15 settembre 2016 - Scienze e Ricerche

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15 settembre 2016 - Scienze e Ricerche
ISSN 2283-5873
Scienze e Ricerche
SR
N. 37, 15 SETTEMBRE 2016
37.
Scienze SRe Ricerche
RIVISTA BIMENSILE · ISSN 2283-5873
GLI ANNALI 2015
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37. Sommario
DANIELE CODUTI
I diritti dell’uomo, un ponte tra passato e futuro
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5
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8
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19
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20
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39
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pag.
47
pag.
53
pag.
61
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64
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68
pag.
73
MARIA GRAZIA MONACI, LUCA SCACCHI
Genere e pregiudizio: l’atteggiamento delle donne italiane verso
le donne immigrate
8
CITTADINANZA EUROPEA
FEDERICO CASTIGLIONI
Tre proposte per l’Europa
ANGELO ARIEMMA
A proposito di integrazione europea
MAURO GIARDIELLO
Riconsiderare la coesione sociale e l’integrazione civica nella
prospettiva della generatività sociale
SALVATORE BRISCHETTO E LUCA ALBREGARD
Quanto è sicuro volare oggi? L’aereo a confronto con i mezzi di
trasporto più diffusi
EMILIANO VENTURA
Biblioteche e libri come topos letterario
LETIZIA CREMONINI E TEODORO GEORGIADIS
Il disegno di legge AC 2039 - Consumo di suolo
35
FRANCO SAPORETTI
Il nulla... poi l’universo e la vita? Quando la fisica si spinge oltre
l’osservazione scientifica
CARLA ROMANO
Il brevetto tra Europa e Cina
FRANCO BAGNOLI
Il Titanic: affondare con stile
ANTONINO MARIA FERRO
Ricerca sulla possibilità di sfruttare le correnti marine per la
produzione di energia elettrica, con il sistema della turbina a
differenza di densità aria-acqua
ROBERTO FIESCHI
La vendita delle armi: crimine contro l’umanità?
73
RICERCHE
MONICA COLITTI, TOMMASO MONTANARI
Bianco, bruno e beige: diverse sfumature di grasso
n. 37 (15 settembre 2016)
3
N. 37, 15 SETTEMBRE 2016
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SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | COPERTINA
I diritti dell’uomo, un ponte tra passato
e futuro
DANIELE CODUTI
Università degli Studi di Foggia, Dipartimento di Giurisprudenza
A
ffrontare il tema dei diritti dell’uomo ri- riferimento alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del citchiede un preliminare chiarimento termi- tadino del 1789). Il successivo sviluppo è dato soprattutto
nologico: la distinzione tra le espressioni dall’approvazione di Carte costituzionali: quelle del XIX se“diritti umani” e “diritti fondamentali”. colo (ad esempio, lo Statuto albertino del 1848 e la dichiaraLa prima espressione è solitamente utiliz- zione dei diritti dell’Impero austriaco, promulgata nel 1867
zata nelle Carte internazionali dei diritti, mentre la seconda è e ancora in vigore), quelle del primo dopoguerra (in particoutilizzata nelle Costituzioni. I diritti ai quali si fa riferimento lare, la Costituzione di Weimar del 1919 e la Costituzione di
spesso si sovrappongono ma è diversa la capacità dei documenti che li prevedono di garantirne l’effettiva tutela, perché i diritti contemplati
nelle Costituzioni sono idonei ad assicurare una
tutela più penetrante all’interno dei singoli ordinamenti nazionali, potendo ad esempio comportare l’annullamento delle fonti giuridiche
nazionali che non li rispettano. Tale distinzione è comunque piuttosto incerta, ancor più se
si considera il fenomeno del c.d. dialogo tra le
Corti, attraverso il quale istituzioni nazionali e
sovranazionali deputate (anche) a garantire l’esercizio dei diritti si influenzano a vicenda, tentando di rafforzare la tutela dei diritti contenuti
in tali differenti documenti.
Dopo questa premessa lessicale, è necessaLa firma della Costituzione italiana nel 1947
rio riassumere le linee di sviluppo dei diritti
dell’uomo, evidenziando alcuni aspetti problematici della loro attuazione e della loro tutela, anche per Cadice del 1931) e quelle del secondo dopoguerra (in particomprendere come preservarli quale patrimonio per le gene- colare, le Costituzioni francese del 1946, italiana del 1947 e
tedesca del 1949).
razioni future.
Contestualmente al costituzionalismo della metà del XX
I diritti fondamentali trovano le loro origini e il loro iniziale sviluppo secondo tre tradizioni: quella britannica (nella secolo, vengono approvati alcuni documenti che puntano a
Magna Charta del 1215 e, soprattutto, nel Bill of Rights del internazionalizzare la tutela dei diritti umani con cataloghi di
1689), quella statunitense (a partire dalla Dichiarazione di diritti che riguardano in generale la persona umana (come la
indipendenza del 1776) e quella francese (soprattutto con Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo1 e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
* Relazione al Convegno nazionale della Federazione italiana Club e Centri per l’Unesco sui diritti umani, tenutosi a Lucera il 26 maggio 2016.
1 Firmata a Parigi il 10 dicembre 1948.
5
COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
6
libertà fondamentali, c.d. cedU2) oppure riferiti a determinate
categorie di soggetti (come la Dichiarazione universale dei
diritti del fanciullo3). Questo fenomeno di internazionalizzazione della tutela dei diritti diviene più rilevante (almeno
in Europa) a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, in
primo luogo, per il riconoscimento della possibilità di adire
direttamente la Corte europea dei diritti dell’uomo4, in secondo luogo, per l’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea5, a cui il Trattato di Lisbona del
2009 ha riconosciuto lo stesso valore del diritto dei trattati.
L’evoluzione della tutela dei diritti dell’uomo attraverso
i documenti che li riconoscono e li tutelano consente altresì
di distinguere tali diritti per “generazioni”, raggruppandoli
in base al momento in cui la tutela di ciascun diritto si è affermata.
La prima generazione è quella delle libertà classiche (libertà personale, di domicilio, di religione, di pensiero), del
diritto di voto e del diritto di proprietà, sviluppatisi a partire
dal Settecento e legati allo Stato liberale borghese. I diritti di
seconda generazione, invece, sono riconosciuti in alcune Costituzioni del primo dopoguerra e, soprattutto, in quelle del
secondo dopoguerra e includono le libertà ad esercizio collettivo (riunione e associazione), l’estensione della titolarità
dei diritti politici (suffragio universale) e il riconoscimento
dei c.d. diritti sociali (assistenza sanitaria e previdenziale, diritto al lavoro). Di diritti di terza generazione, poi, si inizia
a parlare dagli anni Settanta del secolo scorso come diritti
di natura collettiva ispirati al principio di solidarietà (lo sviluppo, la pace, l’ambiente, la comunicazione). Infine, negli
ultimi decenni – almeno nelle società occidentali – si comincia a discutere di diritti di quarta generazione, fra i quali rientrerebbero le situazioni soggettive relative all’autonomia
individuale nella sfera sessuale e familiare, alle nuove tecnologie, alla bioetica e ai rapporti tra generazioni di persone (si
parla, infatti, di diritti delle generazioni future). Nelle società
democratiche del sud del mondo, invece, i “nuovi” diritti di
cui si promuove la tutela sono diversi: diritto all’alimentazione, alla casa o all’acqua.
Lo sviluppo dei diritti dell’uomo sin qui riassunto può indurre a pensare che la Costituzione italiana, entrata in vigore
il 1° gennaio 1948, non sia in grado di garantire i diritti emersi dopo tale data. Al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare che, per redigere la Costituzione repubblicana, l’Assemblea costituente formò al suo interno una Commissione
di 75 membri che lavorò dividendosi in tre sottocommissioni, due delle quali si occuparono di diritti: la prima dei diritti
e doveri dei cittadini, la terza dei diritti e doveri in campo
economico e sociale6. Ciò dovrebbe rendere subito evidente
quanto fosse rilevante il tema dei diritti fondamentali per una
generazione che aveva vissuto l’esperienza autoritaria del fascismo e i drammi della guerra.
La Costituzione italiana, come le principali Costituzioni
del secondo dopoguerra, riconosce e garantisce le libertà
classiche, i diritti politici e i diritti sociali, ma non rimane
chiusa su se stessa, essendo un testo elastico e duttile7. La
Costituzione, infatti, contempla un procedimento per riformarla, quello contenuto nell’art. 138 Cost., e contiene dei
concetti “valvola”, che si prestano a interpretazioni diverse,
così da consentire di adeguarla ai mutamenti della società.
Si pensi, innanzitutto, agli artt. 2 e 3 Cost., che consentono di tutelare diritti che i costituenti non potevano prevedere (guardando all’attualità, il riconoscimento delle unioni
tra persone dello stesso sesso non trova il suo fondamento
nell’art. 29 Cost., ma può essere garantito in virtù dell’art. 2
Cost.8); oppure si consideri il riferimento nell’art. 21 Cost. a
“ogni altro mezzo di diffusione” del pensiero, che consente
di estendere la garanzia costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero alle nuove modalità attraverso le
quali si esercita (ad esempio, per mezzo dei social network);
o, ancora, si può fare riferimento alle disposizioni costituzionali che riguardano le c.d. libertà economiche (in particolare,
gli artt. 41, 42 e 43 Cost.), che si sono adattate sia all’intervento pubblico nell’economia degli anni Sessanta del secolo
scorso sia all’apertura alla concorrenza e al mercato richieste
dalla partecipazione italiana all’Ue.
La Costituzione, dunque, è strutturata in maniera tale da
poter recepire i mutamenti della società e, sin dal suo testo
originario9, appare anche in grado di dialogare con la comunità internazionale, in particolare attraverso gli artt. 10, 80,
87 e 11 Cost. Il primo richiede che l’ordinamento italiano si
conformi alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciuto, gli artt. 80 e 87 Cost. prevedono la ratifica dei
trattati internazionali da parte dell’Italia, mentre l’ultimo articolo ha offerto una copertura costituzionale alla partecipazione italiana al processo di integrazione comunitaria.
La Costituzione italiana, le Costituzioni del secondo dopoguerra e le Carte internazionali e sovranazionali dei diritti,
quindi, costituiscono un articolato sistema di riconoscimento
e tutela dei diritti dell’uomo all’interno del quale le istituzioni nazionali e internazionali dialogano e si influenzano a
vicenda, implementandone l’effettiva tutela.
È necessario tuttavia evitare di incorrere in taluni fraintendimenti.
In primo luogo, occorre considerare che i diritti dell’uomo non sono riconosciuti e tutelati nel medesimo modo in
ogni parte del mondo, poiché la loro interpretazione dipende
anche dai contesti sociali e culturali, più o meno diversi tra
loro. Un esempio è rappresentato dalla pronuncia della Corte
2 Del 4 novembre 1950, ratificata in Italia con la legge n. 848 del 1955.
3 Approvata dall’onU il 20 dicembre 1959.
4 Con il c.d. Protocollo di Strasburgo, firmato l’11 maggio 1994 e ratificato in Italia con la legge n. 296 del 1997.
5 Proclamata il 7 dicembre 2000.
6 Per completezza, si ricorda che la seconda sottocommissione si occupò
dell’organizzazione dello Stato.
7 Così L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, p. 140.
8 Cfr. Corte cost. sent. n. 138 del 2010.
9 Quanto alle riforme successive, si può ricordare che la riforma del comma 1 dell’art. 117 Cost. ad opera della legge costituzionale n. 3 del 2001
ha previsto che la potestà legislativa di Stato e Regioni debba esercitarsi
nel rispetto non solo della Costituzione, ma anche dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | COPERTINA
europea dei diritti dell’uomo che non ha riscontrato alcuna
violazione dei diritti contemplati dalla cedU nell’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche italiane, in quanto
espressione delle tradizioni storiche e culturali nazionali10;
se il ricorso avesse riguardato le scuole di un altro Paese
europeo, l’esito poteva essere diverso a fronte di un differente contesto storico e culturale11. Un esempio più chiaro
può essere fornito da un contesto culturale più distante dalle
democrazie occidentali, come quello rappresentato dal mondo islamico. Se si prende in considerazione la Dichiarazione
universale islamica dei diritti dell’uomo12, ad esempio, si può
osservare che essa si ispira alla Dichiarazione universale del
1948 ma le sue disposizioni sono sovente interpretate giustificando delle differenze di trattamento tra uomini e donne,
oppure tra musulmani e non musulmani13. Occorre aver cura,
dunque, di non presumere che il modo in cui nella nostra
società si intendono i diritti dell’uomo sia quello universalmente condiviso e che esso possa o debba essere automaticamente e repentinamente esteso a contesti culturali differenti.
In secondo luogo, bisogna rifuggire dalla convinzione che
si possa chiedere una sempre maggiore o addirittura illimitata espansione dei diritti dell’uomo. I diritti, infatti, sono
“a somma zero”14, perché l’estensione di un diritto per una
categoria di persone comporta la limitazione del medesimo
diritto per altre persone o la compressione di altri diritti. Anche in questo caso è agevole fare degli esempi. La richiesta
di maggiore sicurezza volta a garantire la vita e l’incolumità
delle persone contro il crescente fenomeno del terrorismo
comporta l’adozione di misure che limitano la libertà di circolazione (controlli alle frontiere) o quella di comunicazione
(intercettazioni telefoniche o dei flussi telematici) delle medesime persone che richiedono maggiore sicurezza. Oppure,
si pensi alle vicende legate all’ilva di Taranto, con la drammatica tensione tra la tutela del diritto alla salute e quella del
diritto al lavoro. O, ancora, si consideri che la richiesta di
trattamenti pensionistici più favorevoli (un’età di pensionamento più bassa o un più elevato ammontare della pensione)
può avvantaggiare una generazione di persone a discapito di
10 Il riferimento è a Corte EDU, Grande Camera, sent. 18 marzo 2011,
Lautsi e altri c. Italia.
11 È scontato fare riferimento alla Francia e al principio di laicità dello
Stato previsto espressamente dalla Costituzione del 1958 all’art. 1. Tuttavia, anche nell’ordinamento francese esistono delle peculiarità, ad esempio
se si considera che nei dipartimenti dell’Alsazia e della Lorena è ancora in
vigore il concordato concluso da Napoleone con la Santa Sede nel 1801,
come ricorda M. olivetti, I diritti fondamentali Lezioni, Foggia, 2015,
p. 328.
12 Proclamata a Parigi, presso l’Unesco, il 19 settembre 1981. Ma esiste
anche la Dichiarazione del Cairo dei diritti umani nell’Islam, adottata con
la risoluzione del 5 agosto 1990 della XIX Conferenza islamica dei ministri degli esteri.
13 In proposito si v. R. BahlUl, Prospettive islamiche del costituzionalismo, in P. costa, d. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto, Milano, 2002,
pp. 630-631.
14 R. Bin, Relazione finale, in A. ciancio (a cura di), Nuove strategie per
lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa, Roma, 2014,
p. 505. Secondo l’Autore il bilanciamento è la dimensione propria di tutti
i diritti e pertanto «quanto maggiore è la tutela riconosciuta ad un diritto,
di altrettanto è ridotta quella di un altro diritto (o del diritto di un altro)».
quelle successive. La tutela dei diritti, dunque, è anche una
delicata operazione di bilanciamento tra esigenze diverse, a
volte contrastanti, che richiede di affrontare tale questione
con equilibrio, evitando di cadere nella retorica che illude di
poter pretendere semplicemente “più diritti per tutti”.
Infine, non bisogna supporre che il sacrificio di chi ha
combattuto e anche dato la vita per tramandare alle future
generazioni il riconoscimento dei diritti fondamentali ne
garantisca un’acquisizione definitiva. Invero, pur senza (si
spera) dover giungere all’estremo sacrificio per garantire il
soddisfacimento di tali diritti, la loro tutela richiede il costante coinvolgimento di ogni membro della collettività. Siffatta
esigenza è ben espressa nell’art. 2 della Costituzione italiana,
che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia
come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità» e, contestualmente, «richiede l’adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale». Alcuni di tali doveri possono eventualmente essere
imposti con legge ai sensi dell’art. 23 Cost., ma altri sono
espressamente elencati in Costituzione: il “sacro” dovere di
difendere la Patria (art. 52 Cost.); la fedeltà alla Repubblica,
che richiede di osservarne la Costituzione e le leggi (art. 54,
comma 1, Cost.); il dovere di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore (art. 54, comma 2, Cost.); il dovere
di concorrere alle spese pubbliche (art. 53 Cost.). Per fare un
esempio della connessione tra diritti e doveri, basti osservare
che la violazione del dovere tributario può comportare una
riduzione delle risorse finanziarie a disposizione dei pubblici
poteri per garantire la concretizzazione dei diritti.
In conclusione, si può affermare che solo il costante adempimento dei doveri inderogabili consente di garantire l’attuazione dei diritti e di tramandarli alle generazioni future,
tracciando una linea di continuità tra generazioni che si riconoscono nel comune impegno di preservare e tutelare i diritti
dell’uomo senza pensare, in maniera egoistica, al solo tempo
presente15.
15 D’altro canto, come osserva A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, 3ª ed. aggiornata e modificata, Padova, 2003, pp.
57-58, «in una democrazia pluralista, come la nostra, il contemperamento,
in concreto, del valore della libertà con quello dell’eguaglianza (che è la
ragion d’essere delle liberaldemocrazie) non potrà mai essere realizzato
con intransigenza giuridica e con l’egoismo, ma solo a prezzo di rinunce
reciproche».
7
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Genere e pregiudizio: l’atteggiamento
delle donne italiane verso le donne
immigrate
MARIA GRAZIA MONACI, LUCA SCACCHI
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università della Valle d’Aosta - Université de la Vallée d’Aoste
Questo contributo vuole portare l’attenzione su un aspetto ancora relativamente
poco studiato dell’atteggiamento verso l’immigrazione: quello verso la sua componente
femminile. L’immigrazione femminile si
differenzia da quella maschile per numerosi
aspetti, fra cui la sua scarsa visibilità. Per la
forma sommersa che assume, questo fenomeno rimane poco conosciuto, sebbene con
un forte impatto sul piano sociale. Scopo
generale dello studio è valutare se l’atteggiamento degli italiani nei confronti delle
immigrate straniere, e le sue componenti cognitive ed emotive, sia quantitativamente e
qualitativamente diverso da quello verso gli immigrati in genere. Ci aspettiamo che esse vengano percepite come meno
minacciose; di conseguenza, le valutazioni nei loro confronti
dovrebbero essere più favorevoli. Se, come ipotizziamo, esse
godessero di un’immagine più positiva rispetto agli immigrati in generale, potrebbero assumere una funzione privilegiata nell’attuale contesto di convivenza e nel processo d’integrazione multiculturale.
Si è inoltre cercato di esaminare se nella valutazione
dell’immigrazione femminile ci sono differenze attribuibili
all’appartenenza di genere dei partecipanti stessi. Vogliamo
cioè distinguere fra le valutazioni espresse da uomini e donne italiani, ipotizzando un atteggiamento migliore nelle donne quantomeno verso le donne straniere, a causa della categorizzazione incrociata (Deschamps e Doise, 1978; Brewer,
2000). Deschamps e Doise (1978) sostengono che, laddove
due dimensioni categoriali non sovrapposte si intersecano,
la differenziazione categoriale diminuisce, facendo calare la
tendenza a discriminare l’outgroup; la discriminazione diventa più complessa poiché i nostri interlocutori possono essere
membri dell’ingroup per alcune dimensioni e dell’outgroup
per altre. Sebbene diversi studi abbiano confermato questo
fenomeno (Crisp, Hewstone e Rubin, 2001), altre ricerche
8
hanno mostrato risultati contraddittori. Ad esempio, in alcuni casi una dimensione risulta dominante rispetto ad altre
(Hewstone, Islam e Judd, 1993): in altre parole, gli effetti
della categorizzazione incrociata nella riduzione del pregiudizio sono influenzati dall’importanza percepita delle dimensioni di categorizzazione in gioco.
CHI SONO LE DONNE MIGRANTI. LA RIPARTIZIONE
PER GENERE DEGLI INGRESSI E I MOTIVI DI
I
SOGGIORNO
n base ai dati Istat relativi al 2015, gli stranieri
rappresentano l’8,3% della popolazione italiana
totale, poco oltre 5 milioni di persone, e per il
53,7% sono donne. La presenza femminile è
costantemente aumentata negli anni: nel 1994
rappresentavano il 35% della popolazione migratoria mentre
il “sorpasso” rispetto a quella maschile è avvenuto nel 2008.
I flussi migratori femminili verso l’Italia non rispecchiano
le proporzioni di quelli generali. La quota femminile è
meno incidente, da sempre, dai paesi dove prevale la cultura
islamica, con punte di uomini dai paesi Nordafricani o dal
Sub-continente Indiano intorno al 65/70%. Pur non essendo
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
così scarsamente rappresentate, anche le donne provenienti
da Vicino e Medio Oriente o dall’Africa occidentale non
superano il 40% delle presenze totali. Diversamente, le
aree a maggior protagonismo femminile risultano essere i
paesi europei non comunitari dell’est e l’America Centrale
e meridionale. Un caso particolare è rappresentato da
alcuni specifici paesi (Capoverde, Etiopia, Eritrea ma
anche Filippine) che raggiungono percentuali di migrazione
femminile comprese tra il 70% e l’80%. L’Italia, infatti, ha
cominciato la sua esperienza quale paese di immigrazione
quando i flussi riguardavano proprio le donne provenienti
da questi paesi, per il loro inserimento nel mondo del lavoro
domestico. In alcuni casi (come quello delle Filippine e
delle donne dello Sri-Lanka) ciò era il frutto di politiche
di incoraggiamento all’emigrazione dei paesi di esodo,
ma principalmente risponde ad una precisa domanda
dei paesi di approdo. I flussi migratori, e anche la loro
diversificazione per genere, sono generalmente correlati
a trasformazioni di ordine sociale intervenuti nei paesi di
esodo ma anche a processi strutturali e culturali dei paesi di
approdo, che hanno visto ad esempio le donne inserirsi in
maniera sempre crescente nel mercato del lavoro dei paesi
a sviluppo avanzato: una maggior incidenza di immigrate
che forniscono servizi domestici rende possibile alle
italiane di passare più ore al lavoro. In Italia, ad esempio,
negli anni ’70 la richiesta di domestiche era particolarmente
elevata, e superava quella di manodopera a basso costo e di
enterteiners.
Negli anni seguenti l’immigrazione femminile diminuì
la sua rappresentatività, fino a quando, dalla seconda metà
degli anni ’90, la “femminilizzazione” dei flussi nel nostro
paese ha ripreso vigore grazie ai ricongiungimenti familiari,
agevolati da nuove norme legislative, che hanno coinvolto
soprattutto donne provenienti dall’area magrebina.
L’analisi dei permessi di soggiorno, differenziati in
funzione del genere, consente di appurare come in Italia
siano in corso due differenti dinamiche migratorie. Da
una parte si registra una crescita di nuovi arrivi legati ai
motivi di famiglia, con il 51.2% (rispetto al 25% relativo
agli uomini) dei permessi per ricongiungimento concesso
a donne, il motivo più frequente per le donne (dati relativi
al secondo semestre 2014 dall’approfondimento tematico
dell’ISTAT sull’ Integrazione di stranieri e naturalizzati nel
mercato del lavoro). Dall’altra il più consistente numero di
ingressi è per motivi di lavoro, stabile nel tempo, lievemente
in crescita per le donne ma ancora molto minore rispetto
agli uomini (45.1% vs 70.5%, con l’eccezione di ucraine,
filippine, moldave, dove la percentuale sale molto e supera
quella dei connazionali uomini). Si osserva dunque un
aumento di motivi di inserimento stabile, mentre sono
in diminuzione i permessi concessi per motivi diversi
dall’inserimento (umanitari, giudiziari, salute, ecc.).
Le donne straniere immigrate hanno posizioni lavorative
ben diverse rispetto agli uomini immigrati. Esse sono
occupate prevalentemente nei servizi sociali e alla famiglia
(il 51.3%, secondo il rapporto “Il ruolo degli immigrati
nel mercato del lavoro italiano”, a cura di Alessandrini e
Dell’Aringa, 2012), prevalentemente come collaboratrici
domestiche o assistenti familiari; seguono Istruzione/
sanità e manifattura. Gli uomini lavorano prevalentemente
nelle costruzioni, come operai o artigiani, o nel turismo.
Il lavoro femminile si colloca in settori in cui prevalgono
attività manuali ed esecutive, malpagate o sottopagate, non
sindacalizzate, spesso precarie e con possibilità di carriera
o di promozione sociale nulle (Favaro e Tognetti Bordogna,
1991). Le necessità economiche portano queste donne
ad accettare orari lavorativi molto lunghi che, sommati
agli impegni domestici e famigliari, le privano di tempo
libero, risultando in tal modo totalizzanti. Queste diverse
collocazioni contribuiscono notevolmente ad aggravare
un divario salariale di genere già presente anche per gli
italiani. Dal rapporto citato scopriamo che gli uomini
stranieri ricevono il 19.9 per cento in meno dei colleghi
italiani, mentre tra le donne il gap è decisamente più alto:
lo stipendio di una dipendente italiana è superiore del 29.4
per cento a quello di una straniera (tra italiane e immigrate
non comunitarie si osserva la differenza massima: il gap
in questo caso sale al 31.1 per cento). Sempre dallo stesso
rapporto apprendiamo l’ overqualification, cioè lavoratori
con titoli di studio più elevati rispetto a quelli richiesti
dall’occupazione svolta, è molto più elevata per gli stranieri
(42.8 per cento) rispetto agli italiani (21.2 per cento), ma
anche qui la discrepanza è particolarmente elevata nel
caso delle donne: tra le italiane l’over-education riguarda
circa una lavoratrice su cinque, mentre più della metà delle
occupate straniere svolge mansioni per le quali risulta
sovra-qualificata. Secondo i dati Istat dell’approfondimento
tematico sul lavoro, ben il 29,9% degli occupati stranieri
15-74enni dichiara di svolgere un lavoro poco qualificato
rispetto al titolo di studio conseguito e alle competenze
professionali acquisite, che salgono a 4 su 10 se si tratta di
donne straniere, specie se polacche, ucraine, filippine.
E’ dunque ben presente per le immigrate straniere in Italia
quello che è stato definito un doppio svantaggio, o “double
jeopardy”, in quanto le donne di una minoranza etnica sono
membri di due categorie svantaggiate (Almquist, 1973).
L’IMMAGINE DELLE DONNE IMMIGRATE
L’esame della ripartizione per genere degli immigrati
impone una breve riflessione sul ruolo della donna
nell’esperienza migratoria contemporanea. Anche se, fin
dai primi anni sessanta, alcuni flussi migratori sono stati
caratterizzati soprattutto dalla presenza di donne, a questi
fenomeni non è stata prestata l’attenzione dovuta. La figura
della donna è stata finora poco considerata o, se oggetto
di studi, spesso esaminata come una semplice appendice
dell’immigrazione maschile. Solo negli ultimi tempi vi è
stato uno spostamento dell’attenzione a causa della sua
portata sempre più ampia (es. Rapporto Caritas, 2006).
L’immagine che ci viene fornita della donna di altre
culture, soprattutto dei paesi del terzo mondo, è spesso
9
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
stereotipata: poco scolarizzata, sottomessa all’uomo,
madre prolifera, incapace di prendere decisioni. Queste
caratteristiche vengono estese alle donne immigrate,
con l’aggiunta di casalinga o collaboratrice domestica
se lavora, che non sa parlare l’italiano e che non si adatta
alle nuove condizioni di vita (Favaro e Tognetti Bordogna,
1991). Entrambe le immagini si basano su una conoscenza
superficiale di questa realtà, probabilmente dovuta alla
condizione di “invisibilità sociale” più accentuata delle
donne immigrate rispetto agli uomini. Appaiono più
raramente nelle cronache sull’immigrazione, se si escludono
quelle dei fatti legati alla prostituzione; l’inserimento
lavorativo come domestiche o badanti certamente non
favorisce i contatti, così come il fatto di essere casalinghe
non allarga la possibilità di muoversi e di usufruire dei
servizi. Un caso ancora a parte è costituito dalle donne
immigrate di religione musulmana, che in larga parte
hanno raggiunto il marito e una volta arrivate difficilmente
si inseriscono nel mondo del lavoro e nella maggioranza
dei casi rimangono confinate in famiglia (Basso e Perocco,
2000).
Bisogna dunque sottolineare che l’universo migratorio
femminile non è un tutt’uno monolitico bensì molto
diversificato (Grasso, 1997): le situazioni di vita individuali
e collettive, i comportamenti economici, familiari, sociali, le
attitudini e i riferimenti culturali delle migranti differiscono
in relazione al Paese d’origine e alla religione, al progetto
migratorio e al modello di adattamento al Paese che le
ospita. La migrazione è una decisione che matura nel tempo,
ancor più nel caso delle donne che tendono ad affrontare
la migrazione in età più avanzata rispetto ai maschi
(Alessandrini e Dell’Aringa, 2012). Specialmente per le
donne, gli elementi determinanti a livello personale possono
essere molteplici: dalla necessità del ricongiungimento
familiare, all’aspettativa di un miglioramento economico,
dall’aspirazione ad emanciparsi dai propri modelli culturali
tradizionali, all’esigenza di allontanamento dal proprio
paese per motivi politici. È in tale occasione che le donne
migranti smentiscono con forza gli stereotipi di “vittime
passive” e danno conferma della loro indipendenza e
capacità di intraprendere autonomamente progetti di vita
complessi e impegnativi (Balsamo, 1997).
La specificità dell’immigrazione femminile va ricercata
anche nei ruoli che la donna ricopre all’interno della società
e che, con la migrazione, assumono un valore ancora
più ampio. In un ambiente sconosciuto la donna diviene
depositaria della tradizione e nel contempo agente di
cambiamento, costituisce l’elemento regolatore del processo
di integrazione delle comunità immigrata (Campani, 1993).
Sono loro, infatti, che mantengono, più degli uomini, i
legami con la famiglia d’origine, scrivendo e cercando
di tornare più spesso; riallacciano o mantengono i contatti
nella vita affettiva e sociale della comunità, reinterpretando
tradizioni e norme alla luce della nuova cultura ospitante.
Inoltre creano reti sociali di sostegno all’interno delle
proprie comunità in grado di aiutare i migranti nel loro
10
cammino di inserimento in un paese straniero, in maniera
verosimilmente più efficace di quanto non sono in grado
di realizzare le istituzioni (Basso e Perocco, 2000; Monaci,
Carbone e Bonapace, 2010; Grasso, 1997).
Anche se non esplicitamente, tali elementi trasformano
la donna in promotrice di integrazione (Catani, 1983) e
in “anello di congiunzione e mediazione sociale tra le
culture” (Saint-Blancat, 2000), assegnandole un incarico
di rilievo nella costruzione di quella società multietnica e
interculturale invocata da molti. La migrazione femminile
merita quindi lo stesso interesse, non solo dal punto di vista
numerico, di quella maschile e forse anche di più.
LE DONNE E IL PREGIUDIZIO
A questa riflessione sul possibile ruolo della donna
immigrata quale agente culturale e di integrazione si
desidera accostare un’altra constatazione derivante
dai risultati di ricerche sulle differenze di genere
nell’atteggiamento interetnico e nell’espressione del
pregiudizio. Emergono indicazioni su come le donne
abbiano atteggiamenti più positivi verso le minoranze
etniche rispetto agli uomini (Johnson e Marini, 1998)
e siano maggiormente disponibili ad avere relazioni
interpersonali con i loro membri (Hallilian e Teixeira,
1987).
Dagli anni ’90, il corpo di ricerche che ha come oggetto
le differenze di genere nell’orientamento verso gli altri
ha conosciuto un nuovo sviluppo. Alcuni dei diversi
aspetti che si possono prendere in considerazione (dallo
stile relazionale interpersonale dei due generi ad alcune
differenze negli atteggiamenti socio-politici) sembrano
gettare basi coerenti per ipotizzare delle diversità di genere
anche nell’atteggiamento interetnico. Si propongono, in
sintesi, i risultati ottenuti in ambiti specifici di quest’area di
ricerca.
Gli studi sulle diversità tra uomini e donne nello stile
relazionale sembrano indicare che le seconde rivolgano
maggiore attenzione ai rapporti interpersonali rispetto
ai primi. Le donne interagiscono in gruppi più piccoli,
maggiormente cooperativi (Block, 1984), sono meno
competitive (Van Vugt, De Cremer e Janssen, 2007),
sono più orientate a fornire sostegno nelle relazioni di
amicizia (Bugental e Beaulieu, 2009; Piliavin e Charng,
1990), si relazionano agli altri in modo più personale
(Williams, 1985), sono più accoglienti e accettanti (Mills
et al., 1995). Le diversità osservate sembrerebbero derivare
principalmente dalle differenze nella socializzazione
dei maschi e delle femmine, che a loro volta producono
differenze nell’internalizzazione di processi cognitivi
e affettivi: le femmine vengono educate a prendersi
cura degli altri, ad assumersene la responsabilità, e
a preoccuparsi del benessere delle persone in misura
maggiore dei maschi (Block, 1984). Secondo Gilligan
(1982) questa propensione delle donne a pensare agli altri
e a focalizzarsi sulle relazioni interpersonali dovrebbe
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
essere evidente anche nella loro diversa modalità di
ragionamento morale. Questa studiosa afferma che le
donne sono “care oriented”, orientate alla cura, e ciò le
porti a porre maggior attenzione agli aspetti relazionali
delle situazioni e all’interdipendenza tra sé e gli altri. Al
contrario, ritiene gli uomini siano orientati da un principio
di giustizia più astratta che si focalizza sui diritti individuali,
sull’equità e sulla reciprocità. Sono state in effetti trovate
differenze correlate al genere a proposito di atteggiamenti
di ordine politico-sociale. Oltre ad attribuire maggior
importanza all’essere utili agli altri e al compiere attività
che migliorino la vita della collettività (Marini et al., 1996),
le donne dimostrerebbero maggiore preoccupazione per
il benessere delle società considerata globalmente e per le
problematiche di origine umanitaria (Shapiro e Mahajan,
1986). Questa differenza si estenderebbe ad una maggiore
preoccupazione per la sorte delle minoranze etniche;
secondo alcuni studi effettuati negli Stati Uniti, rispetto agli
uomini esse sarebbero maggiormente favorevoli a quegli
interventi sociali volti a eliminare la discriminazione (Poole
e Zeigler, 1987), ad ottenere uguaglianza tra i diversi gruppi
etnici (Steeh e Schuman, 1992) e avrebbero una maggiore
tolleranza verso la diversità (Singely e Sedlacek, 2009;
Terenzini et al., 1996).
Nonostante le ricerche citate mostrino un certo grado di
coerenza, seppur indiretto, con la possibilità che esistano
differenze di genere nel pregiudizio, le ricerche in proposito
non sono molto numerose e i dati a volte contraddittori.
A sostegno di una differenza di genere nell’atteggiamento
etnico, Johnson e Marini (1998) trovano in studenti delle
scuole superiori americane dal 1976 al 1992, costantemente
nel tempo e per entrambi i gruppi etnici considerati
(bianchi e neri), che le ragazze hanno atteggiamenti
significativamente più positivi dei coetanei maschi. Morris
(1991) ha trovato differenze significative tra maschi e
femmine nel livello di preoccupazione dimostrato per
l’uguaglianza tra le minoranze in studenti americani che
vivevano presso alloggi gestiti da stranieri. Simili risultati
sull’effetto del genere vengono confermati anche da
una ricerca europea che ha indagato l’atteggiamento di
studenti tedeschi nei confronti degli stranieri immigrati
(Noack e Kracke, 1995). Con uno studio di impostazione
più sperimentale, Byrnes e Kiger (1992) hanno esaminato
l’effetto del genere e dell’affiliazione religiosa sulla
propensione ad agire fronteggiando un episodio di
discriminazione razziale, ed emerge che le studentesse
esprimevano una maggior volontà ad affrontare il
discriminatore degli studenti maschi. Uno studio con ampie
survey con studenti e non studenti trova che gli uomini
hanno livelli significativamente maggiori di razzismo
(McDonald, Navarrete e Sidanius, 2011).
Questi risultati sono coerenti tra loro quanto meno rispetto
ad una chiara distinzione di genere nell’atteggiamento
verso la discriminazione o le politiche di uguaglianza, ma
le conclusioni che si possono trarre non sono univoche:
esistono, infatti, ulteriori studi che non hanno riscontrato
alcuna differenza di genere nell’atteggiamento etnico
(ad esempio Bath e Farrell, 1996); altri ancora registrano
una tale tendenza che non risulta però sufficientemente
consistente da avere significatività statistica (Qualls, Cox
e Schehr, 1993). In particolare in ambiti caratterizzati da
forme meno aggressive e più benevole di pregiudizio, le
differenze di genere sono inesistenti o comunque di entità
molto modesta, o sono addirittura le donne le donne ad
avere atteggiamenti più sfavorevoli, e viene suggerito
che le differenze dipendono più dal ruolo che i due gruppi
occupano nella società che da differenze nei rispettivi
processi di socializzazione (Hughes e Tuch, 2003),
Un modello teorico che parte dalla prospettiva della
dominanza sociale (McDonald, Navarrete e Sidanius, 2011;
Navarreta et al, 2010) concorda sul fatto che fenomeni
come il pregiudizio e l’etnocentrismo abbiano una chiara
connotazione di genere dovuta al fatto che le stratificazioni
sociali si basano su rapporti gerarchici, all’interno dei quali
i maschi umani hanno un maggiore potere sociale rispetto
alle femmine. Questo comporta anche una maggiore
tendenza maschile alla dominanza sociale e all’aggressività,
che però paradossalmente li porta ad essere anche il target
privilegiato di fenomeni di pregiudizio e discriminazione.
Di conseguenza le donne, proprio come gli uomini, hanno
elevati livelli di pregiudizio contro gli uomini appartenenti
ad un outgroup. Le donne quindi non sono immuni dal
pregiudizio, sebbene le motivazioni sottostanti possano
essere diverse in uomini e donne a causa dei diversi
obiettivi adattivi dei due generi: aggressività e tendenza
alla dominanza sociale negli uomini, strategie di evitamento
e paura nelle donne. Tuttavia il pregiudizio delle donne
sarebbe primariamente diretto agli uomini di un outgroup,
a causa di una certa cautela e timore nei loro confronti, e
non alle donne dell’outgroup, verso le quali vengono meno
alcune delle motivazioni. Una possibile interpretazione delle
incongruenze empiriche evidenziate è stata proposta da
Verkuyten (1997), che non ha trovato differenze di genere
nell’atteggiamento etnico a livello della sua intensità bensì
ne ha individuate a livello di struttura: la componente
emozionale giocherebbe un ruolo centrale e predittivo per
l’atteggiamento interrazziale delle donne ma non avrebbe lo
stesso valore per gli uomini. Verificare questa ipotesi è uno
degli obiettivi del presente lavoro.
LA PRESENTE RICERCA
Un primo scopo di questo studio è esplorare quanto gli
italiani conoscano il fenomeno “immigrazione” nella sua
parte femminile, rispetto alla sua numerosità e ai lavori
svolti. Abbiamo poi indagato il pregiudizio, l’atteggiamento
verso l’immigrazione e il contenuto degli stereotipi e le
emozioni che gli italiani provano verso gli immigrati in
generale ed in particolare verso le donne immigrate.
Le ipotesi possono essere così riassunte:
1. Le valutazioni sulle liste di tratti, di emozioni e
11
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
l’atteggiamento nei confronti delle donne immigrate
saranno più positive di quelle espresse verso gli
immigrati in generale.
2. Per le valutazioni espresse verso le donne immigrate, ci
aspettiamo un maggiore effetto positivo sulle emozioni
rispetto ad atteggiamento e stereotipo, legato ad una loro
minore minacciosità.
3. Vogliamo infine verificare se esistono delle differenze
tra uomini e donne italiane nello valutazioni espresse
e nelle loro determinanti, e particolarmente nelle
componenti affettive del pregiudizio.
Partecipanti
I partecipanti alla ricerca sono stati 196, dei quali 99
uomini e 97 donne, con un’età compresa tra 17 e 87 anni
e una media di 39,1 (ds 14.9). I partecipanti sono stati
reclutati casualmente in differenti ambienti associativi e/o
sociali previa richiesta di autorizzazione nel caso ne fosse
stata fatta richiesta (Caritas diocesana, uffici comunali…).
I questionari erano consegnati individualmente ai partecipanti. Il tempo di compilazione complessivo era di circa
15 minuti.
un atteggiamento negativo, spesso inconsapevole, che
si manifesta in maniera socialmente accettabile nei
confronti dei gruppi minoritari; questo atteggiamento
implicherebbe una difesa dei valori tradizionali insiti nella
cultura occidentale. Il pregiudizio manifesto, al contrario,
si esprime come un rifiuto aperto e diretto che non si pone
problemi di desiderabilità sociale e che corrisponderebbe
al razzismo tradizionale o “vecchio stampo”. Dalla medie
degli item di ciascuna sottoscala sono stati calcolati due
indici distinti, uno di pregiudizio latente (alpha di Cronbach
.63) ed uno di pregiudizio manifesto (.66), e un punteggio
totale di pregiudizio (.47).
* Emozioni provate nei confronti degli immigrati stranieri.
E’ stata proposta una serie di 25 emozioni (8 positive
es. “piacere, dolore, divertimento, allegria; 17 negative
es.“paura, rabbia, preoccupazione..”; si veda Tabella 2);
i partecipanti dovevano indicarne l’intensità provata su di
una scala tipo-Likert a cinque punti (da 1 “per nulla” a 5
“molto”). Successivamente veniva richiesto di spostare
l’attenzione in particolare sulle donne immigrate straniere e
si riproponeva lo stesso compito con il medesimo elenco di
emozioni.
* Stereotipo. Veniva presentata ai partecipanti una lista
di 22 aggettivi (6 positivi “gentili, socievoli, intelligenti,
.. e 16 negativi, si veda Tabella 3) e si domandava loro di
esprimere su una scala tipo-Likert a cinque punti quanto
questi fossero tipici degli immigrati stranieri (da 1 “per
niente” e 5 “molto”). Anche in questo caso la lista è stata
presentata due volte: nel compilare la prima si doveva
fare riferimento agli immigrati in genere, per la seconda
esclusivamente alle donne immigrate straniere.
Il questionario
Lo strumento utilizzato è un questionario autosomministrato costituito da differenti parti. Oltre ad aspetti
socio-anagrafici erano misurate le seguente variabili:
* Stima della presenza femminile immigrata nel territorio.
Veniva richiesto di stimare la percentuale di immigrati
costituita da donne; un’altra domanda riguardava le
attività lavorative svolte (in % su diverse categorie quali
lavoro regolare, lavori illeciti, lavoro domestico– badante,
ambulantato, prostituzione); il medesimo quesito era RISULTATI
ripresentato con riferimento agli immigrati in generale e alle
Conoscenza del fenomeno migratorio al femminile
sole donne.
Abbiamo esaminato le risposte fornite dal campione in
* Atteggiamento verso l’immigrazione è stato misurato
mediante una scala grafica di 100 mm, con agli estremi: riferimento alla conoscenza della componente femminile del
“per niente favorevole” (0) e “molto favorevole” (100). Si fenomeno migratorio.
Per quanto riguarda la percentuale stimata delle donne
domandava di esprimere la propria favorevolezza sia verso
l’immigrazione in generale che, con una seconda scala sul numero complessivo di immigrati presenti in Italia,
la media delle stime si attesta al 38,2%, con una media
grafica, in particolare verso l’immigrazione femminile.
parziale del 37,2% per gli uomini e del 38,6% per le donne,
Pregiudizio
latente
e
manifesto.
La
scala
di
pregiudizio
*
di Pettigrew e Meertens (1995) è stata proposta nella non significativamente diversa al chiquadro. Nella realtà è
versione italiana di Arcuri e Boca (1996). La scala è oltre il 50% (superato nel 2008); assistiamo quindi ad una
composta da 20 items, con scale Likert di risposta a 5 sottostima del numero reale di donne immigrate.
Le stime percentuali sulle
gradi, e ai partecipanti
Tabella
1.
Stime
espresse
sull’occupazione
della
popolazione
principali occupazioni degli
non era richiesto di fare
immigrata.
immigrati in generale e
riferimento ad uno specifico
…secondo lei in che percentuale
delle donne in particolare
gruppo etnico, bensì alla
sono occupati nei seguenti
Immigrati
Donne Immigrate
ambiti lavorativi gli immigrati/
mostrano
una
netta
categoria generale degli
le donne immigrate?
differenza signi-ficativa (al
immigrati stranieri. La scala
Ambulantato
23,8
9,6
t-test pairs, tutte con p <
distingue tra una forma
Lavori regolari
21,0
16,3
.001), in par-ticolare i lavori
sottile (latente) e una forma
Lavori illeciti
23,2
12,4
illeciti e l’ambulantato sono
manifesta di pregiudizio.
Prostituzione
20,0
38,2
mag-giormente attribuiti agli
Gli autori sostengono che
Domestici - Badanti
14,7
26,6
uomini mentre occupazioni
la forma sottile esprima
12
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
Figura 1. Atteggiamento verso l’immigrazione di donne e uomini italiani.
quali prostituzione e lavori domestici alle donne. Donne e
uomini italiani non si differenziano significativamente e non
vengono dunque riportate in tabella le relative stime distinte.
Atteggiamento di uomini e donne italiane verso
l’immigrazione
Un’analisi di varianza 2 (Genere dei partecipanti italiani
Genere_IT) x 2 (Genere immigrati Genere_IMM, con
il primo fattore between subjects ed il secondo within
subjects), è stata condotta sul grado di favore espresso
nei confronti dell’immigrazione straniera in generale e di
donne in particolare. Emerge un effetto significativo per il
fattore Genere_IMM (F(1.194) = 23.8, p < .001), mentre non
è stato riscontrato nessun effetto del fattore Genere_IT; è
tuttavia significativa l’interazione fra i due fattori (F(1.194)
= 5.1, p < .05): l’andamento delle medie è mostrato nel
Grafico 1. Possiamo osservare che l’atteggiamento verso
l’immigrazione femminile è più favorevole che verso
l’immigrazione in genere, e che sono le donne italiane ad
avere l’atteggiamento più sfavorevole verso l’immigrazione
in generale mentre sono solo leggermente più favorevoli a
quella femminile rispetto agli uomini italiani.
Per il pregiudizio verso gi immigrati stranieri (non
differenziato per genere in questo caso), la media per il
pregiudizio manifesto è pari a 2.8 (d.s.= .56) ed è inferiore
a quella per il pregiudizio latente che è pari a 3.2 (d.s.= .57),
come è emerso in numerosi studi precedenti. Non emergono
differenze significative fra donne e uomini italiani, sebbene
le donne ottengano punteggi solo tendenzialmente inferiori
sul punteggio complessivo di pregiudizio (media F 2.97 vs
M 6.08, p = .09).
Emozioni verso gli immigrati
Abbiamo confrontato le emozioni provate verso gli
immigrati in generale con quelle espresse nei confronti
delle donne immigrate, sempre con analisi della varianza
2 (Genere_IT, between) x 2 (Genere_IMM, within), e
successivi confronti con t-test pairs e group.
I valori medi e i confronti sono riportati in ordine
decrescente sul totale verso gli immigrati in generale in
Tabella 2. Appare che le emozioni provate più intensamente
sono simpatia, interesse, curiosità, dolore,
preoccupazione e piacere; i punteggi più alti sono
riferiti ad emozioni tendenzialmente positive o,
se negative, che si riferiscono ad una risposta
empatica verso la difficile condizione dei migranti,
mentre quelli più bassi sono stati attribuiti alle
emozioni più ostili come disgusto, disprezzo e
odio.
Passando al confronto per genere degli
immigrati, le medie delle valutazioni espresse nei
confronti degli immigrati in generale risultano
significativamente maggiori rispetto a quelle
espresse nei confronti delle donne immigrate per
le emozioni negative preoccupazione, timore,
disagio, imbarazzo, paura, irritazione, ansia,
rabbia. Solo per quanto riguarda la tristezza le donne
immigrate hanno ottenuto un punteggio significativamente
maggiore.
Considerando due indici riassuntivi rispettivamente
per le emozioni positive e le emozioni negative (alpha di
Cronbach rispettivamente .84 e .87), i relativi confronti
sono riportati in fondo alla tabella e confermano la
maggiore intensità delle emozioni negative provate verso
gli immigrati rispetto alle immigrate (effetto principale
Genere_IMM F (F (194,1) = 25.9, p < .001)
Esaminando invece le differenze nei giudizi in base
al genere del soggetto giudicante italiano, le emozioni
provate verso gli immigrati in generale risultano essere
significativamente diverse per emozioni negative quali:
malinconia, tristezza, paura: le donne italiane le esprimono
in misura maggiore rispetto agli uomini italiani. Più
numerose le differenze nelle emozioni provate verso
le donne immigrate: dolore, preoccupazione, tristezza,
disagio, timore, paura, irritazione, ansia, disgusto sono
sempre più intense nelle donne italiane.
I confronti delle medie su gli indici riassuntivi di
emozioni positive e negative mostrano che le donne italiane
hanno espresso emozioni negative più intense sia verso gli
immigrati in generale sia verso le donne immigrate, mentre
non emergono differenze sulle emozioni positive. Non
emergono interazioni.
Lo stereotipo degli immigrati
La Tabella 3 mostra come i tratti maggiormente attribuiti
agli immigrati siano sia positivi che negativi, quali poveri,
irregolari, insistenti ma anche socievoli e intelligenti.
I risultati del confronto tra le medie per genere degli
immigrati mettono in risalto che gli immigrati in generale
hanno ottenuto medie significativamente maggiori rispetto
alle donne immigrate per tratti negativi quali litigiosi,
insistenti, irregolari, sporchi, delinquenti, pigri, aggressivi,
ignoranti e disonesti; come per le emozioni, quindi, le
donne sono percepite meno negativamente degli uomini, ma
non più positivamente. Gli unici tre tratti che nei punteggi
si differenziano perché maggiormente attribuiti alle
donne immigrate sono superstiziose, sensibili e ignoranti;
13
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Tabella 2. Medie e confronti delle emozioni provate verso gli immigrati e verso le donne immigrate, totali e nelle donne e uomini italiani.
IMMIGRATI
Totale
IMMIGRATI
M it
Donne_IMM
F it
M it
(n=97) (n=99)
F it
(n=97) (n=99)
simpatia
3,0
2,9
3,0
3,1
3,0
2,9
interesse
2,9
2,8
2,7
3,0
2,7
2,8
curiosità
2,8
2,9
2,9
2,8
2,9
2,9
dolore
2,6
2,4
2,4
2,7
2,1
2,7
**
preoccupazione
2,5
2,2
*
piacere
2,5
2,4
malinconia
2,5
2,4
tristezza
2,5
2,6
dispiacere
2,4
2,5
timore
2,2
disagio
***
2,4
2,6
2,0
2,5
2,6
2,4
2,5
2,3
2,2
2,7
*
2,3
2,5
*
2,3
2,7
**
2,5
2,8
2,3
2,5
2,4
2,6
1,7
***
2,2
2,3
1,5
1,9
**
2,2
1,9
***
2,2
2,2
1,7
2,0
*
imbarazzo
2,1
1,9
**
2,0
2,1
1,7
2,0
allegria
2,0
1,9
2,0
2,1
1,8
1,9
paura
2,0
1,5
1,8
2,2
felicita
2,0
1,9
1,9
2,1
irritazione
2,0
1,6
ansia
1,9
1,8
colpa
1,9
1,8
rabbia
1,8
1,6
sorpresa
1,7
divertimento
1,7
vergogna
***
***
*
1,3
1,7
1,8
2,0
*
*
1,9
2,1
1,4
1,8
**
1,8
2,0
1,6
1,9
*
1,9
1,8
1,9
1,7
1,7
1,8
1,5
1,7
1,7
1,7
1,8
1,6
1,8
1,7
1,6
1,8
1,7
1,8
1,6
1,5
1,6
1,6
1,5
1,5
disgusto
1,5
1,4
1,4
1,6
1,3
1,5
disprezzo
1,4
1,3
1,3
1,5
1,3
1,3
odio
1,4
1,3
1,4
1,3
1,2
1,4
Emozioni positive
2,3
2,3
2,3
2,4
Emozioni negative
2,0
1,8
1,9
2,1
*
**
questo probabilmente perché tali tratti aderiscono molto
fortemente allo stereotipo femminile socialmente condiviso
e all’immagine della donna di culture del terzo mondo.
Anche i tratti sono stati sinteticamente riassunti in tratti
positivi e tratti negativi (alpha di Cronbach rispettivamente
.76 e .91). In fondo alla Tabella 3 possiamo osservare che
le medie non si differenziano nei tratti positivi mentre i
tratti negativi vengono attribuiti agli immigrati stranieri in
misura significativamente maggiore rispetto alle sole donne
immigrate.
I risultati del confronto tra uomini e donne italiani
mostrano che sostanzialmente non si riscontrano importanti
differenziazioni circa i tratti attribuiti agli immigrati;
solamente per astuti, maggiormente attribuito dagli uomini
italiani, e testardi, maggiormente attribuito dalle donne
italiane, troviamo una differenza significativa. Poche le
differenze significative anche nelle attribuzioni di tratti
alle donne immigrate: per gli uomini italiani sono più
povere e socievoli, per le donne italiane sono sempre più
14
DONNE IMMIGRATE
(*)
2,2
2,3
1,7
2,0
*
**
testarde. I raggruppamenti di tratti positivi e negativi verso
gli immigrati mostrano che donne e uomini italiani non si
differenziano, e che quindi sostanzialmente condividono lo
stesso stereotipo.
La struttura del pregiudizio in uomini e donne italiane
Per condurre un’analisi più approfondita della struttura
di pregiudizio e atteggiamento verso l’immigrazione, sono
state stimate delle regressione lineari multivariate, con
predittori i tratti e le emozioni rispettivamente positive e
negative attributi e provate verso gli immigrati (Tabella 4).
Due analisi di regressione con variabile dipendente il
livello complessivo di pregiudizio sono state condotte
separatamente nelle donne e negli uomini italiani.
Nell’equazione che emerge per gli uomini italiani entrano
come predittori significativi solo le due componenti dello
stereotipo, i tratti positivi e i tratti negativi; per le donne
italiane si conferma come predittore significativo l’indice
relativo ai tratti negativi ma si aggiungono le emozioni
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
Tabella 3. Medie e confronti dei tratti attribuiti agli immigrati e alle donne immigrate, totali e nelle donne e uomini italiani.
IMMIGRATI
Totale IMMIGRATI
IMMIGRATI
M it
Donne_IMM
DONNE IMMIGRATE
F it
M it
(n=97) (n=99)
F it
(n=97) (n=99)
Poveri/e
3,7
3,6
3,8
3,6
3,7
3,4
Insistenti
3,6
3,2
***
3,6
3,7
3,0
3,3
Irregolari
3,4
3,2
*
3,3
3,5
3,3
3,2
Socievoli
3,2
3,2
3,3
3,1
3,4
3,0
Intelligenti
3,2
3,1
3,2
3,1
3,2
3,1
Astuti/e
3,1
3,1
3,3
2,9
3,1
3,0
Volenterosi/e
3,1
3,2
3,1
3,1
3,2
3,3
Litigiosi/e
3,1
2,6
2,9
3,2
2,5
2,8
Rispettabili
3,0
3,1
3,0
3,1
3,1
3,1
Gentili
3,0
3,2
3,0
3,1
Testardi/e
3,0
3,0
2,8
3,3
Sensibili
3,0
3,2
*
3,1
2,9
3,2
3,1
Superstiziosi/e
3,0
3,1
*
3,0
2,9
3,0
3,2
Invadenti
2,9
2,8
2,9
3,0
2,7
3,0
Sporchi/e
2,9
2,7
**
3,0
2,9
2,9
2,6
Delinquenti
2,9
2,5
***
2,9
3,0
2,5
2,5
Pigri/e
2,8
2,6
**
2,8
2,8
2,5
2,6
Aggressivi/e
2,8
2,5
**
2,7
2,8
2,5
2,5
Disonesti/e
2,7
2,5
***
2,6
2,8
2,4
2,5
Ignoranti
2,5
2,7
*
2,5
2,6
2,7
2,7
Maleducati/e
2,5
2,4
2,5
2,5
2,4
2,4
Non intelligenti
2,2
2,3
2,3
2,1
2,3
2,3
3,1
3,0
3,2
3,1
2,9
3,0
2,7
2,7
Tratti positivi
3,1
3,1
Tratti negativi
2,9
2,7
***
***
positive.
Quattro modelli di regressione simili con dipendente
l’atteggiamento verso l’immigrazione di immigrati stranieri
in generale o verso l’immigrazione di donne straniere,
e con predittori sempre i tratti e le emozioni attribuite
rispettivamente agli immigrati o specificamente alle donne
immigrate, mostrano che per gli uomini italiani sono
predittori significativi i tratti negativi ma anche le emozioni
positive; per le donne italiane si aggiunge anche l’influenza
delle emozioni negative mentre solo per l’atteggiamento
verso le donne immigrate escono dall’equazione i tratti
negativi. Anche questa seconda analisi di regressione
conferma quindi che le valutazioni espresse dalle donne
italiane sull’immigrazione, come già il pregiudizio, hanno
una base più emotiva rispetto a quello degli uomini italiani
e, particolarmente verso quelle femminile, una base
totalmente emotiva.
DISCUSSIONE
In questo studio si è tentato di indagare, dal punto di vista
quantitativo e qualitativo, le diverse rappresentazioni che
*
**
3,2
3,1
2,7
3,2
*
**
**
gli italiani hanno delle donne straniere immigrate. Si sono
ipotizzate alcune differenze alla base dell’atteggiamento
delle italiane e degli italiani verso l’immigrazione, in
particolare nelle loro risposte emotive.
Una prima informazione che si ottiene dai risultati di
questo studio riguarda la scarsa conoscenza che gli italiani
possiedono di tale fenomeno. La quota di immigrazione
femminile sul totale degli immigrati è stata valutata al 38%
contro una stima reale che si attesta oltre il 50%; questo
dato deriva probabilmente dalla scarsa visibilità che le
donne immigrate godono rispetto agli uomini. Anche in
riferimento agli ambiti occupazionali le valutazioni non
risultano accurate: la quota di immigrate che il campione
giudica coinvolte in attività illecite, e in particolare nella
prostituzione, è molto superiore a quella reale (sebbene i
numeri esatti siano difficile da valutare, le stime si attestano
su circa 38.000 straniere prostitute, con percentuali quindi
intorno l’ 1/2% delle donne straniere immigrate), mentre
risulta minore del reale quella riferita alle occupazioni
regolari; vengono dunque sovrastimati i lavori illeciti e i più
visibili mentre le uniche categorie lavorative in cui le donne
straniere immigrate hanno ottenuto attribuzioni percentuali
15
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Tabella 4. Regressioni multiple con dipendenti pregiudizio e atteggiamento verso l’immigrazione.
Variabile dipendente:
Pregiudizio
Atteggiamento verso l’immigrazione
Atteggiamento verso l’immigrazione femminile
M it
F it
M it
F it
M it
Tratti negativi
.57
.48
-.36
-.22
-.23
Emozioni positive
-.21
.48
.52
F it
Predittori
Tratti positivi
Emozioni negative
R2 aggiustato
.36
-.34
0.37
0.41
-.23
0.36
0.41
.53
-.30
0.38
0.30
I coefficienti sono beta standardizzati. Per il pregiudizio a valori alti corrisponde maggiore pregiudizio, per l’atteggiamento a valori alta atteggiamento più favorevole
superiori agli uomini sono quelle della prostituzione e della
collaborazione domestica, lavori genericamente femminili.
Gli errori nelle stime sugli ambiti lavorativi degli immigrati
sembrano indicare una conoscenza “cronachistica” e
lacunosa della realtà migratoria, dovuta probabilmente
anche in questo caso alla scarsa visibilità delle realtà
dell’immigrazione femminile.
I partecipanti tendono a sottostimarne la presenza ma
anche a percepire come meno minacciosa la loro presenza.
Infatti, il punteggio di favorevolezza espresso verso
l’immigrazione femminile è risultato significativamente
maggiore di quello espresso verso l’immigrazione in
generale, sebbene entrambi si collochino ampiamente
nell’area dello sfavore. Sono in particolare le donne italiane
ad essere sfavorevoli verso l’immigrazione, tendenza
che si inverte se si considera l’immigrazione declinata al
femminile. Rispetto a precedenti evidenze empiriche a
volte contraddittorie (McDonald, Navarrete e Sidanius,
2011; Bath e Farrell, 1996;Qualls, Cox e Schehr, 1993;
Hughes e Tuch, 2003), i nostri risultati sono a sostegno
dell’ipotesi che le donne non abbiamo valutazioni sempre
più favorevoli verso le minoranze etniche; piuttosto,
in particolare nei confronti dei maschi di un outgroup
arrivano ad avere atteggiamenti anche più negativi rispetto
ai maschi del proprio ingroup. Che la ragione sottostante a
questa differenza sia un maggiore timore nei loro confronti
trova sostegno dai nostri dati rispetto alla minor intensità
delle emozioni negative che le donne straniere suscitano
nei partecipanti. Considerando le differenze nelle singole
emozioni, si ottiene un pattern di risultati che delinea le
differenze qualitative degli stati d’animo suscitati dagli
immigrati e dalle immigrate. I primi sono vissuti come
maggiormente minacciosi; le seconde, al contrario,
sembrano tendenzialmente suscitare non emozioni più
positive bensì timidi sentimenti di compassione. Dai risultati
sulle attribuzioni dei tratti deriva una ulteriore conferma,
secondo cui le immigrate godrebbero di un’immagine
se non proprio più positiva quantomeno meno negativa
rispetto agli immigrati, sebbene stereotipata: le donne sono
ritenute più sensibili e superstizione e ignoranti, i secondi
maggiormente pigri, insistenti, delinquenti, aggressivi e
16
litigiosi. E’ corretto tuttavia sottolineare che la media dei
tratti e delle emozioni positive è sempre maggiore di quella
riferita a tratti ed emozioni negative.
Confrontando uomini e donne del campione dei
rispondenti italiani osserviamo una tendenza da parte delle
donne a fornire valutazioni risposte emotive più intense,
sia verso gli uomini che le donne immigrate. Le donne
riferiscono maggiori emozioni negative nei confronti degli
immigrati sia maschi che femmine, provando più paura
sebbene anche più malinconia a tristezza. Le emozioni
negative provate verso le donne immigrate da parte delle
donne italiane restano più intense di quelle provate dai
maschi italiani, e di intensità comparabile a quelle provate
verso gli immigrati in generale; sembra che la somiglianza
di genere non riesca a ridurre l’angoscia, l’ansia, il disgusto
provate verso questo fenomeno anche se provando anche
più disagio, preoccupazione e dolore rispetto agli uomini
italiani appaiono maggiormente empatiche e solidali verso
la condizione di disagio delle donne immigrate.
La sottostante struttura del pregiudizio conferma quanto
suggerito da Verkuyten (1997), con le donne italiane che
hanno una base più emotiva sottostante al loro pregiudizio
verso gli immigrati in generale e al loro atteggiamento verso
l’immigrazione e, quando questa è declinata al femminile,
totalmente emotiva. Per quanto riguarda il pregiudizio,
come ci si aspettava da precedenti evidenze empiriche
(Pettigrew e Merteens,1995), il livello della componente
manifesta è risultato inferiore a quello latente; inoltre le
donne del campione hanno ottenuto punteggi inferiori,
anche se non significativamente, su entrambe le scale.
Le donne italiane anche se esprimono atteggiamenti più
negativi verso l’immigrazione, esprimerebbero dunque
tendenzialmente minori livelli di pregiudizio. Anche i nostri
risultati sembrano quindi confermare che per le donne
contano di più valori come l’eguaglianza, la tolleranza per la
diversità, contro la discriminazione, ma resta anche rilevante
la paura dell’immigrazione specie se declinata al maschile
(McDonald, Navarrete e Sidanius, 2011)
In conclusione, questo studio ha fornito delle indicazioni
sull’atteggiamento degli italiani verso gli immigrati,
e in particolare verso la sua componente femminile.
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
Complessivamente, i risultati mostrano come il fenomeno
migratorio al femminile che interessa il nostro paese sia
tutto sommato ancora poco conosciuto dai partecipanti.
Sostanzialmente i risultati mostrano coerenza con le
ipotesi: vengono riscontrate differenze in funzione
del genere degli immigrati nell’atteggiamento verso
l’immigrazione, nelle emozioni e nello stereotipo riferiti
ad immigrati e immigrate. Le valutazioni espresse dal
campione nei confronti delle donne immigrate sono
meno negative di quelle espresse verso gli immigrati in
generale. Solo l’ipotesi riferita al genere degli italiani
trova conferme solo parziali, in accordo con altre evidenze
empiriche presenti in letteratura; infatti, le donne italiane
mostrano livelli di pregiudizio solo tendenzialmente
migliori rispetto agli uomini italiani. Sono altresì emerse
indicazioni sulla tendenza della popolazione a considerare
le donne immigrate in maniera più positiva, e da parte
delle donne italiane su una base più emotiva; le donne sono
comunque più sfavorevoli verso l’immigrazione mentre la
categorizzazione incrociata riesce a diminuire tale livello di
sfavore se l’immigrazione è femminile. Queste indicazioni
possono rivelarsi utili sia nell’ambito della ricerca per
continuare a studiare la formazione ed i meccanismi di
diminuzione dell’atteggiamento negativo verso l’outgroup,
sia per una applicazione pratica in campo sociale, sfruttando
i suggerimenti circa la migliore rappresentazione di cui
godono le immigrate presso il campione al fine di una
migliore integrazione degli stranieri nel nostro paese.
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SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | CITTADINANZA EUROPEA
Tre proposte
per l’Europa
FEDERICO CASTIGLIONI
L’
Europa non cade dal cielo. Un motto federalista
spinelliano attuale quanto
profetico alla luce dei recenti avvenimenti. L’Europa può essere un sogno,
un ideale, per qualcuno un semplice
obiettivo politico auspicabile. Quel che
è certo è che ad oggi non si può pensare
di rimanere inerti di fronte a una scelta
che si pone chiara di fronte a chiunque
abbia una coscienza civile. La scelta
necessaria, nascosta per tanti anni sotto
il tappeto, ignorata ed elusa, alla fine si
è presentata in tutta la sua urgenza: si
vuole andare avanti nell’integrazione
europea o tornare indietro?
La dimensione della politica sovranazionale, antica ma al contempo
attualissima, è la risposta, probabilmente l’unica risposta, alle crisi che
l’Italia e l’Europa stanno vivendo. La
consapevolezza dell’urgenza di questa
decisione, non più interrogativo dei filosofi politici ma oggi patrimonio del
cittadino comune, passa per la presa di
coscienza dei giovani, oggi sempre di
più artefici dell’agire politico. Una generazione che ha già delle posizioni di
responsabilità e può trasmettere i suoi
valori, quelli del progetto di scambio
Erasmus, del mondo allargato, della
libera circolazione, a tutta la società.
Una cinghia di trasmissione tra le vecchie generazioni, che ricordano ancora l’ Europa piena di blocchi, muri e
confini, e le nuove, che vivono in una
società sempre più liquida e senza direzione. Questa generazione, la così detta
generazione erasmus sarà determinante
per il futuro del nostro continente. La
generazione che ha avuto l’occasione
di vivere e conoscere l’Europa più di
ogni altro in passato, può e deve compiere una scelta: andare avanti o tornare indietro. Rischiare sul progetto europeo oppure ritirarsi.
Se si vedono le cose da questa pro-
spettiva la Gioventù Federalista Europea (GFE)1 non è solo un movimento
politico giovanile, nato e animato dal
pensiero di Altiero Spinelli, ma è un
gruppo di persone che condividono un
idem sentire, una consapevolezza del
presente ed una scelta per il futuro. La
JEF (Jeunes Européens Fédéralistes)2
è un’organizzazione presente in tutti i
Paesi dell’UE e anche in altri che ancora non ne fanno parte. Una rete di giovani federalisti che credono nell’Europa e tentano di mobilitare i giovani e la
politica, una rete giovanile che pone di
fronte alle coscienze la scelta, non più
eludibile, tra sentirsi parte di una comunità più grande o rinchiudersi in una
più piccola, erigendo muri e confini. In
Italia i giovani federalisti sono presenti in più di 12 regioni italiane, da nord
a sud, e possono contare sull’impegno
quotidiano di centinaia di giovani e il
contributo di altre migliaia, attivi nelle
piazze, nel web e nel mondo accademico.
Il rischio della chiusura delle frontiere e al contempo l’allarme terrorismo devono farci riflettere sul posizionamento delle giovani generazioni
nel nostro Paese che, disilluse e male
informate, possono ingrossare inconsapevolmente le fila dei partiti populisti che veicolano messaggi falsi e
tendenziosi, diffondendo informazioni
sbagliate o artefatte, che alimentano il
vento dell’antieuropeismo. Si capisce
perché, quindi, uno degli scopi principali dei giovani federalisti sia quello di
informare e diffondere le notizie sulla
situazione politica europea e dei diversi
stati da un Paese all’altro. D’altra parte
i giovani federalisti cercano un’interlocuzione costante con le istituzioni.
La speranza è quella di suggerire delle soluzioni e comunicare le idee e le
sensazioni di una gran parte dei giovani
italiani, i quali amano il progetto europeo e lo vorrebbero veder crescere e
non svanire.
Negli ultimi mesi la Gioventù Federalista Europea ha lanciato tre proposte
rivolte al governo italiano. I temi sono
quanto mai attuali: crescita economica, immigrazione e terrorismo,
emergenza geopolitica. In ognuno di
questi settori l’Europa potrebbe, se ci
fosse la volontà politica, procedere in
un senso federale, creando un ministero dell’economia europeo, una polizia
federale europea e un primo nucleo di
esercito europeo. All’elaborazione di
queste proposte hanno contribuito altre
nove associazioni giovanili, impegnate nella cooperazione internazionale o
nella tutela dei diritti dei cittadini. La
presenza di diverse associazioni, con
mission, scopi e orientamento politico
diverso è un bellissimo segnale per le
istituzioni democratiche ma anche per
chi crede in un’Europa migliore. Queste tre proposte3 sono ancora in fase
di elaborazione e un lancio ufficiale
è previsto entro il prossimo autunno.
Tuttavia già a Firenze, il 9 aprile 2016,
si è avuta una prima presentazione, che
ha goduto di qualche risonanza. Infatti
erano presenti a quell’incontro l’onorevole Lara Comi, europarlamentare, e
Marco Piantini, consigliere per gli affari europei del Presidente del Consiglio.
Queste proposte dimostrano la vivacità
della generazione erasmus nel difendere il progetto di Europa che ha ereditato dai padri fondatori: non solo Altiero
Spinelli ma anche De Gasperi, Monnet
e Adenauer. È una dimostrazione che
la fiaccola dell’Europa non è ancora
spenta del tutto. Sta ora alle istituzioni prestare attenzione a questo genere
di iniziative. Se questa generazione,
che ha avuto la fortuna di usufruire del
Progetto Erasmus di scambio culturale
e sociale tra giovani europei, è stata veramente toccata dal progetto europeo,
questo è il momento di dimostrarlo anche sul piano politico, sia dal basso che
dall’alto e senza farsi ostacolare da partigianerie non più attuali. I federalisti
e in particolare i giovani continueranno a combattere per realizzare questo
obiettivo, perché l’Europa non cade dal
cielo ma si crea sulla terra, ogni giorno.
1 http://www.gfeaction.eu/
2 http://www.jef.eu/home/
3 http://www.gfeaction.eu/news-feed/85-3-pro
poste-per-l-europa.html
19
CITTADINANZA EUROPEA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
A proposito di
integrazione
europea
ANGELO ARIEMMA
L’
Istituto Affari Internazionali (IAI) ha recentemente promosso un
incontro-dibattito sul Progetto di ricerca Un Nuovo Patto per l’Europa:
ricreare fiducia attraverso il dialogo1.
L’incontro ha visto la partecipazione
di Riccardo Alcaro (responsabile di
ricerca IAI), Sandro Gozi (sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per
gli Affari europei), Paolo Guerrieri
(senatore PD), Luis Alberto Orellana
(senatore Gruppo per le Autonomie),
Martina Pignatti Morano (Presidente
Un Ponte per…), Nicoletta Pirozzi (responsabile di ricerca IAI), coordinati
da Giampiero Gramaglia (consigliere
per la comunicazione IAI).
L’articolazione del dibattito si è mossa lungo i fattori di crisi che stanno minando la tenuta dell’UE. La crisi economica che ha manifestato l’incompletezza del progetto della moneta unica,
alla cui realizzazione non hanno fatto
seguito una reale unione bancaria che
desse alla BCE gli stessi poteri di cui
gode per esempio la Federal Reserve
americana, e un’unione fiscale e di bilancio; in tal modo ogni Stato ha dovuto affrontare la crisi secondo le proprie
possibilità e le proprie scelte. La crisi
delle migrazioni di massa, che fa traballare l’Accordo di Schengen2, perché
ogni Stato si illude di poter controllare
il flusso migratorio rialzando le proprie
barriere, mentre ci vorrebbe un’unità di
intenti e di forze dell’ordine a protezione dei confini UE, non al suo interno.
Tutto questo riesce a porre in dubbio
perfino i valori fondanti dell’UE: quei
diritti umani sanciti dalla Carta europea dei diritti3, che ormai è parte costitutiva del Trattato di Lisbona; e quel
1 http://www.iai.it/it/ricerche/new-pacteurope
2
http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/
TXT/?uri=uriserv:l33020
3
http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/
TXT/?uri=CELEX%3A12012P%2FTXT
20
Mercato Unico, che implica necessariamente anche la libera circolazione
delle persone.
Allora occorrono nuovi modelli di
accoglienza, anche per la massa di disperati che premono ai confini (e certo
non sono loro a portare il terrorismo nel
cuore dell’Europa); e nuove scelte economiche, più coraggiose, che ridiano
speranza di futuro soprattutto ai giovani. Forse bisognerà pensare anche a un
nuovo modello di integrazione: un’integrazione differenziata, per esempio
tra i paesi che già adottano la moneta
unica e che vogliono più celermente
muoversi in direzione di una più forte
unione economica e di una più decisa unione politica; mentre i paesi che
ancora non si sentono pronti a questi
passi potrebbero semplicemente condividere quei valori e quel mercato unico
ai quali hanno aderito con il Trattato di
Lisbona.
Certo il recente referendum britannico che ha sancito la loro volontà di
uscire dall’UE4, rende la futura prospettiva ancora più incerta e inquietante, ma rende anche più urgente la
riflessione su quale Europa vogliamo e
su quale informazione viene data agli
elettori, che tendono a votare, anche
per le questioni dell’UE, tenendo presenti unicamente la dialettica interna
tra governo e opposizione nazionali.
Qui si è visto come la “narrativa”
mediatica sull’Europa sia stata sempre
carente nel periodo delle vacche grasse, in cui tutti potevano godere dei van4 Ma già si parla di uno slittamento della Brexit
al 2019.
taggi dell’Unione, senza che mai fossero evidenziati come vantaggi prodotti
dall’Unione. Mentre con l’arrivo delle
crisi si è puntato il dito contro l’Unione, in una “narrazione” che facesse
sentire i popoli europei vittime di poteri sovranazionali, dimenticando che
le decisioni definitive vengono prese
dal Consiglio dei Governi, con il metodo intergovernativo, oltretutto ancora
in regime di unanimità, esautorando
sempre più i poteri della Commissione
e del Parlamento europeo e il metodo
comunitario.
Dunque, bisognerebbe porre più attenzione ai fatti, anziché a una “narrazione” comoda solo al mantenimento
di cariche e poteri nazionali, non più in
grado di incidere sulla scala globalizzata, dove vincono realtà economiche
transazionali, che possono essere contrastate solamente da realtà statuali di
livello continentale.
L’Europa quale la conosciamo si è
costituita con la strategia dei piccoli
passi, ritenendo più facile partire da accordi economici che via via avrebbero
rinsaldato la reciproca fiducia tra gli
Stati. Tutto questo promosso da classi
politiche che, nel muoversi a piccoli
passi, avevano comunque ben presente
la prospettiva futura di una vera unione politica dell’Europa5. Le crisi di
questi anni hanno evidenziato tutta la
mediocrità dell’attuale classe politica,
e il limite di un’unione semplicemente
5 Si veda, a questo proposito, la lucidità
“preveggente” dell’ultimo discorso (1995) di
François Mitterrand al Parlamento euro-peo
http://europarltv.europa.eu/it/player.aspx?
pid=2be216c8-0080-4f05-88b0-a2eb0115bacf
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | CITTADINANZA EUROPEA
economica, oltretutto neanche completata, rispetto a una vera e forte unione
politica che nella prospettiva democratica unisse popoli da sempre portatori
di un’unica “idea” di Europa fondata
sulla sua millenaria cultura.
La “narrazione” che vorrebbe riportare le nazioni europee chiuse nel
loro “particulare” è un’illusione. Ma è
un’illusione molto pericolosa, poiché
proprio le chiusure nazionaliste hanno
insanguinato l’Europa, dalla Guerra
dei Trent’anni alle due Guerre Mondiali, in quelle che potremmo definire
vere e proprie guerre civili tra popoli
che peraltro sono progrediti sulla base
di valori politici e culturali comuni.
P
romosso dal Circolo di Cultura Politica “Via Cassiodoro”6
e dall’Associazione “Università per l’Europa”7, si è svolto presso
la Biblioteca della Camera dei Deputati
un Convegno A proposito di Brexit che
ha visto accademici e animatori culturali impegnati nella diffusione di una
proposta che guardi all’Unione politica
dell’Europa.
Dopo il saluto dei promotori Gianna Radiconcini e Francesco Gui8, che
hanno fatto notare come le cose del
mondo siano cambiate rispetto agli
anni dell’Europa felix, e come ci sia un
impellente bisogno di classi dirigenti all’altezza dei nuovi compiti che il
mondo globalizzato richiede, mentre
le attuali classi politiche, invece di governare il cambiamento, si fanno “dirigere” dagli umori più irrazionali che
la società esprime; e lo si è visto con la
Merkel che, nella miopia dell’interesse elettoralistico nazionale, ha esitato
a fornire gli aiuti alla Grecia, i quali
sarebbero costati molto meno se dati
subito; lo si è visto con Hollande che
continua a rifiutare ogni cedimento di
sovranità a favore di una difesa e una
polizia europee; lo si è visto con Ca6 Circolo promosso dalla militante del Partito
d’Azione Gianna Radiconcini https://www.youtube.com/watch?v=aA3walcGv5Q
7 http://www.universitapereuropa.eu/
8 Professore di Storia moderna all’Università
Sapienza di Roma e Presidente della Sezione
Lazio del Movimento Federalista Europeo.
meron, che ha promosso questo referendum anche lui per poter cavalcare i
meri interessi britannici9.
Tutto questo è riapparso anche
nell’appassionato intervento di David
Sassoli, vice-presidente del Parlamento europeo, che ha sottolineato come la
crisi europea nasca dal fallimento del
Progetto di Costituzione europea elaborato dalla Convenzione presieduta
da Giscard d’Estaing. Quel Progetto,
bocciato dai popoli francese e olandese, sempre per interessi nazionalisti, ha
infine prodotto il Trattato di Lisbona,
nel quale è emerso con più forza il sistema decisionale intergovernativo a
dispetto di quello comunitario, col risultato di bloccare la capacità decisionale dell’UE per salvaguardare gli interessi, spesso inconciliabili, dei singoli
stati10. Quindi David Sassoli fa notare
come il fronte “più Europa” risulti poi
assente dalle piazze, anche in situazioni di forte crisi, come per esempio
al Brennero “chiuso” dagli austriaci;
mentre la “narrazione” antieuropea11,
la quale vuole illuderci che la chiusura
nei propri confini sia la soluzione alle
crisi della globalizzazione, riempie le
piazze e soprattutto gli schermi televisivi, quotidianamente e sistematicamente. Allora bisogna riconquistare
l’opinione pubblica con una diversa
“narrazione” dell’Europa: degli enormi vantaggi economici che ha portato
e continua a portare; della possibilità
di viaggiare e spostarsi senza passaporti e senza cambi monetari12; della
9 Grande sconcerto ci suscitano le dimissioni
di tutti i “protaganisti” della Brexit dopo averla
ottenuta.
10 Vogliamo qui sottolineare anche che l’allargamento dell’UE ai paesi dell’Est usciti dal
comunismo è stato voluto, per strette ragioni di
geopolitica, proprio dalla Gran Bretagna, senza
peraltro modificare la clausola dell’unanimità,
rendendo ingovernabile un sistema decisionale
a 28 stati.
11 Mi permetto di notare che criticare il TTIP
(Trattato Transatlantico sul Commercio e gli
Investimenti) in ragione del fatto che verremmo invasi dai prodotti USA, che sottostanno a
regole molto lasche rispetto a quelle europee,
e criticare poi le “troppe” regole europee che
opprimerebbero le nostre libertà nazionali, mi
sembra quanto meno incoerente.
12 Non dimentichiamo che a ogni cambio di
moneta paghiamo il tasso che l’agenzia decide e
il servizio che offre.
generazione Erasmus che ha maturato un’esperienza condivisa tra tutti i
giovani europei; di un’unica identità
culturale che fonda l’Europa prima degli interessi economici; di un progetto
politico che deve arrivare a compiersi,
attraverso la trasparenza decisionale,
attraverso un unico sistema fiscale e di
bilancio che faccia da pilastro fondante
la democrazia europea.
L’ambasciatore Antonio Armellini
esprime il timore che il processo di integrazione dell’Europa non è ipso facto
irreversibile, anzi la Brexit potrebbe
innescare, a cascata, richieste di uscita
anche da parte di altri stati. L’Europa resta un continente ad alta densità
economica, ma l’assenza di una reale
coesione politica, la rende debole in
un’economia sempre più globalizzata
e sempre meno governabile da parte di
singoli, piccoli stati.
Anche i successivi interventi dei corrispondenti della stampa estera Dimitri Deliolanes (TV greca), Eric Jozsef
(“Libération”), David Wiley (BBC),
hanno evidenziato il difetto di una
“narrazione” che informi correttamente su cosa ha significato l’UE in questi
anni, e su cosa può ancora significare
nei prossimi, coinvolgendo l’opinione
pubblica in un dibattito serio e aperto,
che mostri i grandi pericoli per la pace
e la convivenza nascosti dietro i facili appelli ai nazionalismi. Il problema
è che ci si trova di fronte a una classe
politica mediocre (non solo in Europa),
pronta a cavalcare gli umori cangianti
dell’opinione pubblica in vista delle
prossime elezioni, ma incapace di vedere al di là del proprio naso, e di far
intravedere ai popoli un progetto di
lungo respiro, che valga anche per le
future generazioni, come hanno saputo
immaginare i politici usciti dal disastro
della Seconda Guerra mondiale, ma
anche i Kohl, i Mitterrand13, che sul
pilastro della moneta unica volevano
fondare quella coesione che avrebbe dovuto portare all’unione politica
dell’Europa.
13 Cfr. l’ultimo discorso al Parlamento europeo (1995): “Il nazionalismo significa la
guerra” https://www.youtube.com/watch?v=
b5HasW8HJiY
21
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Riconsiderare la coesione sociale e
l’integrazione civica nella prospettiva
della generatività sociale
MAURO GIARDIELLO
Dipartimento di Scienze della Formazione, Università degli Studi Roma Tre
L’obiettivo del lavoro è quello di sviluppare una teoria
generativa della coesione sociale e dell’integrazione civica
al fine di mostrare l’effetto negativo (dissoluzione sociale
e civica) o positivo (risorse valoriali e relazionali) sui processi di formazione dell’integrazione sociale. Nella prima
parte dell’articolo viene affrontata una riflessione critica in
merito ad una visione eccessivamente macro strutturale della
coesione sociale che sembra prescindere dall’analisi dei fenomeni micro connessi alla disorganizzazione sociale delle
comunità. In questa parte viene discussa la prospettiva micro
della coesione sociale focalizzando l’attenzione sull’approccio di Lockwood (1999) basato sulla celebre distinzione tra
coesione sociale e integrazione civica. Nella seconda parte
del lavoro seguono le riflessioni in merito alla possibile rilettura sia della concezione della coesione sociale attraverso
l’impiego della teoria della generatività di Erikson (1950),
focalizzando l’attenzione
sulla qualità dei legami
sociali, sia del concetto
di integrazione civica rimodulandolo in chiave
micro attraverso il concetto di spazio pubblico.
In conseguenza di questa
impostazione nell’articolo si assume un concetto
di coesione sociale minima
(prevalentemente
focalizzata sugli aspetti
relazionali primari e secondari) che si distingue
da quello di integrazione
civica, espressione delle
virtù civiche di una comunità. Ciò viene sviluppato per spiegare come le
antinomie identificate da
22
Lockwood, quali la dissoluzione sociale (coesione sociale) e
la corruzione civica (integrazione civica), sono tanto connesse alla qualità del processo generativo e dello spazio pubblico quanto a un processo di reciproco condizionamento che si
sviluppa tra le due realtà.
I
INTRODUZIONE
luoghi collettivi della vita sociale, a vari livelli,
sono attraversati, con gradi e intensità differenti, da
fenomeni di ghettizzazione, frammentazione, individualismo, colonizzazione privata e commerciale,
paure e insicurezze. Sembra trionfare il tribalismo
nelle città, sedi dell’innovazione e delle aperture, delle sperimentazioni delle differenze, e nelle comunità locali, luoghi
della solidarietà e dell’accoglienza. Nella società contemporanea la privatizzazione
relazionale, civile e sociale si rende concreta anche
nei confronti dello spazio
comportando sia un processo di segregazione sul
piano soggettivo, rispetto
a tutti coloro i quali non
possiedono le credenziali
di accesso (culturali, sociali e economiche), e sia
sul piano strutturale nella
produzione di enclave sociali e culturali. L’aspetto
rilevante del fenomeno è
la sua diffusione non solo
nelle città, ovvero nella
dimensione classica urbana (fenomeni evidenziati
da alcuni decenni dalla
letteratura specializzata)
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
(Wacquant, 2007), ma anche nei contesti micro e comunitari non associati alla classica, e ormai desueta, dicotomia
urbano versus rurale. Il processo di privatizzazione sembra
essere alla base della crisi delle relazioni allargate, dei legami deboli vissuti e praticati nei contesti pubblici (spazio
pubblico), determinando la formazione di un’introversione
sociale e psicologica della soggettività moderna che trova un
suo coagulo sociale e “collettivo” in forme di coesione sociale autoreferenziale e tribale.
Secondo Sennett il neotribalismo, caratteristica della società moderna, rappresenta una realtà sociale al cui interno si
“abbina la solidarietà per l’altro simile a me con l’aggressività contro il diverso da me”(Sennett, 2012 p. 14). In questo
contesto la “coesione sociale in sé” non basta a creare un
ambiente aperto nel quale si pratica la cittadinanza attiva e
soprattutto nel quale si vivono le differenze in quanto spesso essa può rappresentare la base della formazione di realtà
tribali la cui logica si avvale della promozione dello scambio
collaborativo tra simili con le conseguenze negative di innescare una spirale di comportamenti distruttivi nei confronti
degli altri (ivi p. 16). Uno degli effetti è quello di produrre
un restringimento della coesione sociale in forme e modalità
esclusive più che inclusive determinando la formazione di
una moltitudine di nomadi autoreferenziali che mostrano una
scarsa capacità di generare un processo di integrazione civica ovvero di “spazio civico del bene comune in contrapposizione allo spazio privato concernente gli interessi privati”
(Innerarity, 2009 p. 103). Ciò è in contrasto con la vulgata
dominante che considera la coesione sociale come una risorsa, per quanto diversamente definita, capace di neutralizzare
gli egoismi individuali e di gruppo, di contrastare le disuguaglianze e promuovere una società aperta e tollerante. In questo articolo presentiamo una prospettiva diversa dall’assunzione aprioristica di una correlazione positiva tra coesione
sociale e una più vasta integrazione sociale della società dal
momento che la sua capacità inclusiva e/o espansiva dipende
dalle dinamiche del gruppo sociale/attori di viverla e declinare sia verso il proprio interno che nei confronti dell’esterno.
Questa prospettiva assume una certa rilevanza poiché spesso
si verifica “che una comunità con una forte coesione interna
possa dar luogo a una chiusura nei confronti di altri gruppi e, quindi nei confronti dell’intera società di appartenenza” (Fondazione Ismu, 2011 p. 31). Si tratta, secondo Ceri
(2008), degli effetti perversi che spesso la promozione e formazione della coesione sociale possono produrre soprattutto
nei contesti nei quali sono elevate le differenziazioni etnicoculturali, aggravando conflitti e divisioni. In questo contesto è evidente che bisogna definire la qualità della coesione
sociale soprattutto in rapporto alla sua capacità di favorire un
più vasto e articolato processo di integrazione sul piano non
solo relazionale ma anche della pratica civica.
In linea con queste riflessioni lo scopo del lavoro è quello
di sviluppare una teoria generativa della coesione sociale e
dell’integrazione civica al fine di mostrare l’effetto negativo
(dissoluzione sociale e civica) o positivo (risorse valoriali
e relazionali) sui processi di formazione dell’integrazione
sociale. Ciò pone la necessità di chiarire due questioni: la
prima riguarda lo studio dei processi generativi che sono
alla base della coesione sociale. In particolare si tratta di affrontare e chiarire sul piano teorico il fatto che la coesione
sociale per poter assumere una natura sociale inclusiva deve
poter attivare, al proprio interno, uno specifico processo generativo. La seconda sottolinea l’opportunità che questi processi (generativi inclusivi) necessitano di luoghi in cui poter
essere praticati, sperimentati ai fini della costituzione di una
civic community. Più specificatamente nel lavoro si sviluppa
una chiarificazione concettuale sia della coesione sociale sia
dell’integrazione civica allontanandosi da posizione teoriche
macro e soprattutto a-contestuali e prive di un’approfondita
analisi di quelli che sono i processi generativi o degenerativi attivati dagli attori locali nel produrre la realtà sociale.
Nella prima parte dell’articolo viene sviluppata una riflessione critica di una visione eccessivamente macro strutturale
della coesione sociale che sembra prescindere dall’analisi
dei fenomeni micro connessi alla disorganizzazione sociale
di una comunità o quartiere, dalla crisi dei legami sociali e
soprattutto dalla difficoltà di attivare processi generativi sul
piano sociale e civile. In questa parte viene discussa e chiarita la prospettiva micro della coesione sociale focalizzando
l’attenzione sull’approccio di Lockwood (1999) basato sulla
celebre distinzione tra coesione sociale e integrazione civica (entrambe costitutive dell’integrazione sociale distinta da
quella sistemica). Questa impostazione risulta centrale nel
lavoro in quanto considerata più fruttuosa sia per lo studio a
livello micro sia per una sua possibile rivisitazione in funzione dell’applicazione della categoria della generatività sociale
e dello spazio pubblico. Sulla base di queste considerazioni,
nella seconda parte del lavoro, seguono le riflessioni in merito alla possibile rilettura sia della concezione della coesione
sociale attraverso l’impiego della teoria della generatività di
Erikson (1950), focalizzando l’attenzione sulla qualità dei
legami sociali, sia del concetto di integrazione civica rimodulandolo in chiave micro e ridefinendolo attraverso la letteratura sociologica e filosofica dello spazio pubblico come
ambito situato ove gli attori praticano la dimensione civica, tolleranza o il conflitto. Altresì si assume un concetto di
coesione sociale minima prevalentemente focalizzata sugli
aspetti relazionali (primari e secondari) che si distingue da
quello di integrazione civica, espressione delle virtù civiche
di una comunità. Ciò viene sviluppato per spiegare come
le antinomie identificate da Lockwood quali la dissoluzione sociale (coesione sociale) e corruzione civica (integrazione civica) sono tanto connesse alla qualità del processo
generativo e dello spazio pubblico quanto a un processo di
reciproco condizionamento che si sviluppa tra le due realtà. In questa ottica nella comunità ove la coesione sociale
risulta dominata dal meccanismo della «pseudospeciation»
(processo generativo discriminatorio) si producono identità
tribali e un depotenziamento della funzione dell’integrazione civica (spazio pubblico come luogo vuoto o conflittuale).
D’altra parte la presenza di una crisi dei luoghi deputati alla
formazione dell’integrazione civica comporta un processo
23
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
di dissoluzione civica della comunità favorendo una regressione della configurazione della coesione sociale in enclave
o micro-feudi in quanto regolati dalla stagnazione o dalla
«self-preoccupation» (forme fallimentari della generatività).
La discussione si conclude mostrando come occorre, quando si analizza la coesione sociale, osservare i reali processi
generativi messi in atto da concreti attori sociali che, pur realizzandosi in specifici ambiti, siano capaci di rappresentare la
base espansiva per l’arricchimento e lo sviluppo della formazione di valori civici e più in generale di cittadinanze attive.
LA COESIONE SOCIALE
La diffusione del concetto di coesione sociale rappresenta
una risposta sia sul piano interpretativo (sviluppo di diversi
modelli teorici) sia sul piano delle politiche (nazionali, sovranazionali) ai problemi emersi nell’ambito sociale, culturale e politico nelle società globali.
In particolare è possibile osservare come l’interesse nei
confronti della coesione sociale sia connesso alla crisi delle
solidarietà sociali e in generale del legame sociale.
Ciò assume contorni preoccupanti all’interno di una realtà politica economica, ove le vecchie strutture di protezione sociale sono in crisi o sono incapaci di fronteggiare un
quadro sociale complesso all’interno del quale si generano
nuovi conflitti intergenerazionali e etnici dovuti ai processi
migratori e globali.
In questo contesto si inserisce l’impiego del concetto di
coesione sociale come risposta alle conseguenze che i cambiamenti strutturali hanno prodotto sul piano della tenuta dei
legami sociali, ovvero della società.
E’ possibile individuare due livelli di analisi del concetto
di coesione sociale. Il primo riguarda lo studio e l’indagine
della dimensione macro-strutturale e considera aspetti come
la crisi del Welfare, l’incremento delle disuguaglianze, la
trasformazione del mercato del lavoro in modalità e forme
sempre più precarie ancorché la tematica della condivisione
di un unico sistema normativo e valoriale in una società interculturale presieduta dal pluralismo dei valori. Il secondo
livello è di tipo meso o micro (la città, il quartiere, la comunità locale) e riflette soprattutto la tenuta e la rigenerazione
dei legami sociali primari (legati alla famiglia, al vicinato e
ai gruppi di amici) e secondari (comitati, associazionismo,
terzo settore) (Lockwood, 1999).
Più specificatamente è interessante osservare che prevalentemente, sia nella tradizione sociologica-accademica sia
nell’ambito delle policy, il concetto di coesione sociale viene
inquadrato in termini macro strutturali (Rinaldi, 2014 p. 73).
Nella ricca tradizione sociologia è indubbio che Durkheim e
Parsons abbiano considerato la coesione sociale, e più specificatamente la questione dell’ordine, all’interno dell’emergere di un bisogno generale di integrazione e coesione che
la società moderna produce in ragione dell’elevato processo
di divisione sociale del lavoro o differenziazione funzionale.
In dettaglio per Durkheim (1971), a fondamento della società e della coesione sociale, non sussiste un principio eco24
nomico ma la solidarietà meccanica (società tradizionale) e
la solidarietà organica (società moderna). Nella prospettiva
di Parsons (1996) è evidente la centralità del sistema normativo che consente la stabilità e l’ordine in virtù del processo
di socializzazione (primario e secondario) nonché l’integrazione dell’azione nel sistema sociale (assunzione di ruoli e
status).
In una certa misura questa tradizione è sopravvissuta nella
sociologia contemporanea per esempio attraverso il contributo di Gough e Olofsson (1999) le cui analisi si sviluppano
soprattutto a livello sistemico con una scarsa attenzione alla
realtà empirica e micro. Un’importante eccezione a questa
tendenza è il lavoro di Lockwood (1999) che considera la
coesione sociale uno degli aspetti centrali dell’integrazione
sociale (l’altro è rappresentato dell’integrazione civica). In
questa ottica l’integrazione sociale si configura come la dimensione micro (soprattutto la coesione sociale) opposta a
quella sistemica che rimanda a quella macro.
E’ opportuno evidenziare come nelle ultime due decadi si
siano sviluppati interessanti contributi volti a definire e operativizzare il concetto di coesione sociale (Schifer e van der
Noll, 2016). In questi lavori, per quanto il concetto di coesione sociale sia esteso anche a realtà micro, il premium teorico
è comunque focalizzato sulla dimensione macro-strutturale.
Nello studio di Chan et al. (2006) la coesione sociale viene
definita come un attributo dell’intera società (non come un
processo) attraverso le sue dimensioni relazionali (verticaliorizzontali, oggettive-soggettive). In questa ottica l’unità
d’analisi privilegiata è rappresentata da una nazione geograficamente e politicamente definita (anche se si può allargare
l’uso della coesione sociale alla città, al quartiere, al vicinato) (ivi, p. 291) di cui soprattutto lo Stato è reputato il livello
istituzionale più appropriato all’interno del quale osservare e
studiare la coesione sociale (ibid.).
La tendenza a tematizzare la coesione in termini macro
piuttosto che ridefinirla in base ai processi generativi prodotti
all’interno dei diversi e specifici contesti locali emerge anche
nel contributo di Jansen et al. (2006). In questo articolo la
coesione sociale è considerata uno degli aspetti fondamentali della nuova sfera pubblica cosmopolita all’interno della
quale opera una cittadinanza attiva che travalica i confini nazionali e soprattutto appare sempre meno legata al ruolo dei
luoghi e dei territori nel definire la propria formazione (che
nasce dalla sinergia tra formazione formale e informale).
Questa tendenza si rileva anche nella seconda e più recente
corrente di studio sulla coesione sociale, dove prevale nei
documenti dei governi nazionali e degli organismi internazionali un concetto “che prescinde quasi totalmente da una
seria ricostruzione dei contesti nei quali si dovrebbe intervenire per ricomporre la trama della società tra persone e gruppi” (Alietti, 2013 p. 10; Ceri, 2008). Più specificatamente il
Consiglio Europeo (2005 p. 23) definisce la coesione sociale
“come la capacità di una società moderna di garantire a lungo
termine il benessere di tutti i suoi membri, tra cui l’accesso
equo alle risorse disponibili, rispetto della dignità umana con
riferimento alla diversità, all’autonomia personale e colletti-
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
va e alla partecipazione responsabile” (ibid.). Analizzando
brevemente tale definizione si evince che la coesione è inquadrata in una prospettiva top-down che focalizza l’attenzione
sul ruolo dello Stato nel creare un ambiente socio-politico in
cui i cittadini europei possano esprimersi e godere dei servizi
e di una migliore qualità di vita. In questo contesto vengono
completamente trascurati i possibili processi generativi che
le differenti realtà locali e i diversi attori potrebbero attivare e soprattutto le conseguenze che tali processi potrebbero
implicare nel formare processi coesivi inclusivi o esclusivi.
La diffusione del concetto di coesione sociale come concetto guida nelle policy nazionali e internazionali viene evidenziata anche da organismi come la Banca Mondiale. I lavori di Ritzen and Woolcock (2000) sono indicativi del radicale cambio di rotta avvenuto nell’ambito della spiegazione
dello sviluppo economico nel quale trovano sempre più spazio fattori sociali, culturali e istituzionali. Ritzen e Woolcock
sono del parere che la crescita economica sia maggiormente
favorita in quei paesi in cui si registra una maggiore coesione sociale e in cui operano istituzioni più efficienti. Il focus
di questo approccio è la dimensione macro–politica incentrata su una prospettiva socio-istituzionale dove la coesione
sociale rappresenta il mezzo mediante il quale si realizza la
crescita economica di uno stato o di una nazione. In questa
ottica è evidente che viene trascurata la dimensione endogena come fattore che potrebbe rappresentare un elemento
ostativo o generativo della crescita della comunità locale e
della sua coesione.
LA COESIONE SOCIALE E IL MODELLO DI
LOCKWOOD NELLA PROSPETTIVA MICRO:
RISORSE E LIMITI
La dimensione macro strutturale della coesione sociale
sembra prescindere dall’analisi dei fenomeni connessi alla
disorganizzazione sociale di una comunità o quartiere, dalla
crisi dei legami sociali e soprattutto dalla difficoltà di attivare processi generativi sul piano sociale e civile. In questo discorso, invero, bisogna rilevare che recentemente in
letteratura è stato chiarito come l’ottica micro non esclude
quella macro, giacché tra le due dimensioni si sviluppa un
processo circolare. In particolare si possono annoverare almeno due approcci, anche se diversi tra loro, che si pongono
il problema della connessione tra i differenti livelli della realtà sociale. Il primo approccio evidenzia non solo la natura
multidimensionale ma soprattutto come “la coesione sociale
riguarda sia la società nel suo insieme (livello macro), sia le
relazioni tra gli individui (livello micro) e coinvolge sia la
sfera strutturale sia quella culturale” (Chiesi, 2007 p.47). Il
secondo approccio è quello relazionale che afferma la presenza tra i due livelli di una reciproca corrispondenza. In tal
senso, secondo Donati, la società civile può essere intesa
come l’insieme delle relazioni che si costituiscono a partire
da una spinta etica e che si relazionano fra loro e con gli altri
sottosistemi sociali (Donati, 2006 p. 294). In questa ottica,
con riferimento allo schema AGIL di Parsons, “una società
sarà tanto più coesa quanto più:
in A, le relazioni di inclusione sono maggiori di quelle di
esclusione;
in G, le azioni fondatrici, regolatrici, riparatrici e facilitatrici delle istituzioni sono di tipo sussidiario;
in I, la partecipazione associativa è alta e la tolleranza verso gli altri è forte;
in L, il legame familiare è robusto” (Camozzi, 2008 p. 51).
Attraverso questa prospettiva è evidente che fenomeni di
disgregazione sociale, di anomia nei quartieri o nelle comunità risentono della circolarità della relazione tra i vari
sottosistemi. Nel contesto del presente articolo, tuttavia, riteniamo che la densità dei legami sociali primari e secondari, e soprattutto la loro capacità generativa, collocata in un
determinato spazio, sia uno degli aspetti centrali per poter
comprendere il formarsi e il radicarsi della coesione sociale.
Va rilevato che non è mancata nella letteratura sociologica
la presenza di una copiosa corrente di studi e ricerche che
si sono caratterizzati per l’attenzione rivolta al rapporto tra
la qualità sociale di un quartiere o comunità e l’emergenza di fenomeni di devianza e marginalità. In questo campo
possiamo sicuramente annoverare gli studi pioneristici della Scuola sociologica di Chicago che hanno tematizzato il
concetto di rischio socio-culturale del territorio poiché sede
della crisi dei legami sociali e dei processi identificazione
spaziale (Shaw e McKay, 1942; Thrasher 1963). Più recentemente ricordiamo gli studi che hanno affrontato il rapporto
tra coesione sociale a livello di comunità e quartiere con una
particolare attenzione alle problematiche del crimine e della sicurezza urbana (Sampson et al., 2002), agli effetti della
diversità etnica sulla coesione sociale nelle comunità svantaggiate (Laurence, 2011), oppure lo studio della città come
quadro analitico più appropriato per l’analisi e l’implementazione di azioni volte a favorire lo sviluppo della coesione
sociale (Fenger, 2012) .
Si tratta di studi fondamentali che tuttavia focalizzano le
loro analisi su aspetti specifici della crisi della coesione sociale (l’emergere della devianza), trascurando non solo un
chiarimento concettuale del termine ma soprattutto eludendo
l’approfondimento di quei meccanismi e risorse che presiedono la formazione della coesione sociale all’interno di una
realtà territoriale specifica.
In linea con tali riflessioni critiche si è inteso privilegiare
l’approccio di matrice sociologica di Lockwood sulla coesione sociale in quanto considerato più fruttuoso sia per lo studio
a livello micro sia per una sua possibile rivisitazione in funzione dell’applicazione della categoria della generatività sociale. Nel realizzare questa scelta è fondamentale distinguere
l’integrazione sociale (le relazioni ordinate e conflittuali tra
gli attori) e quella sistemica (relazioni compatibili, incompatibili, contraddittorie tra le parti del sistema) (Lockwood,
1999). Ciò richiama il dibattito elaborato lungo il corso della
teoria sociologica (tra comunità/società, individualismo/collettivismo, micro/macro, struttura/agency e sistema e mondi
vitali) ripreso recentemente, anche se da prospettive diverse,
da autori come Habermas e Giddens. Più specificatamente
25
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Habermas (1987) rilegge le due antinomie – integrazione
sociale e sistemicain base ai noti concetti di mondo sistemico e mondo della
vita da una parte,
mentre Giddens attraverso la sua teoria
della strutturazione
(che lega la dimensione micro a quella
macro)
(Giddens,
1990). Nonostante
questi tentativi di riconsiderare la distinzione di Loockwood
in chiave micro versus macro o interazione faccia a faccia versus relazioni
indirette, secondo Mouzelis (1997) l’impostazione originaria rimane ancora un utile strumento sia per sensibilizzare
i ricercatori a due differenti modi di vedere la complessità
sociale (struttura o agency) sia per osservare due differenti
meccanismi che sono alla base della formazione dell’ordine
e del disordine sociale (relazioni ordinate o conflittuali tra
attori o parti del sistema). In questa ottica la validità euristica
di focalizzare il tema dell’integrazione sociale e quella sistemica (in base alla dimensione dell’agency o struttura) risulta particolarmente interessante anche nell’elaborazione del
concetto di coesione sociale come condizione micro incentrata sugli attori sociali. A nostro avviso nello sviluppo di tali
riflessioni è importante riconsiderare Lockwood (1999) che
analizza la coesione sociale come uno dei due livelli distinti
che costituiscono l’integrazione sociale. In questa ottica la
coesione sociale (versus la dissoluzione sociale) si configura come la dimensione micro dell’integrazione sociale ed è
costituita dalle relazioni primarie e secondarie che insistono
all’interno di una comunità locale. L’altro livello dell’integrazione sociale è costituto dall’integrazione civica (corruzione civica) e si riferisce all’universalità delle norme e dei
diritti che legittimano le procedure e la buona pratica degli attori istituzionali ed economici operanti a livello macro
all’interno di una nazione (ivi, p. 64). E’ importante rilevare
che per Lockwood l’integrazione sociale (costituta da coesione e integrazione civica) si contrappone a quella sistemica
(ivi, p. 65). In questa ottica la coesione sociale, essendo la
parte micro dell’integrazione sociale, non riguarda la società
intesa come sistema ma l’insieme di quegli attori che operano
all’interno delle relazioni primarie e secondarie costitutive
della comunità. Viene teorizzato un concetto di coesione sociale che si riferisce non solo alle specifiche pratiche di attori
sociali (famiglia, associazioni di volontariato) ma soprattutto
al nesso fecondo che si può determinare tra socialità prima26
ria (famiglia e reti di
parenti e amici) e
secondaria (associazioni e reti e legami
di fiducia tra essi). Si
tratta di una lettura
che focalizza l’attenzione nella possibilità che possiedono le
reti parentali, amicali e di vicinato ad
“estendersi ad un più
generale altruismo,
sotto forma di fiducia e propensione
d’aiuto” (Lockwood, 1999 p. 69). La
qualità emergente
dell’integrazione sociale e dei rispettivi
distinti livelli che la
compongono ci consentono non solo di individuare processi e attori sociali differenti sia nella coesione sociale (famiglia, reti di parentela e
amicizia, associazione di volontariato) sia a livello di integrazione civica (Stato e mercato), ma anche di individuare il reciproco condizionamento che si sviluppa tra essi nonostante
la loro natura indipendente. Sostiene Lockwood “sebbene la
coesione sociale e l’integrazione civica siano analiticamente
ed empiricamente distinguibili (come nel caso dell’integrazione sociale versus l’integrazione sistemica) è opportuno rilevare che la corruzione civica oltre un certo livello colpirà la
coesione sociale, proprio come la dissoluzione sociale diffusa minaccerà l’integrazione civica” (Lockwood, 1999 p. 65).
Dal nostro punto di vista ci sembra opportuno sottolineare
come questa impostazione teorica rimanda almeno a due riflessioni centrali per lo sviluppo dell’economia complessiva
del lavoro.
La prima riguarda il fatto che solo quando i due livelli
dell’integrazione sociale si rafforzano a vicenda si realizzano le condizioni per lo sviluppo di una buona società. Nel
caso contrario (comportamenti divergenti tra i due livelli)
abbiamo il prodursi di asincronie patologiche che incidono
sul processo di integrazione sociale. Più specificatamente
si rileva da una parte la situazione nella quale la coesione
sociale costruendosi all’interno di legami sociali “bonding”
determina un processo autoreferenziale e inclusivo (familismo amorale, nuove tribù comunitarie, gruppi sociali autoreferenziali) rispetto al più generale processo di integrazione
civica (consesso civile e morale della cittadinanza); dall’altra l’emergere di un contesto nel quale, nonostante si osservi
la presenza di una coesione sociale caratterizzata da legami
bonding e bridging (solidali e aperti) (Putnam, 2000), si registra un alto livello di corruzione civica.
Il secondo punto evidenzia che se per realizzare l’integrazione sociale occorre che la coesione sociale sia sincronica
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
all’integrazione civica, risulta fondamentale, sul piano teorico e operativo, individuare, definire e spiegare i meccanismi
generativi operanti non solo all’interno dei due rispettivi livelli ma anche comprendere come si viene a creare lo sviluppo di una possibile connessione tra i differenti livelli.
E’ indubbio che nella teoria di Lockwood si intuisce la
presenza di un processo generativo in funzione della società
allorquando “la coesione sociale non solo viene rafforzata e
i legami primari e secondari vengono mantenuti e nutriti, ma
anche quando opera in inter-azione con l’altra forma di integrazione, quella civica” (Guizzardi, 2008 p. 14). Nonostante
ciò è evidente l’assenza nel modello di Lockwood di un’efficace analisi capace di comprendere la complessa dinamica
della generatività e del suo effettivo ruolo nella costruzione
della coesione sociale. In ragione proprio di tale limite teorico viene privilegiata la prospettiva della generatività sociale
(sviluppata da Erikson nel 1950) in funzione della comprensione della genesi del processo di formazione della coesione
sociale. Il focus si incentra, in questa parte del lavoro, sulla
conoscenza del processo di creazione delle strutture delle relazioni e dei legami di reciprocità in quanto ci consentono
di osservare non tanto e non solo la quantità dei legami ma
soprattutto la loro qualità e affermare non solo la presenza di
un legame ma soprattutto di riflettere come la qualità di questo legame condizioni la natura della coesione sociale della
comunità.
LA GENERATIVITÀ NELLA PROSPETTIVA SOCIALE
Il termine “generatività” si colloca all’interno dell’articolata e innovativa teoria psicologica o psicosociale elaborata
da Eric Erikson (1950), volta a comprendere l’intricata dialettica che si determina tra lo sviluppo del Sé e la Società.
Erikson definisce la generatività come una qualità psicologica che l’individuo adulto dovrebbe acquisire all’interno di un
percorso evolutivo psicosociale di progressiva maturazione
che lo conduce ad assumersi la responsabilità per il benessere dei propri figli e delle future generazioni. Il contributo
di Erikson, nonostante prenda le mosse da una prospettiva di
sviluppo individuale e identifichi la generatività come una
caratteristica tipica dell’adulto, può sicuramente essere annoverato come il primo esempio di analisi del processo di
generatività in relazione alla dimensione sociale. Lo sforzo
profuso da Erikson nell’elaborare il modello sociopsicologico dello sviluppo dell’individuo non solo si evince nella
teoria dei cicli di vita ma anche nel ruolo centrale che esso
assume nella comprensione e spiegazione del funzionamento della società. Nella teoria dello sviluppo umano Erikson
differenzia il ciclo della vita dell’individuo in otto stadi ciascuno caratterizzato da una polarità psicosociale centrale per
la crescita dell’uomo (Erikson, 1950). La generatività, considerata il centro psicologico del settimo stadio (generatività
versus stagnazione), preceduta dal quinto stadio (tarda adolescenza) e dal sesto (giovani adulti), appare come un percorso psicologico che la persona deve affrontare risolvendo, in
ciascuno stadio, crisi evolutive al fine di acquisire un equi-
librato sviluppo dell’ego. Ad una attenta analisi ciò risulta
vero in parte perché ogni stadio è il frutto di un processo
relazionale che si instaura con la realtà esterna intersoggettiva, interpersonale e generazionale. E’ interessante notare
come il modello del ciclo dello sviluppo umano si intreccia
con quello generazionale configurando una teoria sociale
del mutamento della società. Più specificatamente Erikson
(1964 p. 114) sostiene che “la sopravvivenza psicosociale
dell’uomo è salvaguardata soltanto dalle virtù vitali che si
sviluppano nelle interazioni di generazioni successive e sovrapposte, che vivono insieme in contesti organizzati. Qui
vivere insieme significa più che prossimità incidentale. Significa che gli stadi di vita individuali sono intrecciati con altri stadi …”. In questo ambito è evidente una caratterizzazione sociologica della generatività in quanto lega generazioni
differenti assicurando lo scambio e le trasmissioni in modo
da promuovere l’evoluzione della società all’interno di un
equilibrio dinamico tra mutamento e conservazione (Bocaccin, 2007; Scabini, Rossi, 2007). L’aspetto sociale del ciclo
di vita è particolarmente evidente nel settimo stadio dove la
capacità generativa si afferma in ragione del superamento di
una dimensione ego centrata e l’affermazione della virtù della cura che “consiste nell’interessamento per ciò che è stato
generato per amore, per necessità o per caso e che supera
l’adesione ambivalente a un obbligo irrevocabile” (Erikson,
1968). La generatività così concepita prevede in sé l’equilibrio tra il desiderio di autorealizzazione e una tensione verso
il sociale manifestata attraverso la cura, l’impegno, l’azione
e la responsabilità verso l’altro e il prossimo. Si tratta di un
processo generativo che include l’attivazione di due tendenze contrastanti definite da Bakan “agency e communion”
(Bakan, 1966) che mostrano il legame inestricabile e interdipendente tra l’individuo e il contesto. In questa tensione a
uscire da sé stesso si nota chiaramente che la generativà non
può non muovere ambiti, dimensioni, spazi intersoggettivi
e collettivi in quanto coinvolge non solo la crescita e il benessere dei propri figli ma la creazione di nuove cose, idee e
relazioni. La cura e la responsabilità appaiono come energie
che spingono l’azione generativa dell’individuo al di là di
ambiti esclusivamente intersoggettivi per approdare in spazi
sociali caratterizzati da una tensione rivolta al «qui ora» ma
proiettati al benessere delle generazioni future. Il nesso tra la
dimensione individuale e collettiva del processo di generatività viene ulteriormente sviluppato nel volume “La verità di
Ghandhi” (Erikson, 1969) nel quale la generatività, promuovendo la virtù della cura (punto di forza dell’organismo umano che l’ambiente può promuovere o ostacolare), conduce a
una nuova dimensione: la responsabilità sociale. In questo
caso la generatività espande il suo campo d’azione passando
da espressione di cura esercitata nei confronti dei propri figli
e delle generazioni successive a una prospettiva che comprende tutto il genere umano. Va evidenziato come in questo
lavoro non solo è chiarito l’intreccio profondo che si realizza
tra la qualità psicologica della generatività e quella sociale
ma viene anche evidenziata indirettamente la problematicità
del processo di generatività.
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SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
LE FORME FALLIMENTARI E AMBIGUE DELLA
GENERATIVITÀ SOCIALE
Nel modello del ciclo di vita di Erikson il rapporto con la
realtà sociale viene elaborato sia sul versante dell’avvenuta maturità generativa del soggetto sia all’interno di forme
fallimentari che investono la generatività. Altresì si delinea
nel lavoro “La verità di Gandhi” non tanto il profilo del fallimento della generatività quanto la sua natura ambigua. Il
contributo che ci viene offerto da entrambe le prospettive
analitiche è molto interessante nel valutare come non sia
solo l’azione generativa, espressa mediante la virtù della
cura nei confronti dei propri figli e delle future generazioni, a consentire di penetrare e illuminare l’inestricabile intreccio tra azione e struttura ma anche parallelamente le sue
antinomie: stagnazione, self-preoccupation e pseudospecies
(Erikson, 1950; 1984). Le prime due sono l’espressione del
fallimento della generatività nel percorso evolutivo del ciclo
di vita e hanno una ripercussione sul benessere complessivo
della comunità. Più specificatamente la stagnazione esprime
l’incapacità del soggetto di prendersi cura delle generazioni
successive non investendo nella trasmissione di valori e risorse significative per la crescita e il benessere delle future
generazioni. La self-preoccupation esprime una patologica
auto-centratura preoccupata esclusivamente per il proprio futuro tale da non consentire l’investimento di risorse nei confronti dei figli o delle generazioni future. A livello sociale si
manifesta nell’indebolimento del processo di generatività,
nello scambio tra le generazioni e nella diffusione di forme
fallimentari di generatività. Ciò comporta una centratura sul
soggetto (soprattutto nei confronti della nuova generazione)
dalla quale viene completamente escluso o reso residuale
l’impegno generativo e l’assunzione della responsabilità sociale. L’ultima antinomia si riferisce non tanto alle sue forme di fallimento quanto alla natura ambigua del concetto in
rapporto alla realtà sociale. Kai Erikson (2004) sostiene che
il concetto di generatività contiene un certo grado di ambiguità dal momento che, consapevolmente o intenzionalmente, può riferirsi esclusivamente ai propri figli, ai membri più
giovani della comunità o nazione a cui si appartiene, o alla
specie stessa. In conformità a questa tripartizione si svela
come molto spesso il processo generativo sul piano sociale sia mosso e regolato da un meccanismo discriminatorio
piuttosto che universale. Si evince come le persone siano
generative almeno a un livello in quanto non sempre accade che coloro i quali si occupano della cura dei propri figli
o delle generazioni future della propria comunità siano altrettanto generative nei confronti degli altri gruppi sociali,
culturali e etnici. E’ evidente che la generatività, intesa come
la trasmissione intergenerazionale di ciò che ha valore, non
si realizza indistintamente in tutti i tre livelli (rispetto ai figli, ai giovani della propria comunità o alla specie stessa),
perché spesso la generatività investe prevalentemente i primi due domini trasformandoli in familismo, nazionalismo o
localismo. Le persone si muovono in questi circoli difensivi
soprattutto per proteggere se stessi, i propri figli e il proprio
28
gruppo per cui il processo si presenta con una doppia valenza: positiva per il gruppo di appartenenza e negativa per
coloro i quali non ne fanno parte. A questo proposito Erikson
parla di una generatività regolata dalla pseudospeciation riferendosi al fatto “che l’umanità intesa come unica specie è
divisa per motivi culturali, storici e politici in vari gruppi i
quali fanno si che i propri membri si considerano più o meno
coscientemente e esplicitamente l’unica vera specie, e tutti
gli altri (specialmente alcuni di loro) meno umani” (Erikson,
1984 pp. 481-482). Qui si annida il problema fondamentale
della costruzione dell’identità tribale basata su un processo
di identificazione con specifici sottogruppi (gruppi sociali,
etnici, culturali, di genere) piuttosto che la formazione di una
identità definita da Erikson (1984 p. 486) species-wide basata su un’ethos universale di cui Gandhi, attraverso il suo approccio non violento, rappresenta l’espressione più compiuta
di un processo generativo non discriminante ma universale.
E’ chiaro che per uscire da una condizione di ambiguità è opportuno interpretare la generatività come un campo d’azione
che si espande o si riduce (in forma aperta o discriminante)
non solo in virtù della qualità psicologica del soggetto ma anche in base alla struttura valoriale, alla qualità relazionale del
gruppo, alla struttura civica e istituzionale di una comunità.
TEORIA GENERATIVA DELLA COESIONE SOCIALE
La generatività è l’espressione non solo di dinamiche intrapsichiche o crisi evolutive ma anche di processi di natura
sociale. La letteratura recente mostra che “la generatività è
capace di immettere nuova energia psichica tanto nella biografia personale quanto nel circuito sociale, pro-muovendo la
capacità di agire dei singoli senza compromettere, ma anzi
rafforzando, legami cooperativi” (Magatti, Giaccardi, 2014
p. 38). Nonostante lo sviluppo del concetto di generatività
richiami costantemente il livello sociale non si può certo affermare, sostengono de St. Aubin et al. (2004 p. 267), che
sia “ancora precisamente chiaro come la generatività individuale sia collegata alla generatività a livello collettivo. Piuttosto che focalizzare sugli individui, dobbiamo cominciare
ad analizzare il concetto di generatività in luoghi non tipicamente studiati dagli psicologici, come leggi scritte, taciti
contratti sociali, rituali, costumi culturali, e obiettivi istituzionali” (ibid.) e soprattutto strutture relazionali e prassi attivate dagli attori sociali (famiglia, vicinato, associazionismo,
scuola). E’ ampiamente evidente la necessità di sviluppare
una teoria della generatività che dovrebbe essere embedding
(Granovetter, 1985) nella struttura sociale per assumere un
modello interpretativo delle dinamiche societarie. Cionondimeno nella letteratura specializzata la generatività si presenta
come un processo disembedding fornendo una visione psicologica dell’esistenza sociale dell’uomo, infatti coglie gli
aspetti sociali come proiezione delle dinamiche individuali.
Altresì si può affermare che la teoria della coesione sociale di
Lockwood (1999) sottolinea l’importanza delle strutture relazionali (primarie e secondarie) descrivendole come embedded nella struttura ma trascurando un approfondimento dei
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
meccanismi generativi volti alla formazione dell’assetto relazionale in quanto responsabili della qualità piuttosto che
della struttura della coesione sociale di una comunità. In questo senso possiamo affermare che da una parte la prospettiva
generativa ci consente di analizzare la coesione sociale come
un processo dinamico (evolutivo e involutivo, inclusivo e
esclusivo) e dall’altra il concetto di coesione sociale ci consente di evidenziare la capacità della generatività di interconnettere la dimensione individuale all’interno del contesto
sociale e soprattutto di rendere comprensibile le dinamiche
generative della struttura sociale. Si delinea una teoria generativa della coesione sociale che mette in discussione il carattere a volte retorico e acritico della coesione sociale, presentato spesso come sinonimo di buona società (più coesione
corrisponde a maggiore inclusione e benessere) (Alietti,
2013). Tale lettura ci viene proposta dal mainstream dominante in assenza di un’attenta conoscenza dei processi sottesi alle relazioni sociali e alle dinamiche di gruppo. La concettualizzazione del processo generativo ha mostrato chiaramente come il suo carattere complesso e ambiguo comporti
conseguenze sulla natura della relazione sociali. In dettaglio
il processo generativo mostra che non è sufficiente essere inseriti in una rete per sentirsi appartenenti a una realtà coesa
in quanto la qualità delle reti (bonding oppure bridging) e la
dinamica di un gruppo o comunità (species-wide oppure
pseudospeciation) risultano strettamente correlate alla qualità del processo generativo. In questo senso appare limitante
affermare che la coesione sociale rappresenti il prodotto delle relazioni primarie e secondarie derivanti dalle buone pratiche degli attori se non si conosce che tipo di processo generativo questi ultimi sono capaci di implementare e attivare. In
questa ottica appare necessario tracciare come si struttura il
concetto di generatività in senso sociale al fine di una maggiore comprensione della natura stessa della coesione sociale. In dettaglio la generatività sociale come processo può essere scomposta in tre aspetti o meccanismi che allorquando
si verificano all’unisono determinano le condizioni psicologiche e sociali che rendono un’azione (individuale o collettiva) generativa. In questa prospettiva si sostiene che un’azione per essere generativa deve caratterizzarsi come creativa,
orientata alla cura/responsabilità e propensa a promuovere
autonomia (McAdams, Logan, 2004; Imada, 2004). In questo senso la generativià non solo crea oggetti, idee e relazioni
ma cura ciò che ha creato senza appropriarsene. Se la generatività implica la creazione di nuovi legami determina anche
la loro cura, rigenerandoli e rinforzandoli costantemente. Per
essere, tuttavia, creativa, produttiva e responsabile la generatività sociale deve contenere la capacità di sviluppare autonomia in ciò che ha creato. Più specificatamente la generatività consiste nel «lasciar andare» ciò che si crea (che implica
fiducia nell’altro e libertà) nonostante la forte tensione alla
cura. Questi tre meccanismi possono essere osservati in diversi attori e istituzioni. Si può sicuramente affermare che
anche un’amministrazione comunale, una cooperativa sociale o associazione possono sviluppare relazioni sociale di natura generativa o degenerativa. Se consideriamo la relazione
sociale fondativa della coesione sociale è evidente che essa
deve non solo essere creata, generata, ma per sopravvivere
deve essere curata (significa che ego e alter devono assumersi la responsabilità della cura nei confronti della relazione
che hanno generato). Questa relazione generata, tuttavia, per
poter essere generativa (cioè non solo generata ma anche capace di generare) deve creare nuovi ponti relazionali (essere
proiettati in avanti) con nuovi attori e nuove e diverse relazioni. Allorquando il processo di generatività si struttura con
tutte e tre le componenti può essere considerato completo e
quindi capace di formare la realtà sociale in termini inclusivi.
E’ evidente che se applichiamo il costrutto della generatività
sociale all’interno della prospettiva di Lockwood (1999 pp.
64-69), che definisce la coesione sociale come il prodotto dei
legami primari e secondari, abbiamo la possibilità di comprendere non solo come si creano i legami ma anche la loro
qualità. In base a come si connettono i tre aspetti del processo di generatività, si può anche comprendere se si tratta di
una coesione sociale inclusiva, esclusiva o sottoposta alla
dissoluzione. In generale si può ragionevolmente sostenere
che in assenza dei tre meccanismi individuati, si profilano
forme fallimentari di generatività che assumono il carattere
della stagnazione oppure della self-preoccupation. Queste
forme determinano una dissoluzione della coesione sociale
provocando un indebolimento dei legami sociali dovuto ad
una ritirata dal campo sociale da parte dei diversi attori che
costituiscono una comunità. Ciò costituisce la base della formazione del fenomeno del privatismo e individualismo
(Sennett, 1976; Beck, Beck-Gernsheim, 2002) in cui risulta
molto difficile ritrovare modalità prosociali, strutture relazionali basate sulla reciprocità e comunità coese. Osservando nel merito i due distinti livelli individuati da Lockwood
come preminenti per la formazione della coesione sociale,
possiamo rilevare come alla presenza di un processo generativo debole segnato dalla stagnazione o self-preoccupation
risultano per lo più legami familiari autoreferenziali, deboli e
strutture relazionali secondarie assenti o prive di prosocialità
(corporative e autoreferenziali). Va sottolineato, tuttavia, che
non c’è solo un problema di debolezza dei legami sociali ma
anche di eccessiva chiusura. Nel primo caso la dissoluzione
si potrebbe configurare alla luce della teoria generativa della
coesione come il prodotto del fallimento del processo generativo. Nel secondo caso la coesione diventa un problema per
se stessa dal momento che il processo generativo regolato
dalla pseudospeciation, vive una introversione all’interno
della famiglia o gruppo di appartenenza prefigurando una coesione sociale tribale e microfeudale. Ciò implica che il concetto di coesione sociale si caratterizza per un certo grado di
ambiguità (la coesione sociale presenta anche un lato oscuro). Paradossalmente, nonostante il processo generativo si
presenti composto da tutte le tre componenti, se non è combinato con una struttura civica costituita da valori, spazi e
attori, i risvolti che produce sulla coesione sociale sono
all’insegna della discriminazione piuttosto che dell’integrazione universale.
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SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
INTEGRAZIONE CIVICA
Il concetto di integrazione civica viene non solo inglobato all’interno del costrutto di coesione sociale, diventando
una delle tante dimensioni che vanno a comporre in termini
multidimensionali tale categoria (Berger-Schmitt, 2002), ma
spesso quando viene definito richiama sempre un’accezione
legale, formale e amministrativa. In questo articolo l’integrazione civica non solo assume un carattere micro in quanto si sviluppa nella pratiche quotidiane all’interno di spazi
temporali definiti, ma richiama una concezione pre-giuridica
o meglio pre-contrattuale del contratto civile formale, codificato in norme e regole. Emerge una prospettiva all’interno
della quale l’integrazione civica è intesa come espressione
dei beni comuni, risorse civiche (Almond, Verba 1989; Putnam 1993; Inglehart, Welzel 2005) piuttosto che come un
corpus di norme e regole decontestualizzate. Questo cambio
di prospettive si registra, anche se in forma ancora abbozzata
e non del tutto sviluppata, nel campo problematico dell’integrazione civica degli immigrati. Studi recenti hanno posto
in evidenza l’importanza del coinvolgimento degli immigrati
in reti formali di prossimità, in ambiti e luoghi ove si sviluppa la partecipazione civile o sociale piuttosto che in contesti
istituzionalizzati dove l’adesione è obbligatoria e il processo
di integrazione civica risulta centrato su un approccio normativo (Boccagni, Pollini 2012; Ruedin 2011) .
In linea con tale impostazione, nel lavoro, si intende rivedere il concetto di integrazione civica di tipo macro sviluppato da Lockwood (universalità dei diritti, welfare state, partecipazione al mercato e alla politica e così via) rimodulandolo
in ottica micro sociale e collegandolo allo spazio pubblico
come sede della cultura civile. Si propone una distinzione tra
coesione sociale e spazio pubblico. Tale distinzione non implica una separazione teorica ed empirica di due ambiti sepa30
rati e incomunicabili, bensì considera soprattutto la relazione
generativa centrale per la formazione di una comunità coesa
e inclusiva. Si parte dal presupposto teorico di una concezione minimalista della coesione sociale, definita in base alle
relazioni primarie e secondarie, differente dal concetto di
integrazione civica, espressione di valori civici e della prassi della cittadinanza attiva. In dettaglio “la coesione sociale
richiede solo la partecipazione della gente, la cooperazione e
il reciproco aiuto, non presuppone valori come la tolleranza
o il rispetto per la diversità o viceversa” (Chan et al., 2006
p. 284). Nel nostro caso l’integrazione civica viene intesa
come la sede della tolleranza e della diversità e soprattutto
concepita come embedded nella struttura sociale, culturale e
spaziale di una comunità. Essa risulta meno legata alla concettualizzazione sviluppata nel modello di Lockwood definito in base all’integrità dell’ordine istituzionale della cittadinanza a livello macro sociale e più connessa alla prospettiva
di Giddens che focalizza l’attenzione sulle pratiche sociali
ordinate nel tempo e nello spazio (Giddens, 1990). Ciò risulta pertinente alla nostra discussione in quanto Giddens conferisce una particolare attenzione a livello micro, ai contesti
spazio-temporali della compresenza (che riguarda l’interazione faccia a faccia) e al nesso tra la dimensione micro e
macro (integrazione sociale e sistemica) (ivi p. 130). Quello
che appare importante sottolineare è che secondo Giddens le
attività quotidiane apprese e ripetute sono fondamentali per
l’ordine sociale e dunque costitutive del legame tra integrazione sociale e sistemica (ibid.). E’evidente che il concetto di integrazione sociale adottato richiama una prospettiva
«spatially specific» che riveste un ruolo fondamentale per
comprendere sia la coesione sociale sia l’integrazione civica a livello micro in quanto si presuppone che le relazioni
sociali e le pratiche civiche degli attori non nascano in un
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
vacuum ma in virtù della pratica delle routine della vita quotidiana all’interno di determinati contesti spazio-temporali.
Lo spazio e la sua morfologia condizionano e cooperano nel
processo di formazione dei legami sociali e della integrazione civica. Più specificatamente, seguendo Bagnasco, si può
sostenere che “la società si organizza – nel senso che “prende
forma”- nello spazio e nel far questo organizza, modifica, dà
forma allo spazio stesso. Le due forme di organizzazione si
implicano a vicenda” (Bagnasco, 2001 p. 272). Nel nostro
caso riferendosi allo spazio pubblico, considerato dalla letteratura sociologica, filosofica, come luogo dell’universalità
dell’accesso, dell’eterogeneità sociale, della diversità (Mazzette 2013; Perone 2012), si assume che esso dovrebbe produrre le condizioni per un apprendimento situato centrale per
la rigenerazione dei processi di integrazione civica a livello
locale. In questa ottica è facile rilevare che affinché ci sia
integrazione sociale, occorre che la coesione sociale si relazioni, si combini, all’integrazione civica. Indubbiamente,
dal nostro punto di vista, il nesso tra queste due dimensioni
è costituito dal processo di generatività che dispone la trasformazione e il potenziamento dei legami bridging piuttosto
che solo di quelli bonding. Più specificatamente la coesione
sociale, trovando prevalentemente una sua collocazione più
nel «parochial space» (famiglia, parenti, vicini, associazioni) che nel «public realm» (spazio pubblico) (Lofland, 1998),
per essere inclusiva deve poter incontrare le condizioni strutturali nelle quali il processo di generatività si allarghi e si
trasformi da una dimensione tribale a un’altra universale.
Le condizioni strutturali possono essere rappresentate dallo
spazio pubblico che per la sua natura e vocazione è sempre
stato considerato la sede delle pratiche sociali (routine) dalle
quali scaturiscono l’opinione pubblica e in generale la cultura civica. In questa ottica è evidente che la coesione sociale, in assenza dello spazio pubblico, diventa espressione
di micro feudi dominati da identità tribali e dal meccanismo
della pseudospeciation mentre lo spazio pubblico se non è
supportato dalla dimensione relazionale, dalla fiducia e cooperazione (e quindi dall’investimento generativo) diventa
guscio vuoto, spazio dominato da procedure normative e regole formali.
LO SPAZIO PUBBLICO COME SEDE
DELL’INTEGRAZIONE CIVICA
L’analisi dello spazio pubblico e della sua crisi rappresenta
un importante campo di indagine e di conoscenza del livello
e della qualità della coesione sociale di una comunità, nonché
della sua tenuta democratica.
Nel lavoro si propone un’idea di spazio pubblico che, per
quanto messo in crisi da un complesso di processi quali la dematerializzazione (Castells 2000), la privatizzazione, la disneyfication (Kohn 2004; Sorkin 1992) e la desertificazione
dello spazio a causa della velocità (Virilio, 2000), riemerge
con forza non solo nella letteratura specializzata ma anche
nel campo della progettazione urbanistica e nelle discussioni
politiche e soprattutto nella domanda sociale di cittadini e di
associazioni e movimenti (nazionali e internazionali) (Leorke 2015; Sassen 2011) che pongono al centro la qualità del
vivere civile, i temi della diversità e soprattutto la questione
dell’incontro, dello scambio al di fuori della ristretta cerchia
di rapporti familiari e amicali (Varna 2014; Mazzette 2013;
Un-Habitat 2012; Watson 2009; Beunderman et al., 2007).
In questo contesto è opportuno precisare che il concetto di
spazio pubblico attinge ad una complessa tradizione di studi di natura filosofica, politologica, sociologica e urbanistica
all’interno della quale si può identificare, al di là delle diverse posizione teoriche, una semantica comune identificabile nella dimensione civica e nella pratica della cittadinanza (Carr et al., 1993;). Altresì all’interno della teoria dello
spazio pubblico si può individuare una definizione generale
associata più ad una dimensione di sfera pubblica e un’altra
più legata agli aspetti spaziali e soprattutto a quelli più micro
della vita quotidiana.
Nella prima cornice teorica possiamo sicuramente annoverare il contributo di Habermas per il quale lo spazio pubblico
rimanda ad un’idea di “spazio terzo” in cui si costruisce il
presupposto del dialogo tra pluralità e per mezzo del quale
si forma la sfera pubblica o, più appropriatamente, “l’ambito
della pubblica opinione” o “quello spazio in cui si formano
opinioni (posizioni) pubbliche (su problemi di interesse generale, e si produce nei luoghi dove si svolge la vita pubblica)” (Sebastiani, 2007 p. 95). In particolare “la sfera pubblica
forma una struttura d’intermediazione tra il sistema politico,
da un lato, le sfere private del mondo della vita e i sistemi
funzionalmente specializzati dall’altro” (Habermas, 1996 p.
443).
Sul versante filosofico-politico un contributo fondamentale è rappresentato dai lavori di Hannah Arendt. Per Arendt la
dimensione pubblica è «l’essere–in–comune» (Arendt 1958)
dove una pluralità di soggetti si rendono visibili e agiscono confrontandosi, e al tempo stesso, evitando di «cadersi
addosso a vicenda» (ibid.). Si tratta di uno spazio pubblico
che si costruisce sulla visibilità, sul discorso e sull’agire e
produce una sfera pubblica (politica) in cui viene esaltata la
relazione intesa come processo che unisce nella differenza
(ibid.). Uno spazio relazionale (in-fra Arendtiano) costituivo
della comunità in quanto mette in comune il mondo della
realtà intangibile con quello fisico e spaziale (artefatti tangibili) (ibid.). Nonostante Arendt conferisca al concetto di
spazio pubblico una prospettiva più concreta rispetto a quella
elaborata da Habermas, l’analisi della dimensione spaziale
tuttavia resta marginale in rapporto soprattutto alla dimensione meso e micro. L’accento posto da Habermas sulla prassi
comunicativa discorsiva (Habermas, 1987) come elemento
fondante dello spazio pubblico, nonché l’individuazione del
libero accesso a tutti come suo fattore identificativo da una
parte e l’importanza che Arendt conferisce all’azione e al discorso come elementi precipui della relazione e «dell’abitare
insieme» in uno spazio comune dall’altra, oramai rappresentano gli aspetti costitutivi del patrimonio concettuale che
spesso viene impiegato nella definizione dello spazio pubblico a livello macro, meso e micro. E’ facile quindi constatare
31
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
come anche nell’analisi degli spazi di prossimità sociale gli
elementi dell’accessibilità a tutti e della pluralità rappresentino gli aspetti definitori dello spazio pubblico.
Nella seconda prospettiva lo spazio pubblico viene associato alla dimensione territoriale dalla quale scaturiscono le
relazioni sociali, il dialogo e la partecipazione. Sennett, per
alcuni aspetti, è tra gli esponenti che in maggior misura hanno tematizzato il ruolo dello spazio in funzione della socialità
(Giardiello 2016). Lo spazio pubblico per Sennett è il luogo
dell’anonimato e dell’impersonalità opposta alla realtà intima. La massima espansione di questo processo si realizza
con la società industriale in cui si produce la visibilità dello
spazio pubblico che genera una maggiore contrazione dell’io
nella propria realtà intima determinando isolamento e solitudine. In questa ottica quanto più gli spazi non rappresentano
più luoghi di sosta ma di attraversamento o di massima visibilità, tanto più questi diventano luoghi a bassa socialità e privi
di socializzazione (la socievolezza nello spazio pubblico è
inversamente proporzionale alla visibilità) (Sennett, 1976).
La crisi dello spazio pubblico è rappresentata dalla paura
dell’impersonalità, dello sconosciuto che “favorisce fantasia
di vita collettiva di natura limitata” nella quale “l’immagine
dell’identità del “noi” diventa sempre più selettiva: comprende solo il vicinato, i colleghi, la famiglia. Diventa difficile
identificarsi con persone che non si conoscono” (ibid.). L’unica realtà possibile diventa, dunque, quella intima.
Nonostante Sennett conceda maggior importanza allo
spazio fisico come elemento centrale dello spazio pubblico,
identificandolo come luogo dell’anonimato opposto alla dimensione intima, tuttavia si trascurano proprio i luoghi della
prossimità sociale nei quali è possibile leggere “i dispositivi
della scena sulla quale si gioca l’interazione sociale” (Söderström, 1991 p. 52). La focalizzazione sullo spazio pubblico
come luogo della socialità e della microinterazione informale dalla quale scaturisce la fiducia e la sicurezza si deve a Jacobs (1961). Seguendo questa prospettiva gli spazi pubblici
(le strade, i marciapiedi, le piazze) “costituiscono i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali”
(Jacobs, 1961). Si tratta di spazi pubblici che allorquando
riescono a conservare valori e risorse sociali sono capaci di
contribuire alla formazione di un senso collettivo e pubblico,
alla diffusione di fiducia e a favorire processi di socializzazione. All’interno di questa prospettiva si sviluppa un interessante campo di indagine sul ruolo che l’organizzazione
spaziale svolge nel generare capitale sociale e senso civico
producendo relazioni di tipo bridging, sviluppando condivisione valoriale e praticando l’autogoverno e partecipazione
tra i cittadini del quartiere e della comunità (Haddock, 2011
pp. 145-146). Dobbiamo in qualche modo al lavoro di Jacobs
le considerazioni sul ruolo sociale e generativo dello spazio
pubblico in virtù delle interazioni e della fiducia che si sviluppano tra le persone dello stesso quartiere e gli estranei.
Ciò si realizza grazie alla presenza di una diffusa e radicata eterogeneità urbana “dove controllo non significa difesa,
coesione sociale non implica esclusione dell’estraneo, dove
partecipazione degli attori non implica la negazione della
32
privacy” (Olmo, 2009 X).
CONCLUSIONE
La velocità del cambiamento, l’elevato livello di differenziazione sociale, la globalizzazione e l’individualizzazione
hanno notevolmente ridimensionato gli spazi dell’identità
collettiva, ove si formano legami sociali, solidarietà e appartenenze. Si assiste a un processo di dequalificazione di questi aspetti proveniente propria dalle dinamiche della società
moderna individualizzata (Beck, Beck-Gernsheim 2002) e
profondamente insofferente alle differenze. In questo contesto la coesione sociale e l’integrazione civica rappresentano
due parametri fondamentali per comprendere i processi di
dissoluzione sociale e civica che molte realtà locali si trovano a vivere. Questo richiede la necessità di abbandonare
un’idea della coesione sociale intesa come «stato di fatto»
della società e soprattutto concettualizzata come un costrutto multidimensionale che comprende aspetti differenti e non
facilmente associabili in un’unica definizione. La letteratura
spesso confonde le strutture relazionali con la dimensione
civica (partecipazione, tolleranza, cittadinanza) inglobando
dimensioni come i valori e le diverse forme di partecipazione
della cittadinanza che invece afferiscono all’ambito dell’integrazione civica. In questa ottica il processo di sgretolamento delle realtà locali deve essere analizzato attraverso due
prospettive: da una parte quella delle relazioni sociali che
costituiscono le basi fondanti della coesione sociale e dall’altra quella della struttura dei valori e delle pratiche situate di
partecipazione civica che invece costituiscono le dimensioni
dell’integrazione civica. Ciò implica un altro importante passaggio concettuale, assente nell’analisi prevalente, ovvero la
necessità di considerare i due concetti embedding nelle realtà
sociali e spaziali. Questo significa che i luoghi o gli spazi
hanno un ruolo centrale nel favorire e determinare processi
di coesione e di integrazione civica. Ipotizzando uno stretto
legame tra realtà sociale e spazio pubblico è evidente che
si può immaginare come la coesione sociale e l’integrazione civica siano l’espressione di diversi ambiti spaziali che
compongono la comunità. Si può sicuramente affermare,
prendendo a prestito la distinzione elaborata da Lofland
(1998) tra «parochial space» e «public realm», che la coesione sociale è prevalentemente da considerarsi un concetto
«spatially specific» nella dimensione parrocchiale (socialità
primaria) mentre l’integrazione civica attiene al public realm (dimensione civica). La distinzione tra coesione sociale e integrazione civica in due ambiti diversi, comporta non
solo una maggiore attenzione rispetto alle conseguenze che
le trasformazioni della struttura spaziale (svuotamento dello
spazio pubblico della funzione di socializzazione e partecipazione) (Giardiello 2016) produce sul piano delle dissoluzioni sociali e civiche, ma spinge a considerare la crisi delle
realtà locali come il prodotto delle asincronie che si determinano tra coesione sociale e integrazione civica. In questa
ottica l’integrazione sociale di una comunità dipende sia dal
livello di connessione che si sviluppa tra la coesione socia-
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
le e l’integrazione civica sia da processi generativi operanti
non solo all’interno dei due rispettivi ambiti ma anche come
essi incidono sulla qualità della loro connessione. La concettualizzazione del processo generativo mostra che non è
sufficiente essere inseriti in una rete per sentirsi appartenenti
a una realtà coesa, ma anche che non è sufficiente avere un
alto livello di coesione per definire una comunità civicamente integrata. Ciò implica la necessità di analizzare i processi
generativi alla base della coesione sociale in rapporto alla
struttura valoriale di una comunità poiché la coesione sociale
e i relativi processi generativi, in assenza di spazi pubblici
(dove si sedimentano le pratiche della tolleranza), diventano
espressione di micro feudi dominati da identità tribali (Giardiello 2014). E’ evidente che l’obiettivo sia dei policy maker
sia degli operatori sociali e educativi dovrebbe essere quello
di valorizzare luoghi e prassi educative dove i cittadini e i
giovani possano sperimentare pratiche generative in modo
da contrastare processi di atomizzazione, regressione sociale
e civile.
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SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | INGEGNERIA INDUSTRIALE
Quanto è sicuro volare oggi? L’aereo
a confronto con i mezzi di trasporto
più diffusi
SALVATORE BRISCHETTO1 E LUCA ALBREGARD2
1 Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale del Politenico di Torino
2 Studente presso il Politenico di Torino
“
Quanto è sicuro volare oggi?” Domanda inflazionata ma non banale, soprattutto per chi con il
volo non ha mai avuto un rapporto idilliaco. Cercheremo di fare un po’ di chiarezza provando a
districarci fra numeri e indici, questi ultimi non
sempre di chiara interpretazione e spesso utilizzati in modo
tale da condizionare l’esito della risposta verso una direzione
voluta. I primi dati, che inizialmente proveremo a rileggere
in chiave “terapeutica” per chi non ama volare, provengono
dall’organizzazione principe dell’aviazione civile, ossia l’ICAO (International Civil Aviation Organization), attraverso
il suo annuale Safety Report [1]. Nel 2014, fra voli commerciali internazionali e nazionali, si sono mossi 3.2 miliardi
di passeggeri nel mondo. Nel 2013, sono stati 3.1 miliardi,
mentre nel 2012 si sono avuti 2.9 miliardi di passeggeri.
Considerando aeromobili con peso massimo certificato al
decollo superiore ai 5700 kg e revisionati dall’ICAO tramite il Safety Indicators Study Group (per intenderci, velivoli
che svolgono almeno voli di linea regionali con un minimo
di 10 passeggeri), il numero di incidenti nel 2013 è
diminuito del 10% rispetto
al 2012, passando da 99
incidenti a 90. Il dato ancora più significativo è legato al numero di decessi,
infatti tali incidenti hanno
provocato 388 vittime nel
2012 a fronte delle 173
vittime del 2013. Le 173
vittime del 2013 rappresentano il valore più basso
mai registrato dal 2000, in
diminuzione del 53% rispetto al 2012 e del 65%
rispetto alla media dell’ultimo quinquennio. Inoltre,
se si considerano tutte le operazioni commerciali schedulate,
nel 2013 si sono avuti 2.8 incidenti per ogni milione di partenze, anche questo dato è in diminuzione, del 13%, rispetto
al 2012 dove si sono avuti 3.2 incidenti per ogni milione di
partenze. Il 2014 è stato invece un anno molto particolare e
di difficile interpretazione, che ha visto il numero di incidenti
risalire rispetto al 2013, riassestandosi all’incirca al valore
del 2012, ossia 98 invece che 99. Le vittime sono state invece
un numero veramente importante, ossia 904. Questo dato è
di difficile interpretazione visto che il numero di vittime si
è quintuplicato rispetto al 2013 a fronte di un simile numero di incidenti. Interpretare un dato del genere risulta molto
difficile e attribuire al caso il fatto di avere un numero così
elevato di morti a fronte dello stesso numero di incidenti potrebbe anche essere una parziale spiegazione. Conferma di
ciò è data dal rateo di incidenti per milioni di partenze, che
nel 2014 si è attestato al 3.0, non molto dissimile dai due anni
precedenti (2.8 nel 2013 e 3.2 nel 2012).
Tali numeri assoluti e
freddi possono comunque
non tranquillizzare chi ha
davvero paura di volare.
Cerchiamo quindi di fare
un confronto generale, non
solo con gli altri mezzi di
trasporto ma anche con alcune attività quotidiane: il
risultato potrebbe sorprenderci. Innanzitutto per fare
un confronto rigoroso occorrerebbe tenere conto del
numero totale di mezzi di
trasporto che si muovono
quotidianamente nel mondo e possibilmente delle
relative persone coinvolte.
35
INGEGNERIA INDUSTRIALE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Ad esempio, confrontare in termini assoluti aereo e auto non
avrebbe molto senso visto che molte più vetture si muovono nel mondo rispetto agli aerei, per di più regolamentate in
modo del tutto diverso dal traffico dell’aviazione generale.
Si deve parlare quindi di numeri relativi, ossia di indici opportunamente elaborati. A tal proposito, uno degli studi più
interessanti degli ultimi anni è stato condotto nel 2000 dal
Dipartimento dei Trasporti Britannico [2], [3] prendendo in
esame il tasso di mortalità dei principali mezzi di trasporto
in relazione a parametri come ad esempio le ore complessive
di viaggio o i relativi chilometri percorsi. Tale analisi è anche rintracciabile in una raccolta dati ad opera di Roger Ford
e pubblicata nel magazine britannico Modern Railways [4].
L’articolo in questione analizza il livello di sicurezza delle
principali tipologie di trasporto, confrontandole tra loro in
base al numero di ore di viaggio, di chilometri e di movimenti percorsi in media da ogni mezzo, e valutandone il numero di morti complessivo. Nonostante tale studio risalga al
2000, la pubblicazione mantiene una sorprendente attualità,
con risultati che facilmente possono essere assimilati a quelli
odierni, in virtù dei trascurabili cambiamenti nella tipologia
di mezzi circolanti e nei comportamenti della popolazione
(caratteristiche discusse nelle statistiche dei trasporti elaborate nel report [3] del governo britannico). In relazione alle
ore di viaggio (numero di vittime ogni miliardo di ore) l’autobus urbano è il mezzo più sicuro con in media 11.1 morti,
segue il treno con 30, mentre l’aereo si può considerare da
questo punto di vista sicuro quanto il treno con 30.8 morti
ogni miliardo di ore. Ma i dati più interessanti arrivano dopo,
con nave e camion che hanno una media di 50 e 60 morti,
fino ad arrivare all’auto con 130 morti ogni miliardo di ore.
Scorrendo ulteriormente questa interessante classifica si arriva ai dati più sorprendenti, si hanno 220 vittime fra i pedoni,
550 se si va in bicicletta, per arrivare alla moto/motociclo
che è il mezzo meno sicuro con 4840 vittime ogni miliardo
di ore. Ma l’analisi condotta si è spinta oltre, in quanto i vari
mezzi di trasporto analizzati viaggiano a velocità completamente diverse. Quindi le ore di viaggio si traducono in differenti quantità di chilometri percorsi: per percorrere i circa
700 km che separano Roma da Torino è sufficiente un’ora
di aereo mentre con l’auto si impiega circa otto volte tanto.
Questo significa che in termini di chilometri percorsi l’aereo
sarà sicuramente il mezzo più sicuro poiché ne percorre di
più a parità di tempo. Infatti secondo quest’ottica, nella classifica stilata dal dipartimento troviamo al primo posto l’aereo
con 0.05 vittime per miliardo di chilometri percorsi, mentre
l’autobus urbano e il treno risultano sostanzialmente distanziati con un valore di 0.4 e 0.6 rispettivamente. Tutti gli altri
mezzi di trasporto hanno ordini di grandezza maggiori con
camion, navi e auto comunque comparabili fra loro con 1.2,
2.6 e 3.1 vittime per miliardo di chilometri. Andando giù in
questa classifica, si arriva quindi alla bicicletta con 44.6, pedoni con 54.2 e infine moto/ciclomotori con 108.9 vittime
per miliardo di chilometri. Tale classifica cambia nuovamente se si considerano i morti per miliardi di movimenti. In
questo caso l’aereo risulta più penalizzato rispetto agli altri
36
mezzi, a parte i motocicli/moto che restano i più “pericolosi”
a prescindere, perché ci sono meno movimentazioni totali, le
quali in tale rapporto vanno al denominatore e quindi fanno
crescere il valore di quest’ultimo indice per gli aerei.
Di seguito sono riportati alcuni dei risultati tratti dall’articolo sopracitato, e precedentemente commentati, con relativa elaborazione grafica.
Tabella 1: numero di morti nel 2000 in Gran Bretagna per alcuni
mezzi di trasporto
Morti per miliardo di
ore di viaggio
Morti per miliardo di
chilometri
Morti per miliardo di
movimenti
4.3
Autobus
11.1
0.4
Treno
30
0.6
20
Aereo
30.8
0.05
117
Nave
50
2.6
90
Automobile
130
3.1
40
4840
108.9
1640
Motociclo
Figura 1: elaborazione grafica dei risultai presentati in Tabella 1.
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | INGEGNERIA INDUSTRIALE
Tralasciando il primato
del motociclo/
moto a livello
di numero di
morti per tutti e
tre gli indici, è
evidente il differente risultato che si ottiene a seconda
delle modalità
con cui i dati
vengono elaborati, ad indicare quanto
la valutazione
del livello di
sicurezza nei
trasporti dipenda strettamente
dalla tipologia
di dati utilizzati e dal modo in cui essi vengono manipolati. A
sostegno di questa tesi, sono stati calcolati nel presente lavoro altri due nuovi indicatori, ritenuti fondamentali per lo sviluppo di una corretta analisi del livello di sicurezza dei mezzi
considerati. Il primo di tali indici è la “Mortalità”, calcolata
come rapporto tra il numero di morti annuo e il numero complessivo di incidenti, mentre il secondo è il “Tasso di Gravità”, calcolato rapportando il numero complessivo di morti e
feriti con il numero di passeggeri-km in miliardi (dove con
passeggeri-km si intende la sommatoria del numero di passeggeri moltiplicata per l’estensione media del loro viaggio).
Al fine di uniformare la trattazione con i risultati forniti da
Ford, si è scelto di riferire l’analisi al panorama anglosassone, attingendo i dati da elaborare dalla medesima fonte dello
studio di Ford, seppure aggiornata all’anno 2013 [4]. L’informazione contenuta nell’indice di mortalità, sebbene fuorviante per certi aspetti, è tra quelle maggiormente utilizzate
in letteratura nell’ambito della sicurezza nei trasporti. Infatti,
in quanto rapporto tra numero di morti e numero totale di
incidenti annui, esso rappresenta
il
numero medio
di morti per
incidente, fornendo quindi
una stima della
gravità del singolo evento incidentale, senza tenere però
conto
della
frequenza con
cui tale evento
si manifesta.
E’ chiaro che
un indice del
genere penalizzi oltremodo
l’aereo poiché
pur avendo incidenti non molto frequenti, questi ultimi quando si verificano sono spesso gravi per conformazione e caratteristiche
stesse del velivolo, e inoltre di solito viene coinvolto un
numero elevato di passeggeri contemporaneamente. Risulta
quindi più utile, dal punto di vista della sicurezza, valutare
il tasso di gravità, il quale è in grado di fornire informazioni
quantitative sui passeggeri che vengono coinvolti in eventi
incidentali ogni miliardo di passeggeri-km, tenendo in considerazione nel calcolo anche i feriti. In questo caso trovandosi al denominatore la sommatoria del numero di passeggeri
moltiplicata per il chilometraggio medio delle tratte, diventa
logico trovare l’aereo al primo posto in questa particolare
classifica. Purtroppo non è stato possibile calcolare questo
indice nel caso del trasporto marittimo a causa di dati insufficienti o non dettagliati sul numero di passeggeri e soprattutto
sulla lunghezza media delle tratte.
Le tipologie di indicatori che è possibile utilizzare sono
quindi innumerevoli, ma riteniamo che i cinque fin qui rap-
Figura 2: nuovi coefficienti elaborati nel presente lavoro per i mezzi di trasporto in Gran Bretagna nell’anno 2013
37
INGEGNERIA INDUSTRIALE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
presentati meglio riflettano differenti punti di vista per quanto riguarda la valutazione del livello di sicurezza di ogni tipologia di trasporto. Se infatti è evidente che, basandosi sul
numero di morti a seguito di un certo numero di chilometri
percorsi, sia l’aereo a risultare il mezzo più sicuro tra quelli elencati, non sorprende che valutando lo stesso mezzo in
base al numero di ore di servizio, questo dato si ridimensioni,
dando un’informazione diversa al passeggero sul reale livello di sicurezza proprio del velivolo. Riuscire quindi a dare
un responso chiaro e definitivo è praticamente impossibile.
Inoltre diffiderei da chi in modo inequivocabile si schiera
dall’una o dall’altra parte, poiché gli indici che possono essere presentati a volte sono elaborati ad hoc per privilegiare
le caratteristiche di un mezzo di trasporto rispetto a un altro.
Nonostante ciò, riteniamo di poter affermare con certezza
come l’aereo sia comunque fra i mezzi di trasporto più sicuri
in quanto in media si trova sempre nei primi posti dei vari
indici qui presentati e discussi. Ovviamente dare una risposta
chiara e definitiva è pura utopia, ma mantenendoci nel campo
delle “provocazioni” possiamo chiudere con una di queste.
Da alcuni dati che abbiamo esaminato, si evince che in Italia
si muore di più in casa che in incidenti stradali (che come
abbiamo visto hanno un impatto comunque maggiore rispetto agli incidenti aerei). Secondo le fonti del Dipartimento di
Medicina del Lavoro dell’Ispesl (Istituto per la prevenzione e
sicurezza del lavoro) [5], in Italia ogni anno in media si han-
38
no tra le pareti di casa circa 8000 incidenti mortali, il triplo
degli incidenti mortali automobilistici. E’ chiaramente una
provocazione, poiché in questi dati ci sono molti individui
over 75 o under 4 che meriterebbero un approfondimento a
parte, e inoltre il bacino da cui si attinge risulta praticamente
essere tutta la popolazione di una nazione. Ma il dato resta
comunque utile per chi magari pensa che rimanere relativamente tranquillo fra le quattro mura domestiche senza viaggiare in nessun modo sia la cosa migliore da fare: forse non
è proprio così.
BIBLIOGRAFIA
[1] ICAO, Safety Report 2015 Edition (available at http://
www.icao.int/safety/Documents/ICAO_Safety_
Report_2015_Web.pdf; accessed on July 7, 2016).
[2] Department of Transport – National Travel Survey:
Change in travel since 1965 Office for National Statistics –
Changes in Travel to Work Areas from 2001 to 2011.
[3] Department of Transport – Transport Statistics Great
Britain 2014.
[4] Roger Ford, 2000, article in the magazine Modern
Railways.
[5] Ispesl, (available at http://www.ispesl.it/statistiche/;
accessed on November 12, 2014).
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | LETTERATURE
Biblioteche e libri come topos letterario
EMILIANO VENTURA
Dottorando in filosofia alla Pontificia Università Lateranense
Ci sono pochi luoghi fisici artificiali che possono tenere il
passo con il fascino delle biblioteche, non solo per studiosi e
scrittori. Sono soprattutto quest’ultimi ad averne fatto spesso un topos nella letteratura. Le biblioteche, e i libri, possono essere fonte di orgoglio o di pericolo, vanità personali e
strumento di studio, ma anche protagonisti di romanzi e racconti che hanno fatto la storia universale della letteratura,
da Cervantes a Musil, da Eco a Borges.
N
elle Etimologie di Isidoro di Siviglia si
legge il significato del termine biblioteca
che letteralmente vuol dire scaffale (theke) per il libro (biblion), naturalmente il
libro dell’antichità non era e non aveva la
forma a cui siamo abituati, oscillava tra la tavola in bronzo o
argilla al rotolo di papiro.
Nella famosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, quella voluta dal Tolomeo detto il Filadelfo e poi andata persa nell’incendio appiccato dalle legioni di Cesare, c’erano i rotoli custoditi negli scaffali, i dotti e gli scribi compilavano copie di
tutti i libri e del sapere che passava per il porto della città.
Tolomeo era quel regnante che aveva scritto una lettera
a tutti i sovrani incitandoli a mandare opere di qualunque
genere e autore affinchè nella sua biblioteca venissero copiati; lo stesso che chiedeva al plenipotenziario Demetrio
Falereo: «Quanti rotoli abbiamo?», come se s’informasse del
suo esercito. Sovrani così non resta che rimpiangerli, se paragonati a certi politici attuali.
Questa mitica biblioteca alessandrina, anche detta universale, vedrà tra i suoi ‘direttori’ o semplici studiosi-frequentatori uomini come Demetrio Falereo (grammatico stimatissimo), Callimaco (poeta), Apollonio di Rodi (autore delle
Argonautiche), Aristofane di Bisanzio (che conosceva a memoria tutti i libri), Eratostene (onnisciente), da queste personalità ben si comprende l’aggettivo ‘universale’.
Nemico principale del libro, del papiro come della carta,
è il fuoco che ripetutamente ha reso cenere la parola scritta.
Se il primo rogo in questa biblioteca può imputarsi a Cesare
quello finale ricade sul Califfo che considerò superfluo il ragionare dei libri diversi dal Corano. Nell’atteggiamento del
Califfo si sommano gli estremi sentimenti con cui l’uomo si
relaziona al libro, sacro e sacrilego.
Pochi oggetti suscitano attenzioni e sentimenti che normalmente si rintracciano nelle relazioni umane. In passato
è capitato, e purtroppo capita ancora, che un uomo sia stato
condannato per le sue idee, anche il libro diviene veicolo di
propagazione di idee esattamente come un uomo o un predicatore, e per questo assume contorni pericolosi o destabilizzanti. Quando si voleva eliminare un pensatore ‘eretico’
o ‘fondamentalista’, insomma qualcuno di scomodo, il rogo
era la via più veloce per cancellare vita e ricordo, e se l’uomo
in particolare era anche scrittore allora le sue opere partecipavano alla sua fine, si uccideva e si trattava con ugual peso
l’uomo e il libro.
Dall’altro versante quando l’adorazione della massa per un
uomo o per una divinità diviene estesa e ufficiale, insieme
all’uomo e al Dio si venera un Libro che è rivelazione del divino, cosa che avviene ancora con le religioni monoteistiche
del Mediterraneo.
Ecco che la parola scritta diviene estensione della divinità
o appendice corporea dell’eretico, la prima si venera e la seconda si elimina; se vogliamo il merito o la colpa della parola
scritta consiste nell’imitare la facoltà comunicativa umana.
Non è raro che regimi di potere religioso o politico, per
consolidare lo status egemonico abbiano ricorso alle due pratiche contemporaneamente, si eleva un libro a possessore di
verità assolute e si elimina col fuoco il libro che questa verità
mette in discussione o confuta, o che semplicemente propone
una versione diversa.
«Condanniamo, riprobiamo et proibemo tutti gli sopradetti et altri tuoi libri et scritti, come eretici et erronei et continenti molte eresie et errori, ordinando che tutti quelli che
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LETTERATURE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
sin’hora si son avuti, et per l’avvenire verranno in mano al
Santo Offizio siano publicamente guasti et abbrugiati nella
piazza di san Pietro, avanti le scale, et come tali che siano
posti nell’Indice de’ libri prohibiti, sì come ordiniamo che
si facci»1, così recita la sentenza destinata a Giordano Bruno
dal governatore di Roma, 8 febbraio 1600, tanto per fare un
esempio tra i più noti.
Per queste ragioni quando si parla di biblioteca le si accosta spesso il termine di mondo o universo, come nel famoso incipit del racconto borghesiano La biblioteca di Babele,
«L’Universo che altri chiama biblioteca», ma questo non è
che uno dei moltissimi esempi.
La narrativa e la poesia sono piene di biblioteche e libri, di
amorose corrispondenze di sensi, di grandi misteri e di libri
perduti, di libri da cercare (uno dei possibili graal è proprio
un vangelo, un libro con la parola di Gesù); è quindi un topos
narrativo molto sfruttato, come per l’arte pittorica che tratta
variando uno stesso tema, si può dire che la biblioteca è una
delle tante varianti della narrativa.
La tecnica della stampa, e prima ancora la copiatura dei
manoscritti, ha finito per segnare la fine di una delle tecniche più affascinanti e longeve della storia dell’umanità, l’arte
della memoria. Era questa una tecnica che serviva a memorizzare nomi e discorsi, dal suo fondatore il poeta greco Simonide passando per Cicerone, Tommaso d’Aquino, Petrarca e fino a Bruno non c’è stato letterato, filosofo o retore che
non ne abbia fatto uso.
Prima di avere a disposizione una biblioteca personale o
un archivio, o più semplicemente la carta per appuntare frasi
e discorsi, l’uomo ha dovuto sviluppare questa capacità per
tenere a mente discorsi, poemi e canti. Era questa una tecnica che serviva agli aedi, ai rapsodi girovaghi, ai sofisti e ai
politici che tenevano discorsi e prolusioni in assemblee, o in
occasioni ufficiali, non mancavano gare per far mostra della
sapienza, al riguardo non mancano leggende.
In Africa un vecchio adagio recita: «Quando muore un
vecchio, brucia una biblioteca»2, e ciò era sicuramente vero
nelle epoche arcaiche e in quella groco-romana, in un certo
modo l’uomo con questa tecnica diveniva simile a un contenitore di libri.
Anche i testi scritti che sono giunti fino a noi risentono di
questa tecnica memorativa, inevitabilmente, come un habitus mentale, influenzava anche il discorso scritto; ci troviamo
così di fronte a testi che presentano una reiterata attenzione
all’ipse dixit di un maestro o un autore di riferimento. Così il
testo scritto somigliava molto alla tecnica con cui si costruiva un mosaico, le citazioni erano le particelle che costituivano la figura del manoscritto; in epoca medievale si usava
ancora scrivere i centoni, libri scritti con parti di altri libri.
Dall’invenzione della stampa a caratteri mobili questa
tecnica è andata sparendo, sostituita per sempre dalla maggiore e sempre crescente ‘reperibilità’ del testo scritto, del
libro come lo conosciamo oggi; la sensazione di aver perso
qualcosa di molto importante non può considerarsi semplicemente come pensiero passatista o elitario, ma se mai ci deve
portare a riflettere sulla differenza tra la molta informazione
di oggi (passeggera) e il ristretto sapere della tradizione (duratura).
Per non parlare dei vari e molteplici livelli di significato
che erano impliciti e ricercati nei testi medievali, contrapposti alla pura cronaca, piatta e semplice della tanto sbandierata
narrativa contemporanea.
Questa circolarità illimitata di testi sembra che abbia degradato il sapere, chiunque è in grado di ricevere risposte su
questioni mai poste, è anche questa una forma di sacrilegio
che è imputabile all’oggetto libro. Che nella parola scritta
ci fosse qualcosa di ‘statico’ e di ‘stupido’, era già nota alla
mitologia egizia, e in seguito sostenuta anche da Platone, si
cercava di privilegiare il discorso orale, il dialogo vivo tra
allievi e maestri, vera e propria conditio sine qua non di ogni
sapienza.
Torna attuale la domanda su la comunicazione e la libera
informazione, tanto abusate oggi, che non siano ancora un
modo per nascondere nel molteplice dell’inutile un qualsiasi
tipo di sapienza dei pochi? Siamo ancora a una forma, decaduta e banalizzata, di distanza tra esoterismo e essoterismo?
La questione è importante e per sua natura aperta, suscita
continuamente dibatti tra diverse discipline e saperi.
Il pensiero vola all’Umanesimo italiano, al ‘400, al secolo
in cui si percorreva l’Europa alla ricerca di vecchi e unici
manoscritti, studiosi, nobili e mercanti praticavano con passione questa ricerca. Lo status sociale si avvaleva e si arric-
1 L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno Editrice, 1993, Roma,
p.343
2 Il riferimento occidentale più immediato va agli uomini biblioteca del
romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.
Nell’ antico Egitto era leggendario un libro scritto dal dio
della saggezza Thot, in esso si potevano trovare formule capaci di incantare il cielo, la terra e i mari. Questo libro, unico e pericoloso, è custodito nei fondali dell’acqua di Copto,
custodito in una scatola di ferro, a sua volta rinchiusa in una
di rame, protetto da un’altra di legno-qedet, il tutto nascosto
in una scatola di avorio ed ebano. Questo complesso gioco
di scatole sono al fine poste in una scatola d’argento, riposta
ancora in una d’oro. Il tutto rimane protetto da sedici chilometri di serpenti e scorpioni, questo sistema di incastri e
veleni per difendere un libro scritto da un dio, parole cariche
di divina potenza.
Al libro si imputa anche la colpa della follia o dell’invasamento del lettore, ne sono esempi il Paolo e Francesca danteschi che si strinsero in un amore tragico per colpa del libro
galeotto di Lancialotto, per non parlare di Don Chisciotte che
negli argomenti trattati dai suoi libri di cavalleria trova i suoi
vaneggiamenti da ultimo cavaliere dalla triste figura.
A tal proposito la nipote di Alonso Chisciano (Don Chisciotte) se la prende, per la follia dello zio, proprio coi libri
di cavalleria che vorrebbe veder bruciati come eretici, vuole
che vengano consegnati al braccio secolare della governante.
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SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | LETTERATURE
chiva con il possesso del libro raro e di una biblioteca; la
famosa Laurenziana di Firenze nasce per volere di Lorenzo il
Magnifico, vi partecipano alla creazione ingegni come Pico
della Mirandola e Poliziano oltre al signore di Firenze.
Biblioteche, libri e librerie ritornano spesso nella letteratura, come si accennava poco sopra, l’elenco degli autori e
dei libri sarebbe lunghissimo: ecco solo qualche doveroso
esempio.
Un libro-biblioteca classico è l’opera del patriarca costantinopolitano Fozio (IX secolo d.c.) il quale redasse un Myrobiblion, titolo reso in volgare con Biblioteca, il testo ha la
carettristica di raccogliere il sommario di trecento libri. Era
stato scritto dall’autore per il fratello Tarasio che non aveva
la possibilità di consultare personalmente, lui come tanti altri, le opere originali.
È del 1704 l’operetta satirica The Battle of The Books di
Jonathan Swift dove si anima, letteralmente, attraverso i libri
stessi (possiamo vedere un Galeno scagliarsi contro Paracelso) la polemica tra i fautori della cultura antica e quelli della
cultura moderna, lo scontro è ambientato nell’ultima scorcio
del XVII secolo. Tornando alla letteratura del XX secolo soltanto un accenno al già citato Borges con i suoi racconti di
libri apocrifi e bilioteche (solo il silenzio a volte può accennare decorosamente all’opera dei grandi).
Robert Musil nel suo L’uomo senza qualità manda il protagonista Stumm alla Biblioteca Nazionale alla ricerca, tra i
libri, dell’idea più importante del mondo, ma si accorge che
i libri sono troppi per essere letti nell’arco di una vita umana,
ecco che la biblioteca assume i contorni e il simbolo del caos
del mondo moderno (si sente quasi l’eco antica della filosofia
stoica: «A che servono intere collezioni di libri se nell’arco
di un’intera vita il padrone riesce a malapena a leggerene i
titoli? Votati a pochi autori, non vagabondare tra i tanti»).
Nel Fu Mattia Pascal c’è sia una biblioteca che un bibliotecario e i libri affiorano spesso nelle peregrinazioni di
Adriano Meis; in Autodafè di Canetti è protagonista un professore bibliofilo e misantropo che venera i suoi libri nella
sua foltissima biblioteca personale.
Alcuni libri hanno scalato per settimane, o anni, la vetta
delle classifiche delle vendite, raggiungendo record e nomea
di bestseller come il famosissimo Il nome della rosa di Umberto Eco; la trama è arcinota e vi troviamo ancora al centro
una biblioteca, un bibliotecario e un libro disperso, il secondo libro sulla Commedia di Aristotele, è il libro stesso, intriso
di veleno, ad essere l’autore delle morti che funestano l’abbazia. Il successo del libro è anche dovuto alla sapienza con
cui il Professor Eco, combina i vari topos letterari, mescolando ‘cultura alta’ a ‘cultura di massa’. Qualche anno fa un
bestseller arrivato dalla Spagna L’ombra del vento di Zufon
ha introdotto, con grande successo, la stessa tematica della
biblioteca che cela qualcosa di proibito, un libro pericoloso e
un autore misterioso che sembra rincorso, e destinato come
un eretico, alla ‘purificazione’ del fuoco.
Last but not least è un testo che da poco ha compiuto qua-
rant’anni, è Il Quinto evangelio3 di Mario Pomilio, mirabile
narrazione intorno a un leggendario quinto vangelo. Il protagonista si imbatte in una Germania devastata dalla guerra
in una cattedrale dove un sacerdote, nella sua personale biblioteca, ha celato e ricostruto gli stralci della leggenda che
da secoli coinvolge religiosi e laici alla ricerca di questo vangelo; questo testo, diversamente da tanti altri nella tradizione
narrativa, non ha nulla di malvagio né di pericoloso ma è
solo una delle possibili manifestazioni della parola divina,
in un momento tragico come può esserlo una guerra l’uomo
sente il bisogno di una aggiunta di ‘rivelazione’, un potenziamento della parola divina.
Il Quinto evangelio, ingiustamente poco citato e da troppi passato sotto silenzio, è in assoluto il testo che usando il
topos del libro e della biblioteca ha ragginto un apice difficilmente eguagliabile di rigore di stile; Pomilio usa diverse
tecniche narrative per rendere conto di questa secolare ricerca del vangelo, ci troviamo immersi nella prosa di monaci
medievali e di sapienti rinascimentali.
C’è da dire che il pretesto, o il germe dell’idea, è rintracciabile nella biografia dell’autore, in una casa dei nonni paterni in un piccolo centro dell’abruzzo; il giovane Mario si
ritrova spesso a consultare la libreria di testi sacri di un avo
sacerdote, è probabile che la visione della parola come rivelazione sia nata in quelle letture giovanili, negli anni più
fertili dove le idee attecchiscono con maggior vigore.
Resta da scrivere, se qualcuno non l’ha ancora fatto, della
biblioteca che contiene tutte le idee e i progetti che gli autori
non sono stati capaci, per perfezionismo o per la sopravvenuta morte, di portare a compimento, l’enorme massa dei progetti non realizzati, ogni autore potrebbe figurare in questa
biblioteca dal poeta Baudelaire allo stesso Mario Pomilio.
Sarebbe bello che esistesse una biblioteca dei libri maledetti, ritirati o eretici, tra questi figurerebbero Il Necronomicon, il maledetto grimorio dello scrittore H.P. Locercraft,
e il fantomatico Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato
presidente4 di Giorgio Steimetz, libro ritirato dal commercio,
dalle librerie e dalle biblioteche, questo testo fotocopiato è
stato usato come fonte da Pier Paolo Pasolini per la stesura
del suo romanzo Petrolio.
3 Mario Pomilio, Il quinto evangelio, nuova edizione, L’orma, Roma,
2015.
4 Questo libro è stato ripubblicato nel 2010 dall’editore Effigie. Si
tratta di un recupero importante che doveva avere un impatto mediatico
notevolissimo vista l’influenza del libro sul Petrolio di Pasolini, e vista
anche la leggenda nera che lo circondava, dopo l’uscita è stato ritirato in
fretta su ordine dello stesso Cefis. Il fatto è passato pressoché sotto silenzio.
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URBANISTICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Il disegno di legge AC 2039 - Consumo
di suolo
LETIZIA CREMONINI E TEODORO GEORGIADIS
L
a Legge Urbanistica 1150 del 1942, ancora
oggi in vigore con le successive modifiche,
disciplina l’assetto e l’incremento edilizio
dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico
in genere nel territorio, tramite un sistema
gerarchico di piani regolatori. Già questa legge indicava la
problematica della tendenza all’urbanesimo e alla necessità
di mettere rimedio a questo fenomeno “…Il Ministero dei
lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo
scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento
della città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di
favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo.” (art. 1). Leggi di tutela ambientale e paesaggistica coeve alla 1150 (Legge 1089 e Legge 1497, entrambe
del 1939) consideravano il bene culturale e il paesaggio da
un punto di vista prettamente estetico.
Il mercato dei suoli ha però sempre rappresentato la discussione centrale tra economia ed urbanistica, dialettica tanto fondamentale da portare alla nascita della Associazione
per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno, costituita il
2 dicembre 1946, ed è importante ricordare di Alberto D’Agostino lo scritto ‘Mercato ed Urbanistica’ (Soc. Ed. Esculapio, 2008).
Passando fra varie fasi di crisi economica e scandali edilizi
(anni 50-60) che contribuirono alla definizione di standard
urbanistici e di norme sull’espropriazione per pubblica utilità, le Regioni acquisiscono dallo Stato (a partire dal 1972)
la maggior parte dei poteri urbanistici. Come accade anche a
livello europeo, la deregulation degli anni 70-80 contribuisce a caratterizzare il territorio con una distribuzione in rete
e al decentramento delle forme organizzative. In parallelo si
fortifica il dibattito ambientale sul filone (europeo) dello sviluppo sostenibile. In Italia nell’85 la Legge Galasso che obbliga le Regioni a redigere i Piani Paesistici, poi l’istituzione
del Ministero dell’Ambiente. Con gli anni 90 si tende a una
riorganizzazione delle strutture del potere e la distribuzione
sempre maggiore della responsabilità alle Pubbliche Ammi42
nistrazioni, introducendo un nuovo modello di gestione integrata, la Governance.
In Italia si susseguono norme in materia di suolo, acqua,
aria, rumore, compatibilità ambientale e in materia di trasparenza amministrativa (L. 241/90). La L. 142/1990 prima e
poi il D. Lgs. 267/2000 specifica la suddivisione dei poteri fra
Regioni, Comuni e Province. Alle prime gli obiettivi generali della programmazione economica, sociale e territoriale
e ripartizione del le risorse, mentre i Comuni concorrono
alla determinazione degli obiettivi contenuti nei piani e programmi di Stato e Regioni, e provvedono alla loro attuazione
(art. 5). Lo stesso anno viene redatta dal Consiglio d’Europa
la Convenzione Europea del Paesaggio, carta fondamentale
per tutte le nazioni per tutelare, gestire e pianificare, con un
approccio olistico, i paesaggi europei.
I concetti di governance, sviluppo sostenibile e città sostenibile, che mira alla rigenerazione del proprio patrimonio
esistente (Carta di Aalborg, 1994; Strategia Europea per lo
sviluppo sostenibile, 2004; Carta di Aalborg +10, 2004), entrano quindi a far parte del nuovo modello scelto dall’UE e
anche dall’Italia, e parallelamente ai Programmi di azione
per l’Ambiente dell’UE (dal primo nascono i principi di precauzione e prevenzione), alla conferenza di Rio de Janeiro,
mirano a riconoscere le tematiche principali da perseguire,
con l’identificazione degli attori coinvolti. Fra le tematiche
anche il consumo di suolo, con la relativa Strategia tematica
per la protezione del suolo del 2006, che evidenzia il bisogno
di rendere operative le buon pratiche per ridurre gli effetti
negativi del consumo di suolo, con riferimento soprattutto
all’impermeabilizzazione (http://www.isprambiente.gov.it/
it/temi/suolo-e-territorio/il-consumo-di-suolo/obiettivi-eorientamenti-comunitari). Il consumo di suolo zero entro il
2050 diviene il principale obiettivo del Settimo Programma
di Azione Ambientale.
Sulla base di questa nutritissima legislazione è forse corretto porsi quale domanda se il DDL presentato risulti coerente appunto con il sistema europeo.
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | URBANISTICA
Un primo passaggio interessante è quello di vedere le normative che sono state approvate subito prima il passaggio
dalla Camera al Senato del DDL.
Il Nuovo codice Appalti 2016, Decreto legislativo n°50 del
18 aprile 2016, di cui è citata la parte V all’interno del ddl
AC 2039 negli articoli 1, 2, 3 e 11, in riferimento alle infrastrutture e agli insediamenti prioritari che “fanno eccezione”
rispetto agli obblighi di priorità di riuso e di rigenerazione
urbana nella valutazione di alternative di localizzazione delle
opere in modo che queste non comportino consumo di suolo.
Tali insediamenti e infrastrutture sono valutati e inseriti negli strumenti di pianificazione dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti (MIT). Positiva è la ricognizione di tutti
gli interventi già compresi negli strumenti di pianificazione
e programmazione. I due strumenti di pianificazione e programmazione sono il Piano Generale dei Trasporti e delle
Logistica (PGTL), che contiene le linee strategiche politiche
di mobilità e dello sviluppo infrastrutturale, e il Documento
Pluriennale di Pianificazione (DPP), che riguarda l’elenco
degli interventi ritenuti meritevoli di finanziamento e fattibili. Quest’ultimo tiene conto di tutti i piani operativi di ogni
area tematica nazionale definiti dalla Cabina di Regia, ovvero la sede su cui si confrontano Stato, Regioni e Province
relativamente alla Programmazione del Fondo Sviluppo e
Coesione 2014-2020 (FSC) e agli stanziamenti di ogni tematica nazionale.
Se è vero che la project review per le infrastrutture già finanziate è attiva, per quale ragione non è stata ancora applicata sulle opere approvate dalla precedente L. 443/2001
(cosiddetta Legge Obiettivo)? (http://www.eddyburg.
it/2016/05/allegato-infrastrutture-luci-e-ombre.html).
Da
tale verifica potrebbe emergere la loro potenziale inutilità
rispetto alle necessità attuali.
Altri decreti che influiscono sul DDL sono stati approvati
il 15 giugno 2016 e riguardano la Riforma della Pubblica
Amministrazione. Il decreto sulla Conferenza dei Servizi
semplificata per la quale vige il silenzio assenso e non è necessario incontrarsi fisicamente ma basta l’invio telematica
della documentazione; anche in materia di VIA e rispetto al
parere degli enti di tutela vige il silenzio assenso, oltre che
l’eventualità di concludere la VIA anche con parere negativo
della Conferenza, tramite una decisione ultima del Consiglio
dei Ministri. Ancora, Comuni e Regioni potranno individuare e proporre interventi su cui fare investimenti strategici,
ma la stessa facoltà è data al Presidente del Consiglio dei
Ministri, e a decidere tempi e le procedure autorizzative sarà
il Consiglio dei Ministri. Questo toglie possibilità di azione
a Regioni e Comuni, su cui si era voluto incentrare il potere
attuativo negli ultimi decenni, in quanto migliori conoscitori
dei bisogni locali e delle identità da tutelare. Perché avviene
questo? Forse il panorama di decreti a cui fa riferimento
il DDL approvato alla Camera può offrire strade alternative alle buone pratiche? Analizziamo quindi puntualmente il
DDL, avvalendoci anche del parere di esperti.
Il disegno di legge si struttura in undici articoli. Il primo
identifica gli ambiti e gli scopi della legge, delinea i princi-
pi basilari per la valorizzazione e la tutela del suolo e delle
aree e superfici sottoposte a tutela paesaggistica. Il suolo è un
bene comune non rinnovabile e in quanto tale va contenuto.
La rigenerazione urbana e il riuso sono indicati come materia
base per il governo del territorio.
Il secondo articolo riguarda l’apparato definitorio nel quale sono specificati i principali termini, tra i quali alla definizione di “suolo” viene dedicato il comma 2, rimandando
direttamente all’art. 5, comma 1, lettera v-quater, secondo
periodo del D.Lgs. 152/2006. A questa definizione si propone l’aggiunta della frase “e costituisce una risorsa ambientale
non rinnovabile”. Considerando la centralità del termine rispetto al tema, probabilmente sarebbe stato ottimale riportare la definizione integrata con l’aggiunta proposta. In ogni
caso rimane da valutare la congruità della nuova definizione.
Il terzo riguarda l’attuazione della riduzione progressiva
vincolante del consumo di suolo che avviene tramite i criteri
e le modalità definite dalla Conferenza unificata; se questa
non adotta la delibera provvede il Presidente del Consiglio
dei Ministri con delibera del Consiglio. Le Regioni e le Province autonome devono rendere disponibili i dati acquisiti
relativamente ai rispettivi territori; il Decreto è adottato entro
un anno dall’entrata in vigore della presente legge e sottoposto a verifica ogni 5 anni. Con la deliberazione della Conferenza unificata è stabilita la ripartizione in termini quantitativi tra le Regioni della riduzione di consumo del suolo e
le misure di mitigazione e compensazione; se la Conferenza
non provvede alla ripartizione si attiva il Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono definite le modalità di monitoraggio
sulla riduzione del consumo di suolo (ISPRA e Consiglio per
la ricerca in agricoltura). Le Regioni e le Province autonome,
per attuare la riduzione, con cadenza di 5 anni, dispongono la
riduzione del consumo di suolo in termini quantitativi, determinando criteri e modalità da rispettare nella pianificazione
urbanistica comunale. Se Regioni e Province Autonome non
provvedono, la riduzione, i termini, e i rispettivi criteri sono
definiti con delibera del Consiglio dei Ministri.
Il quarto interessa l’attuazione delle disposizioni per gli
enti sul riuso e la rigenerazione urbana. Le Regioni, dispongono i Comuni a promuovere strategie per la rigenerazione
urbana identificando strumenti di pianificazione, a redigere
il censimento e una banca dati degli edifici e delle aree dismesse, verificando se questi possono rispondere alle previsioni urbanistiche evitando il consumo di suolo. In caso di
mancata deliberazione da parte delle Regioni, il Presidente
del Consiglio dei Ministri provvede a dettare disposizioni.
I Comuni che entro un anno non abbiano provveduto alle
disposizioni verranno diffidati dalla Regione e in quei Comuni sarà vietata la realizzazione di qualsiasi intervento che
preveda consumo di suolo.
Il quinto concerne la delega al Governo in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate da realizzare
entro 9 mesi dall’entrata in vigore della legge adottando
decreti legislativi per semplificare gli interventi, seguendo
criteri che tengano conto della qualità degli spazi e della vita
dei cittadini, in termini di sicurezza sismica e idrogeomor43
URBANISTICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Fig. 1 - Un possibile “compendio agricolo neorurale? -” il pensiero corre subito ai territori di frangia urbana/metropolitana in cui il ‘neoruralismo’ si traduce, o
potrebbe tradursi, in piani e progetti di suolo coerenti con un principio di tutela degli spazi aperti: uno scambio virtuoso fra città e campagna che garantisce
l’accesso a prodotti di qualità da parte dei consumatori urbani, e valorizza le filiere corte con prospettive positive per il reddito agricolo e l’economia” (di MARIA
CRISTINA GIBELLI, su Eddyburg, 30 Gennaio 2015 - http://www.eddyburg.it/2015/01/neologismi-in-liberta-compendi.html). Ma non è questo che lasciano intendere
le funzioni descritte dall’art. 6 del DDL AC 2039.
fologica, nei limiti del contenimento del consumo di suolo,
definendo un regime fiscale vantaggioso e tutelando il patrimonio storico artistico.
Il sesto riguarda l’invito per Comuni a prevedere la riqualificazione degli insediamenti rurali locali e lo sviluppo
delle attività agroforestali nel territorio rurale tramite la loro
identificazione quali compendi agricoli neorurali. É prevista
la demolizione e ricostruzione dei fabbricati esistenti non
utilizzati a scopo agricolo purché non vi sia ulteriore consumo di suolo rispetto all’esistente. Le destinazioni d’uso permesse sembrano non garantire tuttavia il mantenimento della
destinazione d’uso agricola dei compendi.
Il settimo identifica i divieti sul mutamento di destinazione d’uso delle superfici agricole, nonché il divieto di interventi urbanistici ed edilizi per le aree che hanno ricevuto
sovvenzioni dall’UE e rispettive sanzioni;
L’art. 8 delinea il sistema di incentivazione verso i soggetti pubblici e privati (singoli o associati) che intendono operare nel riuso e nella rigenerazione urbana, nella bonifica dei
siti contaminati, negli insediamenti rurali.
L’istituzione di un registro degli enti locali che si sono
adeguati alla presente legge viene ordinato dall’art. 9.
L’art. 10 volge la destinazione dei proventi e delle sanzioni che deriveranno dall’applicazione della presente legge alla
manutenzione e realizzazione delle opere di urbanizzazione,
al risanamento dei complessi edilizi nei centri storici e nelle periferie, alle aree verdi a uso pubblico, agli interventi di
44
riqualificazione del paesaggio e a quelli volti ad attività di
agricoltura in ambito urbano.
In ultimo l’art. 11 ripropone i termini ultimi entri i quali
non sarà più consentito il consumo di suolo, elencando le
immancabili opere che fanno eccezione.
Una analisi critica del DDL ci fa quindi rilevare che questo
rende inattivi i poteri finora demandati a Regioni e Comuni.
Partendo poi dalla definizione di consumo di suolo “netto”
(art. 2), risulta essere troppo evanescente nella definizione
dei parametri per la riduzione (art. 3).
L’ANCI relativamente alla riduzione del consumo di
suolo ritiene più opportuno per i Comuni “individuare una
procedura semplificata, per esempio proponendo di ridurre
progressivamente la quota percentuale delle zone di nuova
urbanizzazione rispetto a quelle già edificate, favorendo
contemporaneamente la rigenerazione urbana”. Ancora, in
riferimento all’art. 11 comma 1, “teme il blocco delle attività
e come soluzione propone di prevedere una fase di transizione così da garantire un graduale passaggio dal sistema
di pianificazione attuale al sistema proposto dalla legge”
(http://www.edilportale.com/news/2016/04/normativa/
consumo-di-suolo-il-disegno-di-legge-non-piace-ai-comuni_51566_15.html).
Riccardo Picciafuoco e Federico Sandrone di Salviamo
il Paesaggio rilevano che “L’attuale testo poco alla volta è
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | URBANISTICA
Fig. 2 - “Il 2015 – anno internazionale del suolo – ha permesso di porre concretamente l’attenzione sul degrado cui è sottoposto questo elemento fondamentale per
la vita dell’essere umano e dell’intero pianeta.” ..Tuttavia “Il ritmo di perdita di suolo fertile continua indisturbato e senza limiti. Tocca quindi ai cittadini europei il
compito di essere attori primari e assumere le iniziative necessarie a promuovere “dal basso” la protezione dei suoli all’interno dell’intero continente europeo. Per
questo motivo lo scorso anno è stata creata People4Soil – una grande campagna promossa da oltre 200 associazioni in tutta Europa – con l’obiettivo di affermare il
ruolo determinante dei suoli nel creare le condizioni sociali, ambientali, sanitarie ed economiche in grado di risolvere realmente le enormi problematiche relative alla
sicurezza alimentare, all’eliminazione della fame, al cambiamento climatico, alla riduzione della povertà e delineare i contorni di un equilibrato modello sostenibile
e che al contempo salvi il paesaggio e difenda i territori” (http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2016/05/fermare-il-consumo-di-suolo-in-tutta-europa-tocca-a-noiorganizzarci-e-lo-stiamo-facendo/).
stato completamente svuotato delle disposizioni che realmente potevano contribuire a contenere il consumo di suolo,
nella fattispecie la fuorviante definizione di superficie agricola, naturale e seminaturale, e che con tutte le varie eccezioni introdotte manderà in frantumi gli attuali metodi di analisi
e conteggio di consumo del suolo e le relative banche dati”.
Questa della misurabilità è una critica fortissima al decreto
che impone una valutazione particolarmente approfondita
dei metodi scientifici atti alla misura. Inoltre, segnalano “É
prevista l’introduzione dei compendi agricoli neorurali con
la possibilità di insediare delle destinazioni che nulla hanno
a che fare con la destinazione agricola”. L’unica positività
che fanno emergere i due esperti di Salviamo il Paesaggio
è quella relativa all’introduzione del censimento delle aree
dismesse quale presupposto per valutare la necessità o meno
di nuovo consumo. Nel seguente link le proposte di modifica
al DDL elaborate nell’aprile 2016 dal Forum di Salviamo il
Paesaggio: http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/wp-content/uploads/2016/04/Comparazione_testi_DDL-AC39_e_
proposta_Forum_SiP_25-4-2016.pdf
L’On. Samuele Segoni, che ha fatto parte dei lavori in
Commissione, sostiene che il modello economico basato sul
consumo di suolo non è in realtà più un modello sostenibile
né ambientalmente, né economicamente: “Al di là dei proclami del titolo e dei principi generali il provvedimento ha
forti limiti: ha un perimetro di applicazione limitatissimo,
contempla solo il suolo classificato come agricolo dagli strumenti urbanistici e al netto di opere di mitigazione e compensazione non meglio specificate. Esistono innumerevoli eccezioni tra cui spazi interclusi, infrastrutture e spazi di pubblica
utilità, costruzioni per cui sia stata presentata richiesta entro
la data di approvazione della legge. Contiene artifici semantici, per cambiare nome alle vecchie abitudini, quali la rigenerazione delle aree urbane e i compendi agricoli neorurali.”. L’On. Segoni sottolinea che questo dispositivo avrebbe
dovuto fermare il consumo di suolo e rilanciare il comparto
dell’edilizia imprimendogli un miglioramento qualitativo
orientato all’ecosostenibilità ma invece di superare la crisi
innovando con decisione ci si intestardisce a trovare degli
artifici normativi per tenere a galla comparti produttivi vecchi e stantii.
Paolo Pileri, Politecnico di Milano, trova che il DDL rischi di essere bivalente. Da un lato è un punto di importante
condensazione culturale con cui si dice al Paese quanto urgente sia il contenimento del consumo di suolo; dall’altro è
anche un punto di liquefazione perché pieno di scivoloni, imprecisioni ed eccezioni che finiscono per snaturare l’efficacia
della legge “… ad esempio la superficie agricola non è più un
campo in quanto tale, ma solo se lo dice il piano urbanistico.
Il de iure prevale sul de facto!” Le deroghe poi divengono
ancora punto centrale del dibattito in relazione agli insediamenti definiti prioritari per legge: “Il rischio della distrazione
45
URBANISTICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
dall’obiettivo è alto. L’art. 6 sui compendi agricoli neorurali, che non era tra le cose più urgenti sollevate dal dibattito
scientifico o popolare, non ha in se stesso gli anticorpi per
evitare di ferire l’agricoltura, i suoi suoli e il suo paesaggio”.
Michele Munafò, di ISPRA, vede positiva l’importanza
finalmente riconosciuta al suolo (art.1), ma avanza perplessità rispetto alle definizioni poiché a suo avviso non adeguate
dal punto di vista scientifico, anche rispetto a quelle europee. “ Questo a causa di alcune deroghe previste a livello di
definizioni stesse, per le quali non devono essere considerati come consumo di suolo i servizi di pubblica utilità, le
infrastrutture e gli insediamenti prioritari, le aree funzionali
all’ampliamento di attività produttive esistenti, gli edifici,
i fabbricati, le opere e le infrastrutture connessi in qualche
modo alle attività agricole, gli spazi inedificati inseriti in area
urbanizzata e tutte le zone di completamento, ovvero la gran
parte delle aree edificabili previste dai piani urbanistici comunali attuali e futuri. Il tutto considerando che la procedura
di definizione dei limiti è estremamente complessa e che non
sono stabilite le percentuali di riduzione da raggiungere nel
corso degli anni. “. Mentre per quanto riguarda il monitoraggio del consumo di suolo (di cui il DDL demanda a ISPRA),
“l’inserimento di tutte le eccezioni già a livello di definizione, potrebbe rappresentare un ostacolo, rendendo indispensabile un doppio sistema di misurazione (con dati nazionali
non coerenti con quelli richiesti dall’Europa) estremamente
oneroso (nonostante sia chiarito che non debbano esserci
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica)”.
Molto interessante è la lettura del DDL dell’Avv. Giacomo Graziosi che offre una disamina puntuale dei vari articoli. Anche Graziosi evidenzia come la legge sottragga
ai piani territoriali ed urbanistici il potere di governare la
trasformazione del suolo inedificato, che rappresentava il
proprium stesso della materia urbanistica ed edilizia come
fino ad oggi concepita: “L’utilizzo edificatorio del territorio
vergine diviene un fenomeno essenzialmente ambientale
– un consumo di suolo- e il suo controllo viene attratto in
46
capo agli organi centrali dello Stato (Governo e Conferenza
Stato-Regioni) che provvederanno a regolarlo con le medesime tecniche di controllo utilizzate per i fatti inquinanti.
Al Paese verranno concesse quote di consumo di suolo di
entità progressivamente decrescente, come avviene per i pacchetti di emissioni inquinanti e le percentuali di rifiuti non
riciclabili. Ma oltre a ciò la pianificazione urbanistica è destinata ad entrare con l’approvazione del DDL in uno stato
di eccezione da cui uscirà radicalmente trasformata nei fini e
nei caratteri distintivi. Riconoscendo che l’articolato contribuisce a abbandonare il modello espansivo e a prevedere il
riuso e la rigenerazione delle aree già edificate prima di progettare una qualsiasi impermeabilizzazione del suolo ancora
vergine, sottolinea anche come la riforma investirà anche gli
strumenti elaborati negli ultimi decenni per l’attuazione delle
previsioni urbanistiche quali perequazione, compensazione
e indici premiali. Un ultimo importante passaggio dell’Avv.
Graziosi riguarda il concetto di rigenerazione urbana che
“non potrà, allora, mai più finanziarsi con il plusvalore delle
nuove aree in espansione e dovrà necessariamente guardare
il cielo. Come già accaduto in altri tempi, in altri luoghi.”. E’
quindi un diverso modello di città quello che Graziosi intercetta dall’analisi del dispositivo di legge.
In conclusione, l’analisi del dispositivo e dei pareri espressi dagli esperti evidenziano come il DDL rappresenti un punto di ancoraggio della visione consolidata anche nella letteratura scientifica della necessità di consumo di suolo zero,
manifesta però diverse ambiguità nelle definizioni, talvolta
incoerenze, introducendo anche concetti nuovi che non possiedono allo stato attuale una misurabilità anche scientifica
dei processi coinvolti.
Altre domande restano ancora senza risposta, ovvero se
al DDL seguiranno poi delle norme attuative, perché troppe
volte, come nel caso della Legge sugli sgravi fiscali e i tetti
verdi, non trovando decreti attuativi, la legge resta inutilizzata o, peggio ancora, può essere utilizzata secondo modalità
tutte da definire prestandosi ad essere impiegata per interessi
di parte.
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | FISICA
Il nulla…poi l’universo e la vita?
Quando la fisica si spinge oltre
l’osservazione scientifica
FRANCO SAPORETTI
1. IL MULTIVERSO DI
Qual è l’origine dell’universo?
HARTLE-HAWKING
Come ha avuto inizio la vita? Da
secoli questi interrogativi sono
Facciamo una premessa. Sestati oggetto di profonde e accese
condo la meccanica quantistica
discussioni da parte di illustri teoall’interno di una regione vuota
logi, filosofi e scienziati. I tentativi
possono avere luogo fluttuazioni
di risposta della scienza sono stati
energetiche con conversione di
diversi1. Il più conosciuto anche
dal grande pubblico è l’ipotesi
energia in materia: così particelle
del Big Bang: l’universo ha avuto
sorgono dal vuoto e poi annichiliscono dopo un attimo. Il vuoto
origine circa 13,7 miliardi di anni
quantistico è teatro di un incesfa da una violentissima esplosione
sante balletto di particelle che
da cui sono scaturiti lo spazio, il
appaiono e scompaiono in tempi
tempo e tutta la materia. Tutto ciò
infinitamente brevi, inconcepibili
che oggi esiste era contenuto in
su scala umana. Anche il vuoto
un punto in condizioni di pressione, densità e temperatura teoricapiù assoluto, a causa degli effetti
mente infinite, chiamato dai fisici
quantistici, ferve di attività ed è
Fig. 1 - Multiverso © Asimmetrie-Infn/F.Cuicchio
singolarità. All’esplosione è poi
popolato da strutture evanescenti.
seguita una vertiginosa espansione
La meccanica quantistica ci dice
(inflazione), successivamente divenuta molto più lenta. An- con chiarezza che possiamo vedere emergere materia da uno
cora oggi il cosmo continua ad espandersi. Esistono prove spazio vuoto.
attendibili del modello. Quella più significativa è l’esistenza
Invocando la meccanica quantistica, Hartle e Hawking
di una tenue e uniforme radiazione a microonde, chiamata ipotizzano2 l’esistenza di molti universi coesistenti col noradiazione cosmica di fondo, che permea ancora oggi tutte stro, ciascuno con proprie leggi fisiche, propri valori delle
costanti fondamentali e proprie dimensioni spazio-tempole regioni dell’universo
Anche se la teoria del Big Bang appare oggi come la teo- rali. In altri termini, propongono l’idea di un multiverso: il
ria più accreditata presso la comunità scientifica, uno scena- nostro non è l’unico universo, ma ne esistono molti altri. Gli
rio cosmologico altamente affascinante è quello dell’esisten- universi sono nati spontaneamente dal nulla per fluttuazioni
za di molti universi, il cosiddetto multiverso. Una rappresen- quantistiche.
Come idea intuitiva per la generazione del multiverso,
tazione artistica di multiverso è mostrata in figura 1.
Dedicheremo di seguito la nostra attenzione al modello di possiamo pensare alla formazione di bollicine di vapore in
multiverso proposto da James Hartle e Stephen Hawking, acqua bollente. Immaginiamo le bollicine (che compaiono e
quest’ultimo uno dei più eminenti fisici teorici contempora- quindi si espandono a ritmo accelerato) come minuscoli universi generati da fluttuazioni quantistiche. Alcune bollicine
nei.
47
FISICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Fig. 2 - Modello standard
Fig. 3 - Modello di Hartle-Hawking
collassano e scompaiono, altre sopravvivono. Ebbene, in
un universo primordiale a causa di leggere disomogeneità
presenti, la forza di attrazione gravitazionale può aggregare la materia; quindi causarne il collasso con conseguente
formazione di stelle e galassie; e, perché no, dare luogo alla
vita come noi la conosciamo in almeno un caso: nel nostro
universo!
tempo anche, pur essendo finito nel passato.
L’universo proposto è in apparenza molto strano: è senza
confini nello spazio e nel tempo!
Ma, allora… se lo spazio e il tempo (vale a dire tutto
quanto esiste) non hanno confini, l’universo è senza un inizio ben definito nel tempo: non c’è nessuna origine dell’Universo!
(Anche se questo non significa che l’universo abbia un’età infinita. Il tempo, come prima detto, è finito nel passato).
Proviamo a capire per quanto possibile il meccanismo di
espansione proposto dal modello di Hartle-Hawking mediante un confronto con quello ipotizzato per il Big Bang,
cioè il modello standard.
L’espansione dell’universo nel modello standard viene
spesso rappresentata da un cono con la singolarità del Big
Bang al vertice (figura 2). Il tempo scorre verticalmente lungo l’asse del cono. Le sezioni orizzontali del cono sono cerchi di raggio crescente e indicano l’aumento di dimensione
dello spazio.
Nel modello ipotizzato da Hartle-Hawking (figura 3) non
esiste una singolarità e il vertice del cono è sostituito da una
piccolissima (anche se in figura è disegnata grande) semisfera, di appena 10-33 cm di raggio. Secondo la teoria l’universo era in origine composto da quattro dimensioni spaziali
(quindi una struttura spazio-quadridimensionale), ma privo
della dimensione temporale. Essendo privo del tempo, non
esisteva mutamento. Quando però, secondo il modello, una
di queste dimensioni si è trasformata spontaneamente in scala ridottissima in una dimensione temporale, l’universo ha
cominciato ad espandersi. In questa rappresentazione il tempo sorge gradualmente dallo spazio man mano che il cono
sorge gradualmente dalla semisfera.
Per chiarirci. Immaginiamo di andare a ritroso nel tempo
verso il vertice del cono, cioè di vedere la storia dell’universo come in un film che procede all’indietro. Secondo la teoria, a un certo punto il tempo svanisce gradualmente nella
dimensione spaziale, cioè si trasforma in spazio.
Ma allora…avendo nel modello sostituito il punto di singolarità con una semisfera, lo spazio è senza confini. E il
48
Queste sono le conclusioni espresse dal modello…sulle
quali però non pochi fisici hanno manifestato delle perplessità. Si tratta infatti di una teoria intenzionalmente escogitata
per eliminare il problema dell’avvio; una teoria in cui gli
autori, facendo appello ai processi quantistici, evitano con
grande abilità i problemi associati alla origine cosmica.
Sono intuibili le forti implicazioni anche in campo teologico e filosofico di un tale modello di universo. Fino a
quando per il cosmo si poteva ipotizzare una qualche sorta
di inizio, si poteva anche pensare a un Creatore. Ma, se l’universo può essere pensato completamente autosufficiente
(ovvero semplicemente “esiste”), allora quale posto può essere riservato ad una Entità generatrice soprannaturale?
2. IL TRIONFO DELLA RAGIONE UMANA
Nel settembre del 2010 esce in Inghilterra il libro dal titolo Il grande disegno. Perché non serve Dio per spiegare l’universo di S. Hawking e L. Mlodinow3, in cui viene esposto
al grande pubblico il modello. Nella copertina del volume
sta scritto:
Quando e come ha avuto inizio l’universo? Perché c’è qualcosa invece di nulla? […] Perché siamo qui? E soprattutto, il «grande disegno»
del nostro universo è opera di un benevolente creatore o la scienza può
offrire un’altra spiegazione? Formulare una completa teoria dell’universo […] sarebbe il più grande trionfo della ragione umana, perché a
quel punto conosceremmo la mente di Dio. […]
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | FISICA
Non abbiamo ancora una risposta definitiva, ma oggi disponiamo di
una candidata alla teoria ultima del tutto: la «teoria M». Se confermata, sarà la teoria unitaria di cui Einstein era alla ricerca, e il trionfo della ragione umana. Quanto a un presunto creatore del Grande disegno,
la scienza dimostra che l’universo può crearsi dal nulla sulla base delle
leggi della fisica. Non è necessario appellarsi a Dio per accendere la
miccia e mettere in moto il processo. La creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece di nulla, per cui esiste il cosmo, per
cui esistiamo noi.
«La scienza dimostra che l’universo può crearsi dal nulla… », «Non è necessario appellarsi a Dio… », «La creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece di
nulla… ». Sono parole fortissime!
Anche il clamore mediatico che annunciava l’evento fu
enorme. Quando uscì il libro molti giornali e siti web riportarono a grandi lettere quanto su scritto. E il mondo dell’atesismo salutò le affermazioni del celebre astrofisico come
il trionfo della scienza e della ragione. Richard Dawkins,
commentando il testo di Hawking, concluse: «Così come
Darwin ha smentito l’esistenza di Dio con la sua teoria
sull’evoluzione biologica, adesso Hawking la nega anche
dal punto di vista della fisica».
Sono espressioni di fuoco, specialmente se si pensa che
il mistero dell’origine cosmica è probabilmente il campo in
cui lo scienziato ateo si è sempre sentito più a disagio. Infatti, ad un certo punto nella catena dei perché e delle spiegazioni, gli scienziati si sono sempre trovati di fronte a una
strada sbarrata, un punto oltre il quale la scienza non riesce
ad andare. E questo limite è la creazione dell’universo, l’origine ultima dell’universo fisico.
Ma le cose stanno proprio così come esposte nelle conclusioni del libro?
Vediamo di raccogliere alcune riflessioni. Queste, aderendo pienamente alla laicità del metodo scientifico, si focalizzano su alcuni aspetti di base (come idee, scelte, assunzioni)
determinanti per la costruzione e l’attendibilità scientifica
del modello4.
3. MA LE COSE STANNO PROPRIO COSÌ?
Un serio limite del modello
Come scrivono gli stessi autori, la M-teoria su cui il modello si basa deve ancora essere «confermata». E autorevoli
scienziati non credono nella M-teoria 5,6.
Senza alcun tipo di verifica scientifica si rischia di scivolare nella filosofia. Senza riscontro si contravviene a una
delle condizioni basilari dell’ipotesi scientifica dai tempi di
Galileo: la controprova. Da un punto di vista scientifico, il
modello di Hatle-Hawking presenta un serio limite: non può
essere né verificato né falsificato.
Ad esempio, gli altri universi ipotizzati dalla teoria sono
assolutamente inaccessibili e fisicamente isolati dal nostro e
non possono essere raggiunti per quanto si viaggi nel tempo
e nello spazio. E ciò fa sì che l’idea ispiratrice del modello
sia più simile ad una scelta “metafisica” che ad una teoria
“scientifica”.
E’ utile notare che la cosmologia è un campo particolare, unico fra le scienze: non è possibile fare esperimenti per
ottenere risultati ripetibili, ma solo raccogliere osservazioni
sull’unico universo che percepiamo e cercare correlazioni
fra di esse. Si tratta di un surrogato del metodo sperimentale, il quale richiederebbe di creare apposta in laboratorio un
universo o almeno una galassia ed osservare le sue proprietà. Cosa che chiaramente non possiamo fare!
Nel caso del modello standard abbiamo una conferma
significativa nella radiazione cosmica di fondo e altri indizi che ci permettono di pensare ad una sua validità. Ma per
l’ipotesi di molti universi, non osservabili nemmeno in linea
di principio, non abbiamo assolutamente nulla.
E così, almeno per il momento, il modello “dimostra”
ben poco.
Da dove vengono le leggi?
Ancora per quanto riguarda l’affermazione che «la scienza dimostra che l’universo può crearsi dal nulla sulla base delle leggi della fisica», vediamo di chiarire anche altri
aspetti.
Il modello di Hartle-Hawking è “costruito” in modo che
non occorre più una singolarità per la genesi dell’universo. I
due fisici avanzano l’idea dell’assenza di una singolarità con
conseguenze molto pesanti. Così Hawking afferma:
Se l’universo avesse avuto inizio con una singolarità, si potrebbe
sempre supporre l’esistenza di un creatore. […] La teoria quantistica
della gravità, però, è venuta a dischiudere una nuova possibilità: quella che lo spazio-tempo non abbia un confine e che, di conseguenza,
non sia necessario determinare che cosa avviene in corrispondenza
di questo confine. Non ci sarebbe singolarità […] né margini estremi
dello spazio-tempo, arrivati ai quali potremmo solo appellarci a Dio7.
Se lo spazio e il tempo non hanno un confine, non c’è mai
stato uno stato iniziale nel quale le leggi naturali della fisica
non valgono. Pertanto tutto rientra nell’ordinario e valgono
le leggi ordinarie della fisica; l’esistenza dell’universo si
giustifica da sé e non è necessario alcun intervento divino.
L’universo sarebbe quindi completamente autonomo, e tutto
determinato dalle leggi di natura e dal puro caso8. Potremmo
considerare l’universo come un «sistema chiuso», che contiene in sé la ragione della propria esistenza. Questo però è
un punto delicato che va approfondito.
Nel modello si parte dal presupposto che le leggi siano
“date”, cioè siano già “là”, pronte all’uso. Dopodichè, date
le normali leggi della fisica, l’universo può procedere per
conto proprio. E’ autosufficiente, anche per quanto concerne
il suo avvio. Ma dovremmo a questo punto dare risposta ad
altri interrogativi, ad esempio:
Da dove hanno origine le leggi naturali?
Le leggi esistono indipendentemente dall’universo fisico?
Il concetto di legge è così ben radicato negli scienziati
che, fino a non molto tempo addietro, molti studiosi non si
soffermavano più di tanto a riflettere sulla natura e sull’o49
FISICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
rigine di queste leggi: le accettavano come date e basta.
Finché le leggi naturali erano originate da una Entità sovrannaturale, la loro esistenza era scontata parimenti a quella
dell’esistenza della materia o delle forze, anch’esse create
da Dio. Ma se si elimina l’origine divina delle leggi, la loro
esistenza diventa un profondo mistero. E allora viene legittimo chiedersi da “dove vengono le leggi?”.
E, ovviamente, senza questa risposta la scienza può “dimostrare” ben poco!
Qualcuno potrebbe tuttavia ipotizzare che le leggi hanno
avuto origine con l’universo. Ma, se così fosse, allora tali leggi non potrebbero spiegare la genesi dell’universo in
quanto le leggi non sarebbero esistite fino al momento in cui
l’universo si è generato.
Ma poi… è sufficiente una legge?
Accettiamo che l’universo fosse soggetto alle ordinarie
leggi della fisica, come suggerisce il modello. Supponiamo
quindi risolto il problema dell’origine delle leggi: sono là,
scolpite ab aeterno, pronte all’uso. Viene allora spontaneo
chiederci:
Ma può una legge, un’equazione matematica, fare qualcosa “tutto da sola”?
Possedere il progetto per un prodotto, non significa avere il prodotto. Occorre anche la materia prima e l’apparato
strumentale per la realizzazione del prodotto. Può un’equazione matematica da sola, senza la presenza di alcunché,
creare materia?
Anche Platone era cosciente dell’insufficienza della matematica. Avvertiva infatti la necessità di considerare per la
creazione dell’universo la preesistenza di una materia prima
informe e di un artigiano che la lavorasse.
E Galileo, uno dei padri della fisica moderna, suggerì i
fenomeni fisici osservati come punto di partenza per l’indagine scientifica e assegnò alla matematica il compito di descriverli tramite teorie poi da confermare.
Nulla e vuoto quantistico
Come abbiamo detto, la produzione di materia-antimateria
generata dal vuoto quantistico presuppone l’esistenza delle
leggi della fisica; in particolare presuppone le leggi della relatività generale (per le proprietà fisiche della struttura spazio-tempo) e della meccanica quantistica (per le equazioni
che governano l’evoluzione degli stati fisici).
Ma non è solo il mistero dell’origine di queste leggi a cui
occorre dare una risposta. Esiste anche un altro aspetto del
modello che è opportuno ricordare e che richiede una spiegazione9.
Partiamo dalla seguente considerazione. Dal modello appare evidente come il nulla, di cui spesso Hawking parla,
non è il niente: è uno stato fisico instabile. Hawking parla di
vuoto quantistico. E’ necessario ricordare la distinzione che
viene fatta in fisica fra nulla e vuoto quantistico:
Il nulla è «ni-ente», «non essere»: niente materia, niente
energia, niente antimateria, niente spazio, niente tempo, nessuna struttura spazio-temporale. E come tale non possiamo
50
assegnargli alcuna proprietà, come ad esempio una «instabilità fisica».
Il vuoto quantistico invece è qualcosa di presente nella
struttura spazio-tempo; è uno «stato fisico instabile» che
può dare luogo, a spese della sua energia, alla creazione di
materia e antimateria (come, ad esempio, a coppie di particelle-antiparticelle).
Nulla e vuoto quantistico sono in fisica due concetti tanto
diversi da richiedere l’uso di due distinti simboli (i cosiddetti vettori di stato) per rappresentarli nelle equazioni matematiche utilizzate per gli sviluppi teorici. Nulla e vuoto
quantistico non sono quindi da confondere. E, nel modello
di Hartle-Hawking, il termine «nulla» va inteso come uno
stato fisico instabile.
All’accensione della miccia che mette in moto il processo
di auto-generazione dell’universo, ci troviamo quindi con
almeno tre cose pre-esistenti da spiegare:
- le leggi della fisica,
- la struttura spazio-tempo (quadri-dimensionale della relatività generale),
- il vuoto quantistico.
Multiverso e coincidenze
Le leggi della fisica attualmente note e che governano il
mondo in cui viviamo, si fondano su alcuni parametri, le cosiddette «costanti fisiche fondamentali», di cui conosciamo
con notevole precisione il valore numerico. Ad esempio: la
velocità della luce, la carica dell’elettrone, la costante gravitazionale.
Queste quantità hanno lo stesso valore, immutabile, in
ogni punto dell’universo e in ogni istante. Se una sola di
queste costanti fosse diversa da quella che è, anche di pochissimo, allora l’universo che noi conosciamo non avrebbe potuto formarsi: dai minuscoli atomi alle gigantesche
galassie e, in particolare, non avrebbe potuto dare origine
alla vita stessa! Da notare che per generare l’universo che
abitiamo occorrono parametri molto esatti e regolati con una
straordinaria precisione: non sono ammessi neppure piccolissimi scarti.
Come si possono «spiegare» queste coincidenze? A questo proposito sono stati scritti fiumi di carta. Esistono fra gli
scienziati punti di vista molto diversi, talvolta divergenti. Le
coincidenze cosmologiche affinché si realizzi l’universo e
la vita che conosciamo sono numerosissime. Secondo molti scienziati è proprio nel cercare una spiegazione a queste
costanti che si trovano gli indizi più forti, oserei dire più
inquietanti, che portano a una profonda riflessione sull’esistenza di un disegno superiore. Le coincidenze sembrano
infatti testimoniare a favore dell’esistenza di un Creatore.
E Hawking-Mlodinow come spiegano le «coincidenze»,
le «regolazioni fini» delle leggi di natura? Ad esempio,
come si spiega l’impressionante corrispondenza tra le condizioni necessarie per la comparsa della vita e l’equilibrio
fisico-chimico che soddisfa queste richieste e che è presente
nell’universo che abitiamo? I due fisici così scrivono:
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | FISICA
le regolazioni fini delle leggi di natura possono essere spiegate dall’esistenza di universi multipli […] il concetto di multiverso può spiegare la regolazione fine della legge fisica senza bisogno di un creatore
benevolo che abbia fatto l’universo a nostro vantaggio10.
Risposta chiarissima. Ma che peso possiamo dare a tali dichiarazione se gli stessi promotori delle teorie del multiverso ammettono che questi mondi non sono osservabili nemmeno in linea di principio? L’astronomo John Barrow arriva
ad esprimere l’idea che sia difficile «anche solo concepire»
un simile multiverso tante sono le cose che potrebbero essere diverse. Così scrive:
Uno degli elementi che rendono difficile anche solo concepire un simile Multiverso, è che vi sono così tante cose che potrebbero essere
diverse. […] Vi sono diverse strutture matematiche; diverse possibili
leggi di natura; diversi valori delle costanti di natura; […] diverse
condizioni di partenza per l’universo; e diversi esiti casuali di complesse serie di eventi11.
Non c’è dubbio che, prima di dare credito al modello, bisognerebbe accettare l’ipotesi del multiverso come «scientificamente valida».
Eleganza matematica e «verità ultima»
Conviene ricordare come nella proposta del modello non
c’è nessun primo momento, nessun inizio. Il fondamentale
problema delle «condizioni iniziali» viene annullato proprio
eliminando questo evento. Come affermano gli stessi autori,
la teoria è stata espressamente costruita per vanificare il problema dell’avvio e quindi l’ipotesi di Dio.
E’ però da notare che gli autori propongono una ben precisa formulazione matematica per quanto riguarda certe
scelte, cioè certe «assunzioni» che devono essere fatte per
la costruzione del modello; questa formulazione svolge in
effetti il ruolo di una legge delle condizioni iniziali. Secondo loro hanno fatto scelte che sono quelle naturali sul piano
dell’eleganza matematica.
Non è nuovo il fatto che alcuni scienziati siano ammaliati
da una particolare formulazione per certi requisiti di naturalezza ed eleganza. Ma a tali requisiti, c’è da chiedersi, quale
valore può essere attribuito al fine della ricerca della realtà,
cioè al fine della ricerca della «verità ultima»?
Senza ombra di dubbio va attribuito un grande valore alla
matematica, ma in questo caso ci sono scelte fatte in aggiunta alla matematica.
Forse in maniera un po’ drastica, il cosmologo Alexander
Vilenkin definisce il modello di universo autosufficiente come: «esercizi in cosmologia metafisica»12.
Il problema dell’inizio
Si ha quasi l’impressione che molti provino riluttanza,
quasi timore, a considerare un inizio dell’universo. E questo
forse è dovuto alle implicazioni metafisiche che comporterebbe, per esempio l’esistenza di un Creatore. Questa supposizione potrebbe essere una spiegazione. Buona parte della
ricerca cosmologica dell’ultimo mezzo secolo è stata volta a
escogitare modelli alternativi al Big Bang in grado di sostenere l’idea di un universo “eterno”.
Dobbiamo ricordare che agli inizi del Duemila alcuni fisici (A.Borde, A.Guth e A.Vilenkin) hanno dimostrato un
significativo teorema. Questo afferma che, per non violare
una serie di ipotesi, un universo deve necessariamente emergere da una singolarità, deve quindi avere un “inizio”!
Per quanto riguarda l’universo ciclico, Vilenkin scrive:
«E’ stato detto che un’argomentazione basta a convincere un uomo ragionevole, mentre una dimostrazione serve a
convincere anche un uomo irragionevole. Con questo teorema i cosmologi non possono più nascondersi dietro la possibilità di un universo che si perde in un passato eterno. Non
c’è via d’uscita, essi devono affrontare il problema dell’inizio del cosmo»13.
Seguendo il pensiero di Vilenkin sembra che non ci sia
niente da fare. Ogni evidenza di cui siamo in possesso suggerisce che ci sia stato un inizio, e questo per tutti i modelli
possibili ed immaginabili.
Probabilità e possibilità
Qualcuno ha osservato che la M-teoria è una teoria quantistica. Pertanto, nel rispetto del principio di indeterminazione, è di natura probabilistica e fornisce una misura della
probabilità di un evento.
Nel nostro caso, il formalismo matematico sviluppato dagli autori del modello fornisce la probabilità dell’esistenza
di una soluzione matematica di un universo con certe caratteristiche. Ma questo non è la stessa cosa dell’esistenza reale di quell’universo. La soluzione matematica è qualcosa di
astratto che deve ancora realizzarsi.
Al di là di tutte le perplessità di cui abbiamo parlato, la
teoria suggerirebbe tutt’al più che esiste una probabilità non
nulla per un particolare universo; indicherebbe che c’è una
possibilità, con probabilità ben definita, che questo universo
possa concretizzarsi.
Al risultato del modello matematico, sembra invece che
dagli autori venga attribuito un valore di certezza, rispetto
a un più limitato valore di possibilità definita. Una certezza
che poi conduce a conclusioni non da tutti condivisibili.
Un insieme di speranze, idee e aspirazioni
Fanno riflettere alcune asserzioni di chiaro contenuto per
quanto riguarda la fondatezza dell’ipotesi proposta di multiverso.
In un famoso libro Dal Big Bang ai buchi neri del 1989
Hawking aveva scritto: «Vorrei sottolineare che questa idea
che il tempo e lo spazio siano finiti, ma illimitati, è solo una
proposta: essa non può essere dedotta da alcun altro principio»14.
Ancora: «Una teoria scientifica è solo un modello matematico da noi costruito per descrivere le nostre osservazioni:
essa esiste solo nella nostra mente»15.
E il fisico-matematico Roger Penrose (collaboratore per
anni di Hawking nello sviluppo della teoria del Big Bang)
51
FISICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
smentisce il collega con parole fortissime. Descrive Il grande disegno come ingannevole, aggiungendo che la M-teoria
«non è nemmeno una teoria, non è scienza ma un insieme di
speranze, idee e aspirazioni»16.
Così l’idea che la scienza «dimostra» l’autosufficienza
dell’universo ne esce piuttosto indebolita.
4. MA QUALE VERITÀ SCIENTIFICA?
Ad oggi la scienza non ha né dimostrato né escluso niente. I risultati scientifici, basati sull’osservazione, si limitano
a suggerire la necessità di una riflessione su uno stadio più
profondo di conoscenza.
La ricerca più estrema conduce al momento l’uomo
ad una parziale conoscenza di appena il quattro per cento
dell’universo: una minuscola gocciolina nell’immensità di
un mare, da vertigine, di materia ed energia con proprietà
ancora ignote.
E la matematica, il potentissimo strumento di ricerca e
la sua straordinaria efficacia, indiscutibilmente «può»…ma
non tutto.
Al di là delle contrapposizioni credo vada dato ampio merito agli autori del modello di avere compiuto un tentativo,
giusto o no, di spiegare l’origine dell’universo nell’ambito
della fisica.
Ma, sulla base delle varie considerazioni fatte, si rimane
sconcertati di fronte alla conclusioni così fortemente espresse. Si rimane perplessi sul fatto che gli autori abbiano:
- presentato al grande pubblico i risultati di un tentativo
come il «trionfo della scienza» e della ragione;
- divulgato le loro conclusioni come l’ultima conquista
della scienza che «mette fine al mistero dell’origine cosmica»;
- sentenziato infine, sulla base di un’ipotesi che non può
essere né verificata né falsificata dall’osservazione, che
«Dio non è necessario».
Queste conclusioni hanno avuto una diffusione mediatica
senza precedenti volta ad una platea di pubblico senza conoscenze specialistiche che, ovviamente, non è in grado di
fare una valutazione critica sul lavoro da cui sono tratte. A
tutt’oggi le affermazioni rappresentano la cultura dominante
diffusa dai media sull’origine dell’universo.
Ma quale tipo di «verità scientifica» rappresenta questa
cultura?
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
1. F. Saporetti, Big Bang: chi ha acceso la miccia? Una
straordinaria avventura scientifica, Pendragon, Bologna
2014.
2. S. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia
del tempo, trad. it. di L. Sosio, Rizzoli, Milano 1989; S.
Hawking e L. Mlodinow, Il Grande Disegno. Perché non
serve Dio per spiegare l’universo, trad. it. di T. Cannillo,
52
Mondadori, Milano 2011; J. B. Hartle and S. W. Hawking,
Wave function of the Universe, Phys. Rev. D 28, 2960, 15
Dec 1983.
3. S. Hawking e L. Mlodinow, Il Grande Disegno, op. cit.
4. F. Saporetti, Big Bang: chi ha acceso la miccia?, op.cit.
5. L. Smolin, L’universo senza stringhe. Fortuna di una
teoria e turbamenti della scienza, trad. it. di S. Freudiani,
Einaudi, Torino 2007.
6. P. Woit, Neanche sbagliata. Il fallimento della teoria
delle stringhe e la corsa all’unificazione delle leggi della fisica, Codice, Torino 2007.
7. S. Hawking, La Teoria del Tutto. Origine e destino
dell’Universo, trad. it. di D. Didero, Rizzoli, Milano 2003,
pp. 125,130 e 131.
8. S. Hawking, L’universo in un guscio di noce, trad. it. di
P. Siena, Mondadori, Milano 2002, p.89.
9. G. Masiero, Contrordine, prof. Hawking: l’Universo ha
avuto un inizio, ma non sappiamo come!, Uccr, 4 feb 2012.
10. S. Hawking, e L. Mlodinow, Il Grande Disegno, op.
cit., p.157.
11. J. D. Barrow, I numeri dell’universo. Le costanti della
natura e la teoria del Tutto, trad. it. di T. Cannello, Mondadori, Milano 2003.
12. A.Vilenkin, Birth of Inflationary Universes, Physical
Reviev D27 (1983): 2854; Creation of the Universe from
Nothing, Physical Letters 117B (1982): 25-28.
13. A.Vilenkin, Un solo universo o infiniti? Alla ricerca
di altri universi, trad. it. di L. Gazzardi, Cortina Raffaello,
Milano 2007.
14. S. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia
del tempo, trad. it. di L. Sosio, Rizzoli, Milano 1989, p. 161.
15. Ivi, p. 164.
16. http://www.uccronline.it/2010/10/11/lastrofisico-penrose-ex-collega-di-hawking non-ha-superato-dio.
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE GIURIDICHE
Il brevetto tra Europa e Cina
*
CARLA ROMANO
Università degli Studi di Napoli Federico II
Il presente articolo contiene una delle prime traduzioni italiane del Chinese Patent Office.
on tutto si può esigere da principio e l’idea che ci siamo fatti di diritti e doveri è
alquanto fuorviante oltre a non essere soddisfatto dall’idea tradizionale: l’idea per
cui il mio dovere è fondato sulla “controreciprocità di un obbligo” che si configura come l’inverso
di diritto altrui non basta a giustificare certi fondamenti di
diritto né tanto meno a promuoverli. Per quello che ci attende questo schema non funziona. Il concetto di “auctore” ha
viaggiato nel tempo e nelle varie forme attraverso cui poteva
essere modellato ha raggiunto anche la forma di titolo. Un inventore ha diritto di essere considerato tale: il brevetto nasce
come titolo giuridico per dare all’inventore un monopolio
esclusivo di sfruttamento della propria invenzione limitato
nel tempo e territorialmente. Una tutela in omaggio al “mondo delle idee”, ma ogni idea è tutelabile? E soprattutto, tutte
le invenzioni sono realmente brevettabili? Ovviamente no. Si
devono rispettare innanzitutto determinati requisiti: NOVITÀ, LICEITÀ, ORIGINALITÀ, INDUSTRIALITÀ, SUFFICIENZA DI DESCRIZIONE. L’invenzione si considera
nuova se non è compresa nello stato della tecnica (art. 46
cod. pr. ind.): “2. Lo stato della tecnica è costituito da tutto
ciò che è stato reso accessibile al pubblico nel territorio dello
Stato o all’estero prima della data del deposito della domanda di brevetto, mediante una descrizione scritta od orale, una
utilizzazione o un qualsiasi altro mezzo. 3. E’ pure conside-
rato come compreso nello stato della tecnica il contenuto delle domande di brevetto nazionale o di domande di brevetto
europeo o ancora internazionali designanti e aventi effetto
per l’Italia, così come sono state depositate, che abbiano una
data di deposito anteriore a quella menzionata nel comma
2 e che siano state pubblicate o rese accessibili al pubblico
anche in questa data o più tardi. 4. Le disposizioni dei commi
1, 2 e 3 non escludono la brevettabilità di una sostanza o di
una composizione di sostanze già compresa nello stato della
tecnica, purché in funzione di una nuova utilizzazione”1. La
liceità è il requisito che non permette la brevettazione di tutto
ciò che sia contrario all’ordine pubblico e al buon costume
(art. 50 cod. pr. ind.): “1. Non possono costituire oggetto di
brevetto le invenzioni la cui attuazione è contraria all’ordine
pubblico o al buon costume. 2. L’attuazione di un’invenzione non può essere considerata contraria all’ordine pubblico
o al buon costume per il solo fatto di essere vietata da una
disposizione di legge o amministrativa”2.
L’attività inventiva è il requisito attinente all’originalità
dell’invenzione (art. 48 cod. pr. ind.): “1. Un’invenzione è
considerata come implicante un’attività inventiva se, per una
persona esperta del ramo, essa non risulta in modo evidente
dallo stato della tecnica. Se lo stato della tecnica comprende
documenti di cui al comma 3, dell’articolo 46, questi documenti non sono presi in considerazione per l’apprezzamento dell’attività inventiva”3. L’industrialità è, infine, definita
nell’art. 49 cod. pr. ind., secondo cui “Un’invenzione è considerata atta ad avere un’applicazione industriale se il suo
oggetto può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere
di industria, compresa quella agricola”4. La mancanza di uno
solo di questi requisiti comporta la nullità del brevetto, ma
non ci sono solamente queste ipotesi. L’art. 76 cod. pr. ind.
* Articolo oggetto di precedenti pubblicazioni con le Riviste: Filodiritto,
Portale di informazione giuridica, Persona e Danno, Rivista di diritto e
storia costituzionale del Risorgimento, Diritto&Diritti.
1
2
3
4
1. BREVE EXCURSUS SULLA NORMATIVA ITALIANA
N
DEL BREVETTO
Art. 46 cod. pr. ind.
Art. 46 cod. pr. ind.
Art. 48 cod. pr. ind.
Art. 49 cod. pr. ind.
53
SCIENZE GIURIDICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
54
ne menziona altre tre: “1. Il brevetto è nullo:
a) se l’invenzione non è brevettabile ai sensi degli articoli
45, 46, 48, 49, e 50;
b) se, ai sensi dell’articolo 51, l’invenzione non è descritta
in modo sufficientemente chiaro e completo da consentire a
persona esperta di attuarla;
c) se l’oggetto del brevetto si estende oltre il contenuto
della domanda iniziale;
d) se il titolare del brevetto non aveva diritto di ottenerlo
e l’avente diritto non si sia valso delle facoltà accordategli
dall’articolo 118.
2. Se le cause di nullità colpiscono solo parzialmente il
brevetto, la relativa sentenza di nullità parziale comporta una
corrispondente limitazione del brevetto stesso.
3. Il brevetto nullo può produrre gli effetti di un diverso
brevetto del quale contenga i requisiti di validità e che sarebbe stato voluto dal richiedente, qualora questi ne avesse
conosciuto la nullità. La domanda di conversione può essere
proposta in ogni stato e grado del giudizio. La sentenza che
accerta i requisiti per la validità dei diverso brevetto dispone la conversione del brevetto nullo. Il titolare del brevetto
convertito, entro sei mesi dal passaggio in giudicato della
sentenza di conversione, presenta domanda di correzione del
testo del brevetto. L’Ufficio, verificata la corrispondenza del
testo alla sentenza, lo rende accessibile al pubblico.
4. Qualora la conversione comporti il prolungamento della durata originaria del brevetto nullo, i licenziatari e coloro
che in vista della prossima scadenza avevano compiuto investimenti seri ed effettivi per utilizzare l’oggetto del brevetto hanno diritto di ottenere licenza obbligatoria e gratuita
non esclusiva per il periodo di maggior durata. 5. Il brevetto
europeo può essere dichiarato nullo per l’Italia ai sensi del
presente articolo ed, altresì, quando la protezione conferita
dal brevetto è stata estesa”5. Dunque, sono cause di nullità
anche l’insufficiente descrizione e l’estensione brevettuale
oltre il contenuto originario della domanda, il che può accadere quando il richiedente si avvalga dell’art. 172 cod. pr.
ind. e l’Ufficio ne conceda erroneamente il brevetto, (art 172
cod. pr. ind.).
Il diritto cerca di dare disciplina a un campo, come quello
dell’invenzione, in costante ascesa, del resto viviamo ancora nel secolo in cui “Il Prometeo irresistibilmente scatenato,
al quale la scienza conferisce forze dinamiche, senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige
un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua
potenza di diventare una sventura per l’uomo”6, dunque il
binomio scienza-diritto deve imbrigliare questo “Προμηθεύς
δεσμώτης”, per dare la possibilità alla tecnica di andare
avanti e migliorare se stessa, portando con sé benefici che
abbiano anche carattere di socialità.
Antonio Guarino era solito dire “Ogni società muta nel
tempo e così il ius che ne è la sovrastruttura”; un ius che
cambia a seconda della società, un ius che rispecchia le esi-
genze di “questa o quella” società e dunque muove da pretesa. Ma chi può pretendere? Per pretendere bisogna essere:
io sono, dunque esisto “ergo” pretendo. Ogni vita pretende e
questa forma di pretesa se comune o necessaria può trovare
un’applicazione “de facto”, costringendo lo schema-logico
di diritto a recepire. La pretesa nasce nell’essere e in esso si
sviluppa pur non essendo ancora ovvero pur non essendo esistente; e allora come divenire? Fermo restando che nel diritto
il divenire è un contesto che si sviluppa nella misura in cui
è possibile la trasformazione di una società non è possibile
surrogare una soluzione alla mera pretesa, è il ragionamento
ad essere garante della possibilità di quella pretesa di venire
ad esistenza. L’imperativo bioetico ci fa capire che tutti gli
esseri viventi hanno diritto al rispetto e devono essere trattati
non come mezzi che giustificano lo scopo, vecchia massima
di origine machiavellica, ma come fine in se stessi, ed è lo
stesso Fritz Jahr che deve averne tenuto conto nella coniazione del termine7. Pretesa e fine sono concetti fondamentali nel
binomio diritto-bioetica; il diritto come pretesa e gli esseri
viventi come fine rendono qualunque forma di ragionamento tanto tortuoso quanto instabile, oltre che potenzialmente
insoddisfacente. L’intenzione umana o l’intenzione in senso
stretto non bastano a fare diritto, dunque non basta una mera
pretesa e non basta un mero fine (in bioetica avremmo detto
“non si può parlare di vita nel semplice vivere”). Abbiamo
bisogno di qualcosa in più. L’essenza dell’essere uomo in
quanto tale porta all’ascesa verso il progresso e inevitabilmente ci conduce nel mondo delle possibilità dove tecnica
e scienza si uniscono per dare voce a una progressione a cui
la scienza fornisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante; questa progressione raggiunge
il suo massimo culmine nell’invenzione e cioè un’ideazione
tecnica esterna che contempla la modellazione della realtà
materiale con il compito di determinare il soddisfacimento
di bisogni umani. In forma stereotipata potremmo dire che
è una soluzione di un problema tecnico non ancora risolto,
ma risolvibile e si badi non è una soluzione “alternativa” ma
una soluzione che determina una progressione, un “andare
avanti” rispetto alle altre soluzioni prospettate in precedenza.
Deve dirsi come innovazione tecnico-funzionale. Dunque,
tutto si può pretendere in ragione della tecnica? Ci sembra
che la risposta debba essere negativa. Del resto molti filosofi,
pur non preoccupandosi del diritto, hanno avanzato le peggiori ipotesi nell’eventualità in cui non si riuscisse ad imbrigliare nelle maglie della ragione il “Promethéus desmótes”:
“La sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana
ha lanciato col suo smisurato successo, che coinvolge ora anche la natura stessa dell’uomo, la più grande sfida che sia mai
venuta all’essere umano dal suo stesso agire”8. L’art. 2585
dispone che “Possono costituire oggetto di brevetto le nuove
invenzioni atte ad avere un’applicazione industriale, quali un
metodo o un processo di lavorazione industriale, una macchina, uno strumento, un utensile o un dispositivo mecca-
5 Art. 76 cod. pr. ind.
6 H. JONAS, Il principio responsabilità, 1979 pp. 1-2
7 Articolo Bio-ethik of Fritz Jahr, definizione della parola “Bioetica”
8 H. JONAS, Il principio responsabilità, 1979 pp. 1-2
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE GIURIDICHE
nico, un prodotto o un risultato industriale e l’applicazione
tecnica di un principio scientifico, purché essa dia immediati
risultati industriali. In quest’ultimo caso il brevetto è limitato
ai soli risultati indicati dall’inventore”9.
Secondo i commi 2, 3, 4 e 5 dell’art. 45 D.Lgs. 30/2005
non sono brevettabili:
«2. Non sono considerate come invenzioni ai sensi del
comma 1 in particolare: a) le scoperte, le teorie scientifiche
e i metodi matematici; b) i piani, i principi ed i metodi per
attività intellettuali, per gioco o per attività commerciale ed
i programmi di elaboratore; c) le presentazioni di informazioni.
3. Le disposizioni del comma 2 escludono la brevettabilità di ciò che in esse è nominato solo nella misura in cui la
domanda di brevetto o il brevetto concerna scoperte, teorie,
piani, principi, metodi, programmi e presentazioni di informazioni considerati in quanto tali.
4. Non sono considerati come invenzioni ai sensi del comma 1 i metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del
corpo umano o animale e i metodi di diagnosi applicati al
corpo umano o animale. Questa disposizione non si applica
ai prodotti, in particolare alle sostanze o alle miscele di sostanze, per l’attuazione di uno dei metodi nominati.
5. Non possono costituire oggetto di brevetto le razze animali ed i procedimenti essenzialmente biologici per l’ottenimento delle stesse. Questa disposizione non si applica ai
procedimenti microbiologici ed ai prodotti ottenuti mediante
questi procedimenti»10.
La prima volta che si parlò di brevetti fu il 19 marzo 1474
a Venezia, « L’andarà parte che per auctorità de questo Conseio, cha da un che farà in questa Cità algun nuovo et ingegnoso artificio, non facto per avanti nel dominio nostro,
reducto chel sarà a perfection, siche el se possi usar, et exercitar, sia tegnudo darlo in nota al officio di nostri provveditori de Comun. Siando prohibito a chadaun altro in alguna
9 Art. 2585 c.c.
10 Commi 2, 3, 4 e 5 dell’art. 45 D.Lgs. 30/2005
terra e luogo nostro, far algun altro artificio, ad immagine
et similitudine di quello, senza consentimento et licentia del
auctor, fino ad anni 9. »11. E’ nell’Inghilterra di Giacomo I
che i brevetti cominciarono ad essere concessi per volontà
regia, in un periodo compreso nei quattordici anni, attraverso “litterae patentes”, da qui la denominazione anglosassone
di “Patent”. L’European Patent Organisation, EPO o EPOrg
è un’organizzazione pubblica internazionale creatasi con la
Convenzione europea dei brevetti (in inglese Convention on
the Grant of European Patents, abbreviato EPC) che ha lo
scopo di rilasciare un unico brevetto valido per tutti i Paesi
sottoscriventi. Quid est bios? Quid est iuris? Cosa riguardo
al diritto e cosa riguardo la vita... un corpo, ad esempio, è
brevettabile? Fin dove può spingersi la scienza? L’Europa
ha dato per prima la risposta: per i Verdi europei è “direttiva Frankestein”. Per il premio Nobel Dario Fo si potrebbe
definire “una schiacciante vittoria delle multinazionali”, per
molti parlamentari europei “la grande speranza”. La direttiva
europea sui brevetti delle invenzioni biotecnologiche ha cercato di armonizzare le varie posizioni naturali, ma il tutto è
stato trasposto in una chiave totalmente nuova che mai ci si
sarebbe aspettati. L’articolo più controverso della direttiva
è quello relativo alla brevettabilità di materiale biologico di
origine umana, ma nonostante questo l’Europa rimane fermamente legata al principio di rispetto “dell’essere in quanto
tale” e lo dimostra il fatto che non sono brevettabili: varietà
vegetali, razze animali o processi biologici (Direttiva 44/98/
CE*). Si è aperto di seguito un vivace dibattito sulla possibilità di brevettare il “corpo umano”. Dal contesto in cui ci
siamo mossi è ovvio che l’indirizzo europeo e più in generale
quello del diritto si muove in una situazione di diniego, ma
si potrebbe anche essere più precisi, precludendo qualunque
spiraglio, dicendo che l’art. 5 della direttiva 44/98/CE* prevede espressamente che “il corpo umano, nei vari stadi della
sua costituzione e del suo sviluppo, nonché la mera scoperta
di uno dei suoi elementi, ivi compresa la sequenza o la se11 Archivio di Stato di Venezia, Senato terra, registro 7, carta 32
55
SCIENZE GIURIDICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
quenza parziale di un gene, non possono costituire invenzioni brevettabili ”. Se si guarda a Stati più permissivi viene
quasi da chiedersi se sia possibile e in che misura una fuga di
cervelli in tali Paesi come Giappone, Cina, America del sud
per poter procedere a esperimenti altrimenti qui vietati.
Improbabile ma non del tutto impossibile: si è parlato di
“computerizzazione dell’uomo brevettabile” concetto alquanto pericoloso e fuorviante per la Comunità europea; si
è parlato di possibilità di duplicazione del corpo umano in
quanto parte lesa o danneggiata suscettibile di sostituzione
(in una visione alquanto “ultraterrena dell’essere”, l’essere
può guarire se stesso e autorigenerarsi senza essere soggetto
a un proprio ciclo vitale). Tutto questo porta a chiedersi fino
a che punto ci si potrà spingere nella speranza che diritto e
ragione abbiano la meglio.
Vediamo un possibile ragionamento tecnico che ha potuto
influenzare ragioni giuridiche ed etiche.
Possiamo quindi sostenere con sicurezza che l’ambito della
pretesa è luogo di determinazione reale mediante scopi e fini
che sono attuati oggettivamente dai medesimi individui che
li accolgono poi soggettivamente. Ciò implica che l’efficacia
degli scopi non è legata al concetto razionale, alla riflessione o al libero arbitrio dell’uomo e sempre per ragionamento
potremmo dire che è “absoluta”, cioè svincolata dall’uomo.
Allora è possibile usare, nella misura in cui sia lecito, questo
ragionamento a copertura di ogni richiesta dell’essente? Ovviamente no. L’efficacia è vincolata a quella che potremmo
definire una qualche “occasione di coscienza”, ma se è così
allora nel manifestarsi della piena volontà sussiste ed è operante una sorta di “scopo”. Ed è proprio su questo scopo che
si fonda l’analisi ontologica del valore e quindi la decisione
vincolante sul piano etico per cui il mondo e la modernità
possono muovere pregiudizi contro proposte di scienza mediante “produzione” di diritto. Ma questa è solo una possibile soluzione, ne potremmo definire molte altre partendo da
varie ipotesi. Supponiamo di confutare una concezione del
sé relativa alla soggettività. Questo sé in quanto tale rivendicherà un’azione in quanto tale ovvero un’agire determinato
del soggetto che si chiamerà scopo, ma se è determinato in
quel soggetto di per sé relativo allora lo scopo è da ricercarsi
solo in una vita che è cosciente ossia solo per le forme di
vita che sono dotate di coscienza ovvero quelle volontarie
(v. Art. 1 codice civile*, “Articolo 1. La capacità giuridica
si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge
riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento
della nascita (462, 687, 715, 784). (3° comma abrogato)”. V.
Art 42 codice penale*,Responsabilità per dolo o per colpa o
per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva. Nessuno può essere punito per un’azione od omissione prevista
(corsivo nostro) dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà. Nessuno può essere punito
per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha
commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale
o colposo espressamente preveduti dalla legge. La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico
dell’agente, come conseguenza della sua azione od omissio56
ne. Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria
azione od omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o
colposa”. Con la comparsa di soggettività del tutto svincolate dal normale concetto di creazione farebbe il suo ingresso
un nuovo principio di azione del tutto nuovo ed eterogeneo
e si instaurerebbe una differenza radicale, anche se graduale, non soltanto fra creature che sono accumunate da questo
principio di coscienza e quelle che non lo sono, ma anche
tra queste stesse creature sottoposte al principio universale
della nascita e la porzione molto meno ampia (futura) di chi
non vi sarà sottoposto. E’ dunque un principio estraneo a
natura “l’essere predisposto in altro modo e non per quello scopo”. Ora potremmo notare che se non sei predisposto
inevitabilmente sei inadeguato e potremmo anche supporre
in base al grado di inadeguatezza può emergere nella natura
“un’occasione”, emerge un’occasione dalla natura giunta a
quello stadio per via dell’alternativa di coscienza proposta
dall’uomo. Un’obiezione del genere è nella sua gradualità di
transazioni irrilevante agli inizi dell’evoluzione con lo stesso livello di trascendenza che potrebbe avere una ameba o
qualunque essere da cui potrebbe iniziare un nuovo concetto
di “sensibilità”. Ma questa teoria d’infusione azzardata sul
piano ontologico potrebbe manifestare nel corso dell’evoluzione una soggettività che non costituisce si badi un salto
evolutivo dello stadio precedente poiché questo è sottostante
a una non contaminata attribuzione dello scopo che appartiene solo ad uno stadio nuovo. Quindi in tale caso l’agire
sarebbe orientato verso uno scopo proprio, è orientato come
la nostra generazione e proprio come lo sono state le altre,
mentre questo principio verrebbe del tutto a mancare se la
funzione organica inconscia proponesse un salto qualitativo
completamente estraneo alla legge di natura. Non risulta essere compatibile l’idea per cui si aggiunge qualcosa di nuovo
ad una generazione che precede senza modificarne realmente
nessun aspetto biologico o neurologico, come manifestazione supplementare dello stadio raggiunto. Una semplice qualità non può fare questo senza che si apportino modifiche al
profilo causale, cioè ci devono essere delle forme in cui si
esprimono fattori diversi in questo stesso sistema. Poniamo
un’altra soluzione, più semplice: se io creo un essente o meglio un potenziale tale questo essendo una novità emergente,
se non vuole essere del tutto arbitrario e quindi irrazionale
deve porsi in un rapporto temperato dalla continuità sostanziale e non formale , ma sappiamo per legge di natura tutto
ciò che è di grado superiore modifica e qualifica ciò che è di
grado inferiore, dunque questo essente sarà comunque soggetto a cambiamenti di natura che svilupperanno potenzialità
preesistenti anche per il nuovo organismo che dunque non
sarà totalmente nuovo configurandosi come qualcosa che è
e al tempo stesso non è e questo equivale a un “non datur”.
Una volta viste queste tre soluzioni possiamo capire meglio
come e perché la giurisprudenza si muova in un certo modo
nei confronti della suddetta argomentazione, facendosi spalleggiare da un’etica di rigetto che risulta logicamente sostenibile per via delle sue categorie esplicative che poi si appoggiano ad una morale che non possiamo definire moderna o
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE GIURIDICHE
cieca, ma che al contrario ha sempre caratterizzato e caratterizzerà lo spirito dell’umanità volto a soddisfare non un dato
esteriore ma una prassi fisica che ha come scopo principale
il non cadere nella tentazione di una metafisica riduzionista
che si fa forte sull’evidenza artificiale. Una tentazione che
va nell’opposta direzione dell’antropomorfismo. Ma supponiamo che l’etica abbia dato il suo benestare, è possibile brevettare? E’ possibile sottoporre a brevetto un essere umano?
(Caso tra l’altro verificatosi in Cina, dove da poco tempo il
Governo ha considerato questo genere di “ricerche” reato a
tutti gli effetti punibile con dieci anni di reclusione più eventuali pene accessorie). Lasciando da parte (e tra l’altro già
largamente esauriti le motivazioni filosofico-giuridiche che
hanno portato la maggior parte dei Paesi a scartare ufficialmente queste ipotesi di brevetto) passiamo a una nuova soluzione (la quarta) più tecnica che si rifà alla legge italiana
sui brevetti.
Può questo “essente” soddisfare il primo requisito? L’essere umano non è un’attività inventiva o una novità intrinseca
o novità originale né passo inventivo né tanto meno nuova
soluzione tecnica a un problema lasciato irrisolto, potremmo
fare appello alla nostra 3° soluzione, ovverosia qualcosa che
si configura a metà tra essere e non essere non può configurarsi come nuovo essere né tanto meno come “essere in
quanto tale” visto che non trova soluzione in natura per cui
possiamo parlare di un “non datur”, se non è dato non può
che non essere; sdrammatizzando potremmo dire che tra le
varie cose per cui non “è”, non è nemmeno originale;
non può essere soddisfatto nemmeno il secondo requisito ovvero quello della industrialità e nelle nostre prime due
soluzioni abbiamo fatto chiaramente appello a un concetto
di coscienza e scopo; la liceità viene meno nel momento in
cui (3° soluzione) si muovono i passi in modo decisamente
opposto all’antropomorfismo; la sufficienza di descrizione è
qui una problematica secondaria. Proviamo però ad esaurire
la necessaria nozione di brevettabilità con un principio non
di “nuovo essente” ma di rigenerazione o meglio riparazione
di ciò che già è. E’ il caso ad esempio delle cellule staminali
che in alcuni casi sono state determinanti nella risoluzione di
malattie (è il caso francese di una coppia che decide di avere
un altro figlio per poter “curare” la primogenita affetta da
una grave malattia degenerativa; si è parlato di bambino nato
“allo scopo”, uso indebito di maternità, “bimbo guaritore”, di
che se ne possa dire entrambi i bambini oggi sono in salute).
Indagare sullo “scopo” della nascita quando questa rimane soggetta alla metafisica immanente non avrebbe senso
perchè rappresenterebbe solo un’accusa etica difficilmente
conciliabile in diritto. Potremmo dire un’accusa etica “di negazione sull’affermazione”, una coppia vuole un figlio per
un dato scopo (salvare la primogenita tramite conservazione
del cordone da cui è possibile reperire cellule in grado di
poter guarire la bambina)--> negazione dell’affermazione,
ovverosia pregiudizio etico. Ma un pregiudizio etico non è
condizione necessaria né tanto meno sufficiente a sminuire
l’affermazione, c’è lo scopo, c’è la coscienza, c’è l’arbitrio
senza lasciare fuori la tradizionale idea di partogenesi, allora
cosa? Cosa potrebbe essere così destabilizzante per lo scopo? La possibilità. La possibilità di una metafisica razionale
a patto che la razionalità non venga esclusivamente determinata dalle percentuali di scienza positiva, accompagnata da
una consapevole coscienza, è tollerabile nella misura in cui
si sappia che lo scopo è possibile così come potrebbe non
essere possibile. La mera scienza non basta come pretesa per
ergersi a diritto ma deve essere accompagnata da soggettività
e quindi arbitrio nella visione però di una possibilità, ammettendo dunque che sussiste anche la possibilità contraria e che
il realizzarsi della seconda non comporti poi il sopperire della coscienza conformatasi in un certo modo. Il requisito che
manca in questo contesto non è l’utilità o la novità (novità
elemento che rende tale un brevetto e comunque l’utilità è
una condizione imprescindibile per poter riconoscere come
tale l’ “invenzione industriale”), ma la European Patent Office ha stabilito che le linee di Staminali non possano essere
brevettate. Il fatto è che non è possibile pensare al brevetto
di cellule al di fuori di un ambito medico circoscritto; si deve
tenere poi in considerazione che nel nostro sistema è possibile il brevetto di un test per scoprire il cancro ma non del
gene associato al cancro; la domanda è spontanea: “E se in
quel gene malato ci fosse “possibilità” di trovare la cura?”.
Le soluzioni giuridiche rimangono controverse, fatto sta che
non si è mai trovati una vera soluzione. Tralasciando il concetto di “possibilità” può accadere che il potenziale possibile venga sovrasviluppato perché la scienza esprime forze
senza precedenti che una volta innescate non possono essere controllate (e nemmeno potrebbero a livello giuridico se
vengono innescati certi cicli attivi dei sistemi di produzione)
alimentati dall’economia che imprime loro un impulso incessante, si cadrebbe quindi nei vortici di fallimento indicati
nelle quattro soluzioni precedenti (questo potrebbe spiegare
perché le posizioni a torto siano maggiori di quelle a favore
e lo stallo giurisdizionale creatosi) .
Detto ciò il pericolo potrebbe essere rappresentato (e in
larga parte lo è già) dal carattere troppo permissivo che alcuni Paesi e in particolar modo la Cina hanno dimostrato di
avere nei confronti di questo tipo di brevetti.
2. CHINA PATENT&TRADEMARK
Il medesimo ruolo che in sostanza l’European Patent Office (EPO) ricopre per i Paesi dell’Unione in Cina è ricoperto dal China Patent&Trademark Office (CPO). Ma come
funziona la disciplina cinese? Per certi versi è simile all’esperienza europea, per altri se ne distacca in modo deciso.
L’art. 10 del Patent Law of the People’s Republic of China
disciplina la materia di trasferibilità dei diritti: “Se un individuo intende trasferire il diritto di richiedere un brevetto o i
diritti sul brevetto stesso a uno straniero, un’impresa straniera o altra organizzazione straniera, deve eseguire le procedure in conformità con le disposizioni di leggi e regolamenti
amministrativi. Per il trasferimento del diritto di richiedere
un brevetto o di diritti di brevetto, le parti interessate devono stipulare un contratto scritto e file per la registrazione
57
SCIENZE GIURIDICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
presso il dipartimento di amministrazione dei brevetti sotto
il Consiglio di Stato, e quest’ultimo deve fare un annuncio
del trasferimento. Il trasferimento del diritto di richiedere un
brevetto o di diritti di brevetto avrà effetto a partire dalla data
di registrazione”12.
Anche in Cina come in Europa tutto ciò che è contrario
all’ordine pubblico (qui specificamente si fa menzione di
“interessi”) non può costituire oggetto di brevettazione, articolo 5: “I brevetti non sono concessi per invenzione-creazioni che violano la legge o etica sociale, o danneggiano gli
interessi pubblici. I diritti di brevetto non sono concessi per
le invenzioni che vengono compiute basandosi su risorse genetiche che si ottengono o sono utilizzati in violazione delle
disposizioni di legge e regolamenti amministrativi”13.
Il riconoscimento in merito alla notorietà del marchio
avviene a seguito della richiesta del titolare (art. 5 e 45 del
Regolamento sui marchi)14. L’art. 14 del medesimo Reg. disciplina i fattori di utilizzazione di brevetti di grande importanza: “Se un brevetto d’invenzione di un’impresa statale o
istituzione è di grande importanza per gli interessi nazionali o pubblici, previa approvazione da parte del Consiglio di
Stato, dipartimento competente sotto il Consiglio di Stato o
di governo del popolo della provincia, regione autonoma, o
del comune direttamente sotto il governo centrale può decidere di avere il brevetto ampiamente applicato entro un ambito approvato e consentire alle unità designate di sfruttare
il brevetto, e dette unità pagheranno royalties al titolare del
brevetto in conformità con le norme dello Stato”15. “Dopo
che la domanda di brevetto viene pubblicata, il richiedente
può richiedere all’unità o ai singoli che sfruttano tale brevetto di pagare una quantità appropriata di royalties” (art. 13)16.
12 Patent Law of the People’s Republic of China Article 10 The right to
apply for a patent and patent rights may be transferred. If a Chinese unit or
individual intends to transfer the right to apply for a patent or patent rights
to a foreigner, foreign enterprise or other foreign organization, it or he
shall perform the procedures in accordance with the provisions of relevant
laws and administrative regulations. For the transfer of the right to apply
for a patent or of patent rights, the parties concerned shall conclude a written contract and file for registration at the patent administration department
under the State Council, and the latter shall make an announcement thereof. The transfer of the right to apply for a patent or of patent rights shall
become effective as of the registration date.
13 Patent Law of the People’s Republic of China Article 5 Patent rights
shall not be granted for invention-creations that violate the law or social
ethics, or harm public interests. Patent rights shall not be granted for inventions that are accomplished by relying on genetic resources which are
obtained or used in violation of the provisions of laws and administrative
regulations.
14 Art. 5 e 45 del Regolamento sui marchi
15 Patent Law of the People’s Republic of China Article 14 If an invention patent of a State-owned enterprise or institution is of great significance to national or public interests, upon approval by the State Council,
the relevant competent department under the State Council or the people’s
government of the province, autonomous region, or municipality directly
under the Central Government may decide to have the patent widely applied within an approved scope and allow the designated units to exploit
the patent, and the said units shall pay royalties to the patentee in accordance with the regulations of the State.
16 Patent Law of the People’s Republic of China Article 13 After the
application for an invention patent is published, the applicant may require
the unit or individual that exploits the said patent to pay an appropriate
amount of royalties.
58
Il dipartimento di amministrazione dei brevetti nell’ambito
del Consiglio di Stato stabilisce un comitato che ha lo scopo di revisionare il brevetto “se un candidato al brevetto è
insoddisfatto con la decisione presa dal Dipartimento di amministrazione dei brevetti nell’ambito del Consiglio di Stato
sul rigetto della domanda, egli può, entro tre mesi dalla data
di ricevimento della notifica, presentare una richiesta con il
comitato di revisione del brevetto per la revisione. Dopo la
revisione, il Patent Review Board deve prendere una decisione e notifica al richiedente del brevetto della stessa. Se il
richiedente brevetto è soddisfatto della decisione di revisione
da parte del comitato di revisione del brevetto, può adire le
vie legali in tribunale del popolo entro tre mesi dalla data di
ricevimento della notifica”17.
L’art. 45 continua dicendo “A partire dalla data in cui il
dipartimento di amministrazione dei brevetti sotto il Consiglio di Stato ha annunciato la concessione di un diritto di
brevetto, se una unità o individuo ritiene che tale concessione non è conforme alle pertinenti disposizioni della presente legge, può chiedere che il brevetto sia invalidato”18.
“La licenza obbligatoria è legata alla fornitura del mercato
nazionale, fatta eccezione (art. 53) per la licenza obbligatoria
concessa in conformità con le disposizioni del paragrafo (2)
dell’articolo 48 o dell’articolo 50 della presente legge”19.
La legge sul diritto d’autore del 1991, emendata nel 2001
accorda la protezione dei diritti d’autore anche a stranieri e
apolidi purché: il paese natio abbia stipulato un trattato bilaterale e/o un trattato multilaterale e/o di accordo internazionale con la Cina in materia di diritti d’autore oppure che l’opera sia stata ab origine pubblicata in Cina20. La medesima
legge stabilisce come interesse prioritario quello pubblico21.
Il diritto di autore comprende i diritti morali e patrimoniali22.
Nell’ambito dei diritti morali, sulla base della Convenzione
di Berna (art. 6 bis) , si riconoscono quattro diritti paternità,
pubblicazione, revisione e d’integrità23.
17 Patent Law of the People’s Republic of China Article 41 The patent
administration department under the State Council shall establish a patent
review board. If a patent applicant is dissatisfied with the decision made by
the Patent Administration Department under the State Council on rejecting
of the application, he may, within three months from the date of receipt of
the notification, file a request with the patent review board for review. After review, the Patent Review Board shall make a decision and notify the
patent applicant of the same. If the patent applicant is dissatisfied with the
review decision made by the patent review board, he may take legal action
before the people’s court within three months from the date of receipt of
the notification.
18 Patent Law of the People’s Republic of China Article 45 Beginning
from the date the patent administration department under the State Council
announces the grant of a patent right, if a unit or individual believes that
such grant does not conform to the relevant provisions of this Law, it or
he may request that the patent review board declare the said patent right
invalid.
19 Patent Law of the People’s Republic of China Article 53 Except
for the compulsory license granted in accordance with the provisions of
Subparagraph (2) of Article 48 or Article 50 of this Law, compulsory license shall mainly be exercised for the supply to the domestic market.
20 Legge cinese sul diritto d’autore del 2001
21 Legge cinese sul diritto d’autore del 2001
22 Legge cinese sul diritto d’autore del 2001
23 Legge cinese sul diritto d’autore del 2001, Convenzione di Berna (art.
6 bis)
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La durata del brevetto è, come nella maggior parte dei Paesi dell’UE, di vent’anni, art. 42 (Patent Law of the People’s
Republic of China) e stabilisce che: “La durata del brevetto
dell’invenzione diritto è 20 anni e quella del diritto di brevetto per modello di utilità e del brevetto di disegno a destra
è di dieci anni rispettivamente, tutto a partire dalla data di
applicazione”24. Il primo emendamento della legge sui brevetti datata 1992 ha reso brevettabili composti e preparati
farmaceutici in Cina25. La legge italiana si premura di entrare
nello specifico, invece, nella declinazione di “medicinale”:
ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come
avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane, ogni sostanza o associazione di sostanze che può essere
utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di
ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche,
esercitando un’azione farmacologica considerata con efficacia (efficacia da intendere nel senso “positivo” del termine,
escludendo quindi un’attenzione eccessiva verso gli effetti
collaterali che pure potrebbero verificarsi nel caso di assunzione di farmaci), immunologica o metabolica, ovvero di
stabilire una diagnosi medica, medicinale immunologico,
medicinale omeopatico, radiofarmaco, medicinali derivati
dal sangue o dal plasma umani (Art. 1 Dlgs 219/2006)26.
La legge sui brevetti cinese ne tutela “procedimenti di preparazione ed usi”27. Nel Titolo II del Dlgs 219/2006 all’art.
2 “Campo di applicazione; prevalenza della disciplina dei
medicinali su altre discipline” si stabilisce che “Il presente
decreto si applica ai medicinali per uso umano, preparati industrialmente o nella cui produzione interviene un processo
industriale, destinati ad essere immessi in commercio sul territorio nazionale, fatto salvo il disposto del comma 3”, ovverosia “I medicinali destinati esclusivamente all’esportazione
e i prodotti intermedi sono soggetti soltanto alle disposizioni
del titolo IV del presente decreto”28. Per la legislazione cinese il titolare ha potere esclusivo nei confronti dei prodotti
coperti da brevetto29. Il Dlgs 219/2006 sembra preoccuparsi
di definire maggiormente obblighi che non doveri, chiarendo
che “Il rilascio dell’autorizzazione non esclude la responsabilità anche penale del produttore e del titolare dell’AIC”30.
Nell’ambito farmaceutico cinese le sostanze naturali posso
essere protette in qualità di brevetto se i loro parametri chimico-fisici risultano ancora estranei, se esse possono essere
definite e se possono essere sfruttate31. In Italia premesso che
“1. Nessun medicinale può essere immesso in commercio
sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione comunitaria a norma del
24 Patent Law of the People’s Republic of China Article 42 The duration
of the invention patent right shall be 20 years and that of the utility model
patent right and of the design patent right shall be ten years respectively,
all commencing from the date of application.
25 Legge sui brevetti, 1 emendamento, 1992
26 Art. 1 Dlgs 219/2006
27 Legge cinese sui brevetti 1992
28 Art. 2 Dlgs 219/2006
29 Legge cinese sui brevetti 1992
30 Art. 39 Dlgs 219/2006
31 Legge cinese sui brevetti 1992
regolamento (CE) n. 726/2004”32 rientrano in campo di brevettazione anche i medicinali omeopatici, il Dlgs 219/2006
al’art. 1 in analisi definisce omeopatico “ogni medicinale
ottenuto a partire da sostanze denominate materiali di partenza per preparazioni omeopatiche o ceppi omeopatici, secondo un processo di produzione omeopatico descritto dalla
farmacopea europea o, in assenza di tale descrizione, dalle
farmacopee utilizzate ufficialmente negli Stati membri della
Comunità europea; un medicinale omeopatico può contenere
più sostanze”33. Anche nella legislazione cinese in materia di
brevettazione si fa chiaramente riferimento a una “descrizione chiara” e si rende necessario il riferimento ad almeno uno
dei relativi usi34. Esempi e dati proposti devono essere convincenti35. Uno dei requisiti basilari è l’osservanza delle leggi, soprattutto se si cade in una materia molto delicata come
quella delle “risorse genetiche” art. 5 della presente legge36.
E così in Italia e in generale nei Paesi dell’UE il rispetto
dell’ordine pubblico, del buon costume e il rispetto della legge sono degli assunti fondamentali che non potevano rimanere estranei alla materia industriale. Un netto distacco è invece
presente in materia di trattazione delle risorse genetiche, non
ci sembra questa la sede giusta per approfondire, ma poniamo qui dei punti su cui è necessario soffermarci per capire a
fondo il significato di questo distacco.
L’art. 5 della direttiva 44/98/CE prevede espressamente
che “il corpo umano, nei vari stadi della sua costituzione e
del suo sviluppo, nonché la mera scoperta di uno dei suoi
elementi, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale
di un gene, non possono costituire invenzioni brevettabili”37.
Articolo assai significativo nella misura in cui predetermina
l’indirizzo europeo, dunque anche dell’Italia, in relazione a
tale argomentazione. Al seguente art. 6 della medesima direttiva si fa riferimento a un elenco non tassativo di ipotesi escluse dalla possibilità di brevettazione per contrarietà
all’ordine pubblico e al buon costume: “i procedimenti di
clonazione di esseri umani; i procedimenti di modificazione
dell’identità genetica germinale dell’essere umano; le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali”38.
La normativa cinese pone in questo senso, un grande problema giurisprudenziale: l’art. 5 della legge in materia (Legge
sui brevetti 1992) stabilisce che non è possibile brevettare
ciò che è “contrario alla legge” il che fa presupporre un rimando ad un’ulteriore normativa, rimando a cui la medesima
non fa esplicito riferimento39. La normativa cinese fa inoltre
riferimento alla necessità di esplicitare la provenienza del
materiale genetico e se esistono cause tali da impossibilitare questo requisito è necessario darne ragione40. In Italia
“Per interpretare i principi e le linee guida delle norme di
32
33
34
35
36
37
38
39
40
TITOLO III Capo I Art. 6. Dlgs 219/2006
Art. 1 Dlgs 219/2006 lett. d)
Legge cinese sui brevetti 1992
Legge cinese sui brevetti 1992
Legge cinese sui brevetti 1992
Art. 5 della direttiva 44/98/CE
Art. 6 della direttiva 44/98/CE
Art. 5 Legge cinese sui brevetti 1992
Art. 26 Legge cinese sui brevetti 1992
59
SCIENZE GIURIDICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
buona fabbricazione, i produttori e le autorità competenti
tengono conto delle linee guida dettagliate di cui all’articolo 47, secondo paragrafo, della direttiva 2001/83/CE, pubblicate dalla Commissione nella “Guida alle buone prassi
di fabbricazione dei medicinali e dei medicinali in fase di
sperimentazione”41. Una sostanza già conosciuta non può essere brevettata neanche qualora se ne proponesse un nuovo
uso42. In Italia il brevetto di indicazione protegge un nuovo
uso di un composto già conosciuto. Per la legge cinese sui
brevetti possibile instaurare un procedimento di revisione
entro tre mesi dalla data della notifica del rigetto43. L’art. 40
del Patent Law of the People’s Republic of China stabilisce
che se non ci sono motivi di rigetto “il dipartimento di amministrazione dei brevetti sotto il Consiglio di Stato deve prendere una decisione sulla concessione del modello di utilità o
design diritto di brevetto, rilasciare un certificato di brevetto
relativo, e intanto provvedere alla registrazione e annunciare
la medesima”44.
Cosa accade se, in caso di rigetto, non si è d’accordo? “Il
dipartimento amministrazione dei brevetti nell’ambito del
Consiglio di Stato istituisce un comitato di revisione del
brevetto. Se un candidato brevetto è insoddisfatto della decisione presa dal Dipartimento di amministrazione dei brevetti
nell’ambito del Consiglio di Stato sul rigetto della domanda, egli può, entro tre mesi dalla data di ricevimento della
notifica, presentare una richiesta...di revisione”45. I brevetti
possono essere sottoposti anche per questa legislazione a
procedure di annullamento: “Se un individuo ritiene che tale
concessione non è conforme alle pertinenti disposizioni della
presente legge può chiedere che il brevetto sia non valido”46.
La decisione viene annunciata e registrata dal dipartimento
di amministrazione dei brevetti nell’ambito del Consiglio
di Stato, restando invariata la possibilità di adire in giudizio
davanti al tribunale del popolo, entro tre mesi dalla data di
ricevimento della notifica47. Ci sembra ora di avere i mezzi
necessari per poter parlare della problematicità legata alla
brevettabilità dei farmaci, fenomeno molto più complesso di
41 Art. 60 Dlgs 219/2006
42 Legge cinese sui brevetti 1992
43 Legge cinese sui brevetti 1992
44 Patent Law of the People’s Republic of China Article 40 If no reason
for rejection is discerned after preliminary examination of a utility model
or design patent application, the patent administration department under
the State Council shall make a decision on granting of the utility model or
design patent right, issue a corresponding patent certificate, and meanwhile register and announce the same. The utility model patent right and the
design patent right shall become effective as of the date of announcement.
45 Patent Law of the People’s Republic of China Article 41
46 Patent Law of the People’s Republic of China Article 45
47 Patent Law of the People’s Republic of China Article 46 The patent
review board shall examine the request for declaring a patent right invalid
and make a decision in a timely manner and notify the requesting person
and the patentee of its decision. The decision on declaring a patent right
invalid shall be registered and announced by the patent administration department under the State Council. A person that is dissatisfied with the
patent review board’s decision on declaring a patent right invalid or its decision on affirming the patent right may take legal action before a people’s
court, within three months from the date of receipt of the notification. The
people’s court shall notify the opposite party in the invalidation procedure
to participate in the litigation as a third party.
60
quanto si possa pensare. In realtà non basta sottolineare la
necessità di un “ricorso alla legge” visto che ci sono delle
ipotesi in cui nella normativa cinese la violazione è esclusa: l’art. 69 sembra essere sprovvisto di una base giuridica
solida nella misura in cui determina la possibilità che prodotti già brevettati e/o procedimenti già brevettati venduti
dal titolare del medesimo diritto o dall’unità o dall’organizzazione/individuo autorizzato (che cioè ne ha acquistato i
diritti dal precedente titolare per sostituirlo nell’ “uso” del
brevetto e dunque nel lucro sui diritti) in assenza di violazione48. Quest’ultimo caso è legato alla questione dei farmaci generici. In Italia abbiamo il sistema di controllo EMEA
(European Medicines Agency): istituita dal regolamento
(CE) n. 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 31 marzo 200449. Essa “istituisce procedure comunitarie
per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso
umano e veterinario, e che istituisce l’agenzia europea per i
medicinali, di seguito denominato”: “regolamento (CE) n.
726/2004”50. In Europa, come abbiamo visto, vengono spesso imposti ai Paesi componenti l’Unione determinati standard di applicazione e diverse limitazioni, che se non presenti nella lex fori vengono immesse nella stessa attraverso
l’utilizzazione della immediata applicazione come quella
derivante da direttive e regolamenti (questo punto di vista
normativo introduce una realtà simile a quella “federale”).
La normativa cinese dimostra di avere molte “vacatio” dal
punto di vista normativo, nella Legge sui brevetti si rimanda
ad altre leggi non bene specificate, il che porta ad “riciclo
normativo” di dubbia attendibilità dal punto di vista sociale (un simile processo può essere giustificato solo dal fatto
che la Cina intenda mantenere vario, eterogeneo e versatile il
concetto “brevetto”).
48 Patent Law of the People’s Republic of China Article 69 The following shall not be deemed to be patent right infringement:
(1) After a patented product or a product directly obtained by using the
patented method is sold by the patentee or sold by any unit or individual
with the permission of the patentee, any other person uses, offers to sell,
sells or imports that product;
(2) Before the date of patent application, any other person has already manufactured identical products, used identical method or has made necessary preparations for the manufacture or use and continues to manufacture
the products or use the method within the original scope;
(3) With respect to any foreign means of transportation that temporarily
passes through the territory, territorial waters, or territorial airspace of China, the relevant patent is used in the devices and installations for its own
needs, in accordance with the agreement concluded between the country
it belong to and China, or in accordance with any international treaty to
which both countries have acceded, or on the principle of mutual benefit;
(4) Any person uses the relevant patent specially for the purpose of scientific research and experimentation; and
(5) Any person produces, uses, or imports patented drugs or patented medical apparatus and instruments, for the purpose of providing information
required for administrative examination and approval, or produces or any
other person imports patented drugs or patented medical apparatus and
instruments especially for that person.
49 Regolamento (CE) n. 726/2004
50 Art. 1 Dlgs 219/2006 lett. ff)
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE MATEMATICHE
Il Titanic: affondare con stile
*
FRANCO BAGNOLI
Dipartimento di Fisica e Astronomia e Centro per lo Studio di Dinamiche Complesse, Università di Firenze, Italia. INFN, Sez. Firenze
N
el film Titanic [1], quando la poppa del
transatlantico è in procinto di affondare
(vedere la Fig. 1), Jack Dawson (Leonardo DiCaprio) dice a Rose DeWitt Bukater
(Kate Winslet) di tenersi pronta a nuotare
con tutte le sue forze, perché la nave, affondando, cercherà
di risucchiarla negli abissi. Ma il fenomeno del “gorgo” che
risucchia naufraghi e scialuppe si verifica realmente o è solo
un mito? E, se esiste, come si spiega secondo le leggi della
fisica?
Il verificarsi della suzione è certo. Nelle sue memorie [3], il comandante
giapponese Tameichi Hara
[4] descrive vividamente
la sua esperienza di gettarsi fuori da un incrociatore
che affonda, e del vortice
risucchiante
risultante.
Tale fenomeno è anche
oggetto di un episodio di
MithBuster [5] che nega
questo effetto, ma l’esperimento è stato fatto con
una barca troppo piccola,
probabilmente.
* Una versione inglese di questo articolo, Sinking with the
Titanic, è apparsa su Europhysics News 46/2, 30 (2015)
DOI: http://dx.doi.org/10.1051/
epn/2015205. Una versione in
spagnolo, El Titanic se hunde
(traduzione di R.M. Herrera), è
apparsa sul giornale online Revista C2 (2015), http://www.revistac2.com/el-titanic-se-hunde
Facendo ricerche su Internet, si possono trovare generalmente tre tipi di spiegazione. La prima attribuisce l’effetto
all’aria contenuta nella barca, che fuoriesce durante l’affondamento abbassando così la densità dell’acqua, che non è
più capace di sostenere persone e scialuppe. La seconda spiegazione è che l’acqua, riempiendo gli spazi vuoti all’interno
della nave, risucchierebbe le persone all’interno. La terza è
collegata al trascinamento viscoso che fa nascere dei vortici
dietro un corpo (la nave che affonda) che si muove all’in-
FIGURA 1: L’affondamento del Titanic dal diario di uno dei sopravvissuti, John B. Thayer III (passeggero di prima classe..) [2].
61
SCIENZE MATEMATICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
le), un cilindro trasparenterno di un fluido. E’ lo
te e di un bicchiere, dal
stesso effetto per cui è
diametro circa la metà
sconsigliato
viaggiare
del cilindro e con un fonsu una decappottabile se
do spesso (per aumentare
si hanno i capelli lunghi:
la stabilità e per spostare
si viene inevitabilmenpiù acqua).
te frustati sul viso (Fig.
Riempire per metà
2), anche se ovviamenil cilindro con acqua e
te questo effetto non si
inserire il bicchiere (il
vede mai nei film (Fig.
nostro Titanic) in modo
3).
che galleggi. Segnare il
È facile visualizzare FIGURA 2: Andare in decappottabile con i capelli lunghi non è piacevole [6], anche se si è
livello dell’acqua con
questo fenomeno (cam- su una Ferrari...
biando il sistema di rifeun pennarello da lavagna bianca e chiedere al
rimento) soffiando verso
pubblico di votare per
una mano che nasconde
tre possibili risposte alla
una candela (la fiamma
domanda (vedi Fig. 4):
si dirige verso la mano),
Cosa succederà al livelo muovendo una mano in
lo dell’acqua dopo che il
una bacinella contenente
Titanic (il bicchiere) sarà
piccoli oggetti gallegaffondato? (a) salirà, (b)
gianti (che seguono la
resterà uguale, o (c) si
mano).
abbasserà?
L’intensità del trasciSorprendentemente,
namento è proporzionale
ho trovato che la magalla velocità dell’oggetto
gior parte delle persone
in movimento, almeno FIGURA 3: Grace Kelly che guida una Sunbeam Alpine [7] in Caccia al ladro di Alfred
Hitchcock (1955) [8].
sceglie la risposta (a), ma
per piccole velocità.
Tuttavia, c’è un effetto più evidente, statico e non dinami- effettuando l’esperimento si vedrà che il “livello del mare”
co, causato semplicemente dalla spinta di Archimede che è, si abbassa dopo l’affondamento (l’effetto è più visibile se il
chissà perché, generalmente trascurato. Possiamo utilizzarlo bicchiere sposta una grande massa d’acqua e se il cilindro è
per effettuare uno spettacolo di fisica casalingo [9], nel qual stretto).
La spiegazione implica un breve richiamo della legge di
caso suggerisco di acquistare il “tappo da bagno” Tubtanic
[10], per l’introduzione iniziale. Abbiamo anche bisogno di Archimede. La spinta di galleggiamento esercitata da un
un “iceberg” (da utilizzare per l’introduzione e la sfida fina- fluido su un corpo immerso è uguale al peso del fluido che
FIGURA 4: l’esperimento
62
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE MATEMATICHE
il corpo sposta. Dato che il bicchiere galleggia, questa forza
è uguale al peso del vetro. Ma poiché la densità del vetro
è maggiore della densità dell’acqua, il bicchiere deve spostare una massa d’acqua più grande del volume del vetro,
un’azione che è ovviamente possibile grazie alla parte cava
(riempita di aria) interna, come succede per le navi. Dopo
l’affondamento, il bicchiere sposta solo il volume del vetro,
e il livello dell’acqua si abbassa. Per una nave che affonda, questo significa che tende a scavare un “buco” nel mare,
che viene immediatamente riempito dall’acqua vicina con
un effetto di trascinamento su tutto ciò che galleggia nelle
vicinanze.
L’entità di questo effetto, come quello di trascinamento
viscoso, dipende dalla velocità di affondamento, quindi è
difficile distinguere tra i due.
Dopo l’esecuzione di questa esperienza, si può rimuovere il bicchiere, mettere l’”iceberg” all’interno del cilindro,
segnare ancora una volta il livello dell’acqua e chiedere di
pronunciarsi su una seconda domanda: che cosa accadrà
al livello dell’acqua dopo lo scioglimento del ghiaccio?1 Si
deve aspettare per un po’ di tempo per la fusione, quindi è
conveniente effettuare questo esperimento all’inizio dello
spettacolo, raccogliere le risposte e ritornare sull’argomento
alla fine, dopo aver presentato altri fenomeni.
E ora una sfida, presa da “Veritasium” (un canale YouTube) [11]. Infiliamo una pallina da golf in un bicchiere e
1 Il livello dell’acqua non cambia dopo lo scioglimento, poiché il ghiaccio sposta una massa d’acqua pari alla sua massa, che riempie perfettamente il “buco”.
aggiungiamo del sale in modo che galleggi appena. Che cosa
accadrà alla palla se versiamo successivamente nel bicchiere
un liquido un po’ più leggero (olio o sapone liquido)? (a)
salirà (rispetto al fondo del bicchiere), (b) rimarrà alla stessa
altezza o (c) affonderà? 2
RIFERIMENTI
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Titanic_(film_1997)
[2] http://www.stevenujifusa.com/2012/04/a-philadelphiateenager-remembers/
[3] Tameichi Hara, Per un milione di morti (Longanesi
1968) (Japanese Destroyer Captain, Ballantine Books, 1961.
ISBN 0-345-27894-1)
[4] http://en.wikipedia.org/wiki/Tameichi_Hara
[5] http://www.discovery.com/tv-shows/mythbusters/videos/sinking-titanic-minimyth.htm
[6] https://fakebernie.files.wordpress.com/2010/08/20100
817-tg-testing-ferrari-hair-dryer.jpg
[7] http://it.wikipedia.org/wiki/Sunbeam_Alpine
[8] http://it.wikipedia.org/wiki/Caccia_al_ladro
[9] https://youtu.be/1T92T6rp6Ys
[10] http://www.amazon.co.uk/Paladone-PP0258-Tubtanic-Bath-Plug/dp/B003Y3Q1GW
[11] https://www.youtube.com/watch?v=C_covjcIcZ4
2 Salirà, poiché, dal punto di vista della palla, il liquido più leggero sostituisce l’aria, ed è sicuramente più denso rispetto a quest’ultima.
63
INGEGNERIA INDUSTRIALE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Ricerca sulla possibilità di sfruttare
le correnti marine per la produzione
di energia elettrica, con il sistema
della turbina a differenza di densità
aria-acqua
ANTONINO MARIA FERRO
I
FUNZIONAMENTO DELLA MACCHINA
l seguente trovato consiste in una macchina semplice che immersa sotto i fondali marini è in grado
di ricavare energia meccanica sfruttando le correnti
sia calde che fredde. Il dispositivo concerne in una
turbina, ancorata all’interno di una camera, che si
divide in due zone: la parte inferiore o dove le correnti marine agiscono sulle pale della turbina e la parte superiore dove
vi è una camera d’aria ad alta pressione, mantenuta costante da un compressore d’aria immerso nel mare. Il principio
di funzionamento sta nel fatto che l’aria tende a salire ma
rimane intrappolata nel vano della turbina senza possibilità di fuga, la differenza di densità aria-acqua permetterebbe
la rotazione della turbina. Insieme, si può trovare immerso,
anche l’alternatore che sviluppando energia elettrica sarebbe riportata in superficie mediante dei collegamenti elettrici
via cavo. In realtà nel fondale marino verrebbero ad essere
effettuati delle modifiche per incanalare meglio le correnti
in modo che, abbiano più forza nelle turbine, mediante delle
prese di forza come viene schematizzato nella figura 1
Quello che fa in realtà ruotare la turbina sono le correnti marine, ma importante è la differenza di densità che
vi è all’interno della camera, quindi dell’aria compressa e
dell’acqua delle correnti marine, il livello dell’acqua si mantiene appena sotto l’asse della turbina. I problemi tecnici per
la realizzazione di una centrale idroelettrica marina di questo
genere non sono indifferenti, bisogna notare che la maggior
parte della struttura oltre a essere realizzata in metallo, deve
essere ricoperta in materiale plastico, onde evitare problemi di corrosione delle strutture (come vedremo alcune parti
saranno necessariamente in plastica). La collocazione di un
impianto di questo genere non è di facile soluzione bisogna
tenere conto di diversi fattori: quelli ambientali, come la
profondità rispetto al livello del mare, più infatti è profonda
la collocazione, maggiore deve essere la pressione dell’aria
stessa. Anche la robustezza dell’impianto varia in base alla
profondità. Tutti gli strumenti a causa della corrosione sottoposta sono in plastica, in particolare le turbine, l’argano, che
serve a muovere le paratoie per raccogliere il flusso delle correnti marine, anche il vano che, contiene la turbina è in plastica. Questo perché la plastica non si corrode come il ferro.
Nella figura 1, vengono schematizzate tutte le parti principali
che, formano una centrale idroelettrica sottomarina.
Elenco degli strumenti presenti in figura 1 e in figura 2
Figura 1
64
-1 Turbina con il proprio vano;
-2 Compressore d’aria;
-3 Compressore d’aria con ventola;
-4 Alternatore immerso;
-5 Abitacolo di controllo pressurizzato;
-6 Entrata dell’abitacolo;
-7 Argano per variare la portata della massa delle correnti
marine;
-8 Paratoia mobile con apertura comandata dall’argano;
-9 Uscita dell’acqua a bassa velocità;
-10 Corrente marine;
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | INGEGNERIA INDUSTRIALE
-11 Acque di scarico;
-13 Condotta forzata;
-S suolo fondale marino;
-L livello massimo per l’entrata dell’acqua dalle correnti
marine alla turbina.
Figura 2
Nella figura 2, viene evidenziato principalmente il funzionamento della turbina, la corrente batte nell’invaso e fa
ruotare le pale della turbina sviluppando energia meccanica,
quest’ultima utilizzata viene trasformata in energia elettrica, mediante un alternatore collegato all’asse della turbina
quest’ultima, può essere di tipo «Francis o Pelton» [1].
La pressione dell’aria, viene mantenuta costante da un
compressore d’aria in modo che, vi sia la possibilità che esista sempre una differenza di densità tra acqua ed aria che permetta la rotazione della turbina. Da tenere conto che, per motivi di sicurezza esistono due compressori separati, uno per
l’abitacolo, uno per la turbina. I compressori devono inoltre
avere la possibilità di essere caricati esternamente, nel caso
la pressione risulti di un valore inferiore a quello programmato. Per fermare la turbina, quindi metterla fuori servizio
è necessario solo sollevarla con dispositivi meccanici, dalla
condotta forzata, oppure chiudere l’invaso.
I vantaggi nello sfruttamento delle correnti marine sono le
seguenti: manutenzione non eccessiva, sfruttando nel tempo
considerevole, costi di realizzazione non eccessivi, facilità
nel trovare i luoghi di produzione, impatto ambientale sotto
controllo, in quanto dipende dalle dimensioni della struttura,
nessun tipo di inquinamento, nessun danno alla flora o alla
fauna.
«Per ottenere i valori della potenza si esprime innanzi tutto
il valore della forza F, che è equivalente al prodotto della
massa M (dell’acqua della corrente marina), per l’accelerazione F=M*a» [2]
«La potenza P della forza F, che si sposta nella propria direzione, con velocità V (m/sec) è P=F*V si misura in Watt»
[3].
Normalmente si usa misurare la potenza delle centrali elettriche con i multipli KW o MW.
L’abitacolo sottomarino deve necessariamente essere in
cemento armato e rivestito in metallo o plastica, nel caso si
permetta il controllo a dei sub, l’entrata deve essere nella
parte inferiore, c’è da dire che, l’aria all’interno della struttura deve essere ventilata e mantenuta a un livello di pressione
tale da non allagare l’abitacolo stesso, nel caso le profondità
non permettano il lavoro dei sub, l’entrata deve essere nella
parte superiore e tale da permettere l’aggancio di uno scafo.
Comunque i sistemi di sicurezza cambiano rispetto al tipo
di centrale. L’abitacolo ha quindi la funzione di alloggiare
l’alternatore elettrico e le apparecchiature di funzionamento
automatico dell’impianto. «Quindi ha la funzione di una stazione elettrica»[4]
Consideriamo il sistema mostrato nella foto 1 usato per
l’esperimento.
E’ composto da una turbina inserita in un condotto trasparente in plastica.
Il tubicino viene collegato ad una sorgente d’acqua abbastanza forte da garantire una corrente a moto massimo. Il
fluido dentro il tubo esce ad una certa velocità, (simulando
una corrente marina).
«Il movimento che si crea è del tipo a corrente laminare»[5].
Mentre l’esperimento procede, si riempe il contenitore
d’acqua, che in mare ciò non avviene in quanto la corrente
continua ad avere un movimento nei fondali, che nel caso di
centrali idroelettriche marine non viene fermato ma continua
il suo moto.
Pur simulando una corrente marina, il fluido può diventare
una « corrente turbolenta»[6]
Questa potrebbe variare le caratteristiche all’interno
dell’abitacolo della turbina.
Nella foto 2, è ben visibile il livello dell’acqua vicino
all’asse della turbina quest’ultima immersa sott’acqua. Nella
foto 4, è ben visibile il vano turbina con il tubicino che simula la corrente marina.
Uno studio per la realizzazione di un impianto marino potrebbe essere quello di realizzare « un effusore convergentedivergente» [7]
Foto 1
Foto 2
65
INGEGNERIA INDUSTRIALE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
Figura 3
Nella figura 3 è visibile l’effusore dove viene spiegato il
comportamento dello stesso, applicato al sistema idroelettrico marino.
La massa di fluido entrante con pressione P0, nel tempo
T0, comporta in c, un aumento di velocità, quindi una maggiore quantità di energia fluida che agisce sulla turbina. Superato il punto c, (turbina) l’acqua rallenta la sua velocità
in e, trova spazio per continuare il suo moto, con velocità
minima. L’acqua uscente rientra nuovamente nel percorso
della corrente marina. Per la progettazione di un effusore per
sfruttare l’energia delle correnti marine si deve la sezione
della strozzatura, e la massa del flusso.
Bisogna comunque sapere quanta energia vogliamo ottenere in base a quanta massa (corrente fluida) abbiamo a
disposizione. Bisogna quindi conoscere la velocità della
corrente marina. In realtà la velocità V del fluido è sempre
maggiore di 0, V>0, e non può verificarsi il contrario V<0
in quanto lo studio della corrente marina propone un verso sempre identico, a qualsiasi periodo dell’anno. Se non si
raggiunge una determinata velocità, che si ottiene mediante
lo schema di effusore, la turbina non si muove, questo valore dipende dal progetto ingegneristico di convergenza e
divergenza della massa fluida. La descrizione del moto della
velocità del fluido comporta una compressione nella sezione
strozzatura dell’effusore.
Nelle considerazioni fatte finora si è sotto inteso che la
velocità fosse costante, ma nel caso la velocità variasse, è
necessario avere un aumento o una diminuzione della massa
fluida, che si ottiene soltanto mediante delle paratoie. Questo
sistema deve essere automatizzato occorrono, quindi, attenti
studi ingegneristici. Ritornando all’effusore quando il fluido oltrepassa la turbina, le sue proprietà cambiano: V1>V2,
M1=M2, P1>P2.
Dove V è la velocità del fluido, M è la massa del fluido, P
è la pressione del fluido.
Con V1, M1, P1, indichiamo la velocità, la massa, e la
pressione all’ingresso dell’effusore.
Con V2, M2, P2, indichiamo la velocità, la massa, e la
pressione all’uscita dell’effusore.
Un’altra importante osservazione, è che il vettore velocità
V della direzione del fluido (corrente marina) si mantenga
unidirezionale.
Nell’esempio la corrente viene creata dalla velocità
dell’acqua che esce da un rubinetto, in questo caso quindi
non vengono calcolate perdite di carico, che invece sono
presenti in realtà in un impianto idroelettrico sottomarino,
dovute alle paratoie.
Vi sono quindi due problemi da risolvere, per ciascun im66
pianto.
« - 1 data la portata in massa nella paratoia quale è la perdita di carico?
-2 data la caduta di pressione qual è la portata?» [8].
Queste grandezze dipendono dalla manutenzione dell’impianto ogni quanti anni vengono pulite le paratoie quindi la
rugosità dei piani.
Si può presumere che ogni 10 anni si debba smontare l’impianto in particolare la zona delle paratoie e della turbina, per
una efficiente pulizia delle apparecchiature.
«Si possono utilizzare altri tipi di effusori» [9]
«Per calcolare gli attriti delle correnti marine»[10]
Nella realizzazione della struttura è necessario per i sistemi automatici la conoscenza della portata dell’acqua un sistema è quello del «venturimetro» [11]
Per l’inviluppo dell’acqua è necessario inoltre una protezione da oggetti che possono danneggiare l’impianto in particolare la turbina, quindi si realizza una grata in metallo o
altro, per evitare danni all’impianto.
Simbologia
F-forza.
M-massa dell’acqua.
a-accelerazione dell’acqua.
P-potenza.
V-velocità dell’acqua.
P0-pressione del fluido.
T0-tempo necessario al passaggio della massa dell’acqua.
c- punto della turbina.
V-velocità della corrente marina.
V1-velocità dell’acqua all’ingresso.
V2-velocità dell’acqua all’uscita.
M1-massa dell’acqua all’ingresso.
M2-massa dell’acqua all’uscita.
P1-pressione dell’acqua all’ingresso.
P2-pressione dell’acqua all’uscita.
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio per la collaborazione il Sig. Volpetti Giovanni
Battista.
Ringrazio anche la G.F. Plast di Udine per la collaborazione alla realizzazione del prototipo.
BIBBLIOGRAFIA
[1] Bossi A. Sesto E. 1968 Impianti Elettrici (Turbine ad
azione e reazione) Delfino Ed pag 317-321.
[2] Stefano L.Straneo 1978 Manuale di Elettrotecnica
(Principio fondamentale della dinamica), seconda edizione
rifatta, Roma, E.S.A.C Ed Scientifiche, A. Cremonese pag
140.
[3] Stefano L. Straneo 1978 Manuale di Elettrotecnica (Potenza), seconda edizione rifatta, Roma, E.S.A.C Ed Scientifiche, A. Cremonese pag 141.
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | INGEGNERIA INDUSTRIALE
[4] Bossi A. Sesto E. 1968 Impianti Elettrici (stazione elettrica), settima edizione, Milano, Delfino Ed pag 558-561.
[5] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi.
(Esperimento di Reynolds), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 317
[6] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi.
(Esperimento di Reynolds), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 317
[7] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (Effusore), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag
368
[8] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (corrente nei tubi), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A
pag 330
[9] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (cor-
rente comprimibile), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed
S.p.A pag 390
[10] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi.
(corrente comprimibile), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 390
[11] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi.
(Misure di portata), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed
S.p.A pag 343
Il prototipo del simulatore, visibile nelle foto riportate nel
testo, si trova presso Scuole Paritarie Gaspare Bertoni di
Udine.
Info: www.ferroantoninomaria.com
67
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
La vendita delle armi: crimine contro
l’umanità?
ROBERTO FIESCHI
Professore Emerito di Fisica, Università degli Studi di Parma
H
o letto recentemente che nel 2014 dodici
Paesi dell’UE, tra cui l’Italia, hanno venduto armi per quasi 7 miliardi di dollari
all’Egitto. Non è una notizia che scuote l’opinione pubblica. Più in generale,
il SIPRI, l’istituto internazionale impegnato in ricerche su
conflitti, armamenti e disarmo, stima che la spesa militare
mondiale del 2013 sia stata di 1.750 miliardi di dollari, equivalenti al 2,4% del prodotto interno lordo mondiale o a 250
dollari per ogni persona al mondo oggi.
I principali esportatori di armi, in percentuale sull’export,
sono (anni 2009-2013):
68
Esportatore
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
USA
Russia
Germania
Cina
Francia
UK
Spagna
Ucraina
Italia
Israele
Percentuale sull’export globale
29
27
7
6
5
4
3
3
3
2
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
nel creare la domanda per la
Fra i maggiori importatori
sua mercanzia, ogni tipo di
ai primi cinque posti troviaarmamenti; lo faceva venmo India, Arabia Saudita,
dendo indifferentemente alla
Cina, Emirati Arabi Uniti
parti in contrasto o addirittue Pakistan che insieme cora fomentando le guerre.
prono il 33% del mercato
Non era l’unico a impieglobale. Bisogna anche tegare metodi del genere per
nere conto del mercato nero
vendere armi e arricchirsi,
che sfugge alle statistiche
solo uno dei più abili (https://
ma è florido; tre conflitti in
mises.org/library/merchantparticolare – nell’ex Jugodeath-basil-zaharoff).
slavia, in Afghanistan e in
La giustificazione tipica
Iraq, e la dissoluzione della
dei mercanti di morte è semLibia – hanno contribuito
pre stata la difesa del Paese.
alla diffusione fuori controlMa i produttori e i mercanti
lo delle armi, e i flussi hanno
di morte spesso forniscono
raggiunto gruppi terroristici,
armi sia al proprio paese,
milizie, mafie.
Qualche altro dato: sono Zacharias Basil Zaharoff (Muğla, Impero Ottomano, 1849 - Monte sia a paesi potenzialmente
avversari. Dei 25000 cannostate disseminate in molti Carlo, 1936)
ni prodotti dai Krupp prima
Paesi circa 100 milioni di
del 1890 solo 10000 furono
mine anti-uomo e ogni anno
ne vengono introdotte almeno altre 500000; ogni anno dalle destinati alle forze armate germaniche; il resto a Paesi che,
esplosioni vengono mutilate o uccise circa 15000 persone, come l’Austria e la Cina, in seguito li impiegarono contro la
Germania stessa; nella guerra boera (Sudafrica, 1898-1902)
spesso bambini.
Il 2013 ha visto alcuni progressi negli sforzi mondiali per i soldati inglesi furono massacrati dalle mitragliatrici Maxim
il rafforzamento dei controlli sul commercio di armamenti che Zaharoff, per conto della britannica Vickers, aveva forconvenzionali; a luglio l’Assemblea Generale dell’ONU ha nito ai Boeri; la Turchia, nella guerra contro l’Italia (1911),
raggiunto un accordo sul testo del Trattato sul commercio di impiegò una flotta largamente fornita dall’Italia stessa.
Non dobbiamo quindi stupirci se oggi in Siria i mercanti di
armi (Arms Trade Treaty, ATT), dopo sei anni di negoziamorte armano più o meno direttamente tutte le parti in lotta,
ti! I risultati tuttavia non sono molto incoraggianti.
Molte sono le cause delle guerre che insanguinano il mon- fino ai gruppi terroristici dell’Isis, contribuendo ai massacri
do, ma è certo che i produttori e i commercianti di armi in di militari e civili.
Lucidamente il Papa ha detto: “Questa guerra in Siria è
molti casi contribuiscono ad alimentare conflitti interni e
guerre tra gli Stati. Sicuramente è loro interesse che il mer- davvero una guerra per risolvere problemi o è una guerra
cato si espanda e che vi siano soggetti disposti a impiegare commerciale per vendere queste armi, cioè per incrementarne il commercio illegale? Diciamo No al commercio e alla
somme ingenti per l’acquisto di ordigni di morte.
proliferazione delle armi.”
Questo è avvenuto anche in tempi lontani.
Di fronte alla diffusione e all’imponenza del fenomeno, si
Nel 1733 il finanziere Amschel Mayer Bauer Rothschild
(capostipite dell’impero Rothschild) dichiarò: “La nostra resta sconcertati. Una delle difficoltà ad affrontarlo sta nella
politica è quella di fomentare le guerre, ma dirigendo con- scarsa consapevolezza nella popolazione e negli stessi attori,
ferenze di pace, in modo che nessuna delle parti in conflitto a tutti i livelli. Una organizzazione burocratica quasi perfetpossa ottenere guadagni territoriali. Le guerre devono esse- ta fa sì che quasi nessuno degli attori si renda conto delle
re dirette in modo tale che le Nazioni, coinvolte in entrambi sue indirette, maggiori o minori, responsabilità di fronte a
gli schieramenti, sprofondino sempre più nel loro debito e, un fenomeno che contribuisce a provocare distruzioni e lutti
immensi. L’operaio che tiene in ordine gli impianti non può
quindi, sempre più sotto il nostro potere”.
Molti anni fa ho letto una biografia di Basil Zaharoff, gre- sentirsi responsabile, e così pure il tecnico specializzato o il
co, mercante di armi, uno degli uomini più ricchi del suo capo reparto: esaudiscono il compito al quale sono assegnati
e portano onestamente a casa il salario; il progettista di nuovi
tempo e uno dei massimi mercanti di morte.
Alla fine dell’Ottocento Zaharoff riuscì a vendere alla Gre- sistemi di arma è orgoglioso dei miglioramenti che sviluppa;
cia uno dei primi sottomarini, Nordenfelt I, a propulsione a il responsabile dell’azienda e quello delle vendite devono far
vapore, destinato a non funzionare. Quindi convinse i turchi quadrare i bilanci, pena il fallimento dell’azienda stessa; il
che ciò poneva una minaccia, e ne vendette loro due, uno ministro degli esteri deve tener conto degli interessi del Padei quali ben presto affondò; infine persuase la Russia ad ese nei rapporti con gli altri stati; il ministro del commercio
acquistarne due, per contrastare la minaccia turca nel Mar deve incrementare le esportazioni; il ministro della difesa sa
Nero. Anche nei decenni seguenti Zaharoff fu un maestro che se le fabbriche d’armi del Paese producessero solo per
69
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
ad un’indole maligna, quanla difesa, non sarebbero in
to appunto a inconsapevogrado di autosostenersi. Un
lezza; non all’odio, ma alla
esempio recente: il sindaco
incapacità di critica.
di Cadice in campagna eletLa società tedesca degli
torale criticava l’industria
anni 1933 -1945 non condegli armamenti; dopo la sua
teneva elementi in grado
elezione benedice il contratto
di impedire il verificarsi
dei cantieri navali Navantia
dell’Olocausto, una grande
per la costruzione di cinque
impresa, un genocidio fredfregate destinate all’Arabia
do, accurato e sistematico
Saudita; i posti di lavoro
pianificato
razionalmente
innanzi tutto, si giustifica il
(*) e gestito efficientemente
sindaco.
tramite una burocrazia obbeOgni attore è una
diente all’autorità (Z. Baurotellina di un ingranaggio
man: Modernità e Olocauperfetto, che lo esonera Hannah Arendt (Hannover, 1906 – New York, 1975)
sto). Analogamente nessuna
dalla visione dell’insieme; è
delle società attuali ha in sé
semplicemente una persona
completamente calata nella realtà che ha davanti: lavorare, gli strumenti per uscire da una situazione – la produzione
eseguire il proprio compito, cercare una promozione, e il commercio della armi - che è indirettamente causa di
riordinare numeri nelle statistiche, eccetera. Nella catena di lutti immensi; troppo forte è la cooperazione di vasti settori
passi che portano alla produzione e al commercio delle armi del Complesso militare industriale (D. Eisenhower, 1961)
sono assenti le emozioni umane, incluso l’odio. La divisione e della politica, troppo alta l’efficienza della tecnica e della
del lavoro crea una distanza tra chi contribuisce al risultato burocrazia, troppo ampia l’acquiescenza dell’opinione pubblica. Né ci si può aspettare una riflessione autocritica degli
finale e il risultato stesso.
Così la violenza è stata sottratta alla nostra vista, ma non attori ai vari livelli: è psicologicamente facile ignorare la
propria responsabilità quando si è semplicemente un anello
eliminata.
Con questa schematizzazione non si vuole negare che con- intermedio nella catena di un’azione immorale e si è lontani
sapevolezza e responsabilità siano del tutto assenti; in qual- dagli esiti finali dell’azione stessa.
che misura esistono, salendo dai livelli esecutivi più semplici
L’azione di denuncia appassionata – pur importante - di
verso i livelli dirigenziali. In ogni caso non si può accettare persone e di gruppi concerned non è sufficiente a incidere sui
che inconsapevolezza equivalga ad assenza della responsabi- meccanismi perfettamente legali che la sostengono.
lità individuale.
“La banalità del male”: in un altro ben noto contesto,
così Hannah Arendt definì l’inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. Dal dibattimento in aula al processo, infatti, la Arendt ricavò l’idea che il male perpetrato (*) Il 20 gennaio 1942 si tenne a Berlino la cosiddetta Conferenza di
Wannsee; presieduta da Heydrich, generale delle SS. in essa si esaminaroda Adolf Eichmann - come dalla maggior parte dei tedeschi no a fondo i dettagli burocratico-amministrativi del progetto di “soluzione
che si resero corresponsabili della Shoah - fosse dovuto non finale della questione ebraica” (Endlösung der Judenfrage)
70
N. 37 - 15 SETTEMBRE 2016
RICERCHE
Le ricerche e gli
articoli scientifici sono
sottoposti prima della
pubblicazione alle
procedure di peer review
adottate dalla rivista,
che prevedono il giudizio
in forma anonima di
almeno due “blind
referees”.
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SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE
Bianco, bruno e beige: diverse
sfumature di grasso
MONICA COLITTI, TOMMASO MONTANARI
Dipartimento di Scienze Agroalimentari, Ambientali e Animali, Università degli Studi di Udine
Quando la dieta offre più calorie del necessario, esse vengono immagazzinate nel tessuto adiposo. Il vantaggio evolutivo del tessuto adiposo è stato quello di soddisfare la necessità di sopravvivere senza mangiare continuamente, ma
oggi che la quantità di cibo disponibile è molto più elevata
rispetto al passato, vi è una diffusione epidemica dell’obesità. Secondo recenti dati della World Health Organization, la
percentuale di persone adulte sovrappeso in Europa si attesta
tra il 32-79% negli uomini e il 28-78% nelle donne e quella
delle persone obese tra il 5-23% degli uomini e il 7-36% delle donne (WHO, 2014). Negli adulti, il sovrappeso è definito
quando l’indice di massa corporea (BMI) è ≥ 25kg/m2, l’obesità quando il BMI è ≥ 30kg/m2. L’aumento della percentuale
di peso nei bambini è un dato allarmante in quanto oltre il
60% dei ragazzi è sovrappeso prima della pubertà. Prevenire l’obesità ed i fattori di rischio ad essa correlati quali la
sindrome metabolica, le malattie cardiovascolari, il diabete
di tipo 2 e alcune forme di cancro, è diventato un intervento
urgente che deve essere attuato attraverso approcci diversi
e innovativi. Ovviamente la terapia più comune coinvolge
la diminuzione dell’assunzione di cibo e/o l’aumento del
consumo di energia, ma da recenti ricerche una delle terapie
possibili potrebbe partire proprio dal tessuto adiposo stesso.
Ciò riveste importanza anche nel trattamento di pazienti geneticamente predisposti a sviluppare obesità e le conseguenti
malattie metaboliche e cardiovascolari. Pertanto, riconsiderando il tessuto adiposo non solo come organo di riserva per
lo stoccaggio di substrati altamente energetici, questo lavoro
vuole riepilogare le diverse funzioni delle cellule adipose
coinvolte in un’ampia gamma di pathways cellulari e porre
in luce le nuove e possibili indicazioni nella lotta all’obesità.
IL TESSUTO ADIPOSO
Il tessuto adiposo è un tessuto connettivo ed è pertanto
costituito da due componenti principali distinte: le cellule e
la matrice extracellulare. Nel tessuto adiposo la prima com-
ponente prevale sulla seconda.
Le cellule adipose sono presenti in tutte le sedi in cui vi sia
tessuto connettivo lasso; in determinate regioni gli accumuli
di cellule adipose raggiungono un volume tale da sostituire
il tessuto lasso, come ad es. nel connettivo sottocutaneo. Un
importante accumulo di grasso si trova intorno ai reni, ai visceri e al cuore: l’insieme di questi accumuli va a costituire
il cosiddetto grasso viscerale. Accumuli più o meno consistenti di tessuto adiposo si formano anche tra i muscoli e nei
sepimenti di connettivo che ne separano i vari fasci, questo
grasso è detto interfascicolare. Il tessuto adiposo sottocutaneo interessa l’intera superficie corporea e soprattutto gli
strati profondi della pelle. Il grasso è localizzato per il 50%
nel pannicolo sottocutaneo, dove svolge una funzione sia
coibente che meccanica; per il 45% nella cavità addominale,
dove forma il tessuto adiposo viscerale; infine per il 5% nel
tessuto muscolare, dove svolge un’azione di aiuto al lavoro
muscolare. Gran parte dei depositi viscerali è costituita da
grasso mesenterico e omentale; depositi minori, con significato assimilabile al grasso viscerale dell’addome, si trovano in regione epicardica e nel mediastino. Il tessuto adiposo
bianco non è molto vascolarizzato e reagisce prontamente
ai periodi di minore o maggiore disponibilità alimentare. Si
presenta in forma di masserelle e lobi separati da connettivo da cui origina una fittissima rete di fibrille reticolari che
circoscrive ogni cellula adiposa e circonda pure i capillari.
Gli adipociti, cellule completamente differenziate, a loro
volta sono distinti in due citotipi fondamentali, ovvero gli
adipociti bianchi e bruni, molto diversi tra loro per formazione e funzioni. I due tipi cellulari si organizzano rispettivamente nel tessuto adiposo bianco (WAT, white adipose
tissue) e in quello bruno (BAT, brown adipose tissue) (Tabella 1).
Al microscopio ottico le cellule del WAT appaiono come
elementi rappresentati per oltre il 90% del loro volume da
un’unica goccia lipidica non circondata da membrana (da cui
il termine di tessuto adiposo univacuolare), che occupa qua73
SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
si interamente il citoplasma. Sono cellule molto grandi, dal
diametro di circa 50-100µm e circondate dalla membrana
basale, il cui citoplasma è ridotto a una sottile rima appena
visibile (Fig.1A). Il nucleo è schiacciato alla periferia dalla
goccia lipidica e solo in questa zona perinucleare il citoplasma risulta un poco più abbondante e visibile. Nel citoplasma sono presenti tutti gli organuli quali mitocondri, apparato del Golgi e reticolo endoplasmatico. La forma sferica rappresenta il miglior modo di accumulare volume nel minimo
spazio e consente anche di esportare una notevole massa di
molecole energetiche senza scomporre troppo l’anatomia del
tessuto: in una sfera, infatti, una minima riduzione di diametro corrisponde a una considerevole riduzione del volume.
Il BAT, nella specie umana, è presente durante la vita
fetale e nel neonato, ma è stato recentemente dimostrato
attraverso la tomografia a emissione di positroni con fluorodesossiglucosio (FDG PET) combinata con la tomografia
computerizzata a raggi X (TC), che nell’uomo adulto esistono aree metabolicamente attive di adipociti bruni positive
alla termogenina (uncopling protein 1 o UCP1) (Virtanen et
al., 2009; Gifford et al., 2015) localizzate nelle aree sottocutanee dei muscoli anteriori del collo, nella parete addominale anteriore e nell’inguine; in aree perivascolari a livello
di arteria carotide comune, aorta, arteria brachiocefalica e
arteria coronaria epicardica; a livello del pericardio e nelle
zone connettivali che circondano reni, ghiandole surrenali,
pancreas e fegato (Jeremic et al., 2016).
È invece ben sviluppato in alcuni roditori e negli animali
ibernanti.
L’organizzazione del BAT è globulare, le cellule sono
grandi circa un terzo dell’adipocita bianco (40µm) e presentano nucleo sferico centrale, il citoplasma contiene numerosissime gocce lipidiche ricche di trigliceridi, fosfolipidi,
glicolipidi, colesterolo (da cui il nome alternativo di grasso multivacuolare) (Fig.1B). Le caratteristiche principali di
questo tessuto adiposo sono la colorazione rosso-brunastra
(da cui il nome di grasso ‘bruno’), la ricchissima vascolarizzazione e la presenza nelle cellule di molti mitocondri
con abbondanti creste (Cannon e Nedergaard, 2004; Cinti,
2005). Questa particolare morfologia mitocondriale è dovuta
alla necessità di avere la massima estensione possibile della membrana mitocondriale interna dove è inserita l’UCP1,
la proteina funzionale di queste cellule (Cinti et al., 2001;
Klaus et al., 1991). Questa proteina è espressa unicamente in
queste cellule ed è responsabile del meccanismo molecolare di produzione di calore da parte dell’adipocita bruno. La
proteina è detta ‘disaccoppiante’ in quanto nei mitocondri
del BAT la respirazione cellulare è disaccoppiata dalla sintesi dell’adenosina trifosfato (ATP, adenosine triphosphate), pertanto l’ossidazione degli acidi grassi, anziché ATP,
produce calore utile per aumentare, ad es., la temperatura
corporea degli animali ibernanti al momento del risveglio.
L’UCP1 causa la diffusione di protoni attraverso la membrana mitocondriale interna portando a una perdita del gradiente elettrochimico che il mitocondrio normalmente usa per
produrre ATP (Klingenberg, 1999).
Nonostante gli adipociti bruni da soli costituiscano la
maggior parte del volume del tessuto, altri tipi cellulari sono
inclusi in esso: cellule endoteliali dei capillari, cellule interstiziali e pre-adipociti che, in condizioni di un’aumentata richiesta di termogenesi, si dividono e si differenziano per formare nuovi adipociti bruni (Prunet-Marcassus et al., 2006).
È ampiamente riconosciuto che il BAT gioca un ruolo fisiologicamente dominante nella termogenesi non da brivido, ad es. quando la temperatura corporea sale da un livello
estremamente basso durante il risveglio dal letargo (Kitao e
Hashimoto, 2012). La termogenesi del BAT è fisiologicamente stimolata dalla noradrenalina (o norepinefrina) rilasciata dalle fibre nervose del sistema simpatico che lo innervano. La trasduzione del segnale della termogenesi avviene
principalmente attraverso i recettori β3-adrenergici presenti
sulla membrana degli adipociti bruni ed è accoppiata all’attivazione dell’adenilato ciclasi (AC, adenylyl cyclase) che
porta ad un aumento dei livelli di adenosina monofosfato
ciclico (cAMP, cyclic adenosine monophosphate) citosolico
(Zhao et al., 1998). L’aumento del cAMP induce l’idrolisi
Tabella 1. Principali differenze morfologiche, funzionali e di espressione genica tra grasso bianco e bruno.
Caratteristiche
Morfologia
Funzioni
Geni coinvolti nel metabolismo
Adipociti bianchi
Adipociti bruni
Univacuolare
Multivacuolare (numerose piccole gocce lipidiche)
Cellule grandi (fino a 200µm)
40-60µm
Scarsi mitocondri, poche creste allungate
Numerosi mitocondri con tante creste
Deposito di energia sotto forma di trigliceridi e
mobilizzazione degli acidi grassi
Ossidazione e termogenesi
Secrezione di adipochine (***)a
Secrezione di adipochine (*)
UCP1 (-)b
UCP1 (+++)
UCP2 (++)
UCP2 (+)
UCP3 (+/-)
UCP3 (+)
Subunità c della F0-ATPasi (+)
Subunità c della F0-ATPasi (+/-)
Geni della catena respiratoria (+)
Geni della catena respiratoria (+++)
Enzimi dell’ossidazione degli acidi grassi (+)
Enzimi dell’ossidazione degli acidi grassi (+++)
Glicerolo chinasi (+/-)
Glicerolo chinasi (+++)
*** secrezione alta; * secrezione bassa
b
no (-), espressione molto bassa o incerta (+/-), moderata (++), alta (+++)
a
74
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE
Fig. 1. Struttura del grasso bianco (A, WAT) e bruno (B, BAT). Colorazione ematossilina-eosina. Microscopio ottico, 25x.
delle riserve di trigliceridi attraverso l’attivazione della protein chinasi A (PKA, protein kinase A). Attraverso questo
processo, gli acidi grassi vengono liberati e fungono da substrato per l’ossidazione mitocondriale e allo stesso tempo
attivano le UCP1 (Cannon e Nedergaard, 2004).
Seale et al. (2008) hanno descritto l’esistenza di due popolazioni di tessuto adiposo bruno: quello “classico” (per es.
interscapolare) e quello “reclutabile” sparso tra i depositi di
tessuto adiposo bianco. Petrovic e collaboratori (2010) hanno denominato questo terzo tipo cellulare adipociti “brite”
(“brown-in-white”) o adipociti beige, le cui caratteristiche,
proprietà e funzioni sono intermedie fra i due tipi precedentemente descritti. Per comprendere l’origine degli adipociti
beige è utile ricordare quella dei bianchi e dei bruni.
DIFFERENZIAMENTO DEL TESSUTO ADIPOSO
BIANCO, BRUNO E BEIGE
Il tessuto adiposo deriva dal mesoderma embrionale e
condivide con il midollo osseo la presenza di una popolazione di cellule eterogenea che comprende cellule staminali
mesenchimali (MSC, mesenchymal stem cells) da cui si sviluppano gli adipociti, ma anche cellule cartilaginee, osso e
tessuto muscolare (Pittenger et al., 1999). Una volta che le
MSCs sono indirizzate verso la linea adipocitaria, attraverso
un processo chiamato “determinazione”, esse portano alla
formazione di pre-adipociti dall’aspetto simile ai fibroblasti,
che hanno la capacità di differenziarsi in adipociti maturi.
In molte specie animali la formazione del WAT comincia
nel mesoderma durante la fase media e terminale della vita
intrauterina, come morfologicamente evidenziato negli embrioni di uomo, maiale, topo e ratto (Poissonnet et al, 1983;
Valet et al., 2002). Dopo la nascita, l’espansione del tessuto
adiposo è estremamente rapida e ha come risultato non solo
una crescita delle dimensioni cellulari, ma anche del numero
delle cellule adipose.
Una volta indotto lo stimolo differenziativo, le cellule sono
sottoposte a profondi cambiamenti a livello sia trascrizionale
che morfologico (Avram et al., 2007).
La crescita e il differenziamento delle cellule di grasso è
controllata dalla comunicazione tra le singole cellule e tra
le cellule e l’ambiente extracellulare attraverso una serie di
stadi. Due sono i principali eventi coinvolti: il reclutamento
e la proliferazione dei pre-adipociti, seguito dalla fase di differenziamento che li converte in cellule mature dalla forma
sferica e in grado di accumulare lipidi. L’adipogenesi avviene nel corso di tutta la vita in risposta sia al normale rinnovamento cellulare che al bisogno di aumentare le riserve
di grasso che accade anche quando si eccede al fabbisogno
nutrizionale (Gregoire et al., 1998). Si possono distinguere
due fasi di crescita del tessuto adiposo: una prima fase caratterizzata da una marcata iperplasia che aumenta il numero
delle cellule e una fase adulta in cui il numero di adipociti è
apparentemente stabile e compare invece una crescita ipertrofica. L’iperplasia è causata dalla differenziamento dei precursori ad adipociti maturi ed è un processo irreversibile, a
differenza dell’ipertrofia. Interessante notare che anche nello
stadio adulto persiste il potenziale di generare nuove cellule
(Johnson e Francendese, 1985; Avram et al., 2007). Alcuni
Autori hanno invece proposto una diversa teoria secondo la
quale il tessuto adiposo cresce inizialmente grazie alla combinazione di iperplasia e ipertrofia, poi mentre il numero di
cellule raggiunge rapidamente un plateau, l’ipertrofia cellulare continua fino al raggiungimento di un “maximum” di
dimensione cellulare (Johnson e Francendese, 1985; Otto
e Lane, 2005). Quando il “maximum” viene raggiunto, in
accordo con l’ipotesi “della dimensione critica della cellula adiposa” (“critical fat cell size hypothesis”), gli adipociti
producono e rilasciano una serie di fattori paracrini che controllano la proliferazione dei pre-adipociti e che quindi sono
coinvolti nello sviluppo dell’obesità (Hausman et al., 2001).
Questa attivazione è indotta principalmente dal fattore di crescita insulino-simile (IGF, insulin-like growth factor) liberato dagli adipociti ipertrofici e dall’insulina libera, incapace
di legarsi allo specifico recettore sull’adipocita. Si ha quindi
un’iniziale differenziamento delle cellule staminali verso la
formazione di adipoblasti e pre-adipociti ed una successiva
attivazione della mitosi delle cellule staminali per ristabilire
il numero basale di queste a livello dello stroma (Gregoire et
al., 1998). I pre-adipociti reclutati mantengono la loro capacità di crescere, ma devono uscire dal ciclo cellulare prima
di essere convertiti in adipociti. L’arresto della crescita è il
requisito necessario al differenziamento.
Durante il differenziamento, l’acquisizione del “fenotipo
75
SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
adipociti” è caratterizzato da cambiamenti nell’espressione
di numerosi geni.
CONTROLLO TRASCRIZIONALE DELL’ADIPOGENESI
I diversi passaggi coinvolti nella transizione da pre-adipociti ad adipociti sono principalmente regolati dall’attivazione di una cascata trascrizionale che coinvolge il recettore
nucleare PPARγ (peroxisome proliferator-activated receptor
γ) e alcuni membri della famiglia delle C/EBPs (CAAT/enhancer binding proteins) (Gregoire et al., 1998; Rangwala e
Lazar, 2000; Rosen e Spiegelman, 2000).
Il PPARγ svolge un importante ruolo fondamentale nell’adipogenesi: è necessario per il differenziamento cellulare
e mantiene lo stato differenziativo: infatti la sua eventuale
soppressione determina la perdita della capacità di accumulo lipidico e il decremento di marcatori adipogenetici (Elberg et al., 2000). Esistono due forme di PPARγ (PPARγ1
e PPARγ2), originate da uno splicing alternativo. Entrambe
risultano essere espresse a livello del tessuto adiposo, ma
solo la forma 2 costituisce un marcatore specifico di questo
tessuto. Oltre alle capacità differenziative, PPARγ riveste un
ruolo nel conferimento dell’insulino-sensibilità cellulare.
La famiglia dei C/EBP comprende 5 membri: C/EBPα, C/
EBPβ, C/EBPδ, C/EBPγ e CHOP. Essi vengono espressi in
tempi diversi durante il differenziamento: i più precoci risultano essere la forma β e d che, in concerto, promuovono
l’espressione di C/EBPα e PPARγ. C/EBPα è richiesto per
l’attuazione di una normale adipogenesi: topi con delezione
di questo gene mostrano l’assenza di tessuto adiposo sottocutaneo, perirenale, ed epididimale, ma un normale sviluppo
del tessuto adiposo a livello mammario, con ipertrofia del
tessuto adiposo bruno (Yeh et al., 1995; Fève, 2005). Nonostante PPARγ e C/EBPα risultino entrambi necessari per la
formazione del tessuto adiposo, il primo sembra rivestire un
ruolo dominante: il knocking down di C/EBPα in fibroblasti
embrionici murini può essere ripristinato dalla sovraespressione di PPARγ, ma non si osserva invece l’evento in senso
opposto.
Un altro gene coinvolto nella regolazione dell’adipogenesi
è la SREBP-1c (sterol regulatory element binding protein1c): essa infatti partecipa all’attivazione di geni che regolano
il metabolismo degli acidi grassi e del colesterolo. Il suo ruolo è pro-adipogenico in quanto la sua espressione ectopica
promuove l’accumulo di lipidi, favorendone la captazione
e la biosintesi (Kim e Spiegelman, 1996). Inoltre, SREBP1c controlla l’espressione di alcuni geni come sintetasi degli
acidi grassi (FAS, fatty acid synthetase), lipoprotein lipasi
(LPL, lipoprotein lipase) e acetil-coenzima A carbossilasi
(ACC, acetyl-coenzyme A carboxylase).
Il solo marcatore universalmente accettato per identificare i preadipociti è il preadipocite factor 1 (Pref-1 o DLK1).
Questo gene è fortemente espresso sia in pre-adipociti bianchi che bruni, ma non in adipociti maturi, in quanto la sua
espressione viene enormemente ridotta con l’induzione del
differenziamento (Smas e Sul, 1993). Pref-1 viene sintetiz76
zato inizialmente come proteina transmembrana e successivamente subisce un taglio proteolitico producendo una
proteina solubile che agisce inibendo l’adipogenesi. La sua
espressione deve essere sottoregolata o funzionalmente inattivata affinché il differenziamento possa procedere (Avram
et al., 2007). La sovraespressione della proteina in animali
da laboratorio ha mostrato una riduzione dell’adipogenesi,
mentre la sua soppressione ha dimostrato un accumulo di
tessuto adiposo (Gregoire et al., 1998).
L’adipogenesi possiede anche una regolazione negativa,
mediata principalmente da alcuni componenti della famiglia
di Wnt (Wingless-type MMTV integration site family), che
indirettamente interagiscono con fattori trascrizionali appartenenti alla famiglia di TCF/LEF e che inibiscono l’adipogenesi impedendo l’induzione di PPARγ e C/EBPα (Ross
et al., 2000).
Durante l’adipogenesi si osserva anche una trascrizione
elevata dei geni che codificano per fatty acid binding protein
4 (aP2/FABP4), proteina in grado di legare acidi grassi; per
fatty acid translocase (FAT/CD36) che codifica per un trasportatore degli acidi grassi; e per una proteina associata ai
vacuoli lipidici, la perilipina (PLIN1).
Il raggiungimento del fenotipo maturo è correlato anche
all’acquisizione della capacità endocrina del tessuto adiposo, vengono infatti prodotte e secrete numerose molecole ad
azione autocrina, paracrina e sistemica che partecipano sia
alla regolazione del metabolismo che modulando alcune caratteristiche del sistema immunitario.
GRASSO BRUNO E GRASSO BRITE
Il BAT deriva da un precursore cellulare che può differenziare in cellule muscolari e in cellule adipose brune e che
esprime il fattore determinante la miogenesi, Myf5. In effetti, considerando il metabolismo ossidativo del grasso bruno,
come pure il suo colore e il contenuto in mitocondri le cellule brune appaiono più simili alle fibre muscolari che agli
adipociti bianchi. Il gene proline rich domain-containing
protein 16 (PRDM16) è stato identificato come un “interruttore” molecolare tra gli adipociti bruni e i miociti. Infatti,
l’espressione ectopica di questo gene in mioblasti induce il
differenziamento in adipociti bruni che presentano tutto il
corredo necessario alla termogenesi. Quando PRDM16 viene espresso in modo transgenico in adipociti bianchi sottocutanei di topi, grasso bruno compare in quella sede (Seale
et al., 2011). PRDM16 stimola la trascrizione di numerosi
geni mitocondriali, aumenta l’espressione di UCP1 e diminuisce l’espressione del gene resistina nel grasso bianco;
favorisce inoltre la formazione di mitocondri (Wolf, 2009).
Ghorbani et al. (1997) hanno dimostrato che alcuni geni del
BAT possono essere indotti da PRDM16 anche in assenza del fattore di differenziamento PPARγ e quindi senza il
differenziamento in cellule adipose. Pertanto il destino del
grasso bruno sarebbe determinato prima della differenziamento dei pre-adipociti in adipociti bruni maturi.
Il tipo brite invece è Myf5 negativo, ma esprime PRDM16
SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE
e il PPARγ (Seale et al., 2007; Seale et al., 2008). Il grasso
brite compare in seguito allo stimolo del freddo o di β3 agonisti e ha una sua specifica espressione genica; essi possono
originare da un distinto precursore non miogenico, diverso
da quello del grasso bianco e bruno (Wu et al., 2012; Colitti
e Grasso, 2014).
ATTIVAZIONE E RECLUTAMENTO DEL TESSUTO
ADIPOSO BRUNO DAL GRASSO BIANCO
L’identificazione di due popolazioni diverse di BAT
(“classico” e “reclutabile”) comporta che la sua attività funzionale, in diverse condizioni fisiologiche, sia determinata
da fattori diversi: gli effetti acuti della noradrenalina, che
stimolano la termogenesi attraverso diversi gradi di attività,
e la capacità termogenetica totale che dipende dal reclutamento delle cellule adipose.
Nell’attivazione, lo stimolo dei recettori β3-adrenergici in
seguito all’esposizione al freddo porta a un forte aumento
della concentrazione intracellulare di triiodotironina (T3)
direttamente o per conversione della tetraiodotironina (T4)
mediante iodotironina 5’-deiodinasi di tipo 2 (DIO2). T3 nel
nucleo conduce alla trascrizione di UCP1 che porta alla produzione di calore secondo il meccanismo già descritto.
È evidente che la possibilità di trasformazione di cellule
di grasso bianco in cellule simili alle cellule adipose brune
sotto stimoli ormonali (catecolamine), rilasciati in situazioni
stressogene o con basse concentrazioni di glucosio ematico,
può avere rilevanti applicazioni terapeutiche per l’obesità e
le sindromi ad essa correlate nell’uomo (Seale e Lazar, 2009;
Betz e Enerbäck, 2011).
Indipendentemente dal fatto che il BAT presente nell’uomo adulto incida sul totale della spesa energetica giornaliera,
la possibilità di aumentare la quantità e/o la funzione di questo tessuto potrebbe essere una terapia efficace e sicura per
limitare l’obesità. La sintesi di farmaci o di fattori endogeni
che attivano la funzione di PRDM16 o mimano la sua azione
potrebbe essere una fattibile cura per l’obesità. Egualmente,
ingegnerizzare ex vivo adipociti bruni per impianti autologhi
potrebbe essere una possibile alternativa. Tuttavia poco si
conosce sui possibili meccanismi che potrebbero mantenere
l’omeostasi energetica come un aumento di appetito o la generazione di un calore non accettabile (Seale e Lazar, 2009).
IMBRUNIMENTO DEL WAT
Il fenomeno di imbrunimento del WAT può essere indotto da una moltitudine di fattori endogeni, farmacologici e
nutrizionali, i quali possono agire direttamente a livello di
adipocita, stimolando l’espressione di UCP1 o di geni che
ne regolano positivamente la trascrizione, oppure a livello
di sistema nervoso centrale (SNC), andando ad influire sulle
pathway che possono condurre ad un aumento della stimolazione del simpatico sul tessuto adiposo.
FATTORI FARMACOLOGICI ED ENDOGENI
Numerosi fattori che possono condurre all’imbrunimento
del WAT sono raggruppati nella classe degli attivatori del
sistema nervoso simpatico (SNS). L’attivazione del SNS stimola, negli adipociti bianchi, i fenomeni di lipolisi e di ossidazione degli acidi grassi ed è inoltre associata alla sovraespressione di geni coinvolti nella funzionalità mitocondriale
e nella termogenesi tipica degli adipociti bruni. Tra gli attivatori del simpatico distinguiamo gli agonisti β3-adrenergici
e i neuropeptidi segnale endogeni.
La somministrazione cronica di agonisti β3-adrenergici
(come per esempio le molecole sintetiche BRL 26830A,
CGP-12177 oppure CL-316243) stimola l’espressione di
UCP1 e la comparsa, nelle masse di WAT, di adipociti beige con caratteristiche strutturali estremamente affini a quelle
degli adipociti bruni (elevata densità di mitocondri, divisione
multiloculare dei depositi lipidici) (Pico et al., 1998). I recettori β3 della norepinefrina sono presenti esclusivamente nel
tessuto adiposo (Cannon e Nedergaard, 2004) e quindi rivestono un ruolo determinante anche nella stimolazione della
lipolisi; essi sono diffusi e attivi principalmente nei depositi
omentale, mammario e sottocutaneo (Wajchenberg, 2000).
I neuropeptidi più importanti nella stimolazione centrale del sistema simpatico sono la leptina (LEP), il peptide
TLQP-21 derivante dal nerve growth factor inducible (VGF)
e il fattore neurotrofico cerebrale (BDNF, brain-derived neurotrophic factor). La leptina è una proteina sintetizzata esclusivamente nel WAT (Wajchenberg, 2000) in risposta a un
incremento dell’introduzione di alimenti e la sua produzione
è positivamente regolata da diete ricche in carboidrati e lipidi e povere di proteine (Cannon e Nedergaard, 2004). La
leptina è attiva a livello centrale, dove stimola una pathway
con effetto positivo sui nervi simpatici. Interagendo con i
propri recettori nel SNC a livello ipotalamico (nucleo arcuato e nucleo ventromediale), la leptina stimola la produzione
di melanocortina (MSH, melanocyte-stimulating hormone)
che, a sua volta, interagisce con i recettori di tipo 4. Questa interazione è probabile che dia luogo alla liberazione del
fattore di rilascio della corticotropina ipotalamica (CRH,
corticotropin releasing hormone), il quale stimola il rilascio
di norepinefrina a livello delle sinapsi del simpatico (Cannon e Nedergaard, 2004). Nell’adipocita, la leptina è attiva
anche come fattore che regola positivamente la produzione
di recettori β3-adrenergici; inoltre, l’incubazione in vitro di
adipociti bianchi in presenza di leptina produce come effetto
un aumento della sintesi dei fattori di trascrizione quali il
peroxisome proliferator-activated receptor gamma coactivator 1α (PGC-1α) e il PPARα, che sono fondamentali nell’attivazione della trascrizione di UCP1 e altri geni coinvolti
nella termogenesi disaccoppiata (Scarpace e Matheny, 1998;
Commins et al., 1999).
Il TLQP-21 e il BDNF sono attivi nella stimolazione
dell’espressione di UCP1 e di altri geni chiave selettivamente negli adipociti bianchi piuttosto che in quelli bruni (Bartolomucci et al., 2006; Cao et al., 2011, During et al., 2015).
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SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
I farmaci attivi sul metabolismo centrale della serotonina
possono produrre un effetto di stimolo del SNS. La serotonina prodotta dal nucleo del rafe dorsale è attiva sul nucleo
ventromediale, quindi la stimolazione serotoninergica di
questa area è coinvolta nel processo di normale reclutamento degli adipociti bruni e, possibilmente, anche nel fenomeno
di imbrunimento.
Inoltre, questa pathway serotoninergica è coinvolta nella
regolazione della sazietà, per cui si evidenzia un doppio effetto anti-obesità: uno di stimolazione della funzionalità del
BAT e uno di riduzione dell’ingestione di alimenti. Studi su
topi hanno dimostrato che gli inibitori selettivi del reuptake
della serotonina (come ad es. la sibutramina) e i farmaci stimolanti il rilascio centrale di serotonina hanno, quindi, un
effetto diretto sulla stimolazione della funzionalità del BAT
(Cannon e Nedergaard, 2004).
L’espressione dell’enzima cicloossigenasi 2 (COX2) e la
conseguente produzione di prostaglandine nel WAT sono
processi chiave nell’espressione di UCP1 a valle della stimolazione adrenergica dell’adipocita. COX2 è stimolata, nel
WAT, dall’esposizione cronica al freddo e dalla somministrazione di agonisti β3-adrenergici. All’aumento della produzione di prostaglandine negli adipociti bianchi consegue
una stimolazione dell’imbrunimento e un aumento del dispendio energetico. Le prostaglandine PGE2 e PGI2 agiscono
sia attraverso l’attivazione di specifici recettori di membrana
accoppiati a proteine G stimolanti che attraverso il legame
con i recettori nucleari PPAR, direttamente coinvolti nella
trascrizione di UCP1 (Madsen et al., 2010).
I peptidi natriuretici cardiaci sono due ormoni (peptide natriuretico atriale, ANP, e peptide natriuretico ventricolare,
BNP) che controllano l’omeostasi dei fluidi e l’emodinamica. Essi abbandonano il torrente circolatorio tramite il recettore C dei peptidi natriuretici (NPRC). In studi su topi in
cui il gene per il NPRC è stato disattivato (Lo e Sun, 2013),
si è riscontrato che i peptidi natriuretici stimolano l’imbrunimento del WAT attraverso una cascata di trasduzione di
segnale parallela a quella indotta dalla norepinefrina: infatti,
mentre la stimolazione adrenergica attiva in modo cAMPdipendente l’enzima PKA, i recettori dei peptidi natriuretici cardiaci sono accoppitati, tramite proteina G stimolante,
all’enzima guanilato ciclasi che, producendo guanilil monofosfato ciclico (cGMP, cyclic guanylyl monophosphate),
stimola l’enzima protein chinasi G (PKG, protein kinase G)
ad attivare le varie pathway di trasduzione del segnale, generalmente attivate da PKA, tra cui la cascata della MAPK
p38. L’effetto di questi peptidi è quindi additivo a quello
della stimolazione adrenergica (Bordicchia et al., 2012).
L’imbrunimento degli adipociti bianchi può essere anche
favorito da ligandi agonisti del PPARγ (come il rosiglitazone) e del PPARα (come il bezafibrato). Gli agonisti del
PPARγ stimolano la biogenesi dei mitocondri in una conformazione ricca di creste, la sovraespressione di UCP1 e altri
geni coinvolti nel catabolismo lipidico e la multilocularizzazione dei depositi adiposi nell’adipocita bianco. Il meccanismo d’azione di questi ligandi è correlato alla capacità
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di PPARγ di stabilizzare il fattore PRDM16 e indurre l’espressione di PGC-1α. I ligandi di PPARα sono attivi nella
stimolazione di PRDM16 e di PGC-1α, nonché nella genesi
dei mitocondri e nell’induzione della lipolisi. Inoltre, questi
agonisti sono responsabili di un incremento dell’espressione
di UCP1 negli adipociti bianchi, ma non in quelli bruni (Cabrero et al., 2001; Sell et al., 2004).
Gli ormoni tiroidei hanno un effetto diretto sull’espressione di UCP1, in quanto l’ormone T3, legandosi ai recettori b degli ormoni tiroidei, interagisce a sua volta con un
elemento del promotore del gene UCP1, incrementandone
l’espressione (Cannon e Nedergaard, 2004). La stimolazione di UCP1 da parte degli ormoni tiroidei è indipendente
dalle pathways attivate dalla norepinefrina e i due percorsi
partecipano sinergicamente all’aumento dell’espressione di
UCP1. Nonostante ciò, la stimolazione adrenergica partecipa indirettamente alla pathway degli ormoni tiroidei in quanto la norepinefrina attiva l’enzima DIO2, che nell’adipocita
converte l’ormone T4 in T3. DIO2 è indotto, quindi, dalla
stimolazione adrenergica, mentre è fortemente inibito dal
proprio substrato, ovvero T4 (Bonet et al., 2013). Tuttavia,
mentre in vitro il trattamento con T3 stimola l’attività degli
adipociti bruni e l’imbrunimento di quelli bianchi, non ci
sono evidenze di tale effetto del trattamento con T3 in vivo
(Lee et al., 2012).
La molecola 5-aminoimidazolo-4-carbossiamide ribonucleoside (AICAR) è un composto in grado di attivare e
prolungare l’azione della protein chinasi attivata dall’AMP
(AMPK), un enzima che partecipa all’espressione delle proteine correlate alla funzionalità del BAT e all’imbrunimento
del WAT tramite l’attivazione del PGC-1α attraverso processi di fosforilazione e deacetilazione (Gaidhu et al., 2011).
FATTORI ENDOCRINI MUSCOLARI
Nel processo di imbrunimento del WAT possono essere
anche coinvolte le miochine, fattori prodotti e secreti dai
muscoli scheletrici; tra queste rivestono notevole importanza l’irisina e l’acido β-aminoisobutirrico (BAIBA).
L’irisina è un peptide che deriva da un taglio proteolitico
della proteina fibronectin type 3 domain-containing protein
5 (FNDC5e) il cui rilascio nel sangue è strettamente legato
all’espressione di PGC-1α (Kammoun e Febbraio, 2014).
Questa proteina ad azione ormonale è responsabile dei benefici dell’esercizio fisico sulla riduzione del grasso corporeo, in quanto ha un effetto protettivo contro l’obesità indotta dalla dieta e la resistenza all’insulina (Lo e Sun, 2013).
L’irisina è selettivamente attiva sulle cellule bianche, quindi
l’espressione genica degli adipociti bruni non viene alterata
dalla sua azione. Negli adipociti non è stato ancora individuato un recettore selettivo per l’irisina, ma sembra che tale
proteina espleti il suo effetto anti-obesità incrementando l’espressione del PPARα (Boström et al., 2012).
L’acido β-aminoisobutirrico (BAIBA) è una miochina liberata dal muscolo scheletrico all’atto della contrazione del
sarcomero. Essa deriva dal metabolismo della valina e del-
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la timina e la sua concentrazione cresce proporzionalmente
all’espressione di PGC-1α nel miocita. Il BAIBA circolante
produce effetti sugli adipociti bianchi, in quanto ne stimola il fenomeno dell’imbrunimento andando ad attivare l’espressione di proteine quali UCP1 e Cell death activator (CIDEA), e sugli epatociti, nei quali viene stimolato il processo
di β-ossidazione degli acidi grassi. Gli effetti del BAIBA
quindi possono condurre a un differenziamento di cellule
adipose bianche verso una linea brite e a una riduzione del
grasso corporeo tramite l’attivazione del metabolismo epatico, che potrebbe avere potenziali benefici nel trattamento
della steatosi epatica (Roberts et al., 2014). Il meccanismo
d’azione del BAIBA non è stato ancora del tutto spiegato,
ma sembra essere dipendente dall’espressione del PPARα
sia negli adipociti che negli epatociti, in quanto studi su topi
nei quali il PPARα è stato antagonizzato farmacologicamente o disattivato a livello genico non sono stati riscontrati i
benefici del BAIBA (Kammoun e Febbraio, 2014).
ALTRI FATTORI
Il fattore di crescita dei fibroblasti 21 (FGF21) è una proteina coinvolta nella regolazione del metabolismo epatico
dei lipidi, nell’omeostasi della glicemia e nella funzionalità
delle cellule β del pancreas. Viene sintetizzato prevalentemente dal fegato, ma in risposta all’esposizione alle basse
temperature e alla stimolazione β-adrenergica è espresso anche nei depositi di BAT e negli adipociti bianchi in via di
imbrunimento. Il meccanismo d’azione del FGF21 è strettamente dipendente dall’espressione del PGC-1α ed incide direttamente sull’espressione del PGC-1α stesso e dell’UCP1
(Lo e Sun, 2013). Inoltre, i suoi effetti sono più marcati nei
depositi sottocutanei di WAT (Fisher et al., 2012). L’espressione di FGF21 è up-regolata non solo nel WAT sensibile
all’imbrunimento, ma anche nei muscoli scheletrici e è presente nel siero; ciò suggerisce un ruolo sistemico di FGF21
nella regolazione dell’omeostasi energetica (Lo e Sun,
2013).
Nella classe dei fattori morfogenetici dell’osso, il membro
7 (BMP7, bone morphogenetic protein 7) è strettamente necessario allo sviluppo e al corretto funzionamento del BAT,
in quanto è necessario per il reclutamento di cellule staminali mesenchimali verso la linea di adipociti bruni (Lo e Sun,
2013). Esso infatti influisce sull’espressione di PRDM16,
UCP1 e PGC-1α e stimola la genesi dei mitocondri tramite
pathways dipendenti dal PGC-1α stesso, dalla MAPK p38
e da ATF-2 (activating transcription factor 2). I risultati riguardanti l’effetto del BMP7 circa l’imbrunimento del WAT
sono discordanti, in quanto alcuni Autori hanno riscontrato
un aumento della funzionalità del BAT, ma nessun fenomeno di imbrunimento di adipociti bianchi, mentre altri Autori
hanno osservato un effetto sinergico dell’attività del BMP7
sulla stimolazione β-adrenergica nell’induzione dell’imbrunimento del WAT (Bonet et al., 2013). In ulteriori studi invece è stato evidenziato come l’ablazione del gene codificante
per il recettore del BMP7 porti a una riduzione del BAT, ma
ciò innesca dei meccanismi compensativi di imbrunimento
del WAT (Lo e Sun, 2013; Schulz et al., 2013).
FATTORI NUTRIZIONALI
Le abitudini alimentari rivestono un ruolo cruciale nello
sviluppo del tessuto adiposo in ogni fase della vita di un organismo. La suscettibilità di un animale a sviluppare obesità
e altre dismetabolie, tra cui spicca il diabete mellito e la sindrome metabolica, può essere determinata prima della nascita. Infatti, lo stato nutrizionale della madre incide sulla programmazione delle cellule che daranno origine, nella prole,
agli adipociti bianchi, bruni e brite. In particolare, episodi di
malnutrizione della madre durante la gravidanza incrementano il rischio dell’insorgenza di obesità e diabete nell’età
adulta della prole. Ciò è provocato da un’alterazione della
funzionalità endocrina degli adipociti e da una diminuzione
dell’innervazione simpatica delle aree adipose, favorendo
l’ipercellularità e l’accumulo, anche ectopico, di lipidi (Palou et al., 2013). Un altro fattore di rischio potenzialmente
coinvolto in questo meccanismo è la sensibilità dell’animale
in età neonatale allo sviluppo della resistenza alla leptina. In
questa fase della vita, la leptina presente nell’animale deriva
da fonti che sono più importanti della produzione endogena, quali il trasferimento placentare dalla madre durante la
gestazione e l’assunzione di leptina attraverso il latte materno. Pertanto l’alimentazione della madre riveste un ruolo cruciale nella sensibilizzazione della prole allo sviluppo
dell’obesità. Nel neonato, esiste un preciso momento in cui
si ha un picco plasmatico di leptina che determina il corretto
sviluppo dei circuiti ipotalamici che regoleranno per tutta la
vita l’assunzione di cibo e il controllo del peso corporeo.
Un’alterazione di questo picco ha conseguenze deleterie
sul metabolismo dell’animale in età adulta, in quanto viene
estremamente ridotto il livello di recettori ipotalamici per la
leptina e l’insulina (Palou et al., 2013).
Per quanto concerne il ruolo della dieta nell’imbrunimento
del WAT in età adulta, è possibile riscontrare un effetto diretto sul trascrittoma dell’adipocita bianco sia della composizione della dieta che della presenza di particolari molecole
nelle matrici alimentari (Colitti e Grasso, 2014).
La riduzione dell’apporto di alcuni aminoacidi essenziali,
come la metionina e la leucina, ha come conseguenza una
riduzione del grasso addominale, l’attivazione del catabolismo dei lipidi nel BAT e l’aumento dell’espressione di
UCP1 negli adipociti bianchi. Questi effetti sono prodotti
da meccanismi d’azione diversi: la riduzione di metionina
porta ad un aumento della stimolazione β3-adrenergica degli
adipociti, mentre un limitato apporto di leucina induce un
aumento della secrezione di CRH (corticotropin-releasing
hormone, ormone rilasciante la corticotropina) da parte
dell’ipotalamo che stimola la risposta simpatica (Hasek et
al., 2010; Cheng et al., 2011).
Diete ricche di lipidi e povere di proteine stimolano l’espressione di UCP1 nel BAT e potenziano il signaling della
leptina, innescando un feedback positivo sulla funzionalità
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SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016
degli adipociti bruni. Nel WAT, invece, l’espressione di
UCP1 è repressa con differenze specie-specifiche (Cannon
e Nedergaard, 2004, Bonet et al., 2013).
La vitamina A è coinvolta nei processi di imbrunimento
del WAT e di attivazione e reclutamento di adipociti bruni
mediante le sue diverse forme quali l’acido all-trans retinoico e la retinaldeide. Il primo di essi ha potenti effetti sul metabolismo degli acidi grassi, in quanto attiva la lipolisi e il
tasso di ossidazione degli acidi grassi liberi, portando a una
riduzione del contenuto lipidico degli adipociti; ovviamente
viene anche influenzata l’espressione genica delle proteine
interessate in questi metabolismi (inclusa la UCP1), che risultano essere sovraespresse. La retinaldeide può espletare
queste funzioni sia previa conversione in acido all-trans retinoico che in assenza di modificazioni strutturali. L’azione
stimolante della retinaldeide è sinergica a quella dell’acido
all-trans retinoico.
Paradossalmente il β-carotene, che è il precursore naturale degli analoghi della vitamina A, ha un effetto opposto a
quello dei retinoidi sul metabolismo dei lipidi negli adipociti, in quanto favorisce l’ipertrofia degli adipociti bianchi e la
regressione di quelli bruni e brite (Bonet et al., 2003; Kiefer
et al., 2012).
La capsaicina è una delle molecole responsabili del sapore
piccante del peperoncino; i suoi analoghi non piccanti rientrano nella famiglia dei capsinoidi. Sia la capsaicina che i
capsinoidi sono composti anti-obesità con effetto agonista
sulla norepinefrina. Essi infatti, oltre a stimolare il rilascio
di catecolamine dalle ghiandole surrenali, si legano a dei recettori specifici presenti nel WAT e nel tratto gastrointestinale, i TRPV1 (transient receptor potential vanilloid type-1).
L’attivazione di questi recettori favorisce la termogenesi attraverso la stimolazione dell’innervazione vagale afferente e
di quella simpatica efferente (Zhang et al., 2007; Yoneshiro
et al., 2012).
La fucoxantina è un carotenoide delle alghe brune dotato
di effetto anti-obesità. L’accumulo dei suoi metaboliti nel
WAT stimola l’imbrunimento degli adipociti bianchi attraverso l’attivazione di UCP1 e di altri geni correlati al catabolismo dei lipidi e l’aumento della sensibilità degli adipociti alla stimolazione simpatica. L’effetto è specifico sugli
adipociti bianchi, in quanto le cellule del BAT non vedono
alterata l’espressione dei propri geni (Maeda et al., 2005).
Il consumo di olio d’oliva aumenta il consumo di ossigeno
complessivo dell’organismo e l’espressione delle isoforme
di UCP nei diversi tessuti, compreso il grasso. Nello specifico, i composti dell’olio d’oliva attivamente coinvolti nella
funzionalità degli adipociti e nel processo di imbrunimento
sono l’oleuropeina e l’acido oleico. L’oleuropeina aumenta
l’espressione di UCP1 negli adipociti bruni e la secrezione
di catecolamine (Oi-Kano et al., 2008). L’acido oleico contribuisce moderatamente alla riduzione del peso corporeo e
dell’assunzione di alimenti, senza però influire sull’espressione di UCP1 nei vari tipi di adipocita. L’acido 2-idrossioleico è un derivato sintetico dell’acido oleico e, rispetto a
quest’ultimo, è più attivo nella riduzione del peso corporeo
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e, inoltre, contribuisce all’aumento dell’espressione di UCP1
negli adipociti bianchi, favorendone l’imbrunimento. Questo effetto è ottenuto tramite il potenziamento della pathway
del cAMP/PKA (Oi-Kano et al., 2007; Vogler et al., 2008).
L’idrolisato di proteine del salmone (SPH, salmon protein
hydrolysate) è una fonte di proteine ricche in glicina e taurina che aumenta il livello plasmatico di acidi biliari, i quali
contribuiscono a migliorare la resistenza all’obesità derivata da una dieta iperlipidica. Gli acidi biliari aumentano l’espressione di diversi geni coinvolti nel metabolismo lipidico
e nella funzionalità del BAT, compresi UCP1 e DIO2, sia
negli adipociti bianchi che in quelli bruni. L’azione di questi composti si espleta tramite l’attivazione di un recettore
di membrana (TGR5) accoppiato a proteina G e all’enzima
adenilato ciclasi che, a sua volta, attiva le numerose pathway
di trasduzione del segnale. Questi segnali regolano l’espressione di UCP1 e altri geni coinvolti nel disaccoppiamento e
nell’imbrunimento del WAT (Liaset et al., 2011).
I coniugati dell’acido linoleico sono in grado di ridurre
il peso corporeo e la massa di tessuto adiposo; tra questi, la
molecola più attiva è l’isomero trans-10, cis-12 dell’acido
linoleico. Tra gli effetti di queste molecole si osservano: aumento dell’apoptosi degli adipociti bianchi, calo della lipogenesi e del differenziamento dei pre-adipociti e incremento
dell’ossidazione degli acidi grassi. Inoltre, si sono osservati
marcati effetti anche sull’espressione di UCP1 nel WAT (ma
non nel BAT) e di geni correlati ad un fenotipo ossidativo.
L’azione dei coniugati dell’acido linoleico è indipendente
dalla stimolazione β3-adrenergica degli adipociti (House et
al., 2005).
Il resveratrolo è un polifenolo che ha la capacità di attivare
l’AMPK andando ad interferire sulla respirazione cellulare,
provocando un disequilibrio tra AMP e ATP. Anche altri
geni a valle di AMPK sono attivati dal resveratrolo (Lagouge et al., 2006) e l’effetto globale di questa stimolazione è
un aumento della resistenza all’obesità e all’insorgenza del
diabete. Nel WAT viene inibita l’adipogenesi e aumenta
l’espressione della lipasi (con un conseguente aumento della mobilizzazione degli acidi grassi) e la modulazione del
PPARγ (Alberdi et al., 2011).
Tra gli acidi grassi essenziali omega 3, i più importanti
sono l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaexaenoico (DHA). La loro azione anti-obesità si riflette in
una modulazione del metabolismo in diversi tessuti, incluso il BAT, nel quale viene incrementata l’espressione di
UCP1. A livello di WAT si assiste invece ad un aumento
della stimolazione della β-ossidazione degli acidi grassi e
dell’espressione dei geni coinvolti nelle pathways ossidative mitocondriali. In seguito alla somministrazione di EPA
e DHA, nel grasso bianco si ha la sovraespessione del gene
PGC-1α; tuttavia, l’espressione di UCP1 non viene direttamente influenzata negli adipociti bianchi dagli acidi grassi
essenziali. La modulazione dell’espressione genica indotta
dagli acidi omega 3 è mediata dall’interazione diretta con
gli adipociti e dal loro legame con i fattori di trascrizione del
gruppo PPAR. Gli effetti di queste molecole, infatti, sono
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Fig. 2. Segnali endogeni (riquadro marrone), fattori endocrini (riquadro azzurro), fattori nutritivi (riquadro verde) e recettori (riquadro viola
ombreggiato) che stimolano la trasfomazione dell’adipocita bianco in beige (BDNF: fattore neurotrofico cerebrale; TLQP-21: peptide 21 derivante
dal VGF; β3AR: recettore β3-adrenergico; SSRI: inibitori selettivi del reuptake della serotonina; BMP7: fattore morfogenetico dell’osso 7; NPRA:
recettore A dei peptidi natriuretici cardiaci; FGF21: fattore di crescita dei fibroblasti 21; GPCR: recettore accoppiato a proteina G; BAIBA: acido
β-aminoisobutirrico; TGR5: recettore accoppiato a proteina G specifico per gli acidi biliari; cAMP: adenosina monofosfato ciclica; PKA: protein
chinasi A; p38 MAPK: protein chinasi p38 attivata da mitogeni; cGMP: guanosina monofosfato ciclica; PGC-1α: coattivatore 1α del PPARγ;
UCP1: proteina disaccoppiante 1; COX2: cicloossigenasi 2).
molto simili a quelli indotti dalla somministrazione di agonisti farmacologici del PPARα e del PPARγ (Buckley e Howe,
2010).
Un altro fattore nutrizionale di interesse è la polvere della
conchiglia di capasanta, o pettine di mare, la quale è composta per il 98-99% da carbonato di calcio, mentre per l’1-2%
da composti organici, specialmente complessi glicoproteici.
Questa frazione organica della polvere stimola la lipolisi e
regola l’espressione di UCP1 negli adipociti bianchi, ma non
in quelli bruni (Liu et al., 2006).
Le diverse pathways cellulari che comportano l’imbrunimento del WAT sono riassunte in Figura 2.
TESSUTO ADIPOSO BIANCO COME ORGANO
ENDOCRINO
Alla funzione di serbatoio di substrati ad alto valore energetico come colesterolo, trigliceridi e vitamine liposolubili,
al tessuto adiposo è stata affiancata la funzione di organo
endocrino in grado di rilasciare una serie di sostanze di
bioattive note come adipochine. Esse si associano al ruolo
dell’adipocita nell’omeostasi energetica e contribuiscono a
determinare le maggiori complicanze che accompagnano
l’obesità (Trayhurn e Beattie, 2001).
Oltre alla nota leptina, l’adiponectina è uno dei geni più
attivamente espressi negli adipociti maturi, rilevata in quantità significativamente maggiori nel grasso sottocutaneo rispetto a quello viscerale (Fain et al., 2004). E’ stato messo in
luce che la funzionalità mitocondriale delle cellule adipose
sia essenziale per la sintesi e la secrezione dell’adiponectina.
L’ormone viene rilasciato nel circolo sanguigno e rappresenta circa il 0,01% di tutte le proteine del siero (Berg et
al., 2002). I suoi effetti biologici però non dipendono solamente dalle relative concentrazioni in circolo, ma anche
dall’espressione tessuto-specifica dei suoi recettori (FischerPosovszky et al., 2007): AdipoR1 e AdipoR2 (Yamauchi et
al., 2003). L’adiponectina circolante sensibilizza l’organismo all’insulina stimolando la fosforilazione e l’attivazione
della proteina chinasi attivata da AMP ciclico che regola il
metabolismo energetico. I suoi livelli circolanti sono ridotti
nell’obesità a differenza delle altre adipochine.
Alti livelli di adiponectina sono presenti in individui magri, mentre la sua espressione è sottoregolata in adipociti non
funzionali come in organismi obesi (Ouchi et al., 2011).
La proteina legante il retinolo (RBP4) è una proteina specifica per il trasporto in circolo del retinolo (vitamina A) e livelli plasmatici elevati sono stati osservati in diversi modelli
animali di obesità ed insulino-resistenza (Abel et al., 2001).
La visfatina, originariamente identificata nel grasso viscerale come pre-B cell colony-enhancing factor (PBEF) prodotto dal midollo osseo, dal fegato e dal muscolo, sembra
essere specifica dei depositi adiposi addominali, infatti la sua
concentrazione plasmatica è correlata con il grado di obesità
addominale (Fukuhara et al., 2005). Questo ormone è sovraregolato durante la differenziamento adipogenica e i suoi livelli plasmatici aumentano durante lo sviluppo dell’obesità.
La visfatina ha effetti simili a quelli dell’insulina in cellule
in coltura e pare attivi il recettore insulinico legandolo in un
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punto distinto da quello dell’insulina. L’effetto si tradurrebbe come un’attivazione delle pathways regolate dall’insulina
attraverso un nuovo meccanismo di sensibilizzazione.
Il tessuto adiposo è importante sede di produzione di angiotensinogeno e di angiotensina II. Livelli più elevati di
mRNA per l’angiotensinogeno sono rilevabili nel tessuto
adiposo di soggetti obesi in confronto a quello di soggetti normopeso, ed è rilevabile una correlazione positiva tra
BMI e concentrazioni circolanti di angiotensinogeno (Van
Harmelen et al., 2000). L’angiotensina II è noto essere un
potente vasocostrittore e il rischio di ipertensione aumenta
con il BMI. Si è dunque assunto che l’aumentata sintesi di
angiotensinogeno possa contribuire all’ipertensione che così
frequentemente si associa all’obesità. Inoltre, l’angiotensina
II sembra esercitare effetti proinfiammatori nell’adipocita
stimolando la produzione e secrezione di PAI-1, leptina, IL6, IL-8. e lo stress ossidativo (Skurk et al., 2004).
L’11-idrossisteroidodeidrogenasi (11-HSD) è un enzima
che amplifica l’azione locale dei glucocorticoidi, facilitando la conversione del cortisone inattivo a cortisolo. L’enzima è ben espresso nel tessuto adiposo umano, con attività
maggiore nel tessuto omentale rispetto a quello sottocutaneo
(Bujalska et al., 1999). L’aumentata attività di 11-HSD, che
si osserva nell’obesità umana, si associa all’espansione del
tessuto adiposo viscerale dovuta ad ipertrofia adipocitaria.
Questo potrebbe essere uno dei meccanismi di reclutamento
di nuovi adipociti; l’enzima, infatti, stimola il differenziamento degli adipociti grazie all’attività paracrina del cortisolo. Elevati livelli di 11-HSD determinano un aumento della
concentrazione locale di cortisolo, che stimola la lipasi lipoproteica e la lipasi ormono-sensibile del tessuto adiposo con
rilascio di acidi grassi liberi, contribuendo in parte all’alterato profilo metabolico e dell’insulino-resistenza propri dell’obesità addominale (Bittolo-Bon, 2008).
L’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1) inibisce la produzione di plasmina e ostacola gli eventi da essa
mediati come la fibrinolisi e la degradazione della matrice
extracellulare. La maggiore sorgente di PAI-1 nelle persone
obese è il tessuto adiposo e i livelli circolanti di PAI-1 correlano con il grado di obesità addominale.
Gli adipociti sono in grado di secernere citochine anche
se è stato dimostrato che le maggiori sorgenti di citochine
nello stesso tessuto adiposo sono i macrofagi (Ouchi et al.,
2011). Un sovraccarico di lipidi negli adipociti può iniziare uno stato di stress cellulare e un’attivazione delle vie di
segnale dell’infiammazione, la quale porta a un’aumentata
produzione di citochine proinfiammatorie adipocitarie quali
le interleuchine 1, 6, 8, 10 (IL-1, IL-6, IL-8, IL-10), incluso
il fattore di necrosi tumorale α (TNF-α), e molecole chemoattrattive, come la proteina chemoattrattiva monocitaria di
tipo 1 (monocyte chemoattractant protein-1, MCP-1), il fattore inibitorio della migrazione macrofagica e l’interferone
γ (Chung et al., 2006; Shoelson et al., 2006). E’ ormai noto,
infatti, che l’obesità corrisponde ad uno stato di infiammazione di basso grado e che il tessuto adiposo viscerale è la
sede patogenetica di molti dei disturbi correlati all’obesità
82
(Ouchi et al., 2011). L’infiltrazione monocitaria nel tessuto
adiposo amplifica il processo flogistico ed è positivamente
correlata con l'aumento del BMI.
La resistina è un membro della famiglia delle molecole
ricche di cisteina ed è associata all’attivazione dei processi
infiammatori. Benché studi su animali modello dimostrino
che la resistina promuova la resistenza all’insulina, tale evidenza nell’uomo è ancora poco chiara. Nel topo viene sintetizzata negli adipociti, mentre nell’uomo è prodotta principalmente dai macrofagi e monociti e non è misurabile negli
adipociti. Nell’uomo la trascrizione del gene della resistina
nei globuli bianchi mononucleari è indotta dalle citochine
pro-infiammatorie (Steppan et al., 2001; Ouchi et al., 2011).
Il BDNF fa parte della famiglia delle neurotrofine che include anche il nerve growth factor (NGF), la neurotrofina-3
(NT-3) e la neurotrofina-4/5 (NT-4/5). Il BDNF è diffuso sia
a livello centrale che periferico. Sul sistema nervoso promuove lo sviluppo e il differenziamento neuronale, la modulazione della connessione sinaptica e la regolazione dei
fenomeni di riparazione neuronale. Inoltre, il BDNF può
modulare l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisario (HPA),
regolando il metabolismo energetico, il comportamento
alimentare e quindi l’obesità (Noble et al., 2011). A livello ipotalamico l’espressione del BDNF è positivamente regolata dalla leptina, la cui secrezione invece viene inibita
nell’adipocita dal BDNF (Cao et al., 2010). A livello periferico è stato identificato in diversi tessuti tra i quali il tessuto
adiposo dove sembra svolgere un ruolo paracrino/autocrino
nell’omeostasi del metabolismo lipidico (Chaldakov et al.,
2009; Colitti et al., 2015).
CONCLUSIONI
Il ruolo di “riserva” del tessuto adiposo, unito al monotono
aspetto morfologico tissutale e all’assenza del riconoscimento di una sede anatomicamente definita del tessuto, sono stati
tra i motivi che hanno contribuito a far sì che in passato gli
studi sul tessuto adiposo fossero molto scarsi.
La scoperta della leptina nel 1994 ha avuto il merito di
portare il tessuto adiposo in primo piano e di considerarlo
non solo come un organo di riserva energetica, ma addirittura come un importante organo endocrino capace di interagire
direttamente con centri encefalici.
Inoltre, le più recenti evidenze che descrivono nell’uomo
adulto aree di grasso bruno attive nella termogenesi e nel
metabolismo ossidativo disaccoppiato alla produzione di
energia e la possibilità di indurre l’imbrunimento del grasso bianco attraverso un’adeguata stimolazione, hanno aperto
nuove prospettive terapeutiche per il trattamento dell’obesità
e delle sue complicanze. Le attuali ricerche sono pertanto
volte a identificare i fattori endogeni ed esogeni coinvolti
in questo processo. Tra essi si annoverano fattori ormonali
di origine nervosa e muscolare, farmaci attivi a molteplici
livelli tra il sistema nervoso centrale e quello periferico, e
molecole nutrizionali che possono espletare effetti analoghi
a quelli dei farmaci regolando la sintesi delle proteine tipiche
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del grasso bruno.
La futura ricerca scientifica sarà volta a chiarire i meccanismi di azione dei vari fattori e, in base a tali conoscenze,
implementare strategie terapeutiche innovative che possono
contribuire a contenere la diffusione epidemica dell’obesità
nel mondo e a ridurre la frequenza di mortalità associata alle
dismetabolie e alle malattie cardiovascolari associate ad essa.
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