il secondo è proprio la fede cristiana. Scrive ancora Eliade:
«Nella lingua romena cristiano significa romeno». L’acuto osservatore di genti e costumi ha
poi detto: «Quel che colpisce studiando la vita religiosa dei Romeni è il naturalismo della
loro fede cristiana: anima naturaliter Christiana. Una fede che trasfigura il mondo senza
peraltro annichilirlo o ripudiarlo. Una visione totale dell’universo non pessimista, perché il
Bene alla fine trionfa sempre sul Male. Tutto ciò che esiste nel mondo partecipa alla
tragedia della Salvezza attraverso la Passione di Gesù. È in virtù di queste sofferenze che
l’albero dà frutti, gli animali allattano i proprio cuccioli, le madri cullano i loro bimbi, etc.
L’intero mondo obbedisce a un solo principio-guida, quello dell’ordine e dell’armonia.
Grazie a questo principio, ogni cosa nell’universo ha un significato, tutto ciò che esiste
sottolinea il fatto che v’è una connessione fra tutti i livelli di realtà. Il principio di ordine e
di armonia non appartiene alle cose ma è retaggio di Dio. In altre parole, è un’espressione
temporale del Logos divino. Grazie alla credenza nell’onnipresenza di Dio nella vita e nella
storia, i Romeni non hanno mai commesso il peccato di disperare a dispetto del loro tragico
passato. Ma hanno sempre coltivato la speranza che alla fine il Bene avrebbe trionfato sul
Male».5
Nonostante tutto questo, da qualche decennio la Romania sta subendo un vero e proprio
assalto, che sta avendo un qual certo successo. Tralasciando di affrontare la storia del XIX
secolo6, passiamo a quella del Novecento. Le due principali forze che hanno tentato di
divellere le radici romene sono state, da una parte, il comunismo sino a vent’anni fa e,
dall’altra, c’è oggi l’Occidente, con i suoi miti politici, tecnologici e sonanti.
L’ESPERIMENTO PITESTI, TESTO E CONTESTO
La letteratura occidentale e in particolare italiana sugli oltre quarant’anni di comunismo in
Romania è scarsissima, per non dire nulla. Trascuriamo qui di polemizzare con giornalisti e
accademici: il lettore giudicherà da sé questo buco nero nella storiografia mondiale di casa
nostra e delle democrazie liberali. Comunque verso la fine tornerò brevemente sulla
questione.
5
Tutte queste le citazioni, salvo diversa indicazione, sono tratte da M. Eliade, Breve storia della Romania e dei rumeni,
Settimo Sigillo, Roma, 1997. È questo un lavoro di poche pagine, agile ma al contempo esaustivo, che riferisce bene
non solo sulla storia esteriore del popolo romeno attraverso i secoli, ma altresì del suo spirito.
6
Mihai Eminescu, il più grande poeta romeno nonché raffinata e acuta mente politica, ha scritto pagine illuminanti.
Peccato che il volto politico di Eminescu non piaccia a molti moderni. Significativo a questo proposito è il titolo d’un
libro, in cui mi sono imbattuto per caso nello spaccio del monastero di Neamt l’estate scorsa, di R.M. Crisan: Eminescu
interzis. Gandirea politica, (Eminescu proibito. Il pensiero politico), Criterion, Bucuresti, 2008.
4
Come ho già poc’anzi detto, sono persuaso che la manifestazione del comunismo in
Romania sia stata la peggiore della storia. Gli esempi con cui suffragare quest’asserzione si
sprecherebbero. Basti però qui ricordare che si è verificata in Romania ciò che Alexander
Solgenitsin ha definito «la più grande barbarie del mondo contemporaneo» (in Arcipelago
Gulag), ossia il famigerato ma purtroppo non ancora famoso Esperimento Pitesti. Gli unici
due lavori usciti in Italia sono Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? La
rieducazione nel carcere di Pitesti di Aurel Visovan (Ed. Napoca Star, Cluj-Napoca, 1999) e
Musica per lupi. Il racconto del più terribile atto carcerario nella Romania del dopoguerra di
Dario Fertilio (Marsilio, Venezia, 2010).7
Oltre duemila uomini (ma c’è chi suggerisce cinquemila) sono stati torturati e molti uccisi
nell’àmbito dell’Esperimento. Le metodologie di rieducazione e la ferocia applicate in quel
carcere potrebbero essere il frutto di una perversa fantasia d’uno scrittore dell’orrore, che
sviscerasse tutti i più mefitici e satanici istinti dell’essere umano e li mettesse in scena senza
la benché minima censura. Fertilio è uomo avveduto e cauto, non incline alle esagerazioni,
ma ha pur scritto: «Fra il 1949 e il 1952 in Romania accadde una cosa… una cosa di cui si
dovrebbe tacere, dal momento che non esistono parole per descriverla. Pensate alle spavento
più irragionevole, alla fonte di ogni orrore, e siete sulla via di Pitesti», qui «l’uomo
regrediva alla bestia». Pitesti «è giù in fondo. Oltre, non c’è più niente».8 Chi sa di Pitesti,
per non dire ovviamente di chi l’ha vissuta, a stento trova le parole per descrivere
quell’esperienza. Lo stesso Fertilio ha dovuto ammorbidire, in taluni momenti, il racconto.
In Romania il cineasta Sorin Iliesiu sta girando un film documentario sull’Esperimento:
Genocidul sufletelor. Experimentul Pitesti – reeducarea prin tortura (Il genocidio delle
anime. L’Esperimento Pitesti, ovvero la rieducazione attraverso la tortura), che sarà
accompagnato da un libro.9
Il 16 settembre 2010 presso l’Accademia di Romania a Roma, ho avuto l’onore di
presiedere alla presentazione del libro di Fertilio, e per l’occasione ho voluto che fossero
presenti Iliesiu e un sopravvissuto a Pitesti, che in questo caso fu Paul Dumitrescu,
all’epoca militante del Partidul national-taranesc (Partito nazional-contadino). Durante la
serata abbiamo proiettato un’anticipazione, in esclusiva per l’Italia, del lavoro del cineasta:
un’intervista di circa venti minuti ad Aristide Ionescu, anch’egli sopravvissuto al carcere di
Pitesti. Per la prima volta in quell’occasione, molti italiani e diversi romeni furono resi
edotti sull’inaudito.10
7
Il libro di Visovan, scritto con la collaborazione di Gheorghe Andreica, ha due grandi limiti: una traduzione a dir poco
zoppicante ed è di difficile reperibilità, poiché, pur essendo in lingua italiana, è stampato da un editore romeno. Così il
lavoro di Fertilio, a mezzo tra saggio e romanzo (potremmo definirlo romanzo storico, ché è fondato su documenti),
risulta essere di fatto l’unica pubblicazione nella nostra lingua, per giunta recentissima, sull’Esperimento.
8
D. Fertilio, Musica per lupi, cit., pp. 11, 12, 171.
9
Per immensità documentale, ritengo che Genocidul sufletelor farà epoca e storia, dovrà farle, accanto alle grandi
epopee come Arcipelago Gulag, I racconti di Kolyma di Varlam Salamov (l’edizione completa è di Einaudi), Il libro
nero del comunismo e, sul fronte opposto, Shoah di Claude Lanzmann. Presente in Rete segnalo
http://www.thegenocideofthesouls.org/public/italiano/il-nostro-appello/, il sito ufficiale sul lavoro di Iliesiu. Di decisiva
importanza e di notevoli proporzioni, nonché già disponibile, è l’immane opera di Lucia Hossu Longin, Memorialul
durerii (Il memoriale del dolore), Humanitas, Bucuresti, 2006, la più vasta raccolta di testimonianze video, con
trascrizione cartacea, sul terrore comunista in Romania, il cui sottotitolo è eloquente: O istorie care nu se invata la
scoala, una storia che non si impara a scuola.
10
Questo video si trova sul sito che ho indicato nella nota precedente, ma c’è solo l’audio in romeno. Chi volesse
visionare il filmato con sottotitolo in italiano potrà contattarmi attraverso Uroboros.
5
L’Esperimento durò all’incirca tre anni, ma l’arcipelago carcerario rosso seguitò a
perpetrare le sue crudeltà ancora per molti anni.11
Dopo la cessazione dell’Esperimento, i responsabili materiali della prigione furono
processati nel 1954 e uccisi tre anni dopo. Il più noto tra loro era Eugen Turcanu, capo dei
torturatori di Pitesti.
Da molto giovane, Turcanu era stato un legionario, ma quando i sovietici invasero la
Romania nel 1944 divenne un fervente comunista. Nonostante questo, il passato non poteva
essere cancellato: pare infatti che un legionario arrestato abbia segnalato involontariamente
Turcanu come ex appartenente alla formazione di Corneliu Zelea Codreanu. Il partito chiese
conto di questo trascorso a dir poco scomodo per una persona che era “sempre” ovviamente
stata comunista. I compagni di partito non accettarono nessuna giustificazione e spedirono
Turcanu in carcere.12 Però gli diedero una possibilità. Il suo sarebbe stato un regime
carcerario speciale: pur rimanendo in prigione, avrebbe svolto il ruolo di torturatore.
Spieghiamo in breve il perverso meccanismo che era stato innescano a Pitesti. In questo
carcere non c’erano guardie, o meglio: c’erano ma in misura infima e, soprattutto, non erano
loro a svolgere il lavoro sporco. Non possiamo indugiare in questa sede sui metodi di
tortura, che erano davvero diabolici. Ai fini della nostra trattazione, basti sapere che erano
gli stessi detenuti, opportunamente addestrati, a seviziare i loro compagni di carcere,
affinché i torturati diventassero torturatori, passassero, com’era consuetudine dire,
«dall’altra parte». Si capisce che questo sistema garantiva le mani pulite ai responsabili
politici, i quali ufficialmente non avevano dato alcun avvio all’Esperimento, che infatti
doveva rimanere segreto, così come segreto fu il processo a Turcanu e agli altri responsabili
dei crimini commessi a Pitesti. Il processo tuttavia non fu affatto una condanna del regime,
quanto piuttosto ciò che possiamo definire sia un regolamento di conti interni al Partidul
comunist roman (Partito comunista romeno), sia l’ennesima prova di forza dei comunisti
contro il Movimento legionario, più noto come Legione dell’Arcangelo Michele o Guardia
di Ferro, che prima del vigliacco assassinio nel 1938, era stato guidato dal suo fondatore,
Corneliu Zelea Codreanu.
Nel partito vi erano due anime: la prima che obbediva a Stalin, l’altra di carattere
nazionalista. La fazione stalinista era quella cui le era stato conferito il potere dopo
l’invasione sovietica della Romania nel 1944 ed era capeggiata dalla già menzionata Ana
Pauker; la fazione nazionalista invece aveva alla testa Gheorghe Gheorghiu-Dej, mentore e
padrino di Ceausescu (il regime ceausista è non a caso nominato da alcuni storici come
nazionalcomunista). Nel 1952 la fazione nazionalista, da sempre in lotta con quella
stalinista, prese il sopravvento su quest’ultima, tanto che la plenipotenziaria e temutissima
Pauker fu estromessa dal partito e relegata a vita privata, sino alla morte avvenuta nel 1960.
Una vicenda, questa della messa fuori del partito dell’ala sovietica, che Mosca si legherà al
dito, giurando e preparando la vendetta, che, puntuale e spietata, arrivò nel 1989, come
vedremo subito.
11
Sulle carceri comuniste in Romania si possono vedere, a solo titolo di esempio: T. M. Neamtu, Perché, Signore?
Testimonianza di un detenuto politico, Mimep-Docete, Pessano (MI) 1997; N. Popa, Coborarea in iad, (Discesa
all’inferno), Editura Axa, Botosani, 2009 e il fondamentale M. Stanescu, Reeducarea in Romania comunista (19451952). Aiud, Suceava, Pitesti, Brasov, (La rieducazione nella Romania comunista), Polirom, Bucuresti, 2010. Mentre i
primi due sono testimonianze dirette di sopravvissuti alle carceri comuniste (quello di Popa è particolarmente
interessante), il lavoro di Stanescu è il primo e documentatissimo d’una serie di tre; i successivi due riguarderanno,
come apprendiamo dalla «Nota autorului» (Nota dell’autore) in apertura di volume, le carceri di Targsor, Gherla, Targu
Ocna, Ocnele Mari e del Canale sulla foce del Danubio.
12
Questa storia mi è stata raccontata, proprio a Roma in occasione dell’evento appena citato, da Sorin Iliesiu.
6
A questo punto era necessario ripulire il regime da qualche macchia di troppo e
contemporaneamente sbarazzarsi di alcuni potenziali nemici politici – quali Turcanu e i suoi
– che in fin dei conti erano pur sempre stati legionari e prigionieri politici. Non si deve
quindi commettere l’errore di considerare la fine dell’Esperimento Pitesti come un
ammorbidimento del regime: esso fu un modo per addossare maggiori responsabilità alla
Pauker (ideatrice dell’Esperimento) e alla sua fazione, e al contempo liquidare coloro i quali
avevano rivestito il duplice ruolo di testimoni-responsabili e di “nemici del popolo”. Infatti
nessun responsabile politico e morale dell’Esperimento fu punito: non Ana Pauker e non il
generale Alexandru Nicolschi13 (al secolo Grünberg, capo della Securitate, la spietata
polizia segreta del regime), fedele ubbidientissimo della Pauker, e più volte in visita a
Pitesti). A pagare furono i soli esecutori materiali, loro stessi prigionieri e in molti casi ex
legionari, passati poi a “nuova vita” sotto il regime comunista. È come se in un processo per
mafia fossero condannati solo i sicari e non i mandanti, per intenderci.
L’Esperimento Pitesti è il momento culminante ed emblematico del regime comunista
paukeriano. Difatti esso fu ideato e messo in atto soprattutto contro i militanti legionari, che,
sotto la guida di Horia Sima, successore di Codreanu, erano ancora in attività, seppur, va da
sé, clandestina. L’obbiettivo di quell’operazione era annientare l’élite intellettuale e politica
della Romania (ossia impoverire quest’ultima socialmente e spiritualmente). Un’élite che si
concentrava tutta nel Movimento legionario, l’unica formazione che sarebbe stata in grado
di mantenere questo Paese nel solco della tradizione.14
Queste informazioni ci sono utili per tentare di vedere come, da sempre e costantemente, la
Romania sia stata oggetto di attacchi molto duri e spietati, i quali hanno avuto (e hanno) il
solo scopo di paralizzare e nullificare, sotto diversi rispetti, le forze del suo popolo e la sua
tradizione.15
IL CASO CEAUSESCU – 1
Che il processo a Turcanu sia stata una farsa non deve stupire affatto: la Romania ha avuto
non pochi processi farseschi, e in taluni casi criminali. A inaugurare la collezione ci fu
quello subito da Codreanu nel 1938, l’ultimo di una lunga serie, quello che poi portò a una
crisi della Guardia di Ferro e all’assassinio, seguito dalla macelleria dei corpi, del Capitano
e di altri dodici legionari.16 Purtroppo non posso dilungarmi su questo tratto di storia
romena ed europea, ma posso e debbo invece attaccare ancora un necessario bottone al
lettore.
Adopero la grafia romena, in luogo di quella più nota: Nikolski, usata ad esempio da Fertilio.
Su Codreanu e il Movimento legionario suggerisco almeno: C. Papanace, La genesi e il martirio del Movimento
Legionario Romeno, Il Cinabro, Catania, 1998; C. Sburlati, Codreanu il Capitano, Volpe, Roma, 1970; Codreanu e la
Guardia di Ferro (a cura di C. Sburlati), Volpe, Roma, 1977; J. Evola, La tragedia della Guardia di Ferro, a cura di C.
Mutti, Quaderni di testi evoliani, Fondazione Julius Evola, Roma, 1996. Mentre dello stesso Codreanu, Diario dal
carcere, Ar, Padova, 1982 e Per i legionari, Ar, Padova, 2005.
15
Per conoscere la grande tradizione spirituale della Romania: Geticus, La Dacia iperborea; V. Lovinescu (Geticus), La
Colonna Traiana; C. Mutti, Eliade, Valsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i romeni; M.A. Tamas, Agarttha
transilvana (tutti pubblicati dalle Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1984, 1995, 1999, 2003). Per certi aspetti, sarà
molto utile anche la lettura di C. Mutti, Le penne dell’Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, Società Editrice
Barbarossa, Milano, 1994
16
Per una conoscenza dettagliata del processo si veda Il processo Codreanu, a cura di H. Cosmovici, Edizioni
all’insegna del Veltro, Parma 1989 (Cosmovici è stato uno degli avvocati di Codreanu e ha raccolto in questo libro tutti
gli atti). Per gli altri processi subiti da Codreanu e da alcuni suoi seguaci, anche negli anni precedenti la fondazione
della Legione dell’Arcangelo Michele, si veda l’autobiografia di Codreanu, Per i legionari, cit.
13
14
7
Dicevo poc’anzi della vendetta moscovita del 1989. Non so che cosa trattenga ancora gli
storici dallo scrivere a chiare lettere ciò che non è più, almeno dal giorno dopo, un segreto
per nessuno: ossia il ruolo di Mosca (e secondo qualcuno non solo di Mosca) e dei suoi
servizi segreti nelle vicende del dicembre 1989.
Una storiografia e una pubblicistica addomesticate hanno veicolato una versione della
caduta del regime ceausista a dir poco reticente. Secondo gli “informatori” più accreditati e
divulgati, i fatti si sarebbero svolti nel seguente modo: il 16 dicembre a Timisoara scoppia,
improvvisa, una rivolta di piazza contro il regime. La repressione di quest’ultimo sortisce
effetto per qualche giorno, sino a quando il Conducator, il 22 dicembre, non è “costretto alla
fuga” in elicottero, sospinto dalla “furia della piazza” e “dalla sua voglia di libertà”. Il 25
dicembre, giorno del Santo Natale, il dittatore è processato (sic!) e infine giustiziato (ri-sic!)
tramite fucilazione. Da quel momento in poi la Romania è diventata un Paese libero e, of
course, democratico. Peccato che la faccenda sia un poco più complessa e soprattutto
alquanto diversa.
Trascrivo ora un lungo estratto dal testo di un giornalista, il quale è stato l’unico, ieri, a
tentare di raccontare il cursus post-rivoluzionario romeno e, oggi, a ricordare le circostanze
censorie di cui fu vittima non tanto lui in quanto soggetto scrivente, bensì la storia. Ecco
infatti che cosa scrive Paolo Guzzanti in un suo recente libro, nel capitolo intitolato «La mia
“Repubblica”»:
«Mi ero appena installato a Budapest quando arrivò la notizia che in Romania erano
scoppiati tumulti sanguinosi: minatori in rivolta, manifestazioni di agenti provocatori che
cercavano di impedire la nascita della democrazia. Vai, mi dissero: “Sembra che a Bucarest
ci sia una specie di controrivoluzione dopo la caduta del regime di Ceausescu: gruppi di
giovinastri pagati chissà da chi fanno il tifo per il vecchio regime e vogliono mettere in
difficoltà Iliescu, l’uomo nuovo della democrazia rumena”. Con queste informazioni del
tutto inventate partii per Bucarest. Il regime di Ceausescu era caduto da poco, il dittatore e
sua moglie erano stati barbaramente trucidati a colpi di mitra da agenti segreti, nel giardino
di una scuola in cui era stata allestita una farsesca corte marziale che li aveva condannati a
morte e fatti subito fucilare. I due vecchi satrapi erano morti con grande dignità, più
sbalorditi che spaventati.
«Il vecchio Partito comunista rumeno aveva cambiato nome, adesso si chiamava socialista
ma era composto sempre degli stessi uomini. Tutto era stato cambiato affinché nulla
cambiasse, e la presenza del Kgb russo dell’ambigua epoca gorbacioviana era visibilissima
nelle strade: i russi avevano di fatto in quel momento il comando della Romania. Al potere
era stato insediato l’ex numero due del regime, Ion Iliescu, che era chiaramente un uomo dei
russi, fin dagli anni Trenta. Già membro del Comitato centrale del Partito comunista e della
sezione rumena del Komintern, la sua biografia politica era tutta sovietica: prima della
guerra aveva organizzato i comunisti rumeni da Mosca, era uno strettissimo collaboratore
del segretario del Komintern Georgi Dimitrov e in stabili rapporti con Palmiro Togliatti,
“Ercoli”, che di Dimitrov era il numero due.
«Potete dunque immaginare che razza di “liberale” alla maniera occidentale fosse Iliescu:
aveva riorganizzato, dopo la morte dei Ceausescu, le milizie dei minatori, così come aveva
fatto negli anni Trenta con le Brigate internazionali trasformate in Brigate del Lavoro.
Quando in Romania era entrato in urto con Ceausescu aveva ristabilito i collegamenti con i
sovietici e su loro ordine aveva decretato l’immediata esecuzione dei Ceausescu, colpevoli
prima di tutto di aver dirottato la Romania dall’orbita sovietica in una zona indipendente
8
aperta alle influenze occidentali. Per questo i Ceausescu avevano pagato con la vita, non
certo perché erano dei dittatori un po’ capricciosi e ridicoli.
«E ciò che stava accadendo a Bucarest in quei giorni, il motivo del sangue versato era
semplice, ma non doveva trapelare: Iliescu aveva dato mandato alle brigate di minatori di
reprimere con le loro asce da lavoro i moti degli studenti e degli operai che chiedevano una
vera democrazia, e non una nuova versione del regime senza Ceausescu […].
«Quando arrivai a Bucarest e gli studenti mi mostrarono gli agenti russi che presidiavano i
crocevia, mi resi conto che l’uomo forte che aveva preso il potere era un’espressione
“riformista” del Kgb sovietico: di quello stesso Gorbaciov che di lì a non molto sarebbe
stato disarcionato per sempre.
«Mi sistemai dunque come tutti i giornalisti nel gigantesco Hotel Intercontinental e fu subito
chiaro a chiunque avesse occhi per vedere che studenti e operai erano in rivolta contro il
regime filorusso che aveva fatto uscire dalle loro baracche le milizie armate di machete:
erano giganteschi uomini neri, analfabeti, violentissimi, abituati a costituire la mano armata
del regime. Scorrazzavano per Bucarest picchiando, torturando, stuprando e uccidendo
studenti, spargendo il terrore, e soffocavano la rivolta. Vedemmo dalle finestre alcuni
studenti costretti a inginocchiarsi sul ciglio del marciapiede. Sapemmo poi che erano stati
decapitati. Dovetti aprire la porta della mia camera (come tutti gli altri giornalisti) a decine
di giovani romeni che chiedevano asilo. Ne nascosi alcuni nel bagno, sotto il letto e dietro le
tende mentre orde di miliziani minatori dilagavano nei corridoi.
«La direzione dell’hotel aveva fatto staccare le luci e bloccare gli ascensori. Altoparlanti
interni diffondevano questo messaggio: “Si pregano i giornalisti stranieri di non uscire dalle
loro stanze, di non aprire le porte, di non rispondere alle chiamate dai corridoi, di mantenere
le luci spente, di non fare alcun rumore”. Stavamo tutti col fiato sospeso. Gli studenti
nascosti tremavano, alcune ragazze piangevano cercando di soffocare i singhiozzi.
«Nel corridoio sembrava che si fosse riversata una marea urlante di creature e ombre nere
da film dell’orrore. Sentii porte prese a spallate, rumori di legno spaccato, urla, passi di
corsa. Poi arrivò la polizia che riprese il controllo e fece fluire le milizie. Alcuni giornalisti
tedeschi erano riusciti a far intervenire la loro ambasciata, e grazie a loro l’assedio alle
nostre stanze piene di rifugiati fu tolto. I miliziani con il megafono gridavano in una sorta di
inglese: “Sappiamo chi siete, come vi chiamate, per quali giornali scrivete e quali sono le
vostre stanze. State attenti perché vi veniamo a prendere uno per uno”.
«Questa situazione durò alcuni giorni. Ma le agenzie di stampa da Bucarest davano tutt’altre
notizie: i minatori erano descritti come patrioti forse un po’ troppo entusiasti, gli studenti e i
cittadini come nemici della rinnovata democrazia. Non era facile capire che i giornalisti
locali che scrivevano per le agenzie internazionali erano semplicemente al soldo del regime
e davano notizie false o manipolate».17
Guzzanti sta raccontando di una mineriade, ossia dell’azione intrapresa, non certo
spontaneamente, dai minatori per sedare le proteste contro il nuovo corso politico.
Sull’ultimo atto di questa storia, credo di esser stato l’unico giornalista in Italia a scrivere un
articolo, peraltro piuttosto lungo. L’ho fatto quest’anno in occasione del vent’anni dai fatti
del giugno 1990, il momento più nero di quei mesi. Ne riporto un estratto:
Tra il 13 e il 15 giugno 1990 «si concluse nel sangue… la più lunga e possente
manifestazione anticomunista della storia, 53 giorni e 53 notti consecutivi in cui gli studenti
romeni si schierarono nettamente contro Ion Iliescu, che dal dicembre dell’anno precedente,
17
P. Guzzanti, Guzzanti vs De Benedetti, Aliberti, Reggio Emilia, 2010, pp. 268-271.
9
quando fu rovesciato e poi fucilato il dittatore rosso Ceausescu insieme a sua moglie Elena,
aveva preso le redini del Paese.
«Una contestazione edificata sul rifiuto di un inganno. “Jos Iliescu! Jos comunismul,
abbasso Iliescu, abbasso il comunismo”, gridavano. E ancora: “Fsn come il Pcr”, il Fronte
di Salvezza Nazionale, fondato da Iliescu nel fatidico dicembre 1989, per gli studenti era
come il Partito comunista romeno, che per decenni aveva schiacciato la Romania. Stesse
facce, stessi nomi. “Iliescu pentru noi este Ceausescu doi”, per noi Iliescu è un Ceausescu
secondo, che in romeno fa rima, in italiano no, ma ci dice quella che era la verità per i
romeni.
«Iliescu era uomo del vecchio regime, colui che il 22 dicembre 1989, il giorno della fuga di
Ceausescu, non riuscendo ad arringare la piazza dal balcone del Comitato Centrale del
Partito (lo stesso da cui poche ore avanti aveva parlato il dittatore), perché il popolo gridava,
consapevole di chi avesse davanti, “Fara comunisti! Fara comunisti! Senza i comunisti!
Senza i comunisti!”, se ne andò con la coda in mezzo alle gambe ma con in animo la
vendetta. E infatti nemmeno un’ora dopo questa contestazione, per le strade di Bucarest si
iniziò a sparare sui civili reprimendo nel sangue la rivoluzione. Questo non lo si poteva
dimenticare. Ma nemmeno Iliescu poteva sopportare di non essere né amato, né desiderato,
né tollerato, ma riconosciuto come la personificazione di un nuovo regime senza però
Ceausescu.
«Il 20 aprile 1990 la Romania era andata alle prime elezioni dopo la fine della dittatura.
Elezioni in cui il Fsn prese circa due terzi dei consensi (66,31% alla Camera e 67,1% al
Senato), ma di cui moltissimi contestavano la regolarità. La stessa partecipazione al voto del
Fsn era stata sospetta, ché mesi prima Iliescu, capo della formazione, aveva promesso che
esso non si sarebbe mai trasformato in un partito, e infatti in quei primi mesi del 1990 erano
rinati i vecchi partiti – tranne quello comunista messo fuorilegge nel dicembre dell’anno
precedente – finalmente liberi dal giogo comunista.
«Così, tra il 13 e il 15 giugno successivi, civili e soprattutto studenti riempirono la piazza
dell’Università, contestando l’esito del voto, sicuri che vi fossero stati brogli e ancor più
sicuri che di un nuovo regime, quale si presentava il nuovo corso della politica romena
attraverso inganni e violenze, non ne volessero più sentir parlare. Che non fossero visionari
o «provocatori» come ancora oggi dice Iliescu difendendosi dalle accuse, è dimostrato dalla
reazione che ebbe egli stesso davanti alle manifestazioni della piazza. Dalla provincia
chiamò cinquemila rappresentanti di quella “aristocrazia proletaria” che in Romania erano
considerati i minatori. Cinquemila uomini uscirono da sottoterra armati di asce, machete e
bastoni per reprimere le proteste. Il bilancio fu di 6 morti e 500 feriti, gli ultimi di una lunga
serie che si protraeva da sei mesi.
«Da lì a pochi giorni, Iliescu divenne capo di Stato, tramite elezioni che lo videro
stravincere (85%) contro gli altri due candidati, il liberale Radu Campeanu e il nazionalcontadino Ion Ratiu, e di cui ancora una volta i leader dell’opposizione democratica
contestarono procedure ed esito. Persino l’ambasciatore americano non volle partecipare
alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente della repubblica.
«Ancora oggi Iliescu, ben attivo nella politica romena, sostiene che sia necessario
ringraziare i minatori, perché le contestazioni di Piata Universitatii altro non erano, secondo
lui, che “un’oasi di legionarismo”, ossia provocazioni fasciste. Per altri Piata Universitatii è,
e resta, sinonimo di repressione violenta, di coercizione, di morte.
«Non era la prima volta che a Bucarest, ma anche in altre città romene, i minatori giocarono
un ruolo decisivo nella gestione del potere politico del dopo Ceausescu, intervenendo armati
10
a sedare le rivolte che, sin dal primo minuto dopo la caduta del satrapo comunista e di sua
moglie, si scatenarono, ancorché pacifiche e disarmate (è un dettaglio da ricordare), contro i
quadri secondari del Partito comunista, mascherati da democratici e liberali sotto la sigla del
Fsn.
«I fatti del giugno 1990 si inscrivono difatti nel più ampio quadro della rivoluzione del
dicembre ’89 e delle sue conseguenze. Sui giorni che videro la fine di vent’anni di regime
comunista, gravano sospetti, lacune e silenzi. Un dato trascurato, per non dire taciuto, è che
tra il 16 e il 21 dicembre, rispettivamente le date che indicano la rivolta di Timisoara e
l’inizio della fine di Ceausescu, ci furono complessivamente circa 326 morti, tra Bucarest, la
stessa Timisoara, Cluj, Sibiu, Brasov. Ma dopo la fuga del dittatore i morti furono migliaia,
come attesta ad esempio la denuncia portata davanti alla Corte europea per i diritti
dell’uomo di Strasburgo da Teodor Maries e da altri esponenti dell’Associazione “21
Dicembre”. Chi ordinò di sparare e uccidere se Ceausescu non aveva più potere? A questa
domanda nessuno dà ancora una risposta ufficiale».18
Spiace essere autoreferenziali, ma è sintomatico che nessuno, a quanto mi consti, abbia
raccontato qual fosse la vita in Romania dopo la cosiddetta “rivoluzione” e soprattutto che
cosa sia stato, in realtà, il processo che portò alla caduta di Ceausescu: un colpo di Stato
nudo e crudo. Che certo pose termine a una delle dittature più ottuse della storia (anche se
nei primissimi anni del tutto meno spietata di quella stalinista della Pauker), ma che lasciò la
Romania in ginocchio, disorientata, ancora più povera.
Ho raccolto diverse testimonianze su che cosa avvenne, a livello sociale, dopo il dicembre
1989. Sino a quel momento il popolo romeno poteva contare su qualche certezza, ma dopo
non più. Sebbene vi fu un qual certo tripudio generale per la morte del dittatore, la festa finì
presto, quando i romeni si accorsero che nessuno, tanto meno i nuovi governanti, li aveva
preparati ad un mutamento così radicale e violento di abitudini quotidiane. D’altra parte
furono in moltissimi a capire immediatamente che il “nuovo corso” romeno, lo abbiamo
visto, altro non era che una maschera di quello appena trascorso. Le prospettive per il futuro
erano davvero nulle, sotto il profilo del benessere, chiarissime invece sotto quello delle
incertezze.19 Avete visitato la Romania di oggi? Ci rendiamo conto di che cosa realmente
significhi, ad esempio, quel milione e trecentomila romeni immigrati in Italia e gli altri che
18
L. Bistolfi, In Romania la dittatura non finì con Ceausescu, in «il nostro tempo», n. 26, 4 Luglio 2010. Sull’influenza
e i metodi adoperati in Europa dall’Unione Sovietica prima e dalla Russia poi, suggerisco la lettura dei lavori del più
noto dissidente sovietico vivente Vladimir Bukovskij: V. Bukovskij, V. Bykov, V. Suvorov, La mentalità comunista; V.
Bukovskij (con P. Stroilov), Urss-Eurss, ovvero il complotto dei rossi e (sempre con P. Stroilov), Eurss. Unione
Europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, tutti e tre pubblicati da Spirali (Milano, 2001, 2007 e 2007).
19
Per farsi un’idea piuttosto chiara sullo stato dell’arte dell’informazione attorno a quel periodo e, in generale, su
Ceausescu, basterà sapere che in Italia manca una biografia del dittatore. A parte le notizie presenti negli unici tre saggi
dedicati alla Romania degli ultimi due secoli (A. Biagini, Storia della Romania contemporanea, Bompiani, Milano,
2004; F. Guida, Romania, Edizioni Unicopli, Milano, 2009 e sempre di F. Guida, La Romania contemporanea, in
«Rivista della Fondazione Europea Dragan», Edizioni Nagard, Milano, 2003), abbiamo solo qualche breve cenno sparso
qua e là in libri riguardanti il 1989 e usciti appena in occasione dei vent’anni dalla caduta del muro di Berlino.
Nient’altro. Un lettore interessato a scoprire l’enigma Ceausescu (così l’ho ribattezzato) dovrà rifarsi a pubblicazioni
straniere. Segnalo due lavori (non avendo gli originali cito le edizioni romene in mio possesso): P. Du Bois, Ceausescu
la putere. Ancheta asupra unei ascensunei politice, (Ceausescu al potere. Inchiesta su un’ascesa politica), Humanitas,
Bucuresti, 2008 e T. Kunze, Nicolae Ceausescu, o biografie, (Nicolae Ceausescu, una biografia), Editura Vremea,
Bucuresti, 2002. A dire il vero, a quanto mi consti, anche in Romania non esistono biografie nel senso vero e proprio.
Qualche ulteriore informazione è reperibile sul sito www.ceausescu.org.
11
seguitano ad uscire dai confini per trovare un luogo migliore dove vivere e fare dei figli,
insomma dove avere un futuro?20
Nel bel capitolo «Riuscirebbe ad amarmi, Lei?» del romanzo della Coman leggiamo un
dialogo assai eloquente tra Magda e Catalin: «Il futuro... Che cos’è il futuro, Catalin?» disse
lei, alzandosi a sua volta in piedi. «Non so... Tante cose. È una vita che puoi ancora vivere».
«Per me è solo una favola. Il grande inganno. Il futuro non esiste. È qualcosa che ti
annebbia la vista come una nuvola colorata per non farti vedere il presente. È una promessa
spiccia di un domani migliore che si sovrappone al tuo misero oggi e non ti lascia
respirare». «È una speranza...». «È una bugia! La mia amica Corina aveva un futuro. I suoi
erano attori di teatro e lei voleva fare la ballerina. Ora suo padre è ai lavori forzati e sua
madre lava i pavimenti del municipio per sfamare lei e il suo fratellino. Dov’è andato il loro
futuro? Chi se l’è preso? Mio padre faceva il professore di filosofia prima di essere
confinato in un manicomio a tempo indeterminato. Dovevamo fare tanti viaggi, vedere il
mondo. Dove si è nascosto il mio futuro? Mia madre ha cercato per mesi un lavoro,
trovando solo porte chiuse in faccia, lei, l’ostetrica più esperta della città. Alla fine le hanno
concesso un posto da infermiera, ma solo dopo aver firmato le carte del divorzio. Fa sempre
i turni di notte. È dimagrita e invecchiata, quasi non somiglia più a se stessa. E anche così,
ringraziamo il cielo, perché potrebbe essere molto peggio. Io conosco solo questo, Catalin:
questo giorno, questo istante, e sono grata per ogni cosa che Dio mi concede e non la mando
indietro in cambio di una favola di terza mano. Non lo voglio il loro futuro!».
Qui si parla del futuro promesso dal regime ceausista, ché il romanzo è una critica di esso:
ma possiamo essere così certi le parole di Magda non possano essere adatte anche a questi
ultimi vent’anni?
Mi piace a questo punto citare la folgorante battuta di una pellicola – in circolazione anche
in Italia – piuttosto interessante sulla caduta del regime ceausista. Si intitola A est di
Bucarest, del regista Corneliu Porumboiu.21 La trama è molto semplice. Trascrivo dalla nota
ufficiale: «In una piccola cittadina ad est della capitale, a sedici anni da quella storica data,
il proprietario di una tv locale invita due ospiti a raccontare i loro momenti di gloria
rivoluzionaria: si tratta di un vecchio pensionato che per sbarcare il lunario si traveste da
Babbo Natale e di un insegnante di storia che ha deciso di sperperare tutto il suo stipendio
nell’alcol. Insieme, i due uomini ricordano il giorno in cui fecero irruzione nel Municipio al
grido di “Abbasso Ceausescu”. Tuttavia, i telespettatori, che possono intervenire
telefonicamente alla trasmissione, sollevano i propri dubbi rispetto all’autenticità dei loro
racconti, credendo più probabile che i due, quel giorno, fossero intenti alle loro consuete
attività: oziare al bar e preparare il Natale».
La fine del film lascia senza parole. Una telespettatrice chiama in studio, è l’ultima
telefonata.
«TELESPETTATRICE: Pronto? Mi chiamo Tina. Mio figlio più grande è morto il 23 dicembre
a Bucarest, all’aeroporto Otopeni.
«CONDUTTORE: Mi dispiace tanto signora… Ma quello che ci interessa sapere è cosa è
successo nella nostra città, non a Bucarest.
20
Vale la pena ricordare che le testimonianze dirette e gli studi sul terrore comunista in Romania, riguardano, nella
stragrande maggioranza dei casi, il periodo pre-ceausista. Alla n. 11 ho citato tre lavori, che, come si vede anche dalla
data posta nel titolo d’uno di essi, toccano solo questo periodo.
21
Il titolo originale della pellicola è: A fost sau n-a fost?. Traduco: C’è stata oppure no? Sottinteso: la rivoluzione. Non
so se per ignoranza o per semplici motivi di mercato (ah, quali idoli!), ma la versione italiana del titolo appare piuttosto
deviante, dato che tradisce il contenuto dell’opera.
12
«TELESPETTATRICE: Ma io non vi ho chiamato per smentire quello che avete detto… Vi ho
chiamato solo per dirvi che fuori nevica…
«CONDUTTORE: Fuori nevica?
«TELESPETTATRICE: Sì. Nevica. Come una volta. Siate felici per questa neve… perché
domani sarà di nuovo tutto fango… Buon Natale a tutti».
IL CASO CEAUSESCU – 2
Per una disamina completa sulla Romania di Ceausescu, sulla caduta del regime e sulle sue
conseguenze, i migliori contributi che io abbia sino ad oggi trovato sono presenti sulla
rivista di studi geopolitici Eurasia e in un lungo articolo di Claudio Mutti (peraltro tra i
principali animatori di questa pubblicazione). Per ovvi motivi di spazio, riporto qui di
seguito solo il lavoro di Mutti dal titolo: Natale 1989. Chi volle la caduta di Ceausescu? La
versione di un protagonista.
«All’epoca in cui era ambasciatore a Tunisi, l’ex vice primo ministro romeno Gelu Voican
Voiculescu rievocò per noi le giornate del dicembre 1989, che culminarono con la
fucilazione di Ceausescu e di sua moglie Elena, al termine di un processo sommario
organizzato dallo stesso Voican Voiculescu.
«La biografia dell’ex vice primo ministro è tutta particolare. Originario di una famiglia che
ha dato alla Romania il principe Mihai Sturdza, ministro degli Esteri nel governo nazionallegionario, Gelu Voican Voiculescu si scontra ben presto con il regime nazionalcomunista.
A diciotto anni, nel 1959, è espulso dall’Istituto di Ricerche Petrolifere della Facoltà di
Geologia in quanto “esponente della reazione interna in contatto con la reazione esterna”; è
accusato di portare un crocefisso al collo, di non partecipare ai corsi di dottrina marxistaleninista, di praticare un genere di pittura decadente, di essere incline al misticismo, di
nutrire disprezzo nei confronti dell’educazione comunista e così via. “Questi capi
d'imputazione furono sufficienti perché venissi espulso dall'università, con grandissimo
scandalo, allorché si fece un’epurazione su vasta scala nel mondo studentesco. Il regime di
Gheorghiu Dej doveva far fronte a un epifenomeno della rivolta d’Ungheria, manifestatosi
da noi con un ritardo di due o tre anni rispetto al 1956. Si cercò di reprimere ogni tentativo
di contestazione che potesse verificarsi nelle file studentesche, perché si sapeva che gli
studenti rappresentavano un’avanguardia. Ebbene, con queste misure la gioventù fu
costretta al silenzio. Nella seduta che decretò la mia espulsione ebbi l'improntitudine di
affrontare le autorità accademiche, strappando un applauso ai presenti, sicché‚ nella
prosecuzione pomeridiana della seduta, fu ammesso in sala soltanto il personale di
servizio”.
«Viene considerato “un pericoloso agitatore nei ranghi della gioventù” e la Securitate nel
1965 intesta un fascicolo a suo nome. Nel 1969 i servizi segreti lo ritengono implicato nelle
manifestazioni studentesche del Natale precedente.. Nel 1970 viene arrestato e messo sotto
inchiesta per tradimento dal Consiglio della Sicurezza dello Stato.
«“Fui accusato – racconta – di divulgazione di segreti di Stato, spionaggio economico,
espatrio clandestino. In realtà, trovandomi in Ungheria, avevo cercato di andare in Austria.
Ma la frontiera romena non la avevo passata illegalmente. Venni perciò assolto per
mancanza di prove; le accuse concernenti la sicurezza dello Stato non rimasero in piedi. Nel
corso di una perquisizione, avevano trovato quello che definivano materiale interessante:
grafici astrologici, simboli alchemici ecc.; tutto ciò venne lungamente sottoposto a inutili
tentativi di interpretazione, perché si pensava che fosse un codice segreto...”. Rimesso in
13
libertà tre mesi più tardi, nel 1977 è sospettato di aver avuto a che fare con gli scioperi dei
minatori della Valle del Jiu, ma viene assolto per mancanza di prove. Tuttavia viene
sottoposto a un più stretto controllo: durante una sua assenza, viene applicato un microfono
all’interno di una parete di casa sua. Nuovo arresto nel 1985: è accusato di aver diffuso testi
fotocopiati di contenuto anticomunista.
«“Siccome da noi non dovevano ufficialmente esistere detenuti politici, fui classificato
come detenuto comune, anche se l’inchiesta era stata promossa dalla Securitate in base
all'art. 66 (propaganda contro l’ordinamento dello Stato). Fui dunque condannato a un anno
e mezzo per frode, perché non avevano potuto produrre contro di me elementi tali da
inchiodarmi. D’altronde io mi assunsi volentieri quelle responsabilità che avrebbero fatto di
me un detenuto comune, perché per gli altri reati erano previste pene che superavano i
quindici anni. E così, di un anno e mezzo scontai un anno soltanto, perché Ceausescu emanò
un’amnistia nella quale rientrai anch’io”.
«Uscito dal carcere vive isolato, sotto stretta sorveglianza, finché nell'ottobre 1988 è
sottoposto a una nuova inchiesta, dopo che nel corso di una perquisizione gli è stato
sequestrato un centinaio di libri di filosofia, dottrine orientali, astrologia. Nell’agosto del
1989 la sua abitazione è ancora perquisita: stavolta gli sequestrano un’altra sessantina di
volumi, per lo più testi di induismo e buddhismo, ma anche le Confessioni di Sant'Agostino.
Sembra imminente un ennesimo arresto, quando scoppiano i disordini del dicembre 1989.
«“La sorte volle – dice Voican – che io seguissi Ion Iliescu negli studi della Televisione,
quando nessuno aveva la certezza che Iliescu sarebbe diventato il capo dello Stato. Fu
un’opzione che mi proiettò bruscamente nel nuovo gruppo di potere. La mia è stata una
carriera politica del tutto insolita, anzi, incredibile. D’altronde io non ho nessuna colpa, se
non c’è niente così inverosimile come la verità”.
«Sono le parole più adatte per introdurci ad una versione del tutto inedita degli avvenimenti
che nel dicembre 1989 portarono alla caduta del regime di Ceausescu.
«Per entrare nel vivo dell'argomento, ripeto le parole pronunciate dal Conducator durante il
“processo” allestito dallo stesso Gelu Voican. (Questi, a dire la verità, era contrario a una
farsa del genere e avrebbe preferito una più onesta esecuzione sommaria; ma prevalse il
parere di Iliescu, secondo il quale il passaggio dalla dittatura allo Stato di diritto doveva
essere inaugurato da un regolare processo...) Orbene, Ceausescu avrebbe detto ai suoi
“giudici” di essere consapevole che la sua sorte era stata decisa a Malta, durante l’incontro
tra Bush e Gorbaciov.
«“Noi non possiamo sapere che cosa sia stato deciso a Malta – mi obietta Voican- Però è
cosa certa che la rivoluzione romena venne innescata dai servizi di diverse potenze
straniere. Nella misura in cui il terreno era dell’URSS, la presenza effettiva e la manodopera
furono fornite dal KGB. Nello stesso tempo, la CIA si era insediata a Budapest, dove aveva
installato una sua centrale. Tra i due organismi vi fu una stretta collaborazione.
L’operazione si chiamò “Valacchia 89” e richiese l’impiego di mezzi assai cospicui. Pare
che la CIA abbia partecipato più che altro con piani e denaro e il KGB con la logistica.
Posso dirle, in base a informazioni provenienti da fonti autorevoli, che dopo il 6 dicembre il
numero dei turisti sovietici crebbe bruscamente di dieci volte e a partire dal 16 dicembre vi
furono in Romania 67.000 turisti sovietici. Sono cifre esatte, fornite dai punti di frontiera. In
genere, entravano in Romania su automobili Lada, quattro uomini giovani o di età media su
ciascuna auto. Sono probanti le registrazioni effettuate nelle camere degli alberghi, anche se
non tutti questi strani turisti avevano preso alloggio in albergo. La maggior parte di loro
entrò dalla frontiera occidentale, dalla Jugoslavia e dall’Ungheria, molti addirittura su
14
automobili con targa jugoslava. Forse vi furono anche agenti jugoslavi che operarono a
Timisoara. Sicuramente vi furono agenti ungheresi, a Timisoara. Fu la TV ungherese a
dirigere gli avvenimenti e a istigare la gente alla solidarietà col pastore Tökes, il quale
rappresentò la miccia dell'esplosione”.
«“Dunque – gli chiedo – gli eventi del dicembre 1989 furono il risultato di una
macchinazione dei servizi segreti delle due superpotenze e dei loro fiancheggiatori?”. “Al
momento attuale, disponendo di informazioni alle quali ho avuto accesso solo dopo quegli
eventi, sono in grado di formulare un’ipotesi: il 16-17 dicembre a Timisoara e il 21-22 a
Bucarest, questi servizi che preparavano il rovesciamento di Ceausescu vollero fare una
prova generale per valutare la situazione. Nella loro rappresentazione della realtà, il popolo
romeno era considerato inerte e passivo, mentre i servizi di repressione erano ritenuti
fedelissimi a Ceausescu e molto efficienti. Allora gl’ispiratori dell’operazione vollero per
prima cosa tastare il terreno e vedere quale fosse l’adesione della popolazione, come
avrebbero reagito la Milizia, la Securitate, l’Armata, il Partito, i mezzi di comunicazione.
Pensarono quindi di fare una prova a Timisoara e nella Capitale. Ma questo semplice
tentativo diede il via ad un processo che sfuggì loro di mano e li colse di sorpresa. Essi
avrebbero voluto che la rivolta scoppiasse il 30 gennaio o forse in gennaio, e invece furono
sorpresi tutt’a un tratto da un incendio generale. Tutto andò al di là delle loro aspettative.
Mentre loro volevano semplicemente esaminare la situazione, la cosa assunse le dimensioni
di una rivolta generalizzata. Fu questo a paralizzarli, oltre al nostro comportamento atipico.
Noi infatti, nel nostro dilettantismo e confusionismo, demmo a questi professionisti
l'impressione di agire secondo un piano prestabilito, un piano che a loro sfuggiva. In realtà,
noi non avevamo proprio nessun piano e procedevamo alla cieca. Allora si bloccò qualcosa
nel meccanismo degli agenti stranieri. Essi fecero alcune provocazioni, spararono qua e là,
spaccarono qualche vetrina, ma poi tutto prese un suo corso e non poté più essere fermato.
Fu così che Ceausescu cadde in maniera estremamente rapida, praticamente in un solo
giorno. Nessuno se lo sarebbe mai potuto immaginare”.
«“Quale sarebbe stato lo sbocco politico dell'azione intrapresa dai servizi segreti russoamericani e dai loro collaboratori, se le cose si fossero sviluppate secondo il loro schema ?”.
“Questi servizi segreti avevano l'obiettivo di disintegrare la Romania come entità statale: sul
caos si sarebbero dovute creare le premesse per l'ingresso di truppe straniere che
smembrassero il paese. James Baker, d'altronde, formulò al Patto di Varsavia una proposta
di questo genere. Ma c’è dell'altro. L’intensa mediatizzazione della rivoluzione di dicembre
(che monopolizzò gli schermi televisivi di tutto il mondo) costituì una cortina fumogena
dietro la quale gli americani commisero quell’abuso che fu il rapimento di Noriega, il quale
era in ogni caso un capo di Stato, fosse o non fosse un narcotrafficante. Gli americani
violarono la sovranità e l’indipendenza del piccolo Stato di Panama con un atto di pura e
semplice pirateria. A ciò non si prestò molta attenzione, perché l’attenzione mondiale era
polarizzata sulla Romania”.
«“Evidentemente – osservo – gli americani applicarono la lezione imparata nel 1956,
quando i sionisti aggredirono l’Egitto approfittando del fatto che l'attenzione mondiale era
concentrata sulla rivolta di Budapest”.
«“Nel caso della Romania e di Panama vi fu certamente un progetto e una premeditazione.
Un’operazione come quella di Panama non si improvvisa, cogliendo al volo l’occasione
della rivolta che sta avvenendo in Romania. Tutto fu programmato e sincronizzato secondo
un piano ben preciso. D’altronde c’era l'intenzione di smembrare la Romania: l’URSS si
sarebbe presa il Delta del Danubio e la Moldavia fino ai Carpazi, la Bulgaria avrebbe preso
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il sud della Dobrugia, la Jugoslavia il Banato, l’Ungheria la Transilvania. La Romania si
sarebbe ridotta ai minimi termini: Valacchia e Oltenia. È normale allora che non sia stato
previsto un successore per Ceausescu, proprio perché si voleva che si producesse il massimo
disordine. Non solo, ma in questo caos era prevedibile lo scoppio di una guerra civile tra la
Securitate e l’Armata; si sa d'altronde che sotto Ceausescu tra queste due istituzioni c'era
una certa rivalità”.
«“A questo punto, come fu che il piano fallì?”. “Fallì, perché scoppiò la rivoluzione. Parlo
di rivoluzione, perché gli eventi del dicembre 1989 ebbero tutto l’aspetto di una rivoluzione,
tranne la preparazione anteriore, poiché non è esistito un movimento clandestino che la
abbia preparata. Il 21-22 si produsse una rivolta spontanea che prolungava quella di
Timisoara; il 22 si trasformò, da rivolta popolare spontanea, in una rivoluzione con un
comando militare, un gruppo direttivo, un programma (i dieci punti), una dottrina
(edificazione di uno Stato di diritto, democrazia parlamentare ecc.). Si trattò di una
rivoluzione, perché vi fu un cambiamento radicale di sistema: dal socialismo al capitalismo.
Non fu un colpo di Stato, perché ebbe una vasta partecipazione popolare e perché nessun
membro del gruppo di Ceausescu entrò a far parte del gruppo dirigente. Sicuramente si
produsse in un tempo molto breve, ma ciò non ne diminuisce l'intensità”.
«“Ritiene che il cambiamento di regime in Romania sia stato determinante per i
cambiamenti che si sono verificati successivamente all’Est?”.
«“Quello che, nonostante la presenza di Ion Iliescu, può essere chiamato il radicalismo
anticomunista della rivoluzione romena, ha creato le premesse per lo smantellamento
dell’URSS. Ciò che avvenne in Romania (nascita di partiti politici, pluripartitismo,
separazione dei poteri ecc.) ha avuto come epifenomeno lo smembramento dell’URSS.
Questo evento ha significato per la rivoluzione la possibilità di sopravvivere, perché, fin da
quando è esistito il garante del blocco comunista, cioè il bastione sovietico, non è stato
possibile sperare di distruggere irreversibilmente il comunismo”.
«“I tentativi russoamericani di ingerenza nelle faccende romene sono terminati nel dicembre
1989 o sono proseguiti anche successivamente?”.
«“Sicuramente, in una situazione esplosiva come quella che fu prodotta dalla saturazione e
dall’esasperazione del popolo romeno, alcune iniziative ebbero il ruolo di un fiammifero in
una atmosfera incendiaria. Sembra però che in seguito non vi sia stata più nessuna azione
del genere, perché l'esplosione fu così violenta, così brutale e così brusca, che superò ogni
aspettativa e praticamente lasciò i provocatori e gli agenti nell'incapacità di reagire. Tuttavia
non è escluso che, dato questo insolito corso degli eventi e data l'imprevista apparizione del
nostro gruppo al potere, certi piani di ingerenza siano stati ostacolati da questo fatto stesso.
Quella misteriosa azione dei terroristi che avrebbe dovuto sopprimere il gruppo di potere,
non è escluso che anch’essa avesse lo scopo di eliminarci in quanto persone indesiderabili.
Se è verosimile l'ipotesi dello smembramento del paese, allora certo non si poneva il
problema di un successore; ma non è escluso che avessero previsto, tuttavia, un successore
che subentrasse a Ceausescu. Non è escluso che la nostra apparizione e il corso precipitoso
degli eventi abbiano impedito la presa del potere al gruppo che secondo i piani doveva
prenderlo. Di più: non escludo che nelle nostre stesse file si fossero infiltrati, approfittando
del disordine, alcuni di quelli che erano designati”».
Mutti termina l’intervista con una domanda che egli stesso definisce «provocatoria»:
«“Non crede che l’instaurazione della democrazia e la totale apertura all’Occidente
rappresentino un pericolo mortale per la Romania e che, tutto sommato, certi valori
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tradizionali della società romena fossero meglio salvaguardati dal regime nazionalcomunista
che voi avete abbattuto?”.
«“La sua domanda non è affatto assurda. Nonostante la tremenda oppressione, in quel
periodo sono apparsi grandi uomini che hanno avuto un impatto straordinario sul loro
ambiente. Penso a intellettuali guénoniani come Vasile Lovinescu o Anton Dumitriu; penso
al cineasta Paul Barbaneagra; penso al sacerdote Dumitru Staniloae, grande teologo
ortodosso. Ma vi sono state altre personalità che, operando secondo modalità culturali più
semplici, hanno tuttavia contribuito a mantenere la cultura romena a un livello elevato.
D’altra parte, credo nella vitalità della Chiesa ortodossa, la quale ha una missione veramente
spirituale e non si lascerà secolarizzare. E allora, con queste difese, potremo evitare
l’influenza nefasta dell’Occidente; anzi, potremo offrire un esempio e svolgere una certa
azione antagonista”. Queste erano le pie speranze nutrite dall’impolitico Gelu Voican una
decina d’anni fa».22 E infatti, purtroppo, le cose sono andate, e stanno andando, piuttosto
diversamente. Ritengo che oggi la Romania stia subendo la più violenta aggressione della
sua storia: le ulceranti radiazioni dell’Occidente l’hanno ormai già invasa in gran parte. E i
rischi di questa involuzione sono davvero immensi.
Per fortuna però questo popolo conserva ancora memoria delle sue origini, che affondano
molto indietro nel tempo, e la sua storia ha dimostrato che è possibile risorgere, proprio
come la Larix decidua, una conifera molto presente sui Carpazi: anche se sembra morire,
spogliandosi in autunno e in inverno, continua invece a vivere e a risorgere grazie alle sue
radici robuste e profonde.
Luca Bistolfi
Torino, Ottobre 2010
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Purtroppo non sono riuscito a trovare altri riferimenti per questo scritto, pertanto rimando a una pagina in Rete:
http://forum.politicainrete.net/eurasiatisti/32624-chi-volle-la-fine-di-ceausescu.html. Suggerisco inoltre questi articoli
(reperibili alla voce «Ceausescu» sul sito di Eurasia): C. Veltri, «Come e perché cadde Ceausescu», G. Petrosillo,
«1989: il falso carnaio di Timisoara», e l’«Intervista con il generale Stanculescu, organizzatore del colpo di stato contro
Ceausescu», a cura di C. Mutti. Inoltre C. Mutti, La Banca Mondiale all’assalto della Romania, in «Rinascita», 11
Dicembre 2001.
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