Volevano toglierci la terra

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Volevano toglierci la terra
LA
C U LT U R A D EL L A PAC E E D EL L A L EG A L I TÀ
Rigoberta Menchú
Volevano toglierci la terra
TEMI
Rigoberta Menchú, nata nel 1959, è una contadina india della tribù Quiché del Guatemala. Nel libro Mi chiamo Rigoberta Menchú, da cui è tratto
il brano che stai per leggere, racconta la storia della propria vita a Elisabeth Burgos, una sociologa e antropologa di origine venezuelana, che
con grande sensibilità nel 1982 l’ha trascritta.
La storia di Rigoberta è la drammatica testimonianza di miseria, oppressione, sfruttamento degli indios del Guatemala da parte della dittatura
militare sostenuta dai latifondisti.
Costretta a lasciare il suo villaggio per andare a lavorare nelle fincas
(le grandi piantagioni di caffè, cotone e canna da zucchero dei proprietari terrieri), Rigoberta prende ben presto coscienza della condizione
di sfruttamento degli indios ed entra a far parte del Comitato di Unità
Contadina che difende i diritti umani dei contadini più poveri. Mentre il
padre e la madre vengono assassinati, Rigoberta va in esilio in Messico
dove continua a lottare in difesa dei diritti violati degli indigeni guatemaltechi e per una convivenza democratica nel suo Paese. Questo impegno a favore della libertà del suo popolo le è valso nel 1992 il premio
Nobel per la pace.
Oggi vive in Guatemala e viaggia come ambasciatrice dell’ONU per diffondere la cultura della pace e il diritto a un’esistenza libera e dignitosa.
1. demaniale: appar-
tenente al demanio, al
complesso dei beni dello Stato.
2. ammanigliati: sostenuti da appoggi e protezioni presso persone influenti.
3. Martinez ... Brol:
nomi di famiglie grandi
proprietarie terriere.
4. braccianti: lavoratori agricoli che lavorano con contratti a giornata o per periodi limitati su una terra che non
è di loro proprietà.
5. aldea: termine spa-
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gnolo che significa villaggio.
6. guardaspalle: guardie del corpo.
Mio padre condusse per ventidue anni una lotta eroica per difenderci contro i proprietari terrieri, che volevano spogliare noi e i nostri
compaesani della terra. Quando il nostro piccolo terreno già dava un
raccolto, dopo molti anni di lavoro, e il villaggio aveva ormai estese
coltivazioni, apparvero i proprietari terrieri.
Il governo sostiene che la terra è demaniale1. «Questa terra è di mia
appartenenza e ve la do perché voi la coltiviate.» Quando abbiamo
ben coltivato queste terre ecco che compaiono i proprietari terrieri.
Non si presentano da soli, ma ben ammanigliati2 con una serie di
autorità per poter svolgere le loro manovre. Data questa situazione,
ci trovammo a scontrarci con i Martinez, con i Garcia, e a un certo
punto con i Brol3. La cosa era messa nei termini che noi o restavamo come braccianti4 o ce ne dovevamo andare dalla terra. Non c’era
via d’uscita. Allora mio padre viaggiava, viaggiava; chiedeva consigli.
Noi non ci rendevamo conto che, proprio così, andare dall’autorità
era come andare dal proprietario terriero. Mio padre non si dava pace
e cercava di chiedere aiuto ad altre organizzazioni, come ad esempio i
sindacati operai. Mio padre ricorse a loro, di fronte al fatto che ormai
ci stavano cacciando.
La prima volta che ci cacciarono dalle case fu, se non mi sbaglio,
nel 1967. Ci cacciarono dall’aldea5, dalle nostre case. Noi indigeni
non usiamo stoviglie speciali. Usiamo le nostre stoviglie di terracotta.
Ma ecco che come selvaggi arrivano i guardaspalle6 dei Garcia, indi-
Rosetta Zordan, Il Narratore, Fabbri Editori © 2008 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education
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7. finca: termine spagnolo che significa grande proprietà terriera.
8. ladinos: i discenden-
ti dei conquistatori spagnoli; generalmente si
tratta di ricchi proprietari terrieri.
9. tortillas: focacce
piatte preparate con farina di mais e acqua.
10. negoziati collettivi: trattative, accordi a
cui partecipano entrambe le parti in causa.
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geni anche loro, soldati della finca7. Fecero uscire tutti quanti dalle
loro case. Prima fecero uscire le persone, tutte, senza permettergli di
rientrare in casa. Poi entrarono e tirarono fuori tutte le cose degli
indigeni. Mi ricordo che a quell’epoca mia mamma conservava ancora le sue collane d’argento, ricordo dei suoi nonni, e tutto questo
non riapparve più. Si rubarono tutto. Poi tirarono fuori le nostre stoviglie, le nostre pentole di terracotta. Le lanciavano lontano e, Dio
mio, arrivavano a terra ormai tutte a pezzi. Tutti i nostri piatti, i nostri bicchieri, le nostre pentole. Li sbatterono a terra e si ruppe tutto
quanto. Era l’odio del proprietario contro i contadini che non volevano abbandonare la terra. Tirarono fuori anche le pannocchie e le
buttarono in giro. I contadini dovettero organizzarsi collettivamente
per raccoglierle e radunarle da qualche parte.
Stava piovendo molto, mi ricordo, e non avevamo un riparo. Per costruire una capannuccia con le foglie delle piante, ci avremmo messo
per lo meno due giorni. Così avevamo solo i teli di plastica che i
contadini usavano per ripararsi dalla pioggia. Durante la prima notte
che passammo nei campi, per terra correvano rivoli d’acqua, non ci
cadeva l’acqua sulla testa, ma per terra era un lago. Fu in quel momento che si fece più forte dentro di me l’avversione per quella gente.
A buon diritto dicevamo che i ladinos8 erano ladri, che erano criminali, che erano bugiardi, che erano tutto quello che ci avevano detto
i genitori, perché ora vedevamo quel che ci stavano facendo.
Passammo più di quaranta giorni nei campi, senza poter ritornare alle
nostre case. Poi la comunità si riunì e ci dicemmo che se ci mandavano via un’altra volta saremmo morti di fame. Non avevamo le pentole
per cuocere le nostre tortillas9. Non avevamo le pietre per macinare.
Le avevano gettate in giro per la montagna. Tutti cercarono di recuperare le cose che si erano in qualche modo salvate. Ci organizzammo e dicemmo: riprendiamo le nostre cose. E mio padre diceva, se
ci vogliono ammazzare, che ci ammazzino, però noi rientriamo nelle
nostre case. E tutti sentivano mio padre come padre di ciascuno di
loro. Rientrammo nelle case. C’era un’altra aldea vicino alla nostra e
questa ci difese. Molti portarono le loro pentole e i loro piatti perché
noi potessimo mangiare e potessimo cuocere il nostro mais.
Uccisero i nostri animali. Uccisero molti cani. Per noi indigeni, se si
ammazza un animale è come se si fosse ammazzata una persona. Noi
teniamo in grande considerazione ogni essere della natura, quindi,
che avessero ammazzato i nostri animali era per noi una ferita profonda.
Ritornammo dunque alle case, e arrivarono un’altra volta i proprietari terrieri, per fare i negoziati collettivi10, come li chiamano loro. Vennero per dirci che ci dovevamo rassegnare a fare i braccianti, perché
la terra era del proprietario. Saremmo rimasti nelle nostre capanne,
ma la terra non era più nostra. Se non avessimo accettato, ci avrebbero allontanato nuovamente dalla terra. Ma mio padre diceva: noi
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siamo stati le prime famiglie che sono venute a coltivare questa terra
e nessuno ci può ingannare col dirci che la terra appartiene a loro. Se
loro vogliono essere padroni di tutte le terre, che vadano a coltivare
la montagna. Ci sono altre terre, ma non sono coltivabili. Anche se ci
dovessero togliere la vita, faremo quel che va fatto.
Be’, certo, a quell’epoca non avevamo la chiarezza politica per unirci
agli altri e protestare per la nostra terra. Era qualcosa che si faceva
più che altro a livello delle diverse comunità e separatamente. Comunque riuscimmo a rientrare e non accettammo l’accordo proposto
dai proprietari.
Ci lasciarono nelle case un mese o due. Poi, all’improvviso, ci fu
un’altra irruzione. Tutte le cose che ci avevano regalato i contadini
dell’altra comunità le ruppero per la seconda volta. Ormai non ce la
facevamo più a sopportare quel che ci facevano e si arrivò a decidere
di andarcene tutti quanti definitivamente alla finca, abbandonando
la terra. Però non era possibile vivere tutto il tempo alla finca; che
avremmo fatto poi? Dove saremmo andati al ritorno dalla finca? Fu
così che decidemmo di unirci, decisi a non andarcene.
Noi amiamo molto la nostra terra. Non c’era nessuno più angosciato
di noi, da quando quella gente voleva toglierci la terra. Era una cosa
che faceva piangere di amarezza mio nonno, il quale diceva che, prima, non esisteva un padrone della terra. La terra era di tutti e non
c’erano limiti per avere della terra da coltivare.
(da E. Burgos, Mi chiamo Rigoberta Menchú, trad. di A. Lethen, Giunti,
Firenze, 1987, rid. e adatt.)
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