15 settembre 2016 - Scienze e Ricerche
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15 settembre 2016 - Scienze e Ricerche
ISSN 2283-5873 Scienze e Ricerche SR N. 37, 15 SETTEMBRE 2016 37. Scienze SRe Ricerche RIVISTA BIMENSILE · ISSN 2283-5873 GLI ANNALI 2015 1 numero in formato elettronico: 7,00 euro ( UN NUMERO A SCELTA IN OMAGGIO AGLI ABBONATI ) Abbonamento annuale a Scienze e Ricerche in formato elettronico (24 numeri + fascicoli e numeri monografici): 42,00 euro * * 29,00 euro per gli autori e i componenti del comitato scientifico e del collegio dei referees www.scienze-ricerche.it 37. Sommario DANIELE CODUTI I diritti dell’uomo, un ponte tra passato e futuro pag. 5 pag. 8 pag. 19 pag. 20 pag. 22 pag. 35 pag. 39 pag. 42 pag. 47 pag. 53 pag. 61 pag. 64 pag. 68 pag. 73 MARIA GRAZIA MONACI, LUCA SCACCHI Genere e pregiudizio: l’atteggiamento delle donne italiane verso le donne immigrate 8 CITTADINANZA EUROPEA FEDERICO CASTIGLIONI Tre proposte per l’Europa ANGELO ARIEMMA A proposito di integrazione europea MAURO GIARDIELLO Riconsiderare la coesione sociale e l’integrazione civica nella prospettiva della generatività sociale SALVATORE BRISCHETTO E LUCA ALBREGARD Quanto è sicuro volare oggi? L’aereo a confronto con i mezzi di trasporto più diffusi EMILIANO VENTURA Biblioteche e libri come topos letterario LETIZIA CREMONINI E TEODORO GEORGIADIS Il disegno di legge AC 2039 - Consumo di suolo 35 FRANCO SAPORETTI Il nulla... poi l’universo e la vita? Quando la fisica si spinge oltre l’osservazione scientifica CARLA ROMANO Il brevetto tra Europa e Cina FRANCO BAGNOLI Il Titanic: affondare con stile ANTONINO MARIA FERRO Ricerca sulla possibilità di sfruttare le correnti marine per la produzione di energia elettrica, con il sistema della turbina a differenza di densità aria-acqua ROBERTO FIESCHI La vendita delle armi: crimine contro l’umanità? 73 RICERCHE MONICA COLITTI, TOMMASO MONTANARI Bianco, bruno e beige: diverse sfumature di grasso n. 37 (15 settembre 2016) 3 N. 37, 15 SETTEMBRE 2016 ISSN 2283-5873 Scienze e Ricerche Rivista bimensile (esce il 1° e il 15 di ogni mese) n. 37, 15 settembre 2016 Coordinamento • Scienze matematiche, fisiche, chimiche e della terra: Vincenzo Brandolini, Claudio Cassardo, Alberto Facchini, Savino Longo, Paola Magnaghi-Delfino, Giuseppe Morello, Annamaria Muoio, Andrea Natali, Marcello Pelillo, Marco Rigoli, Carmela Saturnino, Roberto Scandone, Franco Taggi, Benedetto Tirozzi, Pietro Ursino • Scienze biologiche e della salute: Riccardo N. Barbagallo, Cesario Bellantuono, Antonio Brunetti, Davide Festi, Maurizio Giuliani, Caterina La Porta, Alessandra Mazzeo, Antonio Miceli, Letizia Polito, Marco Zaffanello, Nicola Zambrano • Scienze dell’ingegneria e dell’architettura: Orazio Carpenzano, Federico Cheli, Massimo Guarnieri, Giuliana Guazzaroni, Giovanna La Fianza, Angela Giovanna Leuzzi, Luciano Mescia, Maria Ines Pascariello, Vincenzo Sapienza, Maria Grazia Turco, Silvano Vergura • Scienze dell’uomo, filosofiche, storiche, letterarie e della formazione: Enrico Acquaro, Angelo Ariemma, Carlo Beltrame, Marta Bertolaso, Sergio Bonetti, Emanuele Ferrari, Antonio Lucio Giannone, Domenico Ienna, Rosa Lombardi, Gianna Marrone, Stefania Giulia Mazzone, Antonella Nuzzaci, Claudio Palumbo, Francesco Randazzo, Luca Refrigeri, Franco Riva, Mariagrazia Russo, Domenico Russo, Domenico Tafuri, Alessandro Teatini, Patrizia Torricelli, Agnese Visconti • Scienze giuridiche, economiche e sociali: Giovanni Borriello, Marco Cilento, Luigi Colaianni, Riccardo Gallo, Agostina Latino, Elisa Pintus, Erica Varese, Alberto Virgilio, Maria Rosaria Viviano Scienze e Ricerche in formato elettronico (pdf HD a colori): • abbonamento annuale (24 numeri + supplementi): 42,00 euro (29,00 euro per gli autori, i componenti del comitato scientifico e del collegio dei referees) Scienze e Ricerche in formato cartaceo (HD, copertina a colori, interno in b/n): • abbonamento annuale (24 numeri): 168,00 euro • abbonamento semestrale (12 numeri): 84,00 euro • una copia: 13,00 euro (7,00 euro per gli abbonati alla versione cartacea) Il versamento può essere effettuato: • con carta di credito, utilizzando il servizio PayPal accessibile dal sito: www.scienze-ricerche.it • versamento sul conto corrente postale n. 1024651307 intestato a Scienze e Ricerche, Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 Roma • bonifico sul conto corrente postale n. 1024651307 intestato a Scienze e Ricerche, Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 Roma IBAN: IT 97 W 07601 03200 001024651307 4 La rivista ospita due tipologie di contributi: • interventi, analisi, recensioni, comunicazioni e articoli di divulgazione scientifica (solitamente in italiano). • ricerche e articoli scientifici (in italiano, in inglese o in altre lingue). 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Scienze e Ricerche Sede legale: Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 19/2015 del 2/2/2015 Gestione editoriale: Agra Editrice Srl, Roma Tipografia: Andersen Spa Direttore responsabile: Giancarlo Dosi www.scienze-ricerche.it [email protected] SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | COPERTINA I diritti dell’uomo, un ponte tra passato e futuro DANIELE CODUTI Università degli Studi di Foggia, Dipartimento di Giurisprudenza A ffrontare il tema dei diritti dell’uomo ri- riferimento alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del citchiede un preliminare chiarimento termi- tadino del 1789). Il successivo sviluppo è dato soprattutto nologico: la distinzione tra le espressioni dall’approvazione di Carte costituzionali: quelle del XIX se“diritti umani” e “diritti fondamentali”. colo (ad esempio, lo Statuto albertino del 1848 e la dichiaraLa prima espressione è solitamente utiliz- zione dei diritti dell’Impero austriaco, promulgata nel 1867 zata nelle Carte internazionali dei diritti, mentre la seconda è e ancora in vigore), quelle del primo dopoguerra (in particoutilizzata nelle Costituzioni. I diritti ai quali si fa riferimento lare, la Costituzione di Weimar del 1919 e la Costituzione di spesso si sovrappongono ma è diversa la capacità dei documenti che li prevedono di garantirne l’effettiva tutela, perché i diritti contemplati nelle Costituzioni sono idonei ad assicurare una tutela più penetrante all’interno dei singoli ordinamenti nazionali, potendo ad esempio comportare l’annullamento delle fonti giuridiche nazionali che non li rispettano. Tale distinzione è comunque piuttosto incerta, ancor più se si considera il fenomeno del c.d. dialogo tra le Corti, attraverso il quale istituzioni nazionali e sovranazionali deputate (anche) a garantire l’esercizio dei diritti si influenzano a vicenda, tentando di rafforzare la tutela dei diritti contenuti in tali differenti documenti. Dopo questa premessa lessicale, è necessaLa firma della Costituzione italiana nel 1947 rio riassumere le linee di sviluppo dei diritti dell’uomo, evidenziando alcuni aspetti problematici della loro attuazione e della loro tutela, anche per Cadice del 1931) e quelle del secondo dopoguerra (in particomprendere come preservarli quale patrimonio per le gene- colare, le Costituzioni francese del 1946, italiana del 1947 e tedesca del 1949). razioni future. Contestualmente al costituzionalismo della metà del XX I diritti fondamentali trovano le loro origini e il loro iniziale sviluppo secondo tre tradizioni: quella britannica (nella secolo, vengono approvati alcuni documenti che puntano a Magna Charta del 1215 e, soprattutto, nel Bill of Rights del internazionalizzare la tutela dei diritti umani con cataloghi di 1689), quella statunitense (a partire dalla Dichiarazione di diritti che riguardano in generale la persona umana (come la indipendenza del 1776) e quella francese (soprattutto con Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo1 e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle * Relazione al Convegno nazionale della Federazione italiana Club e Centri per l’Unesco sui diritti umani, tenutosi a Lucera il 26 maggio 2016. 1 Firmata a Parigi il 10 dicembre 1948. 5 COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 6 libertà fondamentali, c.d. cedU2) oppure riferiti a determinate categorie di soggetti (come la Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo3). Questo fenomeno di internazionalizzazione della tutela dei diritti diviene più rilevante (almeno in Europa) a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, in primo luogo, per il riconoscimento della possibilità di adire direttamente la Corte europea dei diritti dell’uomo4, in secondo luogo, per l’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea5, a cui il Trattato di Lisbona del 2009 ha riconosciuto lo stesso valore del diritto dei trattati. L’evoluzione della tutela dei diritti dell’uomo attraverso i documenti che li riconoscono e li tutelano consente altresì di distinguere tali diritti per “generazioni”, raggruppandoli in base al momento in cui la tutela di ciascun diritto si è affermata. La prima generazione è quella delle libertà classiche (libertà personale, di domicilio, di religione, di pensiero), del diritto di voto e del diritto di proprietà, sviluppatisi a partire dal Settecento e legati allo Stato liberale borghese. I diritti di seconda generazione, invece, sono riconosciuti in alcune Costituzioni del primo dopoguerra e, soprattutto, in quelle del secondo dopoguerra e includono le libertà ad esercizio collettivo (riunione e associazione), l’estensione della titolarità dei diritti politici (suffragio universale) e il riconoscimento dei c.d. diritti sociali (assistenza sanitaria e previdenziale, diritto al lavoro). Di diritti di terza generazione, poi, si inizia a parlare dagli anni Settanta del secolo scorso come diritti di natura collettiva ispirati al principio di solidarietà (lo sviluppo, la pace, l’ambiente, la comunicazione). Infine, negli ultimi decenni – almeno nelle società occidentali – si comincia a discutere di diritti di quarta generazione, fra i quali rientrerebbero le situazioni soggettive relative all’autonomia individuale nella sfera sessuale e familiare, alle nuove tecnologie, alla bioetica e ai rapporti tra generazioni di persone (si parla, infatti, di diritti delle generazioni future). Nelle società democratiche del sud del mondo, invece, i “nuovi” diritti di cui si promuove la tutela sono diversi: diritto all’alimentazione, alla casa o all’acqua. Lo sviluppo dei diritti dell’uomo sin qui riassunto può indurre a pensare che la Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, non sia in grado di garantire i diritti emersi dopo tale data. Al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare che, per redigere la Costituzione repubblicana, l’Assemblea costituente formò al suo interno una Commissione di 75 membri che lavorò dividendosi in tre sottocommissioni, due delle quali si occuparono di diritti: la prima dei diritti e doveri dei cittadini, la terza dei diritti e doveri in campo economico e sociale6. Ciò dovrebbe rendere subito evidente quanto fosse rilevante il tema dei diritti fondamentali per una generazione che aveva vissuto l’esperienza autoritaria del fascismo e i drammi della guerra. La Costituzione italiana, come le principali Costituzioni del secondo dopoguerra, riconosce e garantisce le libertà classiche, i diritti politici e i diritti sociali, ma non rimane chiusa su se stessa, essendo un testo elastico e duttile7. La Costituzione, infatti, contempla un procedimento per riformarla, quello contenuto nell’art. 138 Cost., e contiene dei concetti “valvola”, che si prestano a interpretazioni diverse, così da consentire di adeguarla ai mutamenti della società. Si pensi, innanzitutto, agli artt. 2 e 3 Cost., che consentono di tutelare diritti che i costituenti non potevano prevedere (guardando all’attualità, il riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso non trova il suo fondamento nell’art. 29 Cost., ma può essere garantito in virtù dell’art. 2 Cost.8); oppure si consideri il riferimento nell’art. 21 Cost. a “ogni altro mezzo di diffusione” del pensiero, che consente di estendere la garanzia costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero alle nuove modalità attraverso le quali si esercita (ad esempio, per mezzo dei social network); o, ancora, si può fare riferimento alle disposizioni costituzionali che riguardano le c.d. libertà economiche (in particolare, gli artt. 41, 42 e 43 Cost.), che si sono adattate sia all’intervento pubblico nell’economia degli anni Sessanta del secolo scorso sia all’apertura alla concorrenza e al mercato richieste dalla partecipazione italiana all’Ue. La Costituzione, dunque, è strutturata in maniera tale da poter recepire i mutamenti della società e, sin dal suo testo originario9, appare anche in grado di dialogare con la comunità internazionale, in particolare attraverso gli artt. 10, 80, 87 e 11 Cost. Il primo richiede che l’ordinamento italiano si conformi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto, gli artt. 80 e 87 Cost. prevedono la ratifica dei trattati internazionali da parte dell’Italia, mentre l’ultimo articolo ha offerto una copertura costituzionale alla partecipazione italiana al processo di integrazione comunitaria. La Costituzione italiana, le Costituzioni del secondo dopoguerra e le Carte internazionali e sovranazionali dei diritti, quindi, costituiscono un articolato sistema di riconoscimento e tutela dei diritti dell’uomo all’interno del quale le istituzioni nazionali e internazionali dialogano e si influenzano a vicenda, implementandone l’effettiva tutela. È necessario tuttavia evitare di incorrere in taluni fraintendimenti. In primo luogo, occorre considerare che i diritti dell’uomo non sono riconosciuti e tutelati nel medesimo modo in ogni parte del mondo, poiché la loro interpretazione dipende anche dai contesti sociali e culturali, più o meno diversi tra loro. Un esempio è rappresentato dalla pronuncia della Corte 2 Del 4 novembre 1950, ratificata in Italia con la legge n. 848 del 1955. 3 Approvata dall’onU il 20 dicembre 1959. 4 Con il c.d. Protocollo di Strasburgo, firmato l’11 maggio 1994 e ratificato in Italia con la legge n. 296 del 1997. 5 Proclamata il 7 dicembre 2000. 6 Per completezza, si ricorda che la seconda sottocommissione si occupò dell’organizzazione dello Stato. 7 Così L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, p. 140. 8 Cfr. Corte cost. sent. n. 138 del 2010. 9 Quanto alle riforme successive, si può ricordare che la riforma del comma 1 dell’art. 117 Cost. ad opera della legge costituzionale n. 3 del 2001 ha previsto che la potestà legislativa di Stato e Regioni debba esercitarsi nel rispetto non solo della Costituzione, ma anche dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | COPERTINA europea dei diritti dell’uomo che non ha riscontrato alcuna violazione dei diritti contemplati dalla cedU nell’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche italiane, in quanto espressione delle tradizioni storiche e culturali nazionali10; se il ricorso avesse riguardato le scuole di un altro Paese europeo, l’esito poteva essere diverso a fronte di un differente contesto storico e culturale11. Un esempio più chiaro può essere fornito da un contesto culturale più distante dalle democrazie occidentali, come quello rappresentato dal mondo islamico. Se si prende in considerazione la Dichiarazione universale islamica dei diritti dell’uomo12, ad esempio, si può osservare che essa si ispira alla Dichiarazione universale del 1948 ma le sue disposizioni sono sovente interpretate giustificando delle differenze di trattamento tra uomini e donne, oppure tra musulmani e non musulmani13. Occorre aver cura, dunque, di non presumere che il modo in cui nella nostra società si intendono i diritti dell’uomo sia quello universalmente condiviso e che esso possa o debba essere automaticamente e repentinamente esteso a contesti culturali differenti. In secondo luogo, bisogna rifuggire dalla convinzione che si possa chiedere una sempre maggiore o addirittura illimitata espansione dei diritti dell’uomo. I diritti, infatti, sono “a somma zero”14, perché l’estensione di un diritto per una categoria di persone comporta la limitazione del medesimo diritto per altre persone o la compressione di altri diritti. Anche in questo caso è agevole fare degli esempi. La richiesta di maggiore sicurezza volta a garantire la vita e l’incolumità delle persone contro il crescente fenomeno del terrorismo comporta l’adozione di misure che limitano la libertà di circolazione (controlli alle frontiere) o quella di comunicazione (intercettazioni telefoniche o dei flussi telematici) delle medesime persone che richiedono maggiore sicurezza. Oppure, si pensi alle vicende legate all’ilva di Taranto, con la drammatica tensione tra la tutela del diritto alla salute e quella del diritto al lavoro. O, ancora, si consideri che la richiesta di trattamenti pensionistici più favorevoli (un’età di pensionamento più bassa o un più elevato ammontare della pensione) può avvantaggiare una generazione di persone a discapito di 10 Il riferimento è a Corte EDU, Grande Camera, sent. 18 marzo 2011, Lautsi e altri c. Italia. 11 È scontato fare riferimento alla Francia e al principio di laicità dello Stato previsto espressamente dalla Costituzione del 1958 all’art. 1. Tuttavia, anche nell’ordinamento francese esistono delle peculiarità, ad esempio se si considera che nei dipartimenti dell’Alsazia e della Lorena è ancora in vigore il concordato concluso da Napoleone con la Santa Sede nel 1801, come ricorda M. olivetti, I diritti fondamentali Lezioni, Foggia, 2015, p. 328. 12 Proclamata a Parigi, presso l’Unesco, il 19 settembre 1981. Ma esiste anche la Dichiarazione del Cairo dei diritti umani nell’Islam, adottata con la risoluzione del 5 agosto 1990 della XIX Conferenza islamica dei ministri degli esteri. 13 In proposito si v. R. BahlUl, Prospettive islamiche del costituzionalismo, in P. costa, d. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto, Milano, 2002, pp. 630-631. 14 R. Bin, Relazione finale, in A. ciancio (a cura di), Nuove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa, Roma, 2014, p. 505. Secondo l’Autore il bilanciamento è la dimensione propria di tutti i diritti e pertanto «quanto maggiore è la tutela riconosciuta ad un diritto, di altrettanto è ridotta quella di un altro diritto (o del diritto di un altro)». quelle successive. La tutela dei diritti, dunque, è anche una delicata operazione di bilanciamento tra esigenze diverse, a volte contrastanti, che richiede di affrontare tale questione con equilibrio, evitando di cadere nella retorica che illude di poter pretendere semplicemente “più diritti per tutti”. Infine, non bisogna supporre che il sacrificio di chi ha combattuto e anche dato la vita per tramandare alle future generazioni il riconoscimento dei diritti fondamentali ne garantisca un’acquisizione definitiva. Invero, pur senza (si spera) dover giungere all’estremo sacrificio per garantire il soddisfacimento di tali diritti, la loro tutela richiede il costante coinvolgimento di ogni membro della collettività. Siffatta esigenza è ben espressa nell’art. 2 della Costituzione italiana, che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» e, contestualmente, «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Alcuni di tali doveri possono eventualmente essere imposti con legge ai sensi dell’art. 23 Cost., ma altri sono espressamente elencati in Costituzione: il “sacro” dovere di difendere la Patria (art. 52 Cost.); la fedeltà alla Repubblica, che richiede di osservarne la Costituzione e le leggi (art. 54, comma 1, Cost.); il dovere di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore (art. 54, comma 2, Cost.); il dovere di concorrere alle spese pubbliche (art. 53 Cost.). Per fare un esempio della connessione tra diritti e doveri, basti osservare che la violazione del dovere tributario può comportare una riduzione delle risorse finanziarie a disposizione dei pubblici poteri per garantire la concretizzazione dei diritti. In conclusione, si può affermare che solo il costante adempimento dei doveri inderogabili consente di garantire l’attuazione dei diritti e di tramandarli alle generazioni future, tracciando una linea di continuità tra generazioni che si riconoscono nel comune impegno di preservare e tutelare i diritti dell’uomo senza pensare, in maniera egoistica, al solo tempo presente15. 15 D’altro canto, come osserva A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, 3ª ed. aggiornata e modificata, Padova, 2003, pp. 57-58, «in una democrazia pluralista, come la nostra, il contemperamento, in concreto, del valore della libertà con quello dell’eguaglianza (che è la ragion d’essere delle liberaldemocrazie) non potrà mai essere realizzato con intransigenza giuridica e con l’egoismo, ma solo a prezzo di rinunce reciproche». 7 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Genere e pregiudizio: l’atteggiamento delle donne italiane verso le donne immigrate MARIA GRAZIA MONACI, LUCA SCACCHI Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università della Valle d’Aosta - Université de la Vallée d’Aoste Questo contributo vuole portare l’attenzione su un aspetto ancora relativamente poco studiato dell’atteggiamento verso l’immigrazione: quello verso la sua componente femminile. L’immigrazione femminile si differenzia da quella maschile per numerosi aspetti, fra cui la sua scarsa visibilità. Per la forma sommersa che assume, questo fenomeno rimane poco conosciuto, sebbene con un forte impatto sul piano sociale. Scopo generale dello studio è valutare se l’atteggiamento degli italiani nei confronti delle immigrate straniere, e le sue componenti cognitive ed emotive, sia quantitativamente e qualitativamente diverso da quello verso gli immigrati in genere. Ci aspettiamo che esse vengano percepite come meno minacciose; di conseguenza, le valutazioni nei loro confronti dovrebbero essere più favorevoli. Se, come ipotizziamo, esse godessero di un’immagine più positiva rispetto agli immigrati in generale, potrebbero assumere una funzione privilegiata nell’attuale contesto di convivenza e nel processo d’integrazione multiculturale. Si è inoltre cercato di esaminare se nella valutazione dell’immigrazione femminile ci sono differenze attribuibili all’appartenenza di genere dei partecipanti stessi. Vogliamo cioè distinguere fra le valutazioni espresse da uomini e donne italiani, ipotizzando un atteggiamento migliore nelle donne quantomeno verso le donne straniere, a causa della categorizzazione incrociata (Deschamps e Doise, 1978; Brewer, 2000). Deschamps e Doise (1978) sostengono che, laddove due dimensioni categoriali non sovrapposte si intersecano, la differenziazione categoriale diminuisce, facendo calare la tendenza a discriminare l’outgroup; la discriminazione diventa più complessa poiché i nostri interlocutori possono essere membri dell’ingroup per alcune dimensioni e dell’outgroup per altre. Sebbene diversi studi abbiano confermato questo fenomeno (Crisp, Hewstone e Rubin, 2001), altre ricerche 8 hanno mostrato risultati contraddittori. Ad esempio, in alcuni casi una dimensione risulta dominante rispetto ad altre (Hewstone, Islam e Judd, 1993): in altre parole, gli effetti della categorizzazione incrociata nella riduzione del pregiudizio sono influenzati dall’importanza percepita delle dimensioni di categorizzazione in gioco. CHI SONO LE DONNE MIGRANTI. LA RIPARTIZIONE PER GENERE DEGLI INGRESSI E I MOTIVI DI I SOGGIORNO n base ai dati Istat relativi al 2015, gli stranieri rappresentano l’8,3% della popolazione italiana totale, poco oltre 5 milioni di persone, e per il 53,7% sono donne. La presenza femminile è costantemente aumentata negli anni: nel 1994 rappresentavano il 35% della popolazione migratoria mentre il “sorpasso” rispetto a quella maschile è avvenuto nel 2008. I flussi migratori femminili verso l’Italia non rispecchiano le proporzioni di quelli generali. La quota femminile è meno incidente, da sempre, dai paesi dove prevale la cultura islamica, con punte di uomini dai paesi Nordafricani o dal Sub-continente Indiano intorno al 65/70%. Pur non essendo SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI così scarsamente rappresentate, anche le donne provenienti da Vicino e Medio Oriente o dall’Africa occidentale non superano il 40% delle presenze totali. Diversamente, le aree a maggior protagonismo femminile risultano essere i paesi europei non comunitari dell’est e l’America Centrale e meridionale. Un caso particolare è rappresentato da alcuni specifici paesi (Capoverde, Etiopia, Eritrea ma anche Filippine) che raggiungono percentuali di migrazione femminile comprese tra il 70% e l’80%. L’Italia, infatti, ha cominciato la sua esperienza quale paese di immigrazione quando i flussi riguardavano proprio le donne provenienti da questi paesi, per il loro inserimento nel mondo del lavoro domestico. In alcuni casi (come quello delle Filippine e delle donne dello Sri-Lanka) ciò era il frutto di politiche di incoraggiamento all’emigrazione dei paesi di esodo, ma principalmente risponde ad una precisa domanda dei paesi di approdo. I flussi migratori, e anche la loro diversificazione per genere, sono generalmente correlati a trasformazioni di ordine sociale intervenuti nei paesi di esodo ma anche a processi strutturali e culturali dei paesi di approdo, che hanno visto ad esempio le donne inserirsi in maniera sempre crescente nel mercato del lavoro dei paesi a sviluppo avanzato: una maggior incidenza di immigrate che forniscono servizi domestici rende possibile alle italiane di passare più ore al lavoro. In Italia, ad esempio, negli anni ’70 la richiesta di domestiche era particolarmente elevata, e superava quella di manodopera a basso costo e di enterteiners. Negli anni seguenti l’immigrazione femminile diminuì la sua rappresentatività, fino a quando, dalla seconda metà degli anni ’90, la “femminilizzazione” dei flussi nel nostro paese ha ripreso vigore grazie ai ricongiungimenti familiari, agevolati da nuove norme legislative, che hanno coinvolto soprattutto donne provenienti dall’area magrebina. L’analisi dei permessi di soggiorno, differenziati in funzione del genere, consente di appurare come in Italia siano in corso due differenti dinamiche migratorie. Da una parte si registra una crescita di nuovi arrivi legati ai motivi di famiglia, con il 51.2% (rispetto al 25% relativo agli uomini) dei permessi per ricongiungimento concesso a donne, il motivo più frequente per le donne (dati relativi al secondo semestre 2014 dall’approfondimento tematico dell’ISTAT sull’ Integrazione di stranieri e naturalizzati nel mercato del lavoro). Dall’altra il più consistente numero di ingressi è per motivi di lavoro, stabile nel tempo, lievemente in crescita per le donne ma ancora molto minore rispetto agli uomini (45.1% vs 70.5%, con l’eccezione di ucraine, filippine, moldave, dove la percentuale sale molto e supera quella dei connazionali uomini). Si osserva dunque un aumento di motivi di inserimento stabile, mentre sono in diminuzione i permessi concessi per motivi diversi dall’inserimento (umanitari, giudiziari, salute, ecc.). Le donne straniere immigrate hanno posizioni lavorative ben diverse rispetto agli uomini immigrati. Esse sono occupate prevalentemente nei servizi sociali e alla famiglia (il 51.3%, secondo il rapporto “Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano”, a cura di Alessandrini e Dell’Aringa, 2012), prevalentemente come collaboratrici domestiche o assistenti familiari; seguono Istruzione/ sanità e manifattura. Gli uomini lavorano prevalentemente nelle costruzioni, come operai o artigiani, o nel turismo. Il lavoro femminile si colloca in settori in cui prevalgono attività manuali ed esecutive, malpagate o sottopagate, non sindacalizzate, spesso precarie e con possibilità di carriera o di promozione sociale nulle (Favaro e Tognetti Bordogna, 1991). Le necessità economiche portano queste donne ad accettare orari lavorativi molto lunghi che, sommati agli impegni domestici e famigliari, le privano di tempo libero, risultando in tal modo totalizzanti. Queste diverse collocazioni contribuiscono notevolmente ad aggravare un divario salariale di genere già presente anche per gli italiani. Dal rapporto citato scopriamo che gli uomini stranieri ricevono il 19.9 per cento in meno dei colleghi italiani, mentre tra le donne il gap è decisamente più alto: lo stipendio di una dipendente italiana è superiore del 29.4 per cento a quello di una straniera (tra italiane e immigrate non comunitarie si osserva la differenza massima: il gap in questo caso sale al 31.1 per cento). Sempre dallo stesso rapporto apprendiamo l’ overqualification, cioè lavoratori con titoli di studio più elevati rispetto a quelli richiesti dall’occupazione svolta, è molto più elevata per gli stranieri (42.8 per cento) rispetto agli italiani (21.2 per cento), ma anche qui la discrepanza è particolarmente elevata nel caso delle donne: tra le italiane l’over-education riguarda circa una lavoratrice su cinque, mentre più della metà delle occupate straniere svolge mansioni per le quali risulta sovra-qualificata. Secondo i dati Istat dell’approfondimento tematico sul lavoro, ben il 29,9% degli occupati stranieri 15-74enni dichiara di svolgere un lavoro poco qualificato rispetto al titolo di studio conseguito e alle competenze professionali acquisite, che salgono a 4 su 10 se si tratta di donne straniere, specie se polacche, ucraine, filippine. E’ dunque ben presente per le immigrate straniere in Italia quello che è stato definito un doppio svantaggio, o “double jeopardy”, in quanto le donne di una minoranza etnica sono membri di due categorie svantaggiate (Almquist, 1973). L’IMMAGINE DELLE DONNE IMMIGRATE L’esame della ripartizione per genere degli immigrati impone una breve riflessione sul ruolo della donna nell’esperienza migratoria contemporanea. Anche se, fin dai primi anni sessanta, alcuni flussi migratori sono stati caratterizzati soprattutto dalla presenza di donne, a questi fenomeni non è stata prestata l’attenzione dovuta. La figura della donna è stata finora poco considerata o, se oggetto di studi, spesso esaminata come una semplice appendice dell’immigrazione maschile. Solo negli ultimi tempi vi è stato uno spostamento dell’attenzione a causa della sua portata sempre più ampia (es. Rapporto Caritas, 2006). L’immagine che ci viene fornita della donna di altre culture, soprattutto dei paesi del terzo mondo, è spesso 9 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 stereotipata: poco scolarizzata, sottomessa all’uomo, madre prolifera, incapace di prendere decisioni. Queste caratteristiche vengono estese alle donne immigrate, con l’aggiunta di casalinga o collaboratrice domestica se lavora, che non sa parlare l’italiano e che non si adatta alle nuove condizioni di vita (Favaro e Tognetti Bordogna, 1991). Entrambe le immagini si basano su una conoscenza superficiale di questa realtà, probabilmente dovuta alla condizione di “invisibilità sociale” più accentuata delle donne immigrate rispetto agli uomini. Appaiono più raramente nelle cronache sull’immigrazione, se si escludono quelle dei fatti legati alla prostituzione; l’inserimento lavorativo come domestiche o badanti certamente non favorisce i contatti, così come il fatto di essere casalinghe non allarga la possibilità di muoversi e di usufruire dei servizi. Un caso ancora a parte è costituito dalle donne immigrate di religione musulmana, che in larga parte hanno raggiunto il marito e una volta arrivate difficilmente si inseriscono nel mondo del lavoro e nella maggioranza dei casi rimangono confinate in famiglia (Basso e Perocco, 2000). Bisogna dunque sottolineare che l’universo migratorio femminile non è un tutt’uno monolitico bensì molto diversificato (Grasso, 1997): le situazioni di vita individuali e collettive, i comportamenti economici, familiari, sociali, le attitudini e i riferimenti culturali delle migranti differiscono in relazione al Paese d’origine e alla religione, al progetto migratorio e al modello di adattamento al Paese che le ospita. La migrazione è una decisione che matura nel tempo, ancor più nel caso delle donne che tendono ad affrontare la migrazione in età più avanzata rispetto ai maschi (Alessandrini e Dell’Aringa, 2012). Specialmente per le donne, gli elementi determinanti a livello personale possono essere molteplici: dalla necessità del ricongiungimento familiare, all’aspettativa di un miglioramento economico, dall’aspirazione ad emanciparsi dai propri modelli culturali tradizionali, all’esigenza di allontanamento dal proprio paese per motivi politici. È in tale occasione che le donne migranti smentiscono con forza gli stereotipi di “vittime passive” e danno conferma della loro indipendenza e capacità di intraprendere autonomamente progetti di vita complessi e impegnativi (Balsamo, 1997). La specificità dell’immigrazione femminile va ricercata anche nei ruoli che la donna ricopre all’interno della società e che, con la migrazione, assumono un valore ancora più ampio. In un ambiente sconosciuto la donna diviene depositaria della tradizione e nel contempo agente di cambiamento, costituisce l’elemento regolatore del processo di integrazione delle comunità immigrata (Campani, 1993). Sono loro, infatti, che mantengono, più degli uomini, i legami con la famiglia d’origine, scrivendo e cercando di tornare più spesso; riallacciano o mantengono i contatti nella vita affettiva e sociale della comunità, reinterpretando tradizioni e norme alla luce della nuova cultura ospitante. Inoltre creano reti sociali di sostegno all’interno delle proprie comunità in grado di aiutare i migranti nel loro 10 cammino di inserimento in un paese straniero, in maniera verosimilmente più efficace di quanto non sono in grado di realizzare le istituzioni (Basso e Perocco, 2000; Monaci, Carbone e Bonapace, 2010; Grasso, 1997). Anche se non esplicitamente, tali elementi trasformano la donna in promotrice di integrazione (Catani, 1983) e in “anello di congiunzione e mediazione sociale tra le culture” (Saint-Blancat, 2000), assegnandole un incarico di rilievo nella costruzione di quella società multietnica e interculturale invocata da molti. La migrazione femminile merita quindi lo stesso interesse, non solo dal punto di vista numerico, di quella maschile e forse anche di più. LE DONNE E IL PREGIUDIZIO A questa riflessione sul possibile ruolo della donna immigrata quale agente culturale e di integrazione si desidera accostare un’altra constatazione derivante dai risultati di ricerche sulle differenze di genere nell’atteggiamento interetnico e nell’espressione del pregiudizio. Emergono indicazioni su come le donne abbiano atteggiamenti più positivi verso le minoranze etniche rispetto agli uomini (Johnson e Marini, 1998) e siano maggiormente disponibili ad avere relazioni interpersonali con i loro membri (Hallilian e Teixeira, 1987). Dagli anni ’90, il corpo di ricerche che ha come oggetto le differenze di genere nell’orientamento verso gli altri ha conosciuto un nuovo sviluppo. Alcuni dei diversi aspetti che si possono prendere in considerazione (dallo stile relazionale interpersonale dei due generi ad alcune differenze negli atteggiamenti socio-politici) sembrano gettare basi coerenti per ipotizzare delle diversità di genere anche nell’atteggiamento interetnico. Si propongono, in sintesi, i risultati ottenuti in ambiti specifici di quest’area di ricerca. Gli studi sulle diversità tra uomini e donne nello stile relazionale sembrano indicare che le seconde rivolgano maggiore attenzione ai rapporti interpersonali rispetto ai primi. Le donne interagiscono in gruppi più piccoli, maggiormente cooperativi (Block, 1984), sono meno competitive (Van Vugt, De Cremer e Janssen, 2007), sono più orientate a fornire sostegno nelle relazioni di amicizia (Bugental e Beaulieu, 2009; Piliavin e Charng, 1990), si relazionano agli altri in modo più personale (Williams, 1985), sono più accoglienti e accettanti (Mills et al., 1995). Le diversità osservate sembrerebbero derivare principalmente dalle differenze nella socializzazione dei maschi e delle femmine, che a loro volta producono differenze nell’internalizzazione di processi cognitivi e affettivi: le femmine vengono educate a prendersi cura degli altri, ad assumersene la responsabilità, e a preoccuparsi del benessere delle persone in misura maggiore dei maschi (Block, 1984). Secondo Gilligan (1982) questa propensione delle donne a pensare agli altri e a focalizzarsi sulle relazioni interpersonali dovrebbe SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI essere evidente anche nella loro diversa modalità di ragionamento morale. Questa studiosa afferma che le donne sono “care oriented”, orientate alla cura, e ciò le porti a porre maggior attenzione agli aspetti relazionali delle situazioni e all’interdipendenza tra sé e gli altri. Al contrario, ritiene gli uomini siano orientati da un principio di giustizia più astratta che si focalizza sui diritti individuali, sull’equità e sulla reciprocità. Sono state in effetti trovate differenze correlate al genere a proposito di atteggiamenti di ordine politico-sociale. Oltre ad attribuire maggior importanza all’essere utili agli altri e al compiere attività che migliorino la vita della collettività (Marini et al., 1996), le donne dimostrerebbero maggiore preoccupazione per il benessere delle società considerata globalmente e per le problematiche di origine umanitaria (Shapiro e Mahajan, 1986). Questa differenza si estenderebbe ad una maggiore preoccupazione per la sorte delle minoranze etniche; secondo alcuni studi effettuati negli Stati Uniti, rispetto agli uomini esse sarebbero maggiormente favorevoli a quegli interventi sociali volti a eliminare la discriminazione (Poole e Zeigler, 1987), ad ottenere uguaglianza tra i diversi gruppi etnici (Steeh e Schuman, 1992) e avrebbero una maggiore tolleranza verso la diversità (Singely e Sedlacek, 2009; Terenzini et al., 1996). Nonostante le ricerche citate mostrino un certo grado di coerenza, seppur indiretto, con la possibilità che esistano differenze di genere nel pregiudizio, le ricerche in proposito non sono molto numerose e i dati a volte contraddittori. A sostegno di una differenza di genere nell’atteggiamento etnico, Johnson e Marini (1998) trovano in studenti delle scuole superiori americane dal 1976 al 1992, costantemente nel tempo e per entrambi i gruppi etnici considerati (bianchi e neri), che le ragazze hanno atteggiamenti significativamente più positivi dei coetanei maschi. Morris (1991) ha trovato differenze significative tra maschi e femmine nel livello di preoccupazione dimostrato per l’uguaglianza tra le minoranze in studenti americani che vivevano presso alloggi gestiti da stranieri. Simili risultati sull’effetto del genere vengono confermati anche da una ricerca europea che ha indagato l’atteggiamento di studenti tedeschi nei confronti degli stranieri immigrati (Noack e Kracke, 1995). Con uno studio di impostazione più sperimentale, Byrnes e Kiger (1992) hanno esaminato l’effetto del genere e dell’affiliazione religiosa sulla propensione ad agire fronteggiando un episodio di discriminazione razziale, ed emerge che le studentesse esprimevano una maggior volontà ad affrontare il discriminatore degli studenti maschi. Uno studio con ampie survey con studenti e non studenti trova che gli uomini hanno livelli significativamente maggiori di razzismo (McDonald, Navarrete e Sidanius, 2011). Questi risultati sono coerenti tra loro quanto meno rispetto ad una chiara distinzione di genere nell’atteggiamento verso la discriminazione o le politiche di uguaglianza, ma le conclusioni che si possono trarre non sono univoche: esistono, infatti, ulteriori studi che non hanno riscontrato alcuna differenza di genere nell’atteggiamento etnico (ad esempio Bath e Farrell, 1996); altri ancora registrano una tale tendenza che non risulta però sufficientemente consistente da avere significatività statistica (Qualls, Cox e Schehr, 1993). In particolare in ambiti caratterizzati da forme meno aggressive e più benevole di pregiudizio, le differenze di genere sono inesistenti o comunque di entità molto modesta, o sono addirittura le donne le donne ad avere atteggiamenti più sfavorevoli, e viene suggerito che le differenze dipendono più dal ruolo che i due gruppi occupano nella società che da differenze nei rispettivi processi di socializzazione (Hughes e Tuch, 2003), Un modello teorico che parte dalla prospettiva della dominanza sociale (McDonald, Navarrete e Sidanius, 2011; Navarreta et al, 2010) concorda sul fatto che fenomeni come il pregiudizio e l’etnocentrismo abbiano una chiara connotazione di genere dovuta al fatto che le stratificazioni sociali si basano su rapporti gerarchici, all’interno dei quali i maschi umani hanno un maggiore potere sociale rispetto alle femmine. Questo comporta anche una maggiore tendenza maschile alla dominanza sociale e all’aggressività, che però paradossalmente li porta ad essere anche il target privilegiato di fenomeni di pregiudizio e discriminazione. Di conseguenza le donne, proprio come gli uomini, hanno elevati livelli di pregiudizio contro gli uomini appartenenti ad un outgroup. Le donne quindi non sono immuni dal pregiudizio, sebbene le motivazioni sottostanti possano essere diverse in uomini e donne a causa dei diversi obiettivi adattivi dei due generi: aggressività e tendenza alla dominanza sociale negli uomini, strategie di evitamento e paura nelle donne. Tuttavia il pregiudizio delle donne sarebbe primariamente diretto agli uomini di un outgroup, a causa di una certa cautela e timore nei loro confronti, e non alle donne dell’outgroup, verso le quali vengono meno alcune delle motivazioni. Una possibile interpretazione delle incongruenze empiriche evidenziate è stata proposta da Verkuyten (1997), che non ha trovato differenze di genere nell’atteggiamento etnico a livello della sua intensità bensì ne ha individuate a livello di struttura: la componente emozionale giocherebbe un ruolo centrale e predittivo per l’atteggiamento interrazziale delle donne ma non avrebbe lo stesso valore per gli uomini. Verificare questa ipotesi è uno degli obiettivi del presente lavoro. LA PRESENTE RICERCA Un primo scopo di questo studio è esplorare quanto gli italiani conoscano il fenomeno “immigrazione” nella sua parte femminile, rispetto alla sua numerosità e ai lavori svolti. Abbiamo poi indagato il pregiudizio, l’atteggiamento verso l’immigrazione e il contenuto degli stereotipi e le emozioni che gli italiani provano verso gli immigrati in generale ed in particolare verso le donne immigrate. Le ipotesi possono essere così riassunte: 1. Le valutazioni sulle liste di tratti, di emozioni e 11 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 l’atteggiamento nei confronti delle donne immigrate saranno più positive di quelle espresse verso gli immigrati in generale. 2. Per le valutazioni espresse verso le donne immigrate, ci aspettiamo un maggiore effetto positivo sulle emozioni rispetto ad atteggiamento e stereotipo, legato ad una loro minore minacciosità. 3. Vogliamo infine verificare se esistono delle differenze tra uomini e donne italiane nello valutazioni espresse e nelle loro determinanti, e particolarmente nelle componenti affettive del pregiudizio. Partecipanti I partecipanti alla ricerca sono stati 196, dei quali 99 uomini e 97 donne, con un’età compresa tra 17 e 87 anni e una media di 39,1 (ds 14.9). I partecipanti sono stati reclutati casualmente in differenti ambienti associativi e/o sociali previa richiesta di autorizzazione nel caso ne fosse stata fatta richiesta (Caritas diocesana, uffici comunali…). I questionari erano consegnati individualmente ai partecipanti. Il tempo di compilazione complessivo era di circa 15 minuti. un atteggiamento negativo, spesso inconsapevole, che si manifesta in maniera socialmente accettabile nei confronti dei gruppi minoritari; questo atteggiamento implicherebbe una difesa dei valori tradizionali insiti nella cultura occidentale. Il pregiudizio manifesto, al contrario, si esprime come un rifiuto aperto e diretto che non si pone problemi di desiderabilità sociale e che corrisponderebbe al razzismo tradizionale o “vecchio stampo”. Dalla medie degli item di ciascuna sottoscala sono stati calcolati due indici distinti, uno di pregiudizio latente (alpha di Cronbach .63) ed uno di pregiudizio manifesto (.66), e un punteggio totale di pregiudizio (.47). * Emozioni provate nei confronti degli immigrati stranieri. E’ stata proposta una serie di 25 emozioni (8 positive es. “piacere, dolore, divertimento, allegria; 17 negative es.“paura, rabbia, preoccupazione..”; si veda Tabella 2); i partecipanti dovevano indicarne l’intensità provata su di una scala tipo-Likert a cinque punti (da 1 “per nulla” a 5 “molto”). Successivamente veniva richiesto di spostare l’attenzione in particolare sulle donne immigrate straniere e si riproponeva lo stesso compito con il medesimo elenco di emozioni. * Stereotipo. Veniva presentata ai partecipanti una lista di 22 aggettivi (6 positivi “gentili, socievoli, intelligenti, .. e 16 negativi, si veda Tabella 3) e si domandava loro di esprimere su una scala tipo-Likert a cinque punti quanto questi fossero tipici degli immigrati stranieri (da 1 “per niente” e 5 “molto”). Anche in questo caso la lista è stata presentata due volte: nel compilare la prima si doveva fare riferimento agli immigrati in genere, per la seconda esclusivamente alle donne immigrate straniere. Il questionario Lo strumento utilizzato è un questionario autosomministrato costituito da differenti parti. Oltre ad aspetti socio-anagrafici erano misurate le seguente variabili: * Stima della presenza femminile immigrata nel territorio. Veniva richiesto di stimare la percentuale di immigrati costituita da donne; un’altra domanda riguardava le attività lavorative svolte (in % su diverse categorie quali lavoro regolare, lavori illeciti, lavoro domestico– badante, ambulantato, prostituzione); il medesimo quesito era RISULTATI ripresentato con riferimento agli immigrati in generale e alle Conoscenza del fenomeno migratorio al femminile sole donne. Abbiamo esaminato le risposte fornite dal campione in * Atteggiamento verso l’immigrazione è stato misurato mediante una scala grafica di 100 mm, con agli estremi: riferimento alla conoscenza della componente femminile del “per niente favorevole” (0) e “molto favorevole” (100). Si fenomeno migratorio. Per quanto riguarda la percentuale stimata delle donne domandava di esprimere la propria favorevolezza sia verso l’immigrazione in generale che, con una seconda scala sul numero complessivo di immigrati presenti in Italia, la media delle stime si attesta al 38,2%, con una media grafica, in particolare verso l’immigrazione femminile. parziale del 37,2% per gli uomini e del 38,6% per le donne, Pregiudizio latente e manifesto. La scala di pregiudizio * di Pettigrew e Meertens (1995) è stata proposta nella non significativamente diversa al chiquadro. Nella realtà è versione italiana di Arcuri e Boca (1996). La scala è oltre il 50% (superato nel 2008); assistiamo quindi ad una composta da 20 items, con scale Likert di risposta a 5 sottostima del numero reale di donne immigrate. Le stime percentuali sulle gradi, e ai partecipanti Tabella 1. Stime espresse sull’occupazione della popolazione principali occupazioni degli non era richiesto di fare immigrata. immigrati in generale e riferimento ad uno specifico …secondo lei in che percentuale delle donne in particolare gruppo etnico, bensì alla sono occupati nei seguenti Immigrati Donne Immigrate ambiti lavorativi gli immigrati/ mostrano una netta categoria generale degli le donne immigrate? differenza signi-ficativa (al immigrati stranieri. La scala Ambulantato 23,8 9,6 t-test pairs, tutte con p < distingue tra una forma Lavori regolari 21,0 16,3 .001), in par-ticolare i lavori sottile (latente) e una forma Lavori illeciti 23,2 12,4 illeciti e l’ambulantato sono manifesta di pregiudizio. Prostituzione 20,0 38,2 mag-giormente attribuiti agli Gli autori sostengono che Domestici - Badanti 14,7 26,6 uomini mentre occupazioni la forma sottile esprima 12 SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI Figura 1. Atteggiamento verso l’immigrazione di donne e uomini italiani. quali prostituzione e lavori domestici alle donne. Donne e uomini italiani non si differenziano significativamente e non vengono dunque riportate in tabella le relative stime distinte. Atteggiamento di uomini e donne italiane verso l’immigrazione Un’analisi di varianza 2 (Genere dei partecipanti italiani Genere_IT) x 2 (Genere immigrati Genere_IMM, con il primo fattore between subjects ed il secondo within subjects), è stata condotta sul grado di favore espresso nei confronti dell’immigrazione straniera in generale e di donne in particolare. Emerge un effetto significativo per il fattore Genere_IMM (F(1.194) = 23.8, p < .001), mentre non è stato riscontrato nessun effetto del fattore Genere_IT; è tuttavia significativa l’interazione fra i due fattori (F(1.194) = 5.1, p < .05): l’andamento delle medie è mostrato nel Grafico 1. Possiamo osservare che l’atteggiamento verso l’immigrazione femminile è più favorevole che verso l’immigrazione in genere, e che sono le donne italiane ad avere l’atteggiamento più sfavorevole verso l’immigrazione in generale mentre sono solo leggermente più favorevoli a quella femminile rispetto agli uomini italiani. Per il pregiudizio verso gi immigrati stranieri (non differenziato per genere in questo caso), la media per il pregiudizio manifesto è pari a 2.8 (d.s.= .56) ed è inferiore a quella per il pregiudizio latente che è pari a 3.2 (d.s.= .57), come è emerso in numerosi studi precedenti. Non emergono differenze significative fra donne e uomini italiani, sebbene le donne ottengano punteggi solo tendenzialmente inferiori sul punteggio complessivo di pregiudizio (media F 2.97 vs M 6.08, p = .09). Emozioni verso gli immigrati Abbiamo confrontato le emozioni provate verso gli immigrati in generale con quelle espresse nei confronti delle donne immigrate, sempre con analisi della varianza 2 (Genere_IT, between) x 2 (Genere_IMM, within), e successivi confronti con t-test pairs e group. I valori medi e i confronti sono riportati in ordine decrescente sul totale verso gli immigrati in generale in Tabella 2. Appare che le emozioni provate più intensamente sono simpatia, interesse, curiosità, dolore, preoccupazione e piacere; i punteggi più alti sono riferiti ad emozioni tendenzialmente positive o, se negative, che si riferiscono ad una risposta empatica verso la difficile condizione dei migranti, mentre quelli più bassi sono stati attribuiti alle emozioni più ostili come disgusto, disprezzo e odio. Passando al confronto per genere degli immigrati, le medie delle valutazioni espresse nei confronti degli immigrati in generale risultano significativamente maggiori rispetto a quelle espresse nei confronti delle donne immigrate per le emozioni negative preoccupazione, timore, disagio, imbarazzo, paura, irritazione, ansia, rabbia. Solo per quanto riguarda la tristezza le donne immigrate hanno ottenuto un punteggio significativamente maggiore. Considerando due indici riassuntivi rispettivamente per le emozioni positive e le emozioni negative (alpha di Cronbach rispettivamente .84 e .87), i relativi confronti sono riportati in fondo alla tabella e confermano la maggiore intensità delle emozioni negative provate verso gli immigrati rispetto alle immigrate (effetto principale Genere_IMM F (F (194,1) = 25.9, p < .001) Esaminando invece le differenze nei giudizi in base al genere del soggetto giudicante italiano, le emozioni provate verso gli immigrati in generale risultano essere significativamente diverse per emozioni negative quali: malinconia, tristezza, paura: le donne italiane le esprimono in misura maggiore rispetto agli uomini italiani. Più numerose le differenze nelle emozioni provate verso le donne immigrate: dolore, preoccupazione, tristezza, disagio, timore, paura, irritazione, ansia, disgusto sono sempre più intense nelle donne italiane. I confronti delle medie su gli indici riassuntivi di emozioni positive e negative mostrano che le donne italiane hanno espresso emozioni negative più intense sia verso gli immigrati in generale sia verso le donne immigrate, mentre non emergono differenze sulle emozioni positive. Non emergono interazioni. Lo stereotipo degli immigrati La Tabella 3 mostra come i tratti maggiormente attribuiti agli immigrati siano sia positivi che negativi, quali poveri, irregolari, insistenti ma anche socievoli e intelligenti. I risultati del confronto tra le medie per genere degli immigrati mettono in risalto che gli immigrati in generale hanno ottenuto medie significativamente maggiori rispetto alle donne immigrate per tratti negativi quali litigiosi, insistenti, irregolari, sporchi, delinquenti, pigri, aggressivi, ignoranti e disonesti; come per le emozioni, quindi, le donne sono percepite meno negativamente degli uomini, ma non più positivamente. Gli unici tre tratti che nei punteggi si differenziano perché maggiormente attribuiti alle donne immigrate sono superstiziose, sensibili e ignoranti; 13 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Tabella 2. Medie e confronti delle emozioni provate verso gli immigrati e verso le donne immigrate, totali e nelle donne e uomini italiani. IMMIGRATI Totale IMMIGRATI M it Donne_IMM F it M it (n=97) (n=99) F it (n=97) (n=99) simpatia 3,0 2,9 3,0 3,1 3,0 2,9 interesse 2,9 2,8 2,7 3,0 2,7 2,8 curiosità 2,8 2,9 2,9 2,8 2,9 2,9 dolore 2,6 2,4 2,4 2,7 2,1 2,7 ** preoccupazione 2,5 2,2 * piacere 2,5 2,4 malinconia 2,5 2,4 tristezza 2,5 2,6 dispiacere 2,4 2,5 timore 2,2 disagio *** 2,4 2,6 2,0 2,5 2,6 2,4 2,5 2,3 2,2 2,7 * 2,3 2,5 * 2,3 2,7 ** 2,5 2,8 2,3 2,5 2,4 2,6 1,7 *** 2,2 2,3 1,5 1,9 ** 2,2 1,9 *** 2,2 2,2 1,7 2,0 * imbarazzo 2,1 1,9 ** 2,0 2,1 1,7 2,0 allegria 2,0 1,9 2,0 2,1 1,8 1,9 paura 2,0 1,5 1,8 2,2 felicita 2,0 1,9 1,9 2,1 irritazione 2,0 1,6 ansia 1,9 1,8 colpa 1,9 1,8 rabbia 1,8 1,6 sorpresa 1,7 divertimento 1,7 vergogna *** *** * 1,3 1,7 1,8 2,0 * * 1,9 2,1 1,4 1,8 ** 1,8 2,0 1,6 1,9 * 1,9 1,8 1,9 1,7 1,7 1,8 1,5 1,7 1,7 1,7 1,8 1,6 1,8 1,7 1,6 1,8 1,7 1,8 1,6 1,5 1,6 1,6 1,5 1,5 disgusto 1,5 1,4 1,4 1,6 1,3 1,5 disprezzo 1,4 1,3 1,3 1,5 1,3 1,3 odio 1,4 1,3 1,4 1,3 1,2 1,4 Emozioni positive 2,3 2,3 2,3 2,4 Emozioni negative 2,0 1,8 1,9 2,1 * ** questo probabilmente perché tali tratti aderiscono molto fortemente allo stereotipo femminile socialmente condiviso e all’immagine della donna di culture del terzo mondo. Anche i tratti sono stati sinteticamente riassunti in tratti positivi e tratti negativi (alpha di Cronbach rispettivamente .76 e .91). In fondo alla Tabella 3 possiamo osservare che le medie non si differenziano nei tratti positivi mentre i tratti negativi vengono attribuiti agli immigrati stranieri in misura significativamente maggiore rispetto alle sole donne immigrate. I risultati del confronto tra uomini e donne italiani mostrano che sostanzialmente non si riscontrano importanti differenziazioni circa i tratti attribuiti agli immigrati; solamente per astuti, maggiormente attribuito dagli uomini italiani, e testardi, maggiormente attribuito dalle donne italiane, troviamo una differenza significativa. Poche le differenze significative anche nelle attribuzioni di tratti alle donne immigrate: per gli uomini italiani sono più povere e socievoli, per le donne italiane sono sempre più 14 DONNE IMMIGRATE (*) 2,2 2,3 1,7 2,0 * ** testarde. I raggruppamenti di tratti positivi e negativi verso gli immigrati mostrano che donne e uomini italiani non si differenziano, e che quindi sostanzialmente condividono lo stesso stereotipo. La struttura del pregiudizio in uomini e donne italiane Per condurre un’analisi più approfondita della struttura di pregiudizio e atteggiamento verso l’immigrazione, sono state stimate delle regressione lineari multivariate, con predittori i tratti e le emozioni rispettivamente positive e negative attributi e provate verso gli immigrati (Tabella 4). Due analisi di regressione con variabile dipendente il livello complessivo di pregiudizio sono state condotte separatamente nelle donne e negli uomini italiani. Nell’equazione che emerge per gli uomini italiani entrano come predittori significativi solo le due componenti dello stereotipo, i tratti positivi e i tratti negativi; per le donne italiane si conferma come predittore significativo l’indice relativo ai tratti negativi ma si aggiungono le emozioni SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI Tabella 3. Medie e confronti dei tratti attribuiti agli immigrati e alle donne immigrate, totali e nelle donne e uomini italiani. IMMIGRATI Totale IMMIGRATI IMMIGRATI M it Donne_IMM DONNE IMMIGRATE F it M it (n=97) (n=99) F it (n=97) (n=99) Poveri/e 3,7 3,6 3,8 3,6 3,7 3,4 Insistenti 3,6 3,2 *** 3,6 3,7 3,0 3,3 Irregolari 3,4 3,2 * 3,3 3,5 3,3 3,2 Socievoli 3,2 3,2 3,3 3,1 3,4 3,0 Intelligenti 3,2 3,1 3,2 3,1 3,2 3,1 Astuti/e 3,1 3,1 3,3 2,9 3,1 3,0 Volenterosi/e 3,1 3,2 3,1 3,1 3,2 3,3 Litigiosi/e 3,1 2,6 2,9 3,2 2,5 2,8 Rispettabili 3,0 3,1 3,0 3,1 3,1 3,1 Gentili 3,0 3,2 3,0 3,1 Testardi/e 3,0 3,0 2,8 3,3 Sensibili 3,0 3,2 * 3,1 2,9 3,2 3,1 Superstiziosi/e 3,0 3,1 * 3,0 2,9 3,0 3,2 Invadenti 2,9 2,8 2,9 3,0 2,7 3,0 Sporchi/e 2,9 2,7 ** 3,0 2,9 2,9 2,6 Delinquenti 2,9 2,5 *** 2,9 3,0 2,5 2,5 Pigri/e 2,8 2,6 ** 2,8 2,8 2,5 2,6 Aggressivi/e 2,8 2,5 ** 2,7 2,8 2,5 2,5 Disonesti/e 2,7 2,5 *** 2,6 2,8 2,4 2,5 Ignoranti 2,5 2,7 * 2,5 2,6 2,7 2,7 Maleducati/e 2,5 2,4 2,5 2,5 2,4 2,4 Non intelligenti 2,2 2,3 2,3 2,1 2,3 2,3 3,1 3,0 3,2 3,1 2,9 3,0 2,7 2,7 Tratti positivi 3,1 3,1 Tratti negativi 2,9 2,7 *** *** positive. Quattro modelli di regressione simili con dipendente l’atteggiamento verso l’immigrazione di immigrati stranieri in generale o verso l’immigrazione di donne straniere, e con predittori sempre i tratti e le emozioni attribuite rispettivamente agli immigrati o specificamente alle donne immigrate, mostrano che per gli uomini italiani sono predittori significativi i tratti negativi ma anche le emozioni positive; per le donne italiane si aggiunge anche l’influenza delle emozioni negative mentre solo per l’atteggiamento verso le donne immigrate escono dall’equazione i tratti negativi. Anche questa seconda analisi di regressione conferma quindi che le valutazioni espresse dalle donne italiane sull’immigrazione, come già il pregiudizio, hanno una base più emotiva rispetto a quello degli uomini italiani e, particolarmente verso quelle femminile, una base totalmente emotiva. DISCUSSIONE In questo studio si è tentato di indagare, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, le diverse rappresentazioni che * ** 3,2 3,1 2,7 3,2 * ** ** gli italiani hanno delle donne straniere immigrate. Si sono ipotizzate alcune differenze alla base dell’atteggiamento delle italiane e degli italiani verso l’immigrazione, in particolare nelle loro risposte emotive. Una prima informazione che si ottiene dai risultati di questo studio riguarda la scarsa conoscenza che gli italiani possiedono di tale fenomeno. La quota di immigrazione femminile sul totale degli immigrati è stata valutata al 38% contro una stima reale che si attesta oltre il 50%; questo dato deriva probabilmente dalla scarsa visibilità che le donne immigrate godono rispetto agli uomini. Anche in riferimento agli ambiti occupazionali le valutazioni non risultano accurate: la quota di immigrate che il campione giudica coinvolte in attività illecite, e in particolare nella prostituzione, è molto superiore a quella reale (sebbene i numeri esatti siano difficile da valutare, le stime si attestano su circa 38.000 straniere prostitute, con percentuali quindi intorno l’ 1/2% delle donne straniere immigrate), mentre risulta minore del reale quella riferita alle occupazioni regolari; vengono dunque sovrastimati i lavori illeciti e i più visibili mentre le uniche categorie lavorative in cui le donne straniere immigrate hanno ottenuto attribuzioni percentuali 15 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Tabella 4. Regressioni multiple con dipendenti pregiudizio e atteggiamento verso l’immigrazione. Variabile dipendente: Pregiudizio Atteggiamento verso l’immigrazione Atteggiamento verso l’immigrazione femminile M it F it M it F it M it Tratti negativi .57 .48 -.36 -.22 -.23 Emozioni positive -.21 .48 .52 F it Predittori Tratti positivi Emozioni negative R2 aggiustato .36 -.34 0.37 0.41 -.23 0.36 0.41 .53 -.30 0.38 0.30 I coefficienti sono beta standardizzati. Per il pregiudizio a valori alti corrisponde maggiore pregiudizio, per l’atteggiamento a valori alta atteggiamento più favorevole superiori agli uomini sono quelle della prostituzione e della collaborazione domestica, lavori genericamente femminili. Gli errori nelle stime sugli ambiti lavorativi degli immigrati sembrano indicare una conoscenza “cronachistica” e lacunosa della realtà migratoria, dovuta probabilmente anche in questo caso alla scarsa visibilità delle realtà dell’immigrazione femminile. I partecipanti tendono a sottostimarne la presenza ma anche a percepire come meno minacciosa la loro presenza. Infatti, il punteggio di favorevolezza espresso verso l’immigrazione femminile è risultato significativamente maggiore di quello espresso verso l’immigrazione in generale, sebbene entrambi si collochino ampiamente nell’area dello sfavore. Sono in particolare le donne italiane ad essere sfavorevoli verso l’immigrazione, tendenza che si inverte se si considera l’immigrazione declinata al femminile. Rispetto a precedenti evidenze empiriche a volte contraddittorie (McDonald, Navarrete e Sidanius, 2011; Bath e Farrell, 1996;Qualls, Cox e Schehr, 1993; Hughes e Tuch, 2003), i nostri risultati sono a sostegno dell’ipotesi che le donne non abbiamo valutazioni sempre più favorevoli verso le minoranze etniche; piuttosto, in particolare nei confronti dei maschi di un outgroup arrivano ad avere atteggiamenti anche più negativi rispetto ai maschi del proprio ingroup. Che la ragione sottostante a questa differenza sia un maggiore timore nei loro confronti trova sostegno dai nostri dati rispetto alla minor intensità delle emozioni negative che le donne straniere suscitano nei partecipanti. Considerando le differenze nelle singole emozioni, si ottiene un pattern di risultati che delinea le differenze qualitative degli stati d’animo suscitati dagli immigrati e dalle immigrate. I primi sono vissuti come maggiormente minacciosi; le seconde, al contrario, sembrano tendenzialmente suscitare non emozioni più positive bensì timidi sentimenti di compassione. Dai risultati sulle attribuzioni dei tratti deriva una ulteriore conferma, secondo cui le immigrate godrebbero di un’immagine se non proprio più positiva quantomeno meno negativa rispetto agli immigrati, sebbene stereotipata: le donne sono ritenute più sensibili e superstizione e ignoranti, i secondi maggiormente pigri, insistenti, delinquenti, aggressivi e 16 litigiosi. E’ corretto tuttavia sottolineare che la media dei tratti e delle emozioni positive è sempre maggiore di quella riferita a tratti ed emozioni negative. Confrontando uomini e donne del campione dei rispondenti italiani osserviamo una tendenza da parte delle donne a fornire valutazioni risposte emotive più intense, sia verso gli uomini che le donne immigrate. Le donne riferiscono maggiori emozioni negative nei confronti degli immigrati sia maschi che femmine, provando più paura sebbene anche più malinconia a tristezza. Le emozioni negative provate verso le donne immigrate da parte delle donne italiane restano più intense di quelle provate dai maschi italiani, e di intensità comparabile a quelle provate verso gli immigrati in generale; sembra che la somiglianza di genere non riesca a ridurre l’angoscia, l’ansia, il disgusto provate verso questo fenomeno anche se provando anche più disagio, preoccupazione e dolore rispetto agli uomini italiani appaiono maggiormente empatiche e solidali verso la condizione di disagio delle donne immigrate. La sottostante struttura del pregiudizio conferma quanto suggerito da Verkuyten (1997), con le donne italiane che hanno una base più emotiva sottostante al loro pregiudizio verso gli immigrati in generale e al loro atteggiamento verso l’immigrazione e, quando questa è declinata al femminile, totalmente emotiva. Per quanto riguarda il pregiudizio, come ci si aspettava da precedenti evidenze empiriche (Pettigrew e Merteens,1995), il livello della componente manifesta è risultato inferiore a quello latente; inoltre le donne del campione hanno ottenuto punteggi inferiori, anche se non significativamente, su entrambe le scale. Le donne italiane anche se esprimono atteggiamenti più negativi verso l’immigrazione, esprimerebbero dunque tendenzialmente minori livelli di pregiudizio. Anche i nostri risultati sembrano quindi confermare che per le donne contano di più valori come l’eguaglianza, la tolleranza per la diversità, contro la discriminazione, ma resta anche rilevante la paura dell’immigrazione specie se declinata al maschile (McDonald, Navarrete e Sidanius, 2011) In conclusione, questo studio ha fornito delle indicazioni sull’atteggiamento degli italiani verso gli immigrati, e in particolare verso la sua componente femminile. SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI Complessivamente, i risultati mostrano come il fenomeno migratorio al femminile che interessa il nostro paese sia tutto sommato ancora poco conosciuto dai partecipanti. Sostanzialmente i risultati mostrano coerenza con le ipotesi: vengono riscontrate differenze in funzione del genere degli immigrati nell’atteggiamento verso l’immigrazione, nelle emozioni e nello stereotipo riferiti ad immigrati e immigrate. Le valutazioni espresse dal campione nei confronti delle donne immigrate sono meno negative di quelle espresse verso gli immigrati in generale. Solo l’ipotesi riferita al genere degli italiani trova conferme solo parziali, in accordo con altre evidenze empiriche presenti in letteratura; infatti, le donne italiane mostrano livelli di pregiudizio solo tendenzialmente migliori rispetto agli uomini italiani. Sono altresì emerse indicazioni sulla tendenza della popolazione a considerare le donne immigrate in maniera più positiva, e da parte delle donne italiane su una base più emotiva; le donne sono comunque più sfavorevoli verso l’immigrazione mentre la categorizzazione incrociata riesce a diminuire tale livello di sfavore se l’immigrazione è femminile. Queste indicazioni possono rivelarsi utili sia nell’ambito della ricerca per continuare a studiare la formazione ed i meccanismi di diminuzione dell’atteggiamento negativo verso l’outgroup, sia per una applicazione pratica in campo sociale, sfruttando i suggerimenti circa la migliore rappresentazione di cui godono le immigrate presso il campione al fine di una migliore integrazione degli stranieri nel nostro paese. BIBLIOGRAFIA Alessandrini, G., Dell’Aringa, C. (2012). Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano. Organismo Nazionale di Coordinamento per le Politiche di Integrazione Sociale degli Stranieri (O.N.C.) 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L’Europa può essere un sogno, un ideale, per qualcuno un semplice obiettivo politico auspicabile. Quel che è certo è che ad oggi non si può pensare di rimanere inerti di fronte a una scelta che si pone chiara di fronte a chiunque abbia una coscienza civile. La scelta necessaria, nascosta per tanti anni sotto il tappeto, ignorata ed elusa, alla fine si è presentata in tutta la sua urgenza: si vuole andare avanti nell’integrazione europea o tornare indietro? La dimensione della politica sovranazionale, antica ma al contempo attualissima, è la risposta, probabilmente l’unica risposta, alle crisi che l’Italia e l’Europa stanno vivendo. La consapevolezza dell’urgenza di questa decisione, non più interrogativo dei filosofi politici ma oggi patrimonio del cittadino comune, passa per la presa di coscienza dei giovani, oggi sempre di più artefici dell’agire politico. Una generazione che ha già delle posizioni di responsabilità e può trasmettere i suoi valori, quelli del progetto di scambio Erasmus, del mondo allargato, della libera circolazione, a tutta la società. Una cinghia di trasmissione tra le vecchie generazioni, che ricordano ancora l’ Europa piena di blocchi, muri e confini, e le nuove, che vivono in una società sempre più liquida e senza direzione. Questa generazione, la così detta generazione erasmus sarà determinante per il futuro del nostro continente. La generazione che ha avuto l’occasione di vivere e conoscere l’Europa più di ogni altro in passato, può e deve compiere una scelta: andare avanti o tornare indietro. Rischiare sul progetto europeo oppure ritirarsi. Se si vedono le cose da questa pro- spettiva la Gioventù Federalista Europea (GFE)1 non è solo un movimento politico giovanile, nato e animato dal pensiero di Altiero Spinelli, ma è un gruppo di persone che condividono un idem sentire, una consapevolezza del presente ed una scelta per il futuro. La JEF (Jeunes Européens Fédéralistes)2 è un’organizzazione presente in tutti i Paesi dell’UE e anche in altri che ancora non ne fanno parte. Una rete di giovani federalisti che credono nell’Europa e tentano di mobilitare i giovani e la politica, una rete giovanile che pone di fronte alle coscienze la scelta, non più eludibile, tra sentirsi parte di una comunità più grande o rinchiudersi in una più piccola, erigendo muri e confini. In Italia i giovani federalisti sono presenti in più di 12 regioni italiane, da nord a sud, e possono contare sull’impegno quotidiano di centinaia di giovani e il contributo di altre migliaia, attivi nelle piazze, nel web e nel mondo accademico. Il rischio della chiusura delle frontiere e al contempo l’allarme terrorismo devono farci riflettere sul posizionamento delle giovani generazioni nel nostro Paese che, disilluse e male informate, possono ingrossare inconsapevolmente le fila dei partiti populisti che veicolano messaggi falsi e tendenziosi, diffondendo informazioni sbagliate o artefatte, che alimentano il vento dell’antieuropeismo. Si capisce perché, quindi, uno degli scopi principali dei giovani federalisti sia quello di informare e diffondere le notizie sulla situazione politica europea e dei diversi stati da un Paese all’altro. D’altra parte i giovani federalisti cercano un’interlocuzione costante con le istituzioni. La speranza è quella di suggerire delle soluzioni e comunicare le idee e le sensazioni di una gran parte dei giovani italiani, i quali amano il progetto europeo e lo vorrebbero veder crescere e non svanire. Negli ultimi mesi la Gioventù Federalista Europea ha lanciato tre proposte rivolte al governo italiano. I temi sono quanto mai attuali: crescita economica, immigrazione e terrorismo, emergenza geopolitica. In ognuno di questi settori l’Europa potrebbe, se ci fosse la volontà politica, procedere in un senso federale, creando un ministero dell’economia europeo, una polizia federale europea e un primo nucleo di esercito europeo. All’elaborazione di queste proposte hanno contribuito altre nove associazioni giovanili, impegnate nella cooperazione internazionale o nella tutela dei diritti dei cittadini. La presenza di diverse associazioni, con mission, scopi e orientamento politico diverso è un bellissimo segnale per le istituzioni democratiche ma anche per chi crede in un’Europa migliore. Queste tre proposte3 sono ancora in fase di elaborazione e un lancio ufficiale è previsto entro il prossimo autunno. Tuttavia già a Firenze, il 9 aprile 2016, si è avuta una prima presentazione, che ha goduto di qualche risonanza. Infatti erano presenti a quell’incontro l’onorevole Lara Comi, europarlamentare, e Marco Piantini, consigliere per gli affari europei del Presidente del Consiglio. Queste proposte dimostrano la vivacità della generazione erasmus nel difendere il progetto di Europa che ha ereditato dai padri fondatori: non solo Altiero Spinelli ma anche De Gasperi, Monnet e Adenauer. È una dimostrazione che la fiaccola dell’Europa non è ancora spenta del tutto. Sta ora alle istituzioni prestare attenzione a questo genere di iniziative. Se questa generazione, che ha avuto la fortuna di usufruire del Progetto Erasmus di scambio culturale e sociale tra giovani europei, è stata veramente toccata dal progetto europeo, questo è il momento di dimostrarlo anche sul piano politico, sia dal basso che dall’alto e senza farsi ostacolare da partigianerie non più attuali. I federalisti e in particolare i giovani continueranno a combattere per realizzare questo obiettivo, perché l’Europa non cade dal cielo ma si crea sulla terra, ogni giorno. 1 http://www.gfeaction.eu/ 2 http://www.jef.eu/home/ 3 http://www.gfeaction.eu/news-feed/85-3-pro poste-per-l-europa.html 19 CITTADINANZA EUROPEA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 A proposito di integrazione europea ANGELO ARIEMMA L’ Istituto Affari Internazionali (IAI) ha recentemente promosso un incontro-dibattito sul Progetto di ricerca Un Nuovo Patto per l’Europa: ricreare fiducia attraverso il dialogo1. L’incontro ha visto la partecipazione di Riccardo Alcaro (responsabile di ricerca IAI), Sandro Gozi (sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per gli Affari europei), Paolo Guerrieri (senatore PD), Luis Alberto Orellana (senatore Gruppo per le Autonomie), Martina Pignatti Morano (Presidente Un Ponte per…), Nicoletta Pirozzi (responsabile di ricerca IAI), coordinati da Giampiero Gramaglia (consigliere per la comunicazione IAI). L’articolazione del dibattito si è mossa lungo i fattori di crisi che stanno minando la tenuta dell’UE. La crisi economica che ha manifestato l’incompletezza del progetto della moneta unica, alla cui realizzazione non hanno fatto seguito una reale unione bancaria che desse alla BCE gli stessi poteri di cui gode per esempio la Federal Reserve americana, e un’unione fiscale e di bilancio; in tal modo ogni Stato ha dovuto affrontare la crisi secondo le proprie possibilità e le proprie scelte. La crisi delle migrazioni di massa, che fa traballare l’Accordo di Schengen2, perché ogni Stato si illude di poter controllare il flusso migratorio rialzando le proprie barriere, mentre ci vorrebbe un’unità di intenti e di forze dell’ordine a protezione dei confini UE, non al suo interno. Tutto questo riesce a porre in dubbio perfino i valori fondanti dell’UE: quei diritti umani sanciti dalla Carta europea dei diritti3, che ormai è parte costitutiva del Trattato di Lisbona; e quel 1 http://www.iai.it/it/ricerche/new-pacteurope 2 http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ TXT/?uri=uriserv:l33020 3 http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ TXT/?uri=CELEX%3A12012P%2FTXT 20 Mercato Unico, che implica necessariamente anche la libera circolazione delle persone. Allora occorrono nuovi modelli di accoglienza, anche per la massa di disperati che premono ai confini (e certo non sono loro a portare il terrorismo nel cuore dell’Europa); e nuove scelte economiche, più coraggiose, che ridiano speranza di futuro soprattutto ai giovani. Forse bisognerà pensare anche a un nuovo modello di integrazione: un’integrazione differenziata, per esempio tra i paesi che già adottano la moneta unica e che vogliono più celermente muoversi in direzione di una più forte unione economica e di una più decisa unione politica; mentre i paesi che ancora non si sentono pronti a questi passi potrebbero semplicemente condividere quei valori e quel mercato unico ai quali hanno aderito con il Trattato di Lisbona. Certo il recente referendum britannico che ha sancito la loro volontà di uscire dall’UE4, rende la futura prospettiva ancora più incerta e inquietante, ma rende anche più urgente la riflessione su quale Europa vogliamo e su quale informazione viene data agli elettori, che tendono a votare, anche per le questioni dell’UE, tenendo presenti unicamente la dialettica interna tra governo e opposizione nazionali. Qui si è visto come la “narrativa” mediatica sull’Europa sia stata sempre carente nel periodo delle vacche grasse, in cui tutti potevano godere dei van4 Ma già si parla di uno slittamento della Brexit al 2019. taggi dell’Unione, senza che mai fossero evidenziati come vantaggi prodotti dall’Unione. Mentre con l’arrivo delle crisi si è puntato il dito contro l’Unione, in una “narrazione” che facesse sentire i popoli europei vittime di poteri sovranazionali, dimenticando che le decisioni definitive vengono prese dal Consiglio dei Governi, con il metodo intergovernativo, oltretutto ancora in regime di unanimità, esautorando sempre più i poteri della Commissione e del Parlamento europeo e il metodo comunitario. Dunque, bisognerebbe porre più attenzione ai fatti, anziché a una “narrazione” comoda solo al mantenimento di cariche e poteri nazionali, non più in grado di incidere sulla scala globalizzata, dove vincono realtà economiche transazionali, che possono essere contrastate solamente da realtà statuali di livello continentale. L’Europa quale la conosciamo si è costituita con la strategia dei piccoli passi, ritenendo più facile partire da accordi economici che via via avrebbero rinsaldato la reciproca fiducia tra gli Stati. Tutto questo promosso da classi politiche che, nel muoversi a piccoli passi, avevano comunque ben presente la prospettiva futura di una vera unione politica dell’Europa5. Le crisi di questi anni hanno evidenziato tutta la mediocrità dell’attuale classe politica, e il limite di un’unione semplicemente 5 Si veda, a questo proposito, la lucidità “preveggente” dell’ultimo discorso (1995) di François Mitterrand al Parlamento euro-peo http://europarltv.europa.eu/it/player.aspx? pid=2be216c8-0080-4f05-88b0-a2eb0115bacf SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | CITTADINANZA EUROPEA economica, oltretutto neanche completata, rispetto a una vera e forte unione politica che nella prospettiva democratica unisse popoli da sempre portatori di un’unica “idea” di Europa fondata sulla sua millenaria cultura. La “narrazione” che vorrebbe riportare le nazioni europee chiuse nel loro “particulare” è un’illusione. Ma è un’illusione molto pericolosa, poiché proprio le chiusure nazionaliste hanno insanguinato l’Europa, dalla Guerra dei Trent’anni alle due Guerre Mondiali, in quelle che potremmo definire vere e proprie guerre civili tra popoli che peraltro sono progrediti sulla base di valori politici e culturali comuni. P romosso dal Circolo di Cultura Politica “Via Cassiodoro”6 e dall’Associazione “Università per l’Europa”7, si è svolto presso la Biblioteca della Camera dei Deputati un Convegno A proposito di Brexit che ha visto accademici e animatori culturali impegnati nella diffusione di una proposta che guardi all’Unione politica dell’Europa. Dopo il saluto dei promotori Gianna Radiconcini e Francesco Gui8, che hanno fatto notare come le cose del mondo siano cambiate rispetto agli anni dell’Europa felix, e come ci sia un impellente bisogno di classi dirigenti all’altezza dei nuovi compiti che il mondo globalizzato richiede, mentre le attuali classi politiche, invece di governare il cambiamento, si fanno “dirigere” dagli umori più irrazionali che la società esprime; e lo si è visto con la Merkel che, nella miopia dell’interesse elettoralistico nazionale, ha esitato a fornire gli aiuti alla Grecia, i quali sarebbero costati molto meno se dati subito; lo si è visto con Hollande che continua a rifiutare ogni cedimento di sovranità a favore di una difesa e una polizia europee; lo si è visto con Ca6 Circolo promosso dalla militante del Partito d’Azione Gianna Radiconcini https://www.youtube.com/watch?v=aA3walcGv5Q 7 http://www.universitapereuropa.eu/ 8 Professore di Storia moderna all’Università Sapienza di Roma e Presidente della Sezione Lazio del Movimento Federalista Europeo. meron, che ha promosso questo referendum anche lui per poter cavalcare i meri interessi britannici9. Tutto questo è riapparso anche nell’appassionato intervento di David Sassoli, vice-presidente del Parlamento europeo, che ha sottolineato come la crisi europea nasca dal fallimento del Progetto di Costituzione europea elaborato dalla Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing. Quel Progetto, bocciato dai popoli francese e olandese, sempre per interessi nazionalisti, ha infine prodotto il Trattato di Lisbona, nel quale è emerso con più forza il sistema decisionale intergovernativo a dispetto di quello comunitario, col risultato di bloccare la capacità decisionale dell’UE per salvaguardare gli interessi, spesso inconciliabili, dei singoli stati10. Quindi David Sassoli fa notare come il fronte “più Europa” risulti poi assente dalle piazze, anche in situazioni di forte crisi, come per esempio al Brennero “chiuso” dagli austriaci; mentre la “narrazione” antieuropea11, la quale vuole illuderci che la chiusura nei propri confini sia la soluzione alle crisi della globalizzazione, riempie le piazze e soprattutto gli schermi televisivi, quotidianamente e sistematicamente. Allora bisogna riconquistare l’opinione pubblica con una diversa “narrazione” dell’Europa: degli enormi vantaggi economici che ha portato e continua a portare; della possibilità di viaggiare e spostarsi senza passaporti e senza cambi monetari12; della 9 Grande sconcerto ci suscitano le dimissioni di tutti i “protaganisti” della Brexit dopo averla ottenuta. 10 Vogliamo qui sottolineare anche che l’allargamento dell’UE ai paesi dell’Est usciti dal comunismo è stato voluto, per strette ragioni di geopolitica, proprio dalla Gran Bretagna, senza peraltro modificare la clausola dell’unanimità, rendendo ingovernabile un sistema decisionale a 28 stati. 11 Mi permetto di notare che criticare il TTIP (Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti) in ragione del fatto che verremmo invasi dai prodotti USA, che sottostanno a regole molto lasche rispetto a quelle europee, e criticare poi le “troppe” regole europee che opprimerebbero le nostre libertà nazionali, mi sembra quanto meno incoerente. 12 Non dimentichiamo che a ogni cambio di moneta paghiamo il tasso che l’agenzia decide e il servizio che offre. generazione Erasmus che ha maturato un’esperienza condivisa tra tutti i giovani europei; di un’unica identità culturale che fonda l’Europa prima degli interessi economici; di un progetto politico che deve arrivare a compiersi, attraverso la trasparenza decisionale, attraverso un unico sistema fiscale e di bilancio che faccia da pilastro fondante la democrazia europea. L’ambasciatore Antonio Armellini esprime il timore che il processo di integrazione dell’Europa non è ipso facto irreversibile, anzi la Brexit potrebbe innescare, a cascata, richieste di uscita anche da parte di altri stati. L’Europa resta un continente ad alta densità economica, ma l’assenza di una reale coesione politica, la rende debole in un’economia sempre più globalizzata e sempre meno governabile da parte di singoli, piccoli stati. Anche i successivi interventi dei corrispondenti della stampa estera Dimitri Deliolanes (TV greca), Eric Jozsef (“Libération”), David Wiley (BBC), hanno evidenziato il difetto di una “narrazione” che informi correttamente su cosa ha significato l’UE in questi anni, e su cosa può ancora significare nei prossimi, coinvolgendo l’opinione pubblica in un dibattito serio e aperto, che mostri i grandi pericoli per la pace e la convivenza nascosti dietro i facili appelli ai nazionalismi. Il problema è che ci si trova di fronte a una classe politica mediocre (non solo in Europa), pronta a cavalcare gli umori cangianti dell’opinione pubblica in vista delle prossime elezioni, ma incapace di vedere al di là del proprio naso, e di far intravedere ai popoli un progetto di lungo respiro, che valga anche per le future generazioni, come hanno saputo immaginare i politici usciti dal disastro della Seconda Guerra mondiale, ma anche i Kohl, i Mitterrand13, che sul pilastro della moneta unica volevano fondare quella coesione che avrebbe dovuto portare all’unione politica dell’Europa. 13 Cfr. l’ultimo discorso al Parlamento europeo (1995): “Il nazionalismo significa la guerra” https://www.youtube.com/watch?v= b5HasW8HJiY 21 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Riconsiderare la coesione sociale e l’integrazione civica nella prospettiva della generatività sociale MAURO GIARDIELLO Dipartimento di Scienze della Formazione, Università degli Studi Roma Tre L’obiettivo del lavoro è quello di sviluppare una teoria generativa della coesione sociale e dell’integrazione civica al fine di mostrare l’effetto negativo (dissoluzione sociale e civica) o positivo (risorse valoriali e relazionali) sui processi di formazione dell’integrazione sociale. Nella prima parte dell’articolo viene affrontata una riflessione critica in merito ad una visione eccessivamente macro strutturale della coesione sociale che sembra prescindere dall’analisi dei fenomeni micro connessi alla disorganizzazione sociale delle comunità. In questa parte viene discussa la prospettiva micro della coesione sociale focalizzando l’attenzione sull’approccio di Lockwood (1999) basato sulla celebre distinzione tra coesione sociale e integrazione civica. Nella seconda parte del lavoro seguono le riflessioni in merito alla possibile rilettura sia della concezione della coesione sociale attraverso l’impiego della teoria della generatività di Erikson (1950), focalizzando l’attenzione sulla qualità dei legami sociali, sia del concetto di integrazione civica rimodulandolo in chiave micro attraverso il concetto di spazio pubblico. In conseguenza di questa impostazione nell’articolo si assume un concetto di coesione sociale minima (prevalentemente focalizzata sugli aspetti relazionali primari e secondari) che si distingue da quello di integrazione civica, espressione delle virtù civiche di una comunità. Ciò viene sviluppato per spiegare come le antinomie identificate da 22 Lockwood, quali la dissoluzione sociale (coesione sociale) e la corruzione civica (integrazione civica), sono tanto connesse alla qualità del processo generativo e dello spazio pubblico quanto a un processo di reciproco condizionamento che si sviluppa tra le due realtà. I INTRODUZIONE luoghi collettivi della vita sociale, a vari livelli, sono attraversati, con gradi e intensità differenti, da fenomeni di ghettizzazione, frammentazione, individualismo, colonizzazione privata e commerciale, paure e insicurezze. Sembra trionfare il tribalismo nelle città, sedi dell’innovazione e delle aperture, delle sperimentazioni delle differenze, e nelle comunità locali, luoghi della solidarietà e dell’accoglienza. Nella società contemporanea la privatizzazione relazionale, civile e sociale si rende concreta anche nei confronti dello spazio comportando sia un processo di segregazione sul piano soggettivo, rispetto a tutti coloro i quali non possiedono le credenziali di accesso (culturali, sociali e economiche), e sia sul piano strutturale nella produzione di enclave sociali e culturali. L’aspetto rilevante del fenomeno è la sua diffusione non solo nelle città, ovvero nella dimensione classica urbana (fenomeni evidenziati da alcuni decenni dalla letteratura specializzata) SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI (Wacquant, 2007), ma anche nei contesti micro e comunitari non associati alla classica, e ormai desueta, dicotomia urbano versus rurale. Il processo di privatizzazione sembra essere alla base della crisi delle relazioni allargate, dei legami deboli vissuti e praticati nei contesti pubblici (spazio pubblico), determinando la formazione di un’introversione sociale e psicologica della soggettività moderna che trova un suo coagulo sociale e “collettivo” in forme di coesione sociale autoreferenziale e tribale. Secondo Sennett il neotribalismo, caratteristica della società moderna, rappresenta una realtà sociale al cui interno si “abbina la solidarietà per l’altro simile a me con l’aggressività contro il diverso da me”(Sennett, 2012 p. 14). In questo contesto la “coesione sociale in sé” non basta a creare un ambiente aperto nel quale si pratica la cittadinanza attiva e soprattutto nel quale si vivono le differenze in quanto spesso essa può rappresentare la base della formazione di realtà tribali la cui logica si avvale della promozione dello scambio collaborativo tra simili con le conseguenze negative di innescare una spirale di comportamenti distruttivi nei confronti degli altri (ivi p. 16). Uno degli effetti è quello di produrre un restringimento della coesione sociale in forme e modalità esclusive più che inclusive determinando la formazione di una moltitudine di nomadi autoreferenziali che mostrano una scarsa capacità di generare un processo di integrazione civica ovvero di “spazio civico del bene comune in contrapposizione allo spazio privato concernente gli interessi privati” (Innerarity, 2009 p. 103). Ciò è in contrasto con la vulgata dominante che considera la coesione sociale come una risorsa, per quanto diversamente definita, capace di neutralizzare gli egoismi individuali e di gruppo, di contrastare le disuguaglianze e promuovere una società aperta e tollerante. In questo articolo presentiamo una prospettiva diversa dall’assunzione aprioristica di una correlazione positiva tra coesione sociale e una più vasta integrazione sociale della società dal momento che la sua capacità inclusiva e/o espansiva dipende dalle dinamiche del gruppo sociale/attori di viverla e declinare sia verso il proprio interno che nei confronti dell’esterno. Questa prospettiva assume una certa rilevanza poiché spesso si verifica “che una comunità con una forte coesione interna possa dar luogo a una chiusura nei confronti di altri gruppi e, quindi nei confronti dell’intera società di appartenenza” (Fondazione Ismu, 2011 p. 31). Si tratta, secondo Ceri (2008), degli effetti perversi che spesso la promozione e formazione della coesione sociale possono produrre soprattutto nei contesti nei quali sono elevate le differenziazioni etnicoculturali, aggravando conflitti e divisioni. In questo contesto è evidente che bisogna definire la qualità della coesione sociale soprattutto in rapporto alla sua capacità di favorire un più vasto e articolato processo di integrazione sul piano non solo relazionale ma anche della pratica civica. In linea con queste riflessioni lo scopo del lavoro è quello di sviluppare una teoria generativa della coesione sociale e dell’integrazione civica al fine di mostrare l’effetto negativo (dissoluzione sociale e civica) o positivo (risorse valoriali e relazionali) sui processi di formazione dell’integrazione sociale. Ciò pone la necessità di chiarire due questioni: la prima riguarda lo studio dei processi generativi che sono alla base della coesione sociale. In particolare si tratta di affrontare e chiarire sul piano teorico il fatto che la coesione sociale per poter assumere una natura sociale inclusiva deve poter attivare, al proprio interno, uno specifico processo generativo. La seconda sottolinea l’opportunità che questi processi (generativi inclusivi) necessitano di luoghi in cui poter essere praticati, sperimentati ai fini della costituzione di una civic community. Più specificatamente nel lavoro si sviluppa una chiarificazione concettuale sia della coesione sociale sia dell’integrazione civica allontanandosi da posizione teoriche macro e soprattutto a-contestuali e prive di un’approfondita analisi di quelli che sono i processi generativi o degenerativi attivati dagli attori locali nel produrre la realtà sociale. Nella prima parte dell’articolo viene sviluppata una riflessione critica di una visione eccessivamente macro strutturale della coesione sociale che sembra prescindere dall’analisi dei fenomeni micro connessi alla disorganizzazione sociale di una comunità o quartiere, dalla crisi dei legami sociali e soprattutto dalla difficoltà di attivare processi generativi sul piano sociale e civile. In questa parte viene discussa e chiarita la prospettiva micro della coesione sociale focalizzando l’attenzione sull’approccio di Lockwood (1999) basato sulla celebre distinzione tra coesione sociale e integrazione civica (entrambe costitutive dell’integrazione sociale distinta da quella sistemica). Questa impostazione risulta centrale nel lavoro in quanto considerata più fruttuosa sia per lo studio a livello micro sia per una sua possibile rivisitazione in funzione dell’applicazione della categoria della generatività sociale e dello spazio pubblico. Sulla base di queste considerazioni, nella seconda parte del lavoro, seguono le riflessioni in merito alla possibile rilettura sia della concezione della coesione sociale attraverso l’impiego della teoria della generatività di Erikson (1950), focalizzando l’attenzione sulla qualità dei legami sociali, sia del concetto di integrazione civica rimodulandolo in chiave micro e ridefinendolo attraverso la letteratura sociologica e filosofica dello spazio pubblico come ambito situato ove gli attori praticano la dimensione civica, tolleranza o il conflitto. Altresì si assume un concetto di coesione sociale minima prevalentemente focalizzata sugli aspetti relazionali (primari e secondari) che si distingue da quello di integrazione civica, espressione delle virtù civiche di una comunità. Ciò viene sviluppato per spiegare come le antinomie identificate da Lockwood quali la dissoluzione sociale (coesione sociale) e corruzione civica (integrazione civica) sono tanto connesse alla qualità del processo generativo e dello spazio pubblico quanto a un processo di reciproco condizionamento che si sviluppa tra le due realtà. In questa ottica nella comunità ove la coesione sociale risulta dominata dal meccanismo della «pseudospeciation» (processo generativo discriminatorio) si producono identità tribali e un depotenziamento della funzione dell’integrazione civica (spazio pubblico come luogo vuoto o conflittuale). D’altra parte la presenza di una crisi dei luoghi deputati alla formazione dell’integrazione civica comporta un processo 23 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 di dissoluzione civica della comunità favorendo una regressione della configurazione della coesione sociale in enclave o micro-feudi in quanto regolati dalla stagnazione o dalla «self-preoccupation» (forme fallimentari della generatività). La discussione si conclude mostrando come occorre, quando si analizza la coesione sociale, osservare i reali processi generativi messi in atto da concreti attori sociali che, pur realizzandosi in specifici ambiti, siano capaci di rappresentare la base espansiva per l’arricchimento e lo sviluppo della formazione di valori civici e più in generale di cittadinanze attive. LA COESIONE SOCIALE La diffusione del concetto di coesione sociale rappresenta una risposta sia sul piano interpretativo (sviluppo di diversi modelli teorici) sia sul piano delle politiche (nazionali, sovranazionali) ai problemi emersi nell’ambito sociale, culturale e politico nelle società globali. In particolare è possibile osservare come l’interesse nei confronti della coesione sociale sia connesso alla crisi delle solidarietà sociali e in generale del legame sociale. Ciò assume contorni preoccupanti all’interno di una realtà politica economica, ove le vecchie strutture di protezione sociale sono in crisi o sono incapaci di fronteggiare un quadro sociale complesso all’interno del quale si generano nuovi conflitti intergenerazionali e etnici dovuti ai processi migratori e globali. In questo contesto si inserisce l’impiego del concetto di coesione sociale come risposta alle conseguenze che i cambiamenti strutturali hanno prodotto sul piano della tenuta dei legami sociali, ovvero della società. E’ possibile individuare due livelli di analisi del concetto di coesione sociale. Il primo riguarda lo studio e l’indagine della dimensione macro-strutturale e considera aspetti come la crisi del Welfare, l’incremento delle disuguaglianze, la trasformazione del mercato del lavoro in modalità e forme sempre più precarie ancorché la tematica della condivisione di un unico sistema normativo e valoriale in una società interculturale presieduta dal pluralismo dei valori. Il secondo livello è di tipo meso o micro (la città, il quartiere, la comunità locale) e riflette soprattutto la tenuta e la rigenerazione dei legami sociali primari (legati alla famiglia, al vicinato e ai gruppi di amici) e secondari (comitati, associazionismo, terzo settore) (Lockwood, 1999). Più specificatamente è interessante osservare che prevalentemente, sia nella tradizione sociologica-accademica sia nell’ambito delle policy, il concetto di coesione sociale viene inquadrato in termini macro strutturali (Rinaldi, 2014 p. 73). Nella ricca tradizione sociologia è indubbio che Durkheim e Parsons abbiano considerato la coesione sociale, e più specificatamente la questione dell’ordine, all’interno dell’emergere di un bisogno generale di integrazione e coesione che la società moderna produce in ragione dell’elevato processo di divisione sociale del lavoro o differenziazione funzionale. In dettaglio per Durkheim (1971), a fondamento della società e della coesione sociale, non sussiste un principio eco24 nomico ma la solidarietà meccanica (società tradizionale) e la solidarietà organica (società moderna). Nella prospettiva di Parsons (1996) è evidente la centralità del sistema normativo che consente la stabilità e l’ordine in virtù del processo di socializzazione (primario e secondario) nonché l’integrazione dell’azione nel sistema sociale (assunzione di ruoli e status). In una certa misura questa tradizione è sopravvissuta nella sociologia contemporanea per esempio attraverso il contributo di Gough e Olofsson (1999) le cui analisi si sviluppano soprattutto a livello sistemico con una scarsa attenzione alla realtà empirica e micro. Un’importante eccezione a questa tendenza è il lavoro di Lockwood (1999) che considera la coesione sociale uno degli aspetti centrali dell’integrazione sociale (l’altro è rappresentato dell’integrazione civica). In questa ottica l’integrazione sociale si configura come la dimensione micro (soprattutto la coesione sociale) opposta a quella sistemica che rimanda a quella macro. E’ opportuno evidenziare come nelle ultime due decadi si siano sviluppati interessanti contributi volti a definire e operativizzare il concetto di coesione sociale (Schifer e van der Noll, 2016). In questi lavori, per quanto il concetto di coesione sociale sia esteso anche a realtà micro, il premium teorico è comunque focalizzato sulla dimensione macro-strutturale. Nello studio di Chan et al. (2006) la coesione sociale viene definita come un attributo dell’intera società (non come un processo) attraverso le sue dimensioni relazionali (verticaliorizzontali, oggettive-soggettive). In questa ottica l’unità d’analisi privilegiata è rappresentata da una nazione geograficamente e politicamente definita (anche se si può allargare l’uso della coesione sociale alla città, al quartiere, al vicinato) (ivi, p. 291) di cui soprattutto lo Stato è reputato il livello istituzionale più appropriato all’interno del quale osservare e studiare la coesione sociale (ibid.). La tendenza a tematizzare la coesione in termini macro piuttosto che ridefinirla in base ai processi generativi prodotti all’interno dei diversi e specifici contesti locali emerge anche nel contributo di Jansen et al. (2006). In questo articolo la coesione sociale è considerata uno degli aspetti fondamentali della nuova sfera pubblica cosmopolita all’interno della quale opera una cittadinanza attiva che travalica i confini nazionali e soprattutto appare sempre meno legata al ruolo dei luoghi e dei territori nel definire la propria formazione (che nasce dalla sinergia tra formazione formale e informale). Questa tendenza si rileva anche nella seconda e più recente corrente di studio sulla coesione sociale, dove prevale nei documenti dei governi nazionali e degli organismi internazionali un concetto “che prescinde quasi totalmente da una seria ricostruzione dei contesti nei quali si dovrebbe intervenire per ricomporre la trama della società tra persone e gruppi” (Alietti, 2013 p. 10; Ceri, 2008). Più specificatamente il Consiglio Europeo (2005 p. 23) definisce la coesione sociale “come la capacità di una società moderna di garantire a lungo termine il benessere di tutti i suoi membri, tra cui l’accesso equo alle risorse disponibili, rispetto della dignità umana con riferimento alla diversità, all’autonomia personale e colletti- SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI va e alla partecipazione responsabile” (ibid.). Analizzando brevemente tale definizione si evince che la coesione è inquadrata in una prospettiva top-down che focalizza l’attenzione sul ruolo dello Stato nel creare un ambiente socio-politico in cui i cittadini europei possano esprimersi e godere dei servizi e di una migliore qualità di vita. In questo contesto vengono completamente trascurati i possibili processi generativi che le differenti realtà locali e i diversi attori potrebbero attivare e soprattutto le conseguenze che tali processi potrebbero implicare nel formare processi coesivi inclusivi o esclusivi. La diffusione del concetto di coesione sociale come concetto guida nelle policy nazionali e internazionali viene evidenziata anche da organismi come la Banca Mondiale. I lavori di Ritzen and Woolcock (2000) sono indicativi del radicale cambio di rotta avvenuto nell’ambito della spiegazione dello sviluppo economico nel quale trovano sempre più spazio fattori sociali, culturali e istituzionali. Ritzen e Woolcock sono del parere che la crescita economica sia maggiormente favorita in quei paesi in cui si registra una maggiore coesione sociale e in cui operano istituzioni più efficienti. Il focus di questo approccio è la dimensione macro–politica incentrata su una prospettiva socio-istituzionale dove la coesione sociale rappresenta il mezzo mediante il quale si realizza la crescita economica di uno stato o di una nazione. In questa ottica è evidente che viene trascurata la dimensione endogena come fattore che potrebbe rappresentare un elemento ostativo o generativo della crescita della comunità locale e della sua coesione. LA COESIONE SOCIALE E IL MODELLO DI LOCKWOOD NELLA PROSPETTIVA MICRO: RISORSE E LIMITI La dimensione macro strutturale della coesione sociale sembra prescindere dall’analisi dei fenomeni connessi alla disorganizzazione sociale di una comunità o quartiere, dalla crisi dei legami sociali e soprattutto dalla difficoltà di attivare processi generativi sul piano sociale e civile. In questo discorso, invero, bisogna rilevare che recentemente in letteratura è stato chiarito come l’ottica micro non esclude quella macro, giacché tra le due dimensioni si sviluppa un processo circolare. In particolare si possono annoverare almeno due approcci, anche se diversi tra loro, che si pongono il problema della connessione tra i differenti livelli della realtà sociale. Il primo approccio evidenzia non solo la natura multidimensionale ma soprattutto come “la coesione sociale riguarda sia la società nel suo insieme (livello macro), sia le relazioni tra gli individui (livello micro) e coinvolge sia la sfera strutturale sia quella culturale” (Chiesi, 2007 p.47). Il secondo approccio è quello relazionale che afferma la presenza tra i due livelli di una reciproca corrispondenza. In tal senso, secondo Donati, la società civile può essere intesa come l’insieme delle relazioni che si costituiscono a partire da una spinta etica e che si relazionano fra loro e con gli altri sottosistemi sociali (Donati, 2006 p. 294). In questa ottica, con riferimento allo schema AGIL di Parsons, “una società sarà tanto più coesa quanto più: in A, le relazioni di inclusione sono maggiori di quelle di esclusione; in G, le azioni fondatrici, regolatrici, riparatrici e facilitatrici delle istituzioni sono di tipo sussidiario; in I, la partecipazione associativa è alta e la tolleranza verso gli altri è forte; in L, il legame familiare è robusto” (Camozzi, 2008 p. 51). Attraverso questa prospettiva è evidente che fenomeni di disgregazione sociale, di anomia nei quartieri o nelle comunità risentono della circolarità della relazione tra i vari sottosistemi. Nel contesto del presente articolo, tuttavia, riteniamo che la densità dei legami sociali primari e secondari, e soprattutto la loro capacità generativa, collocata in un determinato spazio, sia uno degli aspetti centrali per poter comprendere il formarsi e il radicarsi della coesione sociale. Va rilevato che non è mancata nella letteratura sociologica la presenza di una copiosa corrente di studi e ricerche che si sono caratterizzati per l’attenzione rivolta al rapporto tra la qualità sociale di un quartiere o comunità e l’emergenza di fenomeni di devianza e marginalità. In questo campo possiamo sicuramente annoverare gli studi pioneristici della Scuola sociologica di Chicago che hanno tematizzato il concetto di rischio socio-culturale del territorio poiché sede della crisi dei legami sociali e dei processi identificazione spaziale (Shaw e McKay, 1942; Thrasher 1963). Più recentemente ricordiamo gli studi che hanno affrontato il rapporto tra coesione sociale a livello di comunità e quartiere con una particolare attenzione alle problematiche del crimine e della sicurezza urbana (Sampson et al., 2002), agli effetti della diversità etnica sulla coesione sociale nelle comunità svantaggiate (Laurence, 2011), oppure lo studio della città come quadro analitico più appropriato per l’analisi e l’implementazione di azioni volte a favorire lo sviluppo della coesione sociale (Fenger, 2012) . Si tratta di studi fondamentali che tuttavia focalizzano le loro analisi su aspetti specifici della crisi della coesione sociale (l’emergere della devianza), trascurando non solo un chiarimento concettuale del termine ma soprattutto eludendo l’approfondimento di quei meccanismi e risorse che presiedono la formazione della coesione sociale all’interno di una realtà territoriale specifica. In linea con tali riflessioni critiche si è inteso privilegiare l’approccio di matrice sociologica di Lockwood sulla coesione sociale in quanto considerato più fruttuoso sia per lo studio a livello micro sia per una sua possibile rivisitazione in funzione dell’applicazione della categoria della generatività sociale. Nel realizzare questa scelta è fondamentale distinguere l’integrazione sociale (le relazioni ordinate e conflittuali tra gli attori) e quella sistemica (relazioni compatibili, incompatibili, contraddittorie tra le parti del sistema) (Lockwood, 1999). Ciò richiama il dibattito elaborato lungo il corso della teoria sociologica (tra comunità/società, individualismo/collettivismo, micro/macro, struttura/agency e sistema e mondi vitali) ripreso recentemente, anche se da prospettive diverse, da autori come Habermas e Giddens. Più specificatamente 25 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Habermas (1987) rilegge le due antinomie – integrazione sociale e sistemicain base ai noti concetti di mondo sistemico e mondo della vita da una parte, mentre Giddens attraverso la sua teoria della strutturazione (che lega la dimensione micro a quella macro) (Giddens, 1990). Nonostante questi tentativi di riconsiderare la distinzione di Loockwood in chiave micro versus macro o interazione faccia a faccia versus relazioni indirette, secondo Mouzelis (1997) l’impostazione originaria rimane ancora un utile strumento sia per sensibilizzare i ricercatori a due differenti modi di vedere la complessità sociale (struttura o agency) sia per osservare due differenti meccanismi che sono alla base della formazione dell’ordine e del disordine sociale (relazioni ordinate o conflittuali tra attori o parti del sistema). In questa ottica la validità euristica di focalizzare il tema dell’integrazione sociale e quella sistemica (in base alla dimensione dell’agency o struttura) risulta particolarmente interessante anche nell’elaborazione del concetto di coesione sociale come condizione micro incentrata sugli attori sociali. A nostro avviso nello sviluppo di tali riflessioni è importante riconsiderare Lockwood (1999) che analizza la coesione sociale come uno dei due livelli distinti che costituiscono l’integrazione sociale. In questa ottica la coesione sociale (versus la dissoluzione sociale) si configura come la dimensione micro dell’integrazione sociale ed è costituita dalle relazioni primarie e secondarie che insistono all’interno di una comunità locale. L’altro livello dell’integrazione sociale è costituto dall’integrazione civica (corruzione civica) e si riferisce all’universalità delle norme e dei diritti che legittimano le procedure e la buona pratica degli attori istituzionali ed economici operanti a livello macro all’interno di una nazione (ivi, p. 64). E’ importante rilevare che per Lockwood l’integrazione sociale (costituta da coesione e integrazione civica) si contrappone a quella sistemica (ivi, p. 65). In questa ottica la coesione sociale, essendo la parte micro dell’integrazione sociale, non riguarda la società intesa come sistema ma l’insieme di quegli attori che operano all’interno delle relazioni primarie e secondarie costitutive della comunità. Viene teorizzato un concetto di coesione sociale che si riferisce non solo alle specifiche pratiche di attori sociali (famiglia, associazioni di volontariato) ma soprattutto al nesso fecondo che si può determinare tra socialità prima26 ria (famiglia e reti di parenti e amici) e secondaria (associazioni e reti e legami di fiducia tra essi). Si tratta di una lettura che focalizza l’attenzione nella possibilità che possiedono le reti parentali, amicali e di vicinato ad “estendersi ad un più generale altruismo, sotto forma di fiducia e propensione d’aiuto” (Lockwood, 1999 p. 69). La qualità emergente dell’integrazione sociale e dei rispettivi distinti livelli che la compongono ci consentono non solo di individuare processi e attori sociali differenti sia nella coesione sociale (famiglia, reti di parentela e amicizia, associazione di volontariato) sia a livello di integrazione civica (Stato e mercato), ma anche di individuare il reciproco condizionamento che si sviluppa tra essi nonostante la loro natura indipendente. Sostiene Lockwood “sebbene la coesione sociale e l’integrazione civica siano analiticamente ed empiricamente distinguibili (come nel caso dell’integrazione sociale versus l’integrazione sistemica) è opportuno rilevare che la corruzione civica oltre un certo livello colpirà la coesione sociale, proprio come la dissoluzione sociale diffusa minaccerà l’integrazione civica” (Lockwood, 1999 p. 65). Dal nostro punto di vista ci sembra opportuno sottolineare come questa impostazione teorica rimanda almeno a due riflessioni centrali per lo sviluppo dell’economia complessiva del lavoro. La prima riguarda il fatto che solo quando i due livelli dell’integrazione sociale si rafforzano a vicenda si realizzano le condizioni per lo sviluppo di una buona società. Nel caso contrario (comportamenti divergenti tra i due livelli) abbiamo il prodursi di asincronie patologiche che incidono sul processo di integrazione sociale. Più specificatamente si rileva da una parte la situazione nella quale la coesione sociale costruendosi all’interno di legami sociali “bonding” determina un processo autoreferenziale e inclusivo (familismo amorale, nuove tribù comunitarie, gruppi sociali autoreferenziali) rispetto al più generale processo di integrazione civica (consesso civile e morale della cittadinanza); dall’altra l’emergere di un contesto nel quale, nonostante si osservi la presenza di una coesione sociale caratterizzata da legami bonding e bridging (solidali e aperti) (Putnam, 2000), si registra un alto livello di corruzione civica. Il secondo punto evidenzia che se per realizzare l’integrazione sociale occorre che la coesione sociale sia sincronica SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI all’integrazione civica, risulta fondamentale, sul piano teorico e operativo, individuare, definire e spiegare i meccanismi generativi operanti non solo all’interno dei due rispettivi livelli ma anche comprendere come si viene a creare lo sviluppo di una possibile connessione tra i differenti livelli. E’ indubbio che nella teoria di Lockwood si intuisce la presenza di un processo generativo in funzione della società allorquando “la coesione sociale non solo viene rafforzata e i legami primari e secondari vengono mantenuti e nutriti, ma anche quando opera in inter-azione con l’altra forma di integrazione, quella civica” (Guizzardi, 2008 p. 14). Nonostante ciò è evidente l’assenza nel modello di Lockwood di un’efficace analisi capace di comprendere la complessa dinamica della generatività e del suo effettivo ruolo nella costruzione della coesione sociale. In ragione proprio di tale limite teorico viene privilegiata la prospettiva della generatività sociale (sviluppata da Erikson nel 1950) in funzione della comprensione della genesi del processo di formazione della coesione sociale. Il focus si incentra, in questa parte del lavoro, sulla conoscenza del processo di creazione delle strutture delle relazioni e dei legami di reciprocità in quanto ci consentono di osservare non tanto e non solo la quantità dei legami ma soprattutto la loro qualità e affermare non solo la presenza di un legame ma soprattutto di riflettere come la qualità di questo legame condizioni la natura della coesione sociale della comunità. LA GENERATIVITÀ NELLA PROSPETTIVA SOCIALE Il termine “generatività” si colloca all’interno dell’articolata e innovativa teoria psicologica o psicosociale elaborata da Eric Erikson (1950), volta a comprendere l’intricata dialettica che si determina tra lo sviluppo del Sé e la Società. Erikson definisce la generatività come una qualità psicologica che l’individuo adulto dovrebbe acquisire all’interno di un percorso evolutivo psicosociale di progressiva maturazione che lo conduce ad assumersi la responsabilità per il benessere dei propri figli e delle future generazioni. Il contributo di Erikson, nonostante prenda le mosse da una prospettiva di sviluppo individuale e identifichi la generatività come una caratteristica tipica dell’adulto, può sicuramente essere annoverato come il primo esempio di analisi del processo di generatività in relazione alla dimensione sociale. Lo sforzo profuso da Erikson nell’elaborare il modello sociopsicologico dello sviluppo dell’individuo non solo si evince nella teoria dei cicli di vita ma anche nel ruolo centrale che esso assume nella comprensione e spiegazione del funzionamento della società. Nella teoria dello sviluppo umano Erikson differenzia il ciclo della vita dell’individuo in otto stadi ciascuno caratterizzato da una polarità psicosociale centrale per la crescita dell’uomo (Erikson, 1950). La generatività, considerata il centro psicologico del settimo stadio (generatività versus stagnazione), preceduta dal quinto stadio (tarda adolescenza) e dal sesto (giovani adulti), appare come un percorso psicologico che la persona deve affrontare risolvendo, in ciascuno stadio, crisi evolutive al fine di acquisire un equi- librato sviluppo dell’ego. Ad una attenta analisi ciò risulta vero in parte perché ogni stadio è il frutto di un processo relazionale che si instaura con la realtà esterna intersoggettiva, interpersonale e generazionale. E’ interessante notare come il modello del ciclo dello sviluppo umano si intreccia con quello generazionale configurando una teoria sociale del mutamento della società. Più specificatamente Erikson (1964 p. 114) sostiene che “la sopravvivenza psicosociale dell’uomo è salvaguardata soltanto dalle virtù vitali che si sviluppano nelle interazioni di generazioni successive e sovrapposte, che vivono insieme in contesti organizzati. Qui vivere insieme significa più che prossimità incidentale. Significa che gli stadi di vita individuali sono intrecciati con altri stadi …”. In questo ambito è evidente una caratterizzazione sociologica della generatività in quanto lega generazioni differenti assicurando lo scambio e le trasmissioni in modo da promuovere l’evoluzione della società all’interno di un equilibrio dinamico tra mutamento e conservazione (Bocaccin, 2007; Scabini, Rossi, 2007). L’aspetto sociale del ciclo di vita è particolarmente evidente nel settimo stadio dove la capacità generativa si afferma in ragione del superamento di una dimensione ego centrata e l’affermazione della virtù della cura che “consiste nell’interessamento per ciò che è stato generato per amore, per necessità o per caso e che supera l’adesione ambivalente a un obbligo irrevocabile” (Erikson, 1968). La generatività così concepita prevede in sé l’equilibrio tra il desiderio di autorealizzazione e una tensione verso il sociale manifestata attraverso la cura, l’impegno, l’azione e la responsabilità verso l’altro e il prossimo. Si tratta di un processo generativo che include l’attivazione di due tendenze contrastanti definite da Bakan “agency e communion” (Bakan, 1966) che mostrano il legame inestricabile e interdipendente tra l’individuo e il contesto. In questa tensione a uscire da sé stesso si nota chiaramente che la generativà non può non muovere ambiti, dimensioni, spazi intersoggettivi e collettivi in quanto coinvolge non solo la crescita e il benessere dei propri figli ma la creazione di nuove cose, idee e relazioni. La cura e la responsabilità appaiono come energie che spingono l’azione generativa dell’individuo al di là di ambiti esclusivamente intersoggettivi per approdare in spazi sociali caratterizzati da una tensione rivolta al «qui ora» ma proiettati al benessere delle generazioni future. Il nesso tra la dimensione individuale e collettiva del processo di generatività viene ulteriormente sviluppato nel volume “La verità di Ghandhi” (Erikson, 1969) nel quale la generatività, promuovendo la virtù della cura (punto di forza dell’organismo umano che l’ambiente può promuovere o ostacolare), conduce a una nuova dimensione: la responsabilità sociale. In questo caso la generatività espande il suo campo d’azione passando da espressione di cura esercitata nei confronti dei propri figli e delle generazioni successive a una prospettiva che comprende tutto il genere umano. Va evidenziato come in questo lavoro non solo è chiarito l’intreccio profondo che si realizza tra la qualità psicologica della generatività e quella sociale ma viene anche evidenziata indirettamente la problematicità del processo di generatività. 27 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 LE FORME FALLIMENTARI E AMBIGUE DELLA GENERATIVITÀ SOCIALE Nel modello del ciclo di vita di Erikson il rapporto con la realtà sociale viene elaborato sia sul versante dell’avvenuta maturità generativa del soggetto sia all’interno di forme fallimentari che investono la generatività. Altresì si delinea nel lavoro “La verità di Gandhi” non tanto il profilo del fallimento della generatività quanto la sua natura ambigua. Il contributo che ci viene offerto da entrambe le prospettive analitiche è molto interessante nel valutare come non sia solo l’azione generativa, espressa mediante la virtù della cura nei confronti dei propri figli e delle future generazioni, a consentire di penetrare e illuminare l’inestricabile intreccio tra azione e struttura ma anche parallelamente le sue antinomie: stagnazione, self-preoccupation e pseudospecies (Erikson, 1950; 1984). Le prime due sono l’espressione del fallimento della generatività nel percorso evolutivo del ciclo di vita e hanno una ripercussione sul benessere complessivo della comunità. Più specificatamente la stagnazione esprime l’incapacità del soggetto di prendersi cura delle generazioni successive non investendo nella trasmissione di valori e risorse significative per la crescita e il benessere delle future generazioni. La self-preoccupation esprime una patologica auto-centratura preoccupata esclusivamente per il proprio futuro tale da non consentire l’investimento di risorse nei confronti dei figli o delle generazioni future. A livello sociale si manifesta nell’indebolimento del processo di generatività, nello scambio tra le generazioni e nella diffusione di forme fallimentari di generatività. Ciò comporta una centratura sul soggetto (soprattutto nei confronti della nuova generazione) dalla quale viene completamente escluso o reso residuale l’impegno generativo e l’assunzione della responsabilità sociale. L’ultima antinomia si riferisce non tanto alle sue forme di fallimento quanto alla natura ambigua del concetto in rapporto alla realtà sociale. Kai Erikson (2004) sostiene che il concetto di generatività contiene un certo grado di ambiguità dal momento che, consapevolmente o intenzionalmente, può riferirsi esclusivamente ai propri figli, ai membri più giovani della comunità o nazione a cui si appartiene, o alla specie stessa. In conformità a questa tripartizione si svela come molto spesso il processo generativo sul piano sociale sia mosso e regolato da un meccanismo discriminatorio piuttosto che universale. Si evince come le persone siano generative almeno a un livello in quanto non sempre accade che coloro i quali si occupano della cura dei propri figli o delle generazioni future della propria comunità siano altrettanto generative nei confronti degli altri gruppi sociali, culturali e etnici. E’ evidente che la generatività, intesa come la trasmissione intergenerazionale di ciò che ha valore, non si realizza indistintamente in tutti i tre livelli (rispetto ai figli, ai giovani della propria comunità o alla specie stessa), perché spesso la generatività investe prevalentemente i primi due domini trasformandoli in familismo, nazionalismo o localismo. Le persone si muovono in questi circoli difensivi soprattutto per proteggere se stessi, i propri figli e il proprio 28 gruppo per cui il processo si presenta con una doppia valenza: positiva per il gruppo di appartenenza e negativa per coloro i quali non ne fanno parte. A questo proposito Erikson parla di una generatività regolata dalla pseudospeciation riferendosi al fatto “che l’umanità intesa come unica specie è divisa per motivi culturali, storici e politici in vari gruppi i quali fanno si che i propri membri si considerano più o meno coscientemente e esplicitamente l’unica vera specie, e tutti gli altri (specialmente alcuni di loro) meno umani” (Erikson, 1984 pp. 481-482). Qui si annida il problema fondamentale della costruzione dell’identità tribale basata su un processo di identificazione con specifici sottogruppi (gruppi sociali, etnici, culturali, di genere) piuttosto che la formazione di una identità definita da Erikson (1984 p. 486) species-wide basata su un’ethos universale di cui Gandhi, attraverso il suo approccio non violento, rappresenta l’espressione più compiuta di un processo generativo non discriminante ma universale. E’ chiaro che per uscire da una condizione di ambiguità è opportuno interpretare la generatività come un campo d’azione che si espande o si riduce (in forma aperta o discriminante) non solo in virtù della qualità psicologica del soggetto ma anche in base alla struttura valoriale, alla qualità relazionale del gruppo, alla struttura civica e istituzionale di una comunità. TEORIA GENERATIVA DELLA COESIONE SOCIALE La generatività è l’espressione non solo di dinamiche intrapsichiche o crisi evolutive ma anche di processi di natura sociale. La letteratura recente mostra che “la generatività è capace di immettere nuova energia psichica tanto nella biografia personale quanto nel circuito sociale, pro-muovendo la capacità di agire dei singoli senza compromettere, ma anzi rafforzando, legami cooperativi” (Magatti, Giaccardi, 2014 p. 38). Nonostante lo sviluppo del concetto di generatività richiami costantemente il livello sociale non si può certo affermare, sostengono de St. Aubin et al. (2004 p. 267), che sia “ancora precisamente chiaro come la generatività individuale sia collegata alla generatività a livello collettivo. Piuttosto che focalizzare sugli individui, dobbiamo cominciare ad analizzare il concetto di generatività in luoghi non tipicamente studiati dagli psicologici, come leggi scritte, taciti contratti sociali, rituali, costumi culturali, e obiettivi istituzionali” (ibid.) e soprattutto strutture relazionali e prassi attivate dagli attori sociali (famiglia, vicinato, associazionismo, scuola). E’ ampiamente evidente la necessità di sviluppare una teoria della generatività che dovrebbe essere embedding (Granovetter, 1985) nella struttura sociale per assumere un modello interpretativo delle dinamiche societarie. Cionondimeno nella letteratura specializzata la generatività si presenta come un processo disembedding fornendo una visione psicologica dell’esistenza sociale dell’uomo, infatti coglie gli aspetti sociali come proiezione delle dinamiche individuali. Altresì si può affermare che la teoria della coesione sociale di Lockwood (1999) sottolinea l’importanza delle strutture relazionali (primarie e secondarie) descrivendole come embedded nella struttura ma trascurando un approfondimento dei SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI meccanismi generativi volti alla formazione dell’assetto relazionale in quanto responsabili della qualità piuttosto che della struttura della coesione sociale di una comunità. In questo senso possiamo affermare che da una parte la prospettiva generativa ci consente di analizzare la coesione sociale come un processo dinamico (evolutivo e involutivo, inclusivo e esclusivo) e dall’altra il concetto di coesione sociale ci consente di evidenziare la capacità della generatività di interconnettere la dimensione individuale all’interno del contesto sociale e soprattutto di rendere comprensibile le dinamiche generative della struttura sociale. Si delinea una teoria generativa della coesione sociale che mette in discussione il carattere a volte retorico e acritico della coesione sociale, presentato spesso come sinonimo di buona società (più coesione corrisponde a maggiore inclusione e benessere) (Alietti, 2013). Tale lettura ci viene proposta dal mainstream dominante in assenza di un’attenta conoscenza dei processi sottesi alle relazioni sociali e alle dinamiche di gruppo. La concettualizzazione del processo generativo ha mostrato chiaramente come il suo carattere complesso e ambiguo comporti conseguenze sulla natura della relazione sociali. In dettaglio il processo generativo mostra che non è sufficiente essere inseriti in una rete per sentirsi appartenenti a una realtà coesa in quanto la qualità delle reti (bonding oppure bridging) e la dinamica di un gruppo o comunità (species-wide oppure pseudospeciation) risultano strettamente correlate alla qualità del processo generativo. In questo senso appare limitante affermare che la coesione sociale rappresenti il prodotto delle relazioni primarie e secondarie derivanti dalle buone pratiche degli attori se non si conosce che tipo di processo generativo questi ultimi sono capaci di implementare e attivare. In questa ottica appare necessario tracciare come si struttura il concetto di generatività in senso sociale al fine di una maggiore comprensione della natura stessa della coesione sociale. In dettaglio la generatività sociale come processo può essere scomposta in tre aspetti o meccanismi che allorquando si verificano all’unisono determinano le condizioni psicologiche e sociali che rendono un’azione (individuale o collettiva) generativa. In questa prospettiva si sostiene che un’azione per essere generativa deve caratterizzarsi come creativa, orientata alla cura/responsabilità e propensa a promuovere autonomia (McAdams, Logan, 2004; Imada, 2004). In questo senso la generativià non solo crea oggetti, idee e relazioni ma cura ciò che ha creato senza appropriarsene. Se la generatività implica la creazione di nuovi legami determina anche la loro cura, rigenerandoli e rinforzandoli costantemente. Per essere, tuttavia, creativa, produttiva e responsabile la generatività sociale deve contenere la capacità di sviluppare autonomia in ciò che ha creato. Più specificatamente la generatività consiste nel «lasciar andare» ciò che si crea (che implica fiducia nell’altro e libertà) nonostante la forte tensione alla cura. Questi tre meccanismi possono essere osservati in diversi attori e istituzioni. Si può sicuramente affermare che anche un’amministrazione comunale, una cooperativa sociale o associazione possono sviluppare relazioni sociale di natura generativa o degenerativa. Se consideriamo la relazione sociale fondativa della coesione sociale è evidente che essa deve non solo essere creata, generata, ma per sopravvivere deve essere curata (significa che ego e alter devono assumersi la responsabilità della cura nei confronti della relazione che hanno generato). Questa relazione generata, tuttavia, per poter essere generativa (cioè non solo generata ma anche capace di generare) deve creare nuovi ponti relazionali (essere proiettati in avanti) con nuovi attori e nuove e diverse relazioni. Allorquando il processo di generatività si struttura con tutte e tre le componenti può essere considerato completo e quindi capace di formare la realtà sociale in termini inclusivi. E’ evidente che se applichiamo il costrutto della generatività sociale all’interno della prospettiva di Lockwood (1999 pp. 64-69), che definisce la coesione sociale come il prodotto dei legami primari e secondari, abbiamo la possibilità di comprendere non solo come si creano i legami ma anche la loro qualità. In base a come si connettono i tre aspetti del processo di generatività, si può anche comprendere se si tratta di una coesione sociale inclusiva, esclusiva o sottoposta alla dissoluzione. In generale si può ragionevolmente sostenere che in assenza dei tre meccanismi individuati, si profilano forme fallimentari di generatività che assumono il carattere della stagnazione oppure della self-preoccupation. Queste forme determinano una dissoluzione della coesione sociale provocando un indebolimento dei legami sociali dovuto ad una ritirata dal campo sociale da parte dei diversi attori che costituiscono una comunità. Ciò costituisce la base della formazione del fenomeno del privatismo e individualismo (Sennett, 1976; Beck, Beck-Gernsheim, 2002) in cui risulta molto difficile ritrovare modalità prosociali, strutture relazionali basate sulla reciprocità e comunità coese. Osservando nel merito i due distinti livelli individuati da Lockwood come preminenti per la formazione della coesione sociale, possiamo rilevare come alla presenza di un processo generativo debole segnato dalla stagnazione o self-preoccupation risultano per lo più legami familiari autoreferenziali, deboli e strutture relazionali secondarie assenti o prive di prosocialità (corporative e autoreferenziali). Va sottolineato, tuttavia, che non c’è solo un problema di debolezza dei legami sociali ma anche di eccessiva chiusura. Nel primo caso la dissoluzione si potrebbe configurare alla luce della teoria generativa della coesione come il prodotto del fallimento del processo generativo. Nel secondo caso la coesione diventa un problema per se stessa dal momento che il processo generativo regolato dalla pseudospeciation, vive una introversione all’interno della famiglia o gruppo di appartenenza prefigurando una coesione sociale tribale e microfeudale. Ciò implica che il concetto di coesione sociale si caratterizza per un certo grado di ambiguità (la coesione sociale presenta anche un lato oscuro). Paradossalmente, nonostante il processo generativo si presenti composto da tutte le tre componenti, se non è combinato con una struttura civica costituita da valori, spazi e attori, i risvolti che produce sulla coesione sociale sono all’insegna della discriminazione piuttosto che dell’integrazione universale. 29 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 INTEGRAZIONE CIVICA Il concetto di integrazione civica viene non solo inglobato all’interno del costrutto di coesione sociale, diventando una delle tante dimensioni che vanno a comporre in termini multidimensionali tale categoria (Berger-Schmitt, 2002), ma spesso quando viene definito richiama sempre un’accezione legale, formale e amministrativa. In questo articolo l’integrazione civica non solo assume un carattere micro in quanto si sviluppa nella pratiche quotidiane all’interno di spazi temporali definiti, ma richiama una concezione pre-giuridica o meglio pre-contrattuale del contratto civile formale, codificato in norme e regole. Emerge una prospettiva all’interno della quale l’integrazione civica è intesa come espressione dei beni comuni, risorse civiche (Almond, Verba 1989; Putnam 1993; Inglehart, Welzel 2005) piuttosto che come un corpus di norme e regole decontestualizzate. Questo cambio di prospettive si registra, anche se in forma ancora abbozzata e non del tutto sviluppata, nel campo problematico dell’integrazione civica degli immigrati. Studi recenti hanno posto in evidenza l’importanza del coinvolgimento degli immigrati in reti formali di prossimità, in ambiti e luoghi ove si sviluppa la partecipazione civile o sociale piuttosto che in contesti istituzionalizzati dove l’adesione è obbligatoria e il processo di integrazione civica risulta centrato su un approccio normativo (Boccagni, Pollini 2012; Ruedin 2011) . In linea con tale impostazione, nel lavoro, si intende rivedere il concetto di integrazione civica di tipo macro sviluppato da Lockwood (universalità dei diritti, welfare state, partecipazione al mercato e alla politica e così via) rimodulandolo in ottica micro sociale e collegandolo allo spazio pubblico come sede della cultura civile. Si propone una distinzione tra coesione sociale e spazio pubblico. Tale distinzione non implica una separazione teorica ed empirica di due ambiti sepa30 rati e incomunicabili, bensì considera soprattutto la relazione generativa centrale per la formazione di una comunità coesa e inclusiva. Si parte dal presupposto teorico di una concezione minimalista della coesione sociale, definita in base alle relazioni primarie e secondarie, differente dal concetto di integrazione civica, espressione di valori civici e della prassi della cittadinanza attiva. In dettaglio “la coesione sociale richiede solo la partecipazione della gente, la cooperazione e il reciproco aiuto, non presuppone valori come la tolleranza o il rispetto per la diversità o viceversa” (Chan et al., 2006 p. 284). Nel nostro caso l’integrazione civica viene intesa come la sede della tolleranza e della diversità e soprattutto concepita come embedded nella struttura sociale, culturale e spaziale di una comunità. Essa risulta meno legata alla concettualizzazione sviluppata nel modello di Lockwood definito in base all’integrità dell’ordine istituzionale della cittadinanza a livello macro sociale e più connessa alla prospettiva di Giddens che focalizza l’attenzione sulle pratiche sociali ordinate nel tempo e nello spazio (Giddens, 1990). Ciò risulta pertinente alla nostra discussione in quanto Giddens conferisce una particolare attenzione a livello micro, ai contesti spazio-temporali della compresenza (che riguarda l’interazione faccia a faccia) e al nesso tra la dimensione micro e macro (integrazione sociale e sistemica) (ivi p. 130). Quello che appare importante sottolineare è che secondo Giddens le attività quotidiane apprese e ripetute sono fondamentali per l’ordine sociale e dunque costitutive del legame tra integrazione sociale e sistemica (ibid.). E’evidente che il concetto di integrazione sociale adottato richiama una prospettiva «spatially specific» che riveste un ruolo fondamentale per comprendere sia la coesione sociale sia l’integrazione civica a livello micro in quanto si presuppone che le relazioni sociali e le pratiche civiche degli attori non nascano in un SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI vacuum ma in virtù della pratica delle routine della vita quotidiana all’interno di determinati contesti spazio-temporali. Lo spazio e la sua morfologia condizionano e cooperano nel processo di formazione dei legami sociali e della integrazione civica. Più specificatamente, seguendo Bagnasco, si può sostenere che “la società si organizza – nel senso che “prende forma”- nello spazio e nel far questo organizza, modifica, dà forma allo spazio stesso. Le due forme di organizzazione si implicano a vicenda” (Bagnasco, 2001 p. 272). Nel nostro caso riferendosi allo spazio pubblico, considerato dalla letteratura sociologica, filosofica, come luogo dell’universalità dell’accesso, dell’eterogeneità sociale, della diversità (Mazzette 2013; Perone 2012), si assume che esso dovrebbe produrre le condizioni per un apprendimento situato centrale per la rigenerazione dei processi di integrazione civica a livello locale. In questa ottica è facile rilevare che affinché ci sia integrazione sociale, occorre che la coesione sociale si relazioni, si combini, all’integrazione civica. Indubbiamente, dal nostro punto di vista, il nesso tra queste due dimensioni è costituito dal processo di generatività che dispone la trasformazione e il potenziamento dei legami bridging piuttosto che solo di quelli bonding. Più specificatamente la coesione sociale, trovando prevalentemente una sua collocazione più nel «parochial space» (famiglia, parenti, vicini, associazioni) che nel «public realm» (spazio pubblico) (Lofland, 1998), per essere inclusiva deve poter incontrare le condizioni strutturali nelle quali il processo di generatività si allarghi e si trasformi da una dimensione tribale a un’altra universale. Le condizioni strutturali possono essere rappresentate dallo spazio pubblico che per la sua natura e vocazione è sempre stato considerato la sede delle pratiche sociali (routine) dalle quali scaturiscono l’opinione pubblica e in generale la cultura civica. In questa ottica è evidente che la coesione sociale, in assenza dello spazio pubblico, diventa espressione di micro feudi dominati da identità tribali e dal meccanismo della pseudospeciation mentre lo spazio pubblico se non è supportato dalla dimensione relazionale, dalla fiducia e cooperazione (e quindi dall’investimento generativo) diventa guscio vuoto, spazio dominato da procedure normative e regole formali. LO SPAZIO PUBBLICO COME SEDE DELL’INTEGRAZIONE CIVICA L’analisi dello spazio pubblico e della sua crisi rappresenta un importante campo di indagine e di conoscenza del livello e della qualità della coesione sociale di una comunità, nonché della sua tenuta democratica. Nel lavoro si propone un’idea di spazio pubblico che, per quanto messo in crisi da un complesso di processi quali la dematerializzazione (Castells 2000), la privatizzazione, la disneyfication (Kohn 2004; Sorkin 1992) e la desertificazione dello spazio a causa della velocità (Virilio, 2000), riemerge con forza non solo nella letteratura specializzata ma anche nel campo della progettazione urbanistica e nelle discussioni politiche e soprattutto nella domanda sociale di cittadini e di associazioni e movimenti (nazionali e internazionali) (Leorke 2015; Sassen 2011) che pongono al centro la qualità del vivere civile, i temi della diversità e soprattutto la questione dell’incontro, dello scambio al di fuori della ristretta cerchia di rapporti familiari e amicali (Varna 2014; Mazzette 2013; Un-Habitat 2012; Watson 2009; Beunderman et al., 2007). In questo contesto è opportuno precisare che il concetto di spazio pubblico attinge ad una complessa tradizione di studi di natura filosofica, politologica, sociologica e urbanistica all’interno della quale si può identificare, al di là delle diverse posizione teoriche, una semantica comune identificabile nella dimensione civica e nella pratica della cittadinanza (Carr et al., 1993;). Altresì all’interno della teoria dello spazio pubblico si può individuare una definizione generale associata più ad una dimensione di sfera pubblica e un’altra più legata agli aspetti spaziali e soprattutto a quelli più micro della vita quotidiana. Nella prima cornice teorica possiamo sicuramente annoverare il contributo di Habermas per il quale lo spazio pubblico rimanda ad un’idea di “spazio terzo” in cui si costruisce il presupposto del dialogo tra pluralità e per mezzo del quale si forma la sfera pubblica o, più appropriatamente, “l’ambito della pubblica opinione” o “quello spazio in cui si formano opinioni (posizioni) pubbliche (su problemi di interesse generale, e si produce nei luoghi dove si svolge la vita pubblica)” (Sebastiani, 2007 p. 95). In particolare “la sfera pubblica forma una struttura d’intermediazione tra il sistema politico, da un lato, le sfere private del mondo della vita e i sistemi funzionalmente specializzati dall’altro” (Habermas, 1996 p. 443). Sul versante filosofico-politico un contributo fondamentale è rappresentato dai lavori di Hannah Arendt. Per Arendt la dimensione pubblica è «l’essere–in–comune» (Arendt 1958) dove una pluralità di soggetti si rendono visibili e agiscono confrontandosi, e al tempo stesso, evitando di «cadersi addosso a vicenda» (ibid.). Si tratta di uno spazio pubblico che si costruisce sulla visibilità, sul discorso e sull’agire e produce una sfera pubblica (politica) in cui viene esaltata la relazione intesa come processo che unisce nella differenza (ibid.). Uno spazio relazionale (in-fra Arendtiano) costituivo della comunità in quanto mette in comune il mondo della realtà intangibile con quello fisico e spaziale (artefatti tangibili) (ibid.). Nonostante Arendt conferisca al concetto di spazio pubblico una prospettiva più concreta rispetto a quella elaborata da Habermas, l’analisi della dimensione spaziale tuttavia resta marginale in rapporto soprattutto alla dimensione meso e micro. L’accento posto da Habermas sulla prassi comunicativa discorsiva (Habermas, 1987) come elemento fondante dello spazio pubblico, nonché l’individuazione del libero accesso a tutti come suo fattore identificativo da una parte e l’importanza che Arendt conferisce all’azione e al discorso come elementi precipui della relazione e «dell’abitare insieme» in uno spazio comune dall’altra, oramai rappresentano gli aspetti costitutivi del patrimonio concettuale che spesso viene impiegato nella definizione dello spazio pubblico a livello macro, meso e micro. E’ facile quindi constatare 31 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 come anche nell’analisi degli spazi di prossimità sociale gli elementi dell’accessibilità a tutti e della pluralità rappresentino gli aspetti definitori dello spazio pubblico. Nella seconda prospettiva lo spazio pubblico viene associato alla dimensione territoriale dalla quale scaturiscono le relazioni sociali, il dialogo e la partecipazione. Sennett, per alcuni aspetti, è tra gli esponenti che in maggior misura hanno tematizzato il ruolo dello spazio in funzione della socialità (Giardiello 2016). Lo spazio pubblico per Sennett è il luogo dell’anonimato e dell’impersonalità opposta alla realtà intima. La massima espansione di questo processo si realizza con la società industriale in cui si produce la visibilità dello spazio pubblico che genera una maggiore contrazione dell’io nella propria realtà intima determinando isolamento e solitudine. In questa ottica quanto più gli spazi non rappresentano più luoghi di sosta ma di attraversamento o di massima visibilità, tanto più questi diventano luoghi a bassa socialità e privi di socializzazione (la socievolezza nello spazio pubblico è inversamente proporzionale alla visibilità) (Sennett, 1976). La crisi dello spazio pubblico è rappresentata dalla paura dell’impersonalità, dello sconosciuto che “favorisce fantasia di vita collettiva di natura limitata” nella quale “l’immagine dell’identità del “noi” diventa sempre più selettiva: comprende solo il vicinato, i colleghi, la famiglia. Diventa difficile identificarsi con persone che non si conoscono” (ibid.). L’unica realtà possibile diventa, dunque, quella intima. Nonostante Sennett conceda maggior importanza allo spazio fisico come elemento centrale dello spazio pubblico, identificandolo come luogo dell’anonimato opposto alla dimensione intima, tuttavia si trascurano proprio i luoghi della prossimità sociale nei quali è possibile leggere “i dispositivi della scena sulla quale si gioca l’interazione sociale” (Söderström, 1991 p. 52). La focalizzazione sullo spazio pubblico come luogo della socialità e della microinterazione informale dalla quale scaturisce la fiducia e la sicurezza si deve a Jacobs (1961). Seguendo questa prospettiva gli spazi pubblici (le strade, i marciapiedi, le piazze) “costituiscono i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali” (Jacobs, 1961). Si tratta di spazi pubblici che allorquando riescono a conservare valori e risorse sociali sono capaci di contribuire alla formazione di un senso collettivo e pubblico, alla diffusione di fiducia e a favorire processi di socializzazione. All’interno di questa prospettiva si sviluppa un interessante campo di indagine sul ruolo che l’organizzazione spaziale svolge nel generare capitale sociale e senso civico producendo relazioni di tipo bridging, sviluppando condivisione valoriale e praticando l’autogoverno e partecipazione tra i cittadini del quartiere e della comunità (Haddock, 2011 pp. 145-146). Dobbiamo in qualche modo al lavoro di Jacobs le considerazioni sul ruolo sociale e generativo dello spazio pubblico in virtù delle interazioni e della fiducia che si sviluppano tra le persone dello stesso quartiere e gli estranei. Ciò si realizza grazie alla presenza di una diffusa e radicata eterogeneità urbana “dove controllo non significa difesa, coesione sociale non implica esclusione dell’estraneo, dove partecipazione degli attori non implica la negazione della 32 privacy” (Olmo, 2009 X). CONCLUSIONE La velocità del cambiamento, l’elevato livello di differenziazione sociale, la globalizzazione e l’individualizzazione hanno notevolmente ridimensionato gli spazi dell’identità collettiva, ove si formano legami sociali, solidarietà e appartenenze. Si assiste a un processo di dequalificazione di questi aspetti proveniente propria dalle dinamiche della società moderna individualizzata (Beck, Beck-Gernsheim 2002) e profondamente insofferente alle differenze. In questo contesto la coesione sociale e l’integrazione civica rappresentano due parametri fondamentali per comprendere i processi di dissoluzione sociale e civica che molte realtà locali si trovano a vivere. Questo richiede la necessità di abbandonare un’idea della coesione sociale intesa come «stato di fatto» della società e soprattutto concettualizzata come un costrutto multidimensionale che comprende aspetti differenti e non facilmente associabili in un’unica definizione. La letteratura spesso confonde le strutture relazionali con la dimensione civica (partecipazione, tolleranza, cittadinanza) inglobando dimensioni come i valori e le diverse forme di partecipazione della cittadinanza che invece afferiscono all’ambito dell’integrazione civica. In questa ottica il processo di sgretolamento delle realtà locali deve essere analizzato attraverso due prospettive: da una parte quella delle relazioni sociali che costituiscono le basi fondanti della coesione sociale e dall’altra quella della struttura dei valori e delle pratiche situate di partecipazione civica che invece costituiscono le dimensioni dell’integrazione civica. Ciò implica un altro importante passaggio concettuale, assente nell’analisi prevalente, ovvero la necessità di considerare i due concetti embedding nelle realtà sociali e spaziali. Questo significa che i luoghi o gli spazi hanno un ruolo centrale nel favorire e determinare processi di coesione e di integrazione civica. Ipotizzando uno stretto legame tra realtà sociale e spazio pubblico è evidente che si può immaginare come la coesione sociale e l’integrazione civica siano l’espressione di diversi ambiti spaziali che compongono la comunità. Si può sicuramente affermare, prendendo a prestito la distinzione elaborata da Lofland (1998) tra «parochial space» e «public realm», che la coesione sociale è prevalentemente da considerarsi un concetto «spatially specific» nella dimensione parrocchiale (socialità primaria) mentre l’integrazione civica attiene al public realm (dimensione civica). La distinzione tra coesione sociale e integrazione civica in due ambiti diversi, comporta non solo una maggiore attenzione rispetto alle conseguenze che le trasformazioni della struttura spaziale (svuotamento dello spazio pubblico della funzione di socializzazione e partecipazione) (Giardiello 2016) produce sul piano delle dissoluzioni sociali e civiche, ma spinge a considerare la crisi delle realtà locali come il prodotto delle asincronie che si determinano tra coesione sociale e integrazione civica. In questa ottica l’integrazione sociale di una comunità dipende sia dal livello di connessione che si sviluppa tra la coesione socia- SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI le e l’integrazione civica sia da processi generativi operanti non solo all’interno dei due rispettivi ambiti ma anche come essi incidono sulla qualità della loro connessione. La concettualizzazione del processo generativo mostra che non è sufficiente essere inseriti in una rete per sentirsi appartenenti a una realtà coesa, ma anche che non è sufficiente avere un alto livello di coesione per definire una comunità civicamente integrata. Ciò implica la necessità di analizzare i processi generativi alla base della coesione sociale in rapporto alla struttura valoriale di una comunità poiché la coesione sociale e i relativi processi generativi, in assenza di spazi pubblici (dove si sedimentano le pratiche della tolleranza), diventano espressione di micro feudi dominati da identità tribali (Giardiello 2014). E’ evidente che l’obiettivo sia dei policy maker sia degli operatori sociali e educativi dovrebbe essere quello di valorizzare luoghi e prassi educative dove i cittadini e i giovani possano sperimentare pratiche generative in modo da contrastare processi di atomizzazione, regressione sociale e civile. BIBLIOGRAFIA Almond G., Verba S., (1989), The Civic Culture. Political Attitudes Democracy in Five Nations, Sage: London. Alietti, A., (2013), Spazi urbani, disuguaglianza e politiche di coesione sociale. Un nuovo paradigma neoliberista?, in Theomai, voll. 27-28, pp. 4-15. Arendt, H. 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I primi dati, che inizialmente proveremo a rileggere in chiave “terapeutica” per chi non ama volare, provengono dall’organizzazione principe dell’aviazione civile, ossia l’ICAO (International Civil Aviation Organization), attraverso il suo annuale Safety Report [1]. Nel 2014, fra voli commerciali internazionali e nazionali, si sono mossi 3.2 miliardi di passeggeri nel mondo. Nel 2013, sono stati 3.1 miliardi, mentre nel 2012 si sono avuti 2.9 miliardi di passeggeri. Considerando aeromobili con peso massimo certificato al decollo superiore ai 5700 kg e revisionati dall’ICAO tramite il Safety Indicators Study Group (per intenderci, velivoli che svolgono almeno voli di linea regionali con un minimo di 10 passeggeri), il numero di incidenti nel 2013 è diminuito del 10% rispetto al 2012, passando da 99 incidenti a 90. Il dato ancora più significativo è legato al numero di decessi, infatti tali incidenti hanno provocato 388 vittime nel 2012 a fronte delle 173 vittime del 2013. Le 173 vittime del 2013 rappresentano il valore più basso mai registrato dal 2000, in diminuzione del 53% rispetto al 2012 e del 65% rispetto alla media dell’ultimo quinquennio. Inoltre, se si considerano tutte le operazioni commerciali schedulate, nel 2013 si sono avuti 2.8 incidenti per ogni milione di partenze, anche questo dato è in diminuzione, del 13%, rispetto al 2012 dove si sono avuti 3.2 incidenti per ogni milione di partenze. Il 2014 è stato invece un anno molto particolare e di difficile interpretazione, che ha visto il numero di incidenti risalire rispetto al 2013, riassestandosi all’incirca al valore del 2012, ossia 98 invece che 99. Le vittime sono state invece un numero veramente importante, ossia 904. Questo dato è di difficile interpretazione visto che il numero di vittime si è quintuplicato rispetto al 2013 a fronte di un simile numero di incidenti. Interpretare un dato del genere risulta molto difficile e attribuire al caso il fatto di avere un numero così elevato di morti a fronte dello stesso numero di incidenti potrebbe anche essere una parziale spiegazione. Conferma di ciò è data dal rateo di incidenti per milioni di partenze, che nel 2014 si è attestato al 3.0, non molto dissimile dai due anni precedenti (2.8 nel 2013 e 3.2 nel 2012). Tali numeri assoluti e freddi possono comunque non tranquillizzare chi ha davvero paura di volare. Cerchiamo quindi di fare un confronto generale, non solo con gli altri mezzi di trasporto ma anche con alcune attività quotidiane: il risultato potrebbe sorprenderci. Innanzitutto per fare un confronto rigoroso occorrerebbe tenere conto del numero totale di mezzi di trasporto che si muovono quotidianamente nel mondo e possibilmente delle relative persone coinvolte. 35 INGEGNERIA INDUSTRIALE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Ad esempio, confrontare in termini assoluti aereo e auto non avrebbe molto senso visto che molte più vetture si muovono nel mondo rispetto agli aerei, per di più regolamentate in modo del tutto diverso dal traffico dell’aviazione generale. Si deve parlare quindi di numeri relativi, ossia di indici opportunamente elaborati. A tal proposito, uno degli studi più interessanti degli ultimi anni è stato condotto nel 2000 dal Dipartimento dei Trasporti Britannico [2], [3] prendendo in esame il tasso di mortalità dei principali mezzi di trasporto in relazione a parametri come ad esempio le ore complessive di viaggio o i relativi chilometri percorsi. Tale analisi è anche rintracciabile in una raccolta dati ad opera di Roger Ford e pubblicata nel magazine britannico Modern Railways [4]. L’articolo in questione analizza il livello di sicurezza delle principali tipologie di trasporto, confrontandole tra loro in base al numero di ore di viaggio, di chilometri e di movimenti percorsi in media da ogni mezzo, e valutandone il numero di morti complessivo. Nonostante tale studio risalga al 2000, la pubblicazione mantiene una sorprendente attualità, con risultati che facilmente possono essere assimilati a quelli odierni, in virtù dei trascurabili cambiamenti nella tipologia di mezzi circolanti e nei comportamenti della popolazione (caratteristiche discusse nelle statistiche dei trasporti elaborate nel report [3] del governo britannico). In relazione alle ore di viaggio (numero di vittime ogni miliardo di ore) l’autobus urbano è il mezzo più sicuro con in media 11.1 morti, segue il treno con 30, mentre l’aereo si può considerare da questo punto di vista sicuro quanto il treno con 30.8 morti ogni miliardo di ore. Ma i dati più interessanti arrivano dopo, con nave e camion che hanno una media di 50 e 60 morti, fino ad arrivare all’auto con 130 morti ogni miliardo di ore. Scorrendo ulteriormente questa interessante classifica si arriva ai dati più sorprendenti, si hanno 220 vittime fra i pedoni, 550 se si va in bicicletta, per arrivare alla moto/motociclo che è il mezzo meno sicuro con 4840 vittime ogni miliardo di ore. Ma l’analisi condotta si è spinta oltre, in quanto i vari mezzi di trasporto analizzati viaggiano a velocità completamente diverse. Quindi le ore di viaggio si traducono in differenti quantità di chilometri percorsi: per percorrere i circa 700 km che separano Roma da Torino è sufficiente un’ora di aereo mentre con l’auto si impiega circa otto volte tanto. Questo significa che in termini di chilometri percorsi l’aereo sarà sicuramente il mezzo più sicuro poiché ne percorre di più a parità di tempo. Infatti secondo quest’ottica, nella classifica stilata dal dipartimento troviamo al primo posto l’aereo con 0.05 vittime per miliardo di chilometri percorsi, mentre l’autobus urbano e il treno risultano sostanzialmente distanziati con un valore di 0.4 e 0.6 rispettivamente. Tutti gli altri mezzi di trasporto hanno ordini di grandezza maggiori con camion, navi e auto comunque comparabili fra loro con 1.2, 2.6 e 3.1 vittime per miliardo di chilometri. Andando giù in questa classifica, si arriva quindi alla bicicletta con 44.6, pedoni con 54.2 e infine moto/ciclomotori con 108.9 vittime per miliardo di chilometri. Tale classifica cambia nuovamente se si considerano i morti per miliardi di movimenti. In questo caso l’aereo risulta più penalizzato rispetto agli altri 36 mezzi, a parte i motocicli/moto che restano i più “pericolosi” a prescindere, perché ci sono meno movimentazioni totali, le quali in tale rapporto vanno al denominatore e quindi fanno crescere il valore di quest’ultimo indice per gli aerei. Di seguito sono riportati alcuni dei risultati tratti dall’articolo sopracitato, e precedentemente commentati, con relativa elaborazione grafica. Tabella 1: numero di morti nel 2000 in Gran Bretagna per alcuni mezzi di trasporto Morti per miliardo di ore di viaggio Morti per miliardo di chilometri Morti per miliardo di movimenti 4.3 Autobus 11.1 0.4 Treno 30 0.6 20 Aereo 30.8 0.05 117 Nave 50 2.6 90 Automobile 130 3.1 40 4840 108.9 1640 Motociclo Figura 1: elaborazione grafica dei risultai presentati in Tabella 1. SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | INGEGNERIA INDUSTRIALE Tralasciando il primato del motociclo/ moto a livello di numero di morti per tutti e tre gli indici, è evidente il differente risultato che si ottiene a seconda delle modalità con cui i dati vengono elaborati, ad indicare quanto la valutazione del livello di sicurezza nei trasporti dipenda strettamente dalla tipologia di dati utilizzati e dal modo in cui essi vengono manipolati. A sostegno di questa tesi, sono stati calcolati nel presente lavoro altri due nuovi indicatori, ritenuti fondamentali per lo sviluppo di una corretta analisi del livello di sicurezza dei mezzi considerati. Il primo di tali indici è la “Mortalità”, calcolata come rapporto tra il numero di morti annuo e il numero complessivo di incidenti, mentre il secondo è il “Tasso di Gravità”, calcolato rapportando il numero complessivo di morti e feriti con il numero di passeggeri-km in miliardi (dove con passeggeri-km si intende la sommatoria del numero di passeggeri moltiplicata per l’estensione media del loro viaggio). Al fine di uniformare la trattazione con i risultati forniti da Ford, si è scelto di riferire l’analisi al panorama anglosassone, attingendo i dati da elaborare dalla medesima fonte dello studio di Ford, seppure aggiornata all’anno 2013 [4]. L’informazione contenuta nell’indice di mortalità, sebbene fuorviante per certi aspetti, è tra quelle maggiormente utilizzate in letteratura nell’ambito della sicurezza nei trasporti. Infatti, in quanto rapporto tra numero di morti e numero totale di incidenti annui, esso rappresenta il numero medio di morti per incidente, fornendo quindi una stima della gravità del singolo evento incidentale, senza tenere però conto della frequenza con cui tale evento si manifesta. E’ chiaro che un indice del genere penalizzi oltremodo l’aereo poiché pur avendo incidenti non molto frequenti, questi ultimi quando si verificano sono spesso gravi per conformazione e caratteristiche stesse del velivolo, e inoltre di solito viene coinvolto un numero elevato di passeggeri contemporaneamente. Risulta quindi più utile, dal punto di vista della sicurezza, valutare il tasso di gravità, il quale è in grado di fornire informazioni quantitative sui passeggeri che vengono coinvolti in eventi incidentali ogni miliardo di passeggeri-km, tenendo in considerazione nel calcolo anche i feriti. In questo caso trovandosi al denominatore la sommatoria del numero di passeggeri moltiplicata per il chilometraggio medio delle tratte, diventa logico trovare l’aereo al primo posto in questa particolare classifica. Purtroppo non è stato possibile calcolare questo indice nel caso del trasporto marittimo a causa di dati insufficienti o non dettagliati sul numero di passeggeri e soprattutto sulla lunghezza media delle tratte. Le tipologie di indicatori che è possibile utilizzare sono quindi innumerevoli, ma riteniamo che i cinque fin qui rap- Figura 2: nuovi coefficienti elaborati nel presente lavoro per i mezzi di trasporto in Gran Bretagna nell’anno 2013 37 INGEGNERIA INDUSTRIALE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 presentati meglio riflettano differenti punti di vista per quanto riguarda la valutazione del livello di sicurezza di ogni tipologia di trasporto. Se infatti è evidente che, basandosi sul numero di morti a seguito di un certo numero di chilometri percorsi, sia l’aereo a risultare il mezzo più sicuro tra quelli elencati, non sorprende che valutando lo stesso mezzo in base al numero di ore di servizio, questo dato si ridimensioni, dando un’informazione diversa al passeggero sul reale livello di sicurezza proprio del velivolo. Riuscire quindi a dare un responso chiaro e definitivo è praticamente impossibile. Inoltre diffiderei da chi in modo inequivocabile si schiera dall’una o dall’altra parte, poiché gli indici che possono essere presentati a volte sono elaborati ad hoc per privilegiare le caratteristiche di un mezzo di trasporto rispetto a un altro. Nonostante ciò, riteniamo di poter affermare con certezza come l’aereo sia comunque fra i mezzi di trasporto più sicuri in quanto in media si trova sempre nei primi posti dei vari indici qui presentati e discussi. Ovviamente dare una risposta chiara e definitiva è pura utopia, ma mantenendoci nel campo delle “provocazioni” possiamo chiudere con una di queste. Da alcuni dati che abbiamo esaminato, si evince che in Italia si muore di più in casa che in incidenti stradali (che come abbiamo visto hanno un impatto comunque maggiore rispetto agli incidenti aerei). Secondo le fonti del Dipartimento di Medicina del Lavoro dell’Ispesl (Istituto per la prevenzione e sicurezza del lavoro) [5], in Italia ogni anno in media si han- 38 no tra le pareti di casa circa 8000 incidenti mortali, il triplo degli incidenti mortali automobilistici. E’ chiaramente una provocazione, poiché in questi dati ci sono molti individui over 75 o under 4 che meriterebbero un approfondimento a parte, e inoltre il bacino da cui si attinge risulta praticamente essere tutta la popolazione di una nazione. Ma il dato resta comunque utile per chi magari pensa che rimanere relativamente tranquillo fra le quattro mura domestiche senza viaggiare in nessun modo sia la cosa migliore da fare: forse non è proprio così. BIBLIOGRAFIA [1] ICAO, Safety Report 2015 Edition (available at http:// www.icao.int/safety/Documents/ICAO_Safety_ Report_2015_Web.pdf; accessed on July 7, 2016). [2] Department of Transport – National Travel Survey: Change in travel since 1965 Office for National Statistics – Changes in Travel to Work Areas from 2001 to 2011. [3] Department of Transport – Transport Statistics Great Britain 2014. [4] Roger Ford, 2000, article in the magazine Modern Railways. [5] Ispesl, (available at http://www.ispesl.it/statistiche/; accessed on November 12, 2014). SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | LETTERATURE Biblioteche e libri come topos letterario EMILIANO VENTURA Dottorando in filosofia alla Pontificia Università Lateranense Ci sono pochi luoghi fisici artificiali che possono tenere il passo con il fascino delle biblioteche, non solo per studiosi e scrittori. Sono soprattutto quest’ultimi ad averne fatto spesso un topos nella letteratura. Le biblioteche, e i libri, possono essere fonte di orgoglio o di pericolo, vanità personali e strumento di studio, ma anche protagonisti di romanzi e racconti che hanno fatto la storia universale della letteratura, da Cervantes a Musil, da Eco a Borges. N elle Etimologie di Isidoro di Siviglia si legge il significato del termine biblioteca che letteralmente vuol dire scaffale (theke) per il libro (biblion), naturalmente il libro dell’antichità non era e non aveva la forma a cui siamo abituati, oscillava tra la tavola in bronzo o argilla al rotolo di papiro. Nella famosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, quella voluta dal Tolomeo detto il Filadelfo e poi andata persa nell’incendio appiccato dalle legioni di Cesare, c’erano i rotoli custoditi negli scaffali, i dotti e gli scribi compilavano copie di tutti i libri e del sapere che passava per il porto della città. Tolomeo era quel regnante che aveva scritto una lettera a tutti i sovrani incitandoli a mandare opere di qualunque genere e autore affinchè nella sua biblioteca venissero copiati; lo stesso che chiedeva al plenipotenziario Demetrio Falereo: «Quanti rotoli abbiamo?», come se s’informasse del suo esercito. Sovrani così non resta che rimpiangerli, se paragonati a certi politici attuali. Questa mitica biblioteca alessandrina, anche detta universale, vedrà tra i suoi ‘direttori’ o semplici studiosi-frequentatori uomini come Demetrio Falereo (grammatico stimatissimo), Callimaco (poeta), Apollonio di Rodi (autore delle Argonautiche), Aristofane di Bisanzio (che conosceva a memoria tutti i libri), Eratostene (onnisciente), da queste personalità ben si comprende l’aggettivo ‘universale’. Nemico principale del libro, del papiro come della carta, è il fuoco che ripetutamente ha reso cenere la parola scritta. Se il primo rogo in questa biblioteca può imputarsi a Cesare quello finale ricade sul Califfo che considerò superfluo il ragionare dei libri diversi dal Corano. Nell’atteggiamento del Califfo si sommano gli estremi sentimenti con cui l’uomo si relaziona al libro, sacro e sacrilego. Pochi oggetti suscitano attenzioni e sentimenti che normalmente si rintracciano nelle relazioni umane. In passato è capitato, e purtroppo capita ancora, che un uomo sia stato condannato per le sue idee, anche il libro diviene veicolo di propagazione di idee esattamente come un uomo o un predicatore, e per questo assume contorni pericolosi o destabilizzanti. Quando si voleva eliminare un pensatore ‘eretico’ o ‘fondamentalista’, insomma qualcuno di scomodo, il rogo era la via più veloce per cancellare vita e ricordo, e se l’uomo in particolare era anche scrittore allora le sue opere partecipavano alla sua fine, si uccideva e si trattava con ugual peso l’uomo e il libro. Dall’altro versante quando l’adorazione della massa per un uomo o per una divinità diviene estesa e ufficiale, insieme all’uomo e al Dio si venera un Libro che è rivelazione del divino, cosa che avviene ancora con le religioni monoteistiche del Mediterraneo. Ecco che la parola scritta diviene estensione della divinità o appendice corporea dell’eretico, la prima si venera e la seconda si elimina; se vogliamo il merito o la colpa della parola scritta consiste nell’imitare la facoltà comunicativa umana. Non è raro che regimi di potere religioso o politico, per consolidare lo status egemonico abbiano ricorso alle due pratiche contemporaneamente, si eleva un libro a possessore di verità assolute e si elimina col fuoco il libro che questa verità mette in discussione o confuta, o che semplicemente propone una versione diversa. «Condanniamo, riprobiamo et proibemo tutti gli sopradetti et altri tuoi libri et scritti, come eretici et erronei et continenti molte eresie et errori, ordinando che tutti quelli che 39 LETTERATURE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 sin’hora si son avuti, et per l’avvenire verranno in mano al Santo Offizio siano publicamente guasti et abbrugiati nella piazza di san Pietro, avanti le scale, et come tali che siano posti nell’Indice de’ libri prohibiti, sì come ordiniamo che si facci»1, così recita la sentenza destinata a Giordano Bruno dal governatore di Roma, 8 febbraio 1600, tanto per fare un esempio tra i più noti. Per queste ragioni quando si parla di biblioteca le si accosta spesso il termine di mondo o universo, come nel famoso incipit del racconto borghesiano La biblioteca di Babele, «L’Universo che altri chiama biblioteca», ma questo non è che uno dei moltissimi esempi. La narrativa e la poesia sono piene di biblioteche e libri, di amorose corrispondenze di sensi, di grandi misteri e di libri perduti, di libri da cercare (uno dei possibili graal è proprio un vangelo, un libro con la parola di Gesù); è quindi un topos narrativo molto sfruttato, come per l’arte pittorica che tratta variando uno stesso tema, si può dire che la biblioteca è una delle tante varianti della narrativa. La tecnica della stampa, e prima ancora la copiatura dei manoscritti, ha finito per segnare la fine di una delle tecniche più affascinanti e longeve della storia dell’umanità, l’arte della memoria. Era questa una tecnica che serviva a memorizzare nomi e discorsi, dal suo fondatore il poeta greco Simonide passando per Cicerone, Tommaso d’Aquino, Petrarca e fino a Bruno non c’è stato letterato, filosofo o retore che non ne abbia fatto uso. Prima di avere a disposizione una biblioteca personale o un archivio, o più semplicemente la carta per appuntare frasi e discorsi, l’uomo ha dovuto sviluppare questa capacità per tenere a mente discorsi, poemi e canti. Era questa una tecnica che serviva agli aedi, ai rapsodi girovaghi, ai sofisti e ai politici che tenevano discorsi e prolusioni in assemblee, o in occasioni ufficiali, non mancavano gare per far mostra della sapienza, al riguardo non mancano leggende. In Africa un vecchio adagio recita: «Quando muore un vecchio, brucia una biblioteca»2, e ciò era sicuramente vero nelle epoche arcaiche e in quella groco-romana, in un certo modo l’uomo con questa tecnica diveniva simile a un contenitore di libri. Anche i testi scritti che sono giunti fino a noi risentono di questa tecnica memorativa, inevitabilmente, come un habitus mentale, influenzava anche il discorso scritto; ci troviamo così di fronte a testi che presentano una reiterata attenzione all’ipse dixit di un maestro o un autore di riferimento. Così il testo scritto somigliava molto alla tecnica con cui si costruiva un mosaico, le citazioni erano le particelle che costituivano la figura del manoscritto; in epoca medievale si usava ancora scrivere i centoni, libri scritti con parti di altri libri. Dall’invenzione della stampa a caratteri mobili questa tecnica è andata sparendo, sostituita per sempre dalla maggiore e sempre crescente ‘reperibilità’ del testo scritto, del libro come lo conosciamo oggi; la sensazione di aver perso qualcosa di molto importante non può considerarsi semplicemente come pensiero passatista o elitario, ma se mai ci deve portare a riflettere sulla differenza tra la molta informazione di oggi (passeggera) e il ristretto sapere della tradizione (duratura). Per non parlare dei vari e molteplici livelli di significato che erano impliciti e ricercati nei testi medievali, contrapposti alla pura cronaca, piatta e semplice della tanto sbandierata narrativa contemporanea. Questa circolarità illimitata di testi sembra che abbia degradato il sapere, chiunque è in grado di ricevere risposte su questioni mai poste, è anche questa una forma di sacrilegio che è imputabile all’oggetto libro. Che nella parola scritta ci fosse qualcosa di ‘statico’ e di ‘stupido’, era già nota alla mitologia egizia, e in seguito sostenuta anche da Platone, si cercava di privilegiare il discorso orale, il dialogo vivo tra allievi e maestri, vera e propria conditio sine qua non di ogni sapienza. Torna attuale la domanda su la comunicazione e la libera informazione, tanto abusate oggi, che non siano ancora un modo per nascondere nel molteplice dell’inutile un qualsiasi tipo di sapienza dei pochi? Siamo ancora a una forma, decaduta e banalizzata, di distanza tra esoterismo e essoterismo? La questione è importante e per sua natura aperta, suscita continuamente dibatti tra diverse discipline e saperi. Il pensiero vola all’Umanesimo italiano, al ‘400, al secolo in cui si percorreva l’Europa alla ricerca di vecchi e unici manoscritti, studiosi, nobili e mercanti praticavano con passione questa ricerca. Lo status sociale si avvaleva e si arric- 1 L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno Editrice, 1993, Roma, p.343 2 Il riferimento occidentale più immediato va agli uomini biblioteca del romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Nell’ antico Egitto era leggendario un libro scritto dal dio della saggezza Thot, in esso si potevano trovare formule capaci di incantare il cielo, la terra e i mari. Questo libro, unico e pericoloso, è custodito nei fondali dell’acqua di Copto, custodito in una scatola di ferro, a sua volta rinchiusa in una di rame, protetto da un’altra di legno-qedet, il tutto nascosto in una scatola di avorio ed ebano. Questo complesso gioco di scatole sono al fine poste in una scatola d’argento, riposta ancora in una d’oro. Il tutto rimane protetto da sedici chilometri di serpenti e scorpioni, questo sistema di incastri e veleni per difendere un libro scritto da un dio, parole cariche di divina potenza. Al libro si imputa anche la colpa della follia o dell’invasamento del lettore, ne sono esempi il Paolo e Francesca danteschi che si strinsero in un amore tragico per colpa del libro galeotto di Lancialotto, per non parlare di Don Chisciotte che negli argomenti trattati dai suoi libri di cavalleria trova i suoi vaneggiamenti da ultimo cavaliere dalla triste figura. A tal proposito la nipote di Alonso Chisciano (Don Chisciotte) se la prende, per la follia dello zio, proprio coi libri di cavalleria che vorrebbe veder bruciati come eretici, vuole che vengano consegnati al braccio secolare della governante. 40 SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | LETTERATURE chiva con il possesso del libro raro e di una biblioteca; la famosa Laurenziana di Firenze nasce per volere di Lorenzo il Magnifico, vi partecipano alla creazione ingegni come Pico della Mirandola e Poliziano oltre al signore di Firenze. Biblioteche, libri e librerie ritornano spesso nella letteratura, come si accennava poco sopra, l’elenco degli autori e dei libri sarebbe lunghissimo: ecco solo qualche doveroso esempio. Un libro-biblioteca classico è l’opera del patriarca costantinopolitano Fozio (IX secolo d.c.) il quale redasse un Myrobiblion, titolo reso in volgare con Biblioteca, il testo ha la carettristica di raccogliere il sommario di trecento libri. Era stato scritto dall’autore per il fratello Tarasio che non aveva la possibilità di consultare personalmente, lui come tanti altri, le opere originali. È del 1704 l’operetta satirica The Battle of The Books di Jonathan Swift dove si anima, letteralmente, attraverso i libri stessi (possiamo vedere un Galeno scagliarsi contro Paracelso) la polemica tra i fautori della cultura antica e quelli della cultura moderna, lo scontro è ambientato nell’ultima scorcio del XVII secolo. Tornando alla letteratura del XX secolo soltanto un accenno al già citato Borges con i suoi racconti di libri apocrifi e bilioteche (solo il silenzio a volte può accennare decorosamente all’opera dei grandi). Robert Musil nel suo L’uomo senza qualità manda il protagonista Stumm alla Biblioteca Nazionale alla ricerca, tra i libri, dell’idea più importante del mondo, ma si accorge che i libri sono troppi per essere letti nell’arco di una vita umana, ecco che la biblioteca assume i contorni e il simbolo del caos del mondo moderno (si sente quasi l’eco antica della filosofia stoica: «A che servono intere collezioni di libri se nell’arco di un’intera vita il padrone riesce a malapena a leggerene i titoli? Votati a pochi autori, non vagabondare tra i tanti»). Nel Fu Mattia Pascal c’è sia una biblioteca che un bibliotecario e i libri affiorano spesso nelle peregrinazioni di Adriano Meis; in Autodafè di Canetti è protagonista un professore bibliofilo e misantropo che venera i suoi libri nella sua foltissima biblioteca personale. Alcuni libri hanno scalato per settimane, o anni, la vetta delle classifiche delle vendite, raggiungendo record e nomea di bestseller come il famosissimo Il nome della rosa di Umberto Eco; la trama è arcinota e vi troviamo ancora al centro una biblioteca, un bibliotecario e un libro disperso, il secondo libro sulla Commedia di Aristotele, è il libro stesso, intriso di veleno, ad essere l’autore delle morti che funestano l’abbazia. Il successo del libro è anche dovuto alla sapienza con cui il Professor Eco, combina i vari topos letterari, mescolando ‘cultura alta’ a ‘cultura di massa’. Qualche anno fa un bestseller arrivato dalla Spagna L’ombra del vento di Zufon ha introdotto, con grande successo, la stessa tematica della biblioteca che cela qualcosa di proibito, un libro pericoloso e un autore misterioso che sembra rincorso, e destinato come un eretico, alla ‘purificazione’ del fuoco. Last but not least è un testo che da poco ha compiuto qua- rant’anni, è Il Quinto evangelio3 di Mario Pomilio, mirabile narrazione intorno a un leggendario quinto vangelo. Il protagonista si imbatte in una Germania devastata dalla guerra in una cattedrale dove un sacerdote, nella sua personale biblioteca, ha celato e ricostruto gli stralci della leggenda che da secoli coinvolge religiosi e laici alla ricerca di questo vangelo; questo testo, diversamente da tanti altri nella tradizione narrativa, non ha nulla di malvagio né di pericoloso ma è solo una delle possibili manifestazioni della parola divina, in un momento tragico come può esserlo una guerra l’uomo sente il bisogno di una aggiunta di ‘rivelazione’, un potenziamento della parola divina. Il Quinto evangelio, ingiustamente poco citato e da troppi passato sotto silenzio, è in assoluto il testo che usando il topos del libro e della biblioteca ha ragginto un apice difficilmente eguagliabile di rigore di stile; Pomilio usa diverse tecniche narrative per rendere conto di questa secolare ricerca del vangelo, ci troviamo immersi nella prosa di monaci medievali e di sapienti rinascimentali. C’è da dire che il pretesto, o il germe dell’idea, è rintracciabile nella biografia dell’autore, in una casa dei nonni paterni in un piccolo centro dell’abruzzo; il giovane Mario si ritrova spesso a consultare la libreria di testi sacri di un avo sacerdote, è probabile che la visione della parola come rivelazione sia nata in quelle letture giovanili, negli anni più fertili dove le idee attecchiscono con maggior vigore. Resta da scrivere, se qualcuno non l’ha ancora fatto, della biblioteca che contiene tutte le idee e i progetti che gli autori non sono stati capaci, per perfezionismo o per la sopravvenuta morte, di portare a compimento, l’enorme massa dei progetti non realizzati, ogni autore potrebbe figurare in questa biblioteca dal poeta Baudelaire allo stesso Mario Pomilio. Sarebbe bello che esistesse una biblioteca dei libri maledetti, ritirati o eretici, tra questi figurerebbero Il Necronomicon, il maledetto grimorio dello scrittore H.P. Locercraft, e il fantomatico Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente4 di Giorgio Steimetz, libro ritirato dal commercio, dalle librerie e dalle biblioteche, questo testo fotocopiato è stato usato come fonte da Pier Paolo Pasolini per la stesura del suo romanzo Petrolio. 3 Mario Pomilio, Il quinto evangelio, nuova edizione, L’orma, Roma, 2015. 4 Questo libro è stato ripubblicato nel 2010 dall’editore Effigie. Si tratta di un recupero importante che doveva avere un impatto mediatico notevolissimo vista l’influenza del libro sul Petrolio di Pasolini, e vista anche la leggenda nera che lo circondava, dopo l’uscita è stato ritirato in fretta su ordine dello stesso Cefis. Il fatto è passato pressoché sotto silenzio. 41 URBANISTICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Il disegno di legge AC 2039 - Consumo di suolo LETIZIA CREMONINI E TEODORO GEORGIADIS L a Legge Urbanistica 1150 del 1942, ancora oggi in vigore con le successive modifiche, disciplina l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio, tramite un sistema gerarchico di piani regolatori. Già questa legge indicava la problematica della tendenza all’urbanesimo e alla necessità di mettere rimedio a questo fenomeno “…Il Ministero dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento della città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo.” (art. 1). Leggi di tutela ambientale e paesaggistica coeve alla 1150 (Legge 1089 e Legge 1497, entrambe del 1939) consideravano il bene culturale e il paesaggio da un punto di vista prettamente estetico. Il mercato dei suoli ha però sempre rappresentato la discussione centrale tra economia ed urbanistica, dialettica tanto fondamentale da portare alla nascita della Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno, costituita il 2 dicembre 1946, ed è importante ricordare di Alberto D’Agostino lo scritto ‘Mercato ed Urbanistica’ (Soc. Ed. Esculapio, 2008). Passando fra varie fasi di crisi economica e scandali edilizi (anni 50-60) che contribuirono alla definizione di standard urbanistici e di norme sull’espropriazione per pubblica utilità, le Regioni acquisiscono dallo Stato (a partire dal 1972) la maggior parte dei poteri urbanistici. Come accade anche a livello europeo, la deregulation degli anni 70-80 contribuisce a caratterizzare il territorio con una distribuzione in rete e al decentramento delle forme organizzative. In parallelo si fortifica il dibattito ambientale sul filone (europeo) dello sviluppo sostenibile. In Italia nell’85 la Legge Galasso che obbliga le Regioni a redigere i Piani Paesistici, poi l’istituzione del Ministero dell’Ambiente. Con gli anni 90 si tende a una riorganizzazione delle strutture del potere e la distribuzione sempre maggiore della responsabilità alle Pubbliche Ammi42 nistrazioni, introducendo un nuovo modello di gestione integrata, la Governance. In Italia si susseguono norme in materia di suolo, acqua, aria, rumore, compatibilità ambientale e in materia di trasparenza amministrativa (L. 241/90). La L. 142/1990 prima e poi il D. Lgs. 267/2000 specifica la suddivisione dei poteri fra Regioni, Comuni e Province. Alle prime gli obiettivi generali della programmazione economica, sociale e territoriale e ripartizione del le risorse, mentre i Comuni concorrono alla determinazione degli obiettivi contenuti nei piani e programmi di Stato e Regioni, e provvedono alla loro attuazione (art. 5). Lo stesso anno viene redatta dal Consiglio d’Europa la Convenzione Europea del Paesaggio, carta fondamentale per tutte le nazioni per tutelare, gestire e pianificare, con un approccio olistico, i paesaggi europei. I concetti di governance, sviluppo sostenibile e città sostenibile, che mira alla rigenerazione del proprio patrimonio esistente (Carta di Aalborg, 1994; Strategia Europea per lo sviluppo sostenibile, 2004; Carta di Aalborg +10, 2004), entrano quindi a far parte del nuovo modello scelto dall’UE e anche dall’Italia, e parallelamente ai Programmi di azione per l’Ambiente dell’UE (dal primo nascono i principi di precauzione e prevenzione), alla conferenza di Rio de Janeiro, mirano a riconoscere le tematiche principali da perseguire, con l’identificazione degli attori coinvolti. Fra le tematiche anche il consumo di suolo, con la relativa Strategia tematica per la protezione del suolo del 2006, che evidenzia il bisogno di rendere operative le buon pratiche per ridurre gli effetti negativi del consumo di suolo, con riferimento soprattutto all’impermeabilizzazione (http://www.isprambiente.gov.it/ it/temi/suolo-e-territorio/il-consumo-di-suolo/obiettivi-eorientamenti-comunitari). Il consumo di suolo zero entro il 2050 diviene il principale obiettivo del Settimo Programma di Azione Ambientale. Sulla base di questa nutritissima legislazione è forse corretto porsi quale domanda se il DDL presentato risulti coerente appunto con il sistema europeo. SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | URBANISTICA Un primo passaggio interessante è quello di vedere le normative che sono state approvate subito prima il passaggio dalla Camera al Senato del DDL. Il Nuovo codice Appalti 2016, Decreto legislativo n°50 del 18 aprile 2016, di cui è citata la parte V all’interno del ddl AC 2039 negli articoli 1, 2, 3 e 11, in riferimento alle infrastrutture e agli insediamenti prioritari che “fanno eccezione” rispetto agli obblighi di priorità di riuso e di rigenerazione urbana nella valutazione di alternative di localizzazione delle opere in modo che queste non comportino consumo di suolo. Tali insediamenti e infrastrutture sono valutati e inseriti negli strumenti di pianificazione dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti (MIT). Positiva è la ricognizione di tutti gli interventi già compresi negli strumenti di pianificazione e programmazione. I due strumenti di pianificazione e programmazione sono il Piano Generale dei Trasporti e delle Logistica (PGTL), che contiene le linee strategiche politiche di mobilità e dello sviluppo infrastrutturale, e il Documento Pluriennale di Pianificazione (DPP), che riguarda l’elenco degli interventi ritenuti meritevoli di finanziamento e fattibili. Quest’ultimo tiene conto di tutti i piani operativi di ogni area tematica nazionale definiti dalla Cabina di Regia, ovvero la sede su cui si confrontano Stato, Regioni e Province relativamente alla Programmazione del Fondo Sviluppo e Coesione 2014-2020 (FSC) e agli stanziamenti di ogni tematica nazionale. Se è vero che la project review per le infrastrutture già finanziate è attiva, per quale ragione non è stata ancora applicata sulle opere approvate dalla precedente L. 443/2001 (cosiddetta Legge Obiettivo)? (http://www.eddyburg. it/2016/05/allegato-infrastrutture-luci-e-ombre.html). Da tale verifica potrebbe emergere la loro potenziale inutilità rispetto alle necessità attuali. Altri decreti che influiscono sul DDL sono stati approvati il 15 giugno 2016 e riguardano la Riforma della Pubblica Amministrazione. Il decreto sulla Conferenza dei Servizi semplificata per la quale vige il silenzio assenso e non è necessario incontrarsi fisicamente ma basta l’invio telematica della documentazione; anche in materia di VIA e rispetto al parere degli enti di tutela vige il silenzio assenso, oltre che l’eventualità di concludere la VIA anche con parere negativo della Conferenza, tramite una decisione ultima del Consiglio dei Ministri. Ancora, Comuni e Regioni potranno individuare e proporre interventi su cui fare investimenti strategici, ma la stessa facoltà è data al Presidente del Consiglio dei Ministri, e a decidere tempi e le procedure autorizzative sarà il Consiglio dei Ministri. Questo toglie possibilità di azione a Regioni e Comuni, su cui si era voluto incentrare il potere attuativo negli ultimi decenni, in quanto migliori conoscitori dei bisogni locali e delle identità da tutelare. Perché avviene questo? Forse il panorama di decreti a cui fa riferimento il DDL approvato alla Camera può offrire strade alternative alle buone pratiche? Analizziamo quindi puntualmente il DDL, avvalendoci anche del parere di esperti. Il disegno di legge si struttura in undici articoli. Il primo identifica gli ambiti e gli scopi della legge, delinea i princi- pi basilari per la valorizzazione e la tutela del suolo e delle aree e superfici sottoposte a tutela paesaggistica. Il suolo è un bene comune non rinnovabile e in quanto tale va contenuto. La rigenerazione urbana e il riuso sono indicati come materia base per il governo del territorio. Il secondo articolo riguarda l’apparato definitorio nel quale sono specificati i principali termini, tra i quali alla definizione di “suolo” viene dedicato il comma 2, rimandando direttamente all’art. 5, comma 1, lettera v-quater, secondo periodo del D.Lgs. 152/2006. A questa definizione si propone l’aggiunta della frase “e costituisce una risorsa ambientale non rinnovabile”. Considerando la centralità del termine rispetto al tema, probabilmente sarebbe stato ottimale riportare la definizione integrata con l’aggiunta proposta. In ogni caso rimane da valutare la congruità della nuova definizione. Il terzo riguarda l’attuazione della riduzione progressiva vincolante del consumo di suolo che avviene tramite i criteri e le modalità definite dalla Conferenza unificata; se questa non adotta la delibera provvede il Presidente del Consiglio dei Ministri con delibera del Consiglio. Le Regioni e le Province autonome devono rendere disponibili i dati acquisiti relativamente ai rispettivi territori; il Decreto è adottato entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge e sottoposto a verifica ogni 5 anni. Con la deliberazione della Conferenza unificata è stabilita la ripartizione in termini quantitativi tra le Regioni della riduzione di consumo del suolo e le misure di mitigazione e compensazione; se la Conferenza non provvede alla ripartizione si attiva il Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono definite le modalità di monitoraggio sulla riduzione del consumo di suolo (ISPRA e Consiglio per la ricerca in agricoltura). Le Regioni e le Province autonome, per attuare la riduzione, con cadenza di 5 anni, dispongono la riduzione del consumo di suolo in termini quantitativi, determinando criteri e modalità da rispettare nella pianificazione urbanistica comunale. Se Regioni e Province Autonome non provvedono, la riduzione, i termini, e i rispettivi criteri sono definiti con delibera del Consiglio dei Ministri. Il quarto interessa l’attuazione delle disposizioni per gli enti sul riuso e la rigenerazione urbana. Le Regioni, dispongono i Comuni a promuovere strategie per la rigenerazione urbana identificando strumenti di pianificazione, a redigere il censimento e una banca dati degli edifici e delle aree dismesse, verificando se questi possono rispondere alle previsioni urbanistiche evitando il consumo di suolo. In caso di mancata deliberazione da parte delle Regioni, il Presidente del Consiglio dei Ministri provvede a dettare disposizioni. I Comuni che entro un anno non abbiano provveduto alle disposizioni verranno diffidati dalla Regione e in quei Comuni sarà vietata la realizzazione di qualsiasi intervento che preveda consumo di suolo. Il quinto concerne la delega al Governo in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate da realizzare entro 9 mesi dall’entrata in vigore della legge adottando decreti legislativi per semplificare gli interventi, seguendo criteri che tengano conto della qualità degli spazi e della vita dei cittadini, in termini di sicurezza sismica e idrogeomor43 URBANISTICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Fig. 1 - Un possibile “compendio agricolo neorurale? -” il pensiero corre subito ai territori di frangia urbana/metropolitana in cui il ‘neoruralismo’ si traduce, o potrebbe tradursi, in piani e progetti di suolo coerenti con un principio di tutela degli spazi aperti: uno scambio virtuoso fra città e campagna che garantisce l’accesso a prodotti di qualità da parte dei consumatori urbani, e valorizza le filiere corte con prospettive positive per il reddito agricolo e l’economia” (di MARIA CRISTINA GIBELLI, su Eddyburg, 30 Gennaio 2015 - http://www.eddyburg.it/2015/01/neologismi-in-liberta-compendi.html). Ma non è questo che lasciano intendere le funzioni descritte dall’art. 6 del DDL AC 2039. fologica, nei limiti del contenimento del consumo di suolo, definendo un regime fiscale vantaggioso e tutelando il patrimonio storico artistico. Il sesto riguarda l’invito per Comuni a prevedere la riqualificazione degli insediamenti rurali locali e lo sviluppo delle attività agroforestali nel territorio rurale tramite la loro identificazione quali compendi agricoli neorurali. É prevista la demolizione e ricostruzione dei fabbricati esistenti non utilizzati a scopo agricolo purché non vi sia ulteriore consumo di suolo rispetto all’esistente. Le destinazioni d’uso permesse sembrano non garantire tuttavia il mantenimento della destinazione d’uso agricola dei compendi. Il settimo identifica i divieti sul mutamento di destinazione d’uso delle superfici agricole, nonché il divieto di interventi urbanistici ed edilizi per le aree che hanno ricevuto sovvenzioni dall’UE e rispettive sanzioni; L’art. 8 delinea il sistema di incentivazione verso i soggetti pubblici e privati (singoli o associati) che intendono operare nel riuso e nella rigenerazione urbana, nella bonifica dei siti contaminati, negli insediamenti rurali. L’istituzione di un registro degli enti locali che si sono adeguati alla presente legge viene ordinato dall’art. 9. L’art. 10 volge la destinazione dei proventi e delle sanzioni che deriveranno dall’applicazione della presente legge alla manutenzione e realizzazione delle opere di urbanizzazione, al risanamento dei complessi edilizi nei centri storici e nelle periferie, alle aree verdi a uso pubblico, agli interventi di 44 riqualificazione del paesaggio e a quelli volti ad attività di agricoltura in ambito urbano. In ultimo l’art. 11 ripropone i termini ultimi entri i quali non sarà più consentito il consumo di suolo, elencando le immancabili opere che fanno eccezione. Una analisi critica del DDL ci fa quindi rilevare che questo rende inattivi i poteri finora demandati a Regioni e Comuni. Partendo poi dalla definizione di consumo di suolo “netto” (art. 2), risulta essere troppo evanescente nella definizione dei parametri per la riduzione (art. 3). L’ANCI relativamente alla riduzione del consumo di suolo ritiene più opportuno per i Comuni “individuare una procedura semplificata, per esempio proponendo di ridurre progressivamente la quota percentuale delle zone di nuova urbanizzazione rispetto a quelle già edificate, favorendo contemporaneamente la rigenerazione urbana”. Ancora, in riferimento all’art. 11 comma 1, “teme il blocco delle attività e come soluzione propone di prevedere una fase di transizione così da garantire un graduale passaggio dal sistema di pianificazione attuale al sistema proposto dalla legge” (http://www.edilportale.com/news/2016/04/normativa/ consumo-di-suolo-il-disegno-di-legge-non-piace-ai-comuni_51566_15.html). Riccardo Picciafuoco e Federico Sandrone di Salviamo il Paesaggio rilevano che “L’attuale testo poco alla volta è SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | URBANISTICA Fig. 2 - “Il 2015 – anno internazionale del suolo – ha permesso di porre concretamente l’attenzione sul degrado cui è sottoposto questo elemento fondamentale per la vita dell’essere umano e dell’intero pianeta.” ..Tuttavia “Il ritmo di perdita di suolo fertile continua indisturbato e senza limiti. Tocca quindi ai cittadini europei il compito di essere attori primari e assumere le iniziative necessarie a promuovere “dal basso” la protezione dei suoli all’interno dell’intero continente europeo. Per questo motivo lo scorso anno è stata creata People4Soil – una grande campagna promossa da oltre 200 associazioni in tutta Europa – con l’obiettivo di affermare il ruolo determinante dei suoli nel creare le condizioni sociali, ambientali, sanitarie ed economiche in grado di risolvere realmente le enormi problematiche relative alla sicurezza alimentare, all’eliminazione della fame, al cambiamento climatico, alla riduzione della povertà e delineare i contorni di un equilibrato modello sostenibile e che al contempo salvi il paesaggio e difenda i territori” (http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2016/05/fermare-il-consumo-di-suolo-in-tutta-europa-tocca-a-noiorganizzarci-e-lo-stiamo-facendo/). stato completamente svuotato delle disposizioni che realmente potevano contribuire a contenere il consumo di suolo, nella fattispecie la fuorviante definizione di superficie agricola, naturale e seminaturale, e che con tutte le varie eccezioni introdotte manderà in frantumi gli attuali metodi di analisi e conteggio di consumo del suolo e le relative banche dati”. Questa della misurabilità è una critica fortissima al decreto che impone una valutazione particolarmente approfondita dei metodi scientifici atti alla misura. Inoltre, segnalano “É prevista l’introduzione dei compendi agricoli neorurali con la possibilità di insediare delle destinazioni che nulla hanno a che fare con la destinazione agricola”. L’unica positività che fanno emergere i due esperti di Salviamo il Paesaggio è quella relativa all’introduzione del censimento delle aree dismesse quale presupposto per valutare la necessità o meno di nuovo consumo. Nel seguente link le proposte di modifica al DDL elaborate nell’aprile 2016 dal Forum di Salviamo il Paesaggio: http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/wp-content/uploads/2016/04/Comparazione_testi_DDL-AC39_e_ proposta_Forum_SiP_25-4-2016.pdf L’On. Samuele Segoni, che ha fatto parte dei lavori in Commissione, sostiene che il modello economico basato sul consumo di suolo non è in realtà più un modello sostenibile né ambientalmente, né economicamente: “Al di là dei proclami del titolo e dei principi generali il provvedimento ha forti limiti: ha un perimetro di applicazione limitatissimo, contempla solo il suolo classificato come agricolo dagli strumenti urbanistici e al netto di opere di mitigazione e compensazione non meglio specificate. Esistono innumerevoli eccezioni tra cui spazi interclusi, infrastrutture e spazi di pubblica utilità, costruzioni per cui sia stata presentata richiesta entro la data di approvazione della legge. Contiene artifici semantici, per cambiare nome alle vecchie abitudini, quali la rigenerazione delle aree urbane e i compendi agricoli neorurali.”. L’On. Segoni sottolinea che questo dispositivo avrebbe dovuto fermare il consumo di suolo e rilanciare il comparto dell’edilizia imprimendogli un miglioramento qualitativo orientato all’ecosostenibilità ma invece di superare la crisi innovando con decisione ci si intestardisce a trovare degli artifici normativi per tenere a galla comparti produttivi vecchi e stantii. Paolo Pileri, Politecnico di Milano, trova che il DDL rischi di essere bivalente. Da un lato è un punto di importante condensazione culturale con cui si dice al Paese quanto urgente sia il contenimento del consumo di suolo; dall’altro è anche un punto di liquefazione perché pieno di scivoloni, imprecisioni ed eccezioni che finiscono per snaturare l’efficacia della legge “… ad esempio la superficie agricola non è più un campo in quanto tale, ma solo se lo dice il piano urbanistico. Il de iure prevale sul de facto!” Le deroghe poi divengono ancora punto centrale del dibattito in relazione agli insediamenti definiti prioritari per legge: “Il rischio della distrazione 45 URBANISTICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 dall’obiettivo è alto. L’art. 6 sui compendi agricoli neorurali, che non era tra le cose più urgenti sollevate dal dibattito scientifico o popolare, non ha in se stesso gli anticorpi per evitare di ferire l’agricoltura, i suoi suoli e il suo paesaggio”. Michele Munafò, di ISPRA, vede positiva l’importanza finalmente riconosciuta al suolo (art.1), ma avanza perplessità rispetto alle definizioni poiché a suo avviso non adeguate dal punto di vista scientifico, anche rispetto a quelle europee. “ Questo a causa di alcune deroghe previste a livello di definizioni stesse, per le quali non devono essere considerati come consumo di suolo i servizi di pubblica utilità, le infrastrutture e gli insediamenti prioritari, le aree funzionali all’ampliamento di attività produttive esistenti, gli edifici, i fabbricati, le opere e le infrastrutture connessi in qualche modo alle attività agricole, gli spazi inedificati inseriti in area urbanizzata e tutte le zone di completamento, ovvero la gran parte delle aree edificabili previste dai piani urbanistici comunali attuali e futuri. Il tutto considerando che la procedura di definizione dei limiti è estremamente complessa e che non sono stabilite le percentuali di riduzione da raggiungere nel corso degli anni. “. Mentre per quanto riguarda il monitoraggio del consumo di suolo (di cui il DDL demanda a ISPRA), “l’inserimento di tutte le eccezioni già a livello di definizione, potrebbe rappresentare un ostacolo, rendendo indispensabile un doppio sistema di misurazione (con dati nazionali non coerenti con quelli richiesti dall’Europa) estremamente oneroso (nonostante sia chiarito che non debbano esserci nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica)”. Molto interessante è la lettura del DDL dell’Avv. Giacomo Graziosi che offre una disamina puntuale dei vari articoli. Anche Graziosi evidenzia come la legge sottragga ai piani territoriali ed urbanistici il potere di governare la trasformazione del suolo inedificato, che rappresentava il proprium stesso della materia urbanistica ed edilizia come fino ad oggi concepita: “L’utilizzo edificatorio del territorio vergine diviene un fenomeno essenzialmente ambientale – un consumo di suolo- e il suo controllo viene attratto in 46 capo agli organi centrali dello Stato (Governo e Conferenza Stato-Regioni) che provvederanno a regolarlo con le medesime tecniche di controllo utilizzate per i fatti inquinanti. Al Paese verranno concesse quote di consumo di suolo di entità progressivamente decrescente, come avviene per i pacchetti di emissioni inquinanti e le percentuali di rifiuti non riciclabili. Ma oltre a ciò la pianificazione urbanistica è destinata ad entrare con l’approvazione del DDL in uno stato di eccezione da cui uscirà radicalmente trasformata nei fini e nei caratteri distintivi. Riconoscendo che l’articolato contribuisce a abbandonare il modello espansivo e a prevedere il riuso e la rigenerazione delle aree già edificate prima di progettare una qualsiasi impermeabilizzazione del suolo ancora vergine, sottolinea anche come la riforma investirà anche gli strumenti elaborati negli ultimi decenni per l’attuazione delle previsioni urbanistiche quali perequazione, compensazione e indici premiali. Un ultimo importante passaggio dell’Avv. Graziosi riguarda il concetto di rigenerazione urbana che “non potrà, allora, mai più finanziarsi con il plusvalore delle nuove aree in espansione e dovrà necessariamente guardare il cielo. Come già accaduto in altri tempi, in altri luoghi.”. E’ quindi un diverso modello di città quello che Graziosi intercetta dall’analisi del dispositivo di legge. In conclusione, l’analisi del dispositivo e dei pareri espressi dagli esperti evidenziano come il DDL rappresenti un punto di ancoraggio della visione consolidata anche nella letteratura scientifica della necessità di consumo di suolo zero, manifesta però diverse ambiguità nelle definizioni, talvolta incoerenze, introducendo anche concetti nuovi che non possiedono allo stato attuale una misurabilità anche scientifica dei processi coinvolti. Altre domande restano ancora senza risposta, ovvero se al DDL seguiranno poi delle norme attuative, perché troppe volte, come nel caso della Legge sugli sgravi fiscali e i tetti verdi, non trovando decreti attuativi, la legge resta inutilizzata o, peggio ancora, può essere utilizzata secondo modalità tutte da definire prestandosi ad essere impiegata per interessi di parte. SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | FISICA Il nulla…poi l’universo e la vita? Quando la fisica si spinge oltre l’osservazione scientifica FRANCO SAPORETTI 1. IL MULTIVERSO DI Qual è l’origine dell’universo? HARTLE-HAWKING Come ha avuto inizio la vita? Da secoli questi interrogativi sono Facciamo una premessa. Sestati oggetto di profonde e accese condo la meccanica quantistica discussioni da parte di illustri teoall’interno di una regione vuota logi, filosofi e scienziati. I tentativi possono avere luogo fluttuazioni di risposta della scienza sono stati energetiche con conversione di diversi1. Il più conosciuto anche dal grande pubblico è l’ipotesi energia in materia: così particelle del Big Bang: l’universo ha avuto sorgono dal vuoto e poi annichiliscono dopo un attimo. Il vuoto origine circa 13,7 miliardi di anni quantistico è teatro di un incesfa da una violentissima esplosione sante balletto di particelle che da cui sono scaturiti lo spazio, il appaiono e scompaiono in tempi tempo e tutta la materia. Tutto ciò infinitamente brevi, inconcepibili che oggi esiste era contenuto in su scala umana. Anche il vuoto un punto in condizioni di pressione, densità e temperatura teoricapiù assoluto, a causa degli effetti mente infinite, chiamato dai fisici quantistici, ferve di attività ed è Fig. 1 - Multiverso © Asimmetrie-Infn/F.Cuicchio singolarità. All’esplosione è poi popolato da strutture evanescenti. seguita una vertiginosa espansione La meccanica quantistica ci dice (inflazione), successivamente divenuta molto più lenta. An- con chiarezza che possiamo vedere emergere materia da uno cora oggi il cosmo continua ad espandersi. Esistono prove spazio vuoto. attendibili del modello. Quella più significativa è l’esistenza Invocando la meccanica quantistica, Hartle e Hawking di una tenue e uniforme radiazione a microonde, chiamata ipotizzano2 l’esistenza di molti universi coesistenti col noradiazione cosmica di fondo, che permea ancora oggi tutte stro, ciascuno con proprie leggi fisiche, propri valori delle costanti fondamentali e proprie dimensioni spazio-tempole regioni dell’universo Anche se la teoria del Big Bang appare oggi come la teo- rali. In altri termini, propongono l’idea di un multiverso: il ria più accreditata presso la comunità scientifica, uno scena- nostro non è l’unico universo, ma ne esistono molti altri. Gli rio cosmologico altamente affascinante è quello dell’esisten- universi sono nati spontaneamente dal nulla per fluttuazioni za di molti universi, il cosiddetto multiverso. Una rappresen- quantistiche. Come idea intuitiva per la generazione del multiverso, tazione artistica di multiverso è mostrata in figura 1. Dedicheremo di seguito la nostra attenzione al modello di possiamo pensare alla formazione di bollicine di vapore in multiverso proposto da James Hartle e Stephen Hawking, acqua bollente. Immaginiamo le bollicine (che compaiono e quest’ultimo uno dei più eminenti fisici teorici contempora- quindi si espandono a ritmo accelerato) come minuscoli universi generati da fluttuazioni quantistiche. Alcune bollicine nei. 47 FISICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Fig. 2 - Modello standard Fig. 3 - Modello di Hartle-Hawking collassano e scompaiono, altre sopravvivono. Ebbene, in un universo primordiale a causa di leggere disomogeneità presenti, la forza di attrazione gravitazionale può aggregare la materia; quindi causarne il collasso con conseguente formazione di stelle e galassie; e, perché no, dare luogo alla vita come noi la conosciamo in almeno un caso: nel nostro universo! tempo anche, pur essendo finito nel passato. L’universo proposto è in apparenza molto strano: è senza confini nello spazio e nel tempo! Ma, allora… se lo spazio e il tempo (vale a dire tutto quanto esiste) non hanno confini, l’universo è senza un inizio ben definito nel tempo: non c’è nessuna origine dell’Universo! (Anche se questo non significa che l’universo abbia un’età infinita. Il tempo, come prima detto, è finito nel passato). Proviamo a capire per quanto possibile il meccanismo di espansione proposto dal modello di Hartle-Hawking mediante un confronto con quello ipotizzato per il Big Bang, cioè il modello standard. L’espansione dell’universo nel modello standard viene spesso rappresentata da un cono con la singolarità del Big Bang al vertice (figura 2). Il tempo scorre verticalmente lungo l’asse del cono. Le sezioni orizzontali del cono sono cerchi di raggio crescente e indicano l’aumento di dimensione dello spazio. Nel modello ipotizzato da Hartle-Hawking (figura 3) non esiste una singolarità e il vertice del cono è sostituito da una piccolissima (anche se in figura è disegnata grande) semisfera, di appena 10-33 cm di raggio. Secondo la teoria l’universo era in origine composto da quattro dimensioni spaziali (quindi una struttura spazio-quadridimensionale), ma privo della dimensione temporale. Essendo privo del tempo, non esisteva mutamento. Quando però, secondo il modello, una di queste dimensioni si è trasformata spontaneamente in scala ridottissima in una dimensione temporale, l’universo ha cominciato ad espandersi. In questa rappresentazione il tempo sorge gradualmente dallo spazio man mano che il cono sorge gradualmente dalla semisfera. Per chiarirci. Immaginiamo di andare a ritroso nel tempo verso il vertice del cono, cioè di vedere la storia dell’universo come in un film che procede all’indietro. Secondo la teoria, a un certo punto il tempo svanisce gradualmente nella dimensione spaziale, cioè si trasforma in spazio. Ma allora…avendo nel modello sostituito il punto di singolarità con una semisfera, lo spazio è senza confini. E il 48 Queste sono le conclusioni espresse dal modello…sulle quali però non pochi fisici hanno manifestato delle perplessità. Si tratta infatti di una teoria intenzionalmente escogitata per eliminare il problema dell’avvio; una teoria in cui gli autori, facendo appello ai processi quantistici, evitano con grande abilità i problemi associati alla origine cosmica. Sono intuibili le forti implicazioni anche in campo teologico e filosofico di un tale modello di universo. Fino a quando per il cosmo si poteva ipotizzare una qualche sorta di inizio, si poteva anche pensare a un Creatore. Ma, se l’universo può essere pensato completamente autosufficiente (ovvero semplicemente “esiste”), allora quale posto può essere riservato ad una Entità generatrice soprannaturale? 2. IL TRIONFO DELLA RAGIONE UMANA Nel settembre del 2010 esce in Inghilterra il libro dal titolo Il grande disegno. Perché non serve Dio per spiegare l’universo di S. Hawking e L. Mlodinow3, in cui viene esposto al grande pubblico il modello. Nella copertina del volume sta scritto: Quando e come ha avuto inizio l’universo? Perché c’è qualcosa invece di nulla? […] Perché siamo qui? E soprattutto, il «grande disegno» del nostro universo è opera di un benevolente creatore o la scienza può offrire un’altra spiegazione? Formulare una completa teoria dell’universo […] sarebbe il più grande trionfo della ragione umana, perché a quel punto conosceremmo la mente di Dio. […] SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | FISICA Non abbiamo ancora una risposta definitiva, ma oggi disponiamo di una candidata alla teoria ultima del tutto: la «teoria M». Se confermata, sarà la teoria unitaria di cui Einstein era alla ricerca, e il trionfo della ragione umana. Quanto a un presunto creatore del Grande disegno, la scienza dimostra che l’universo può crearsi dal nulla sulla base delle leggi della fisica. Non è necessario appellarsi a Dio per accendere la miccia e mettere in moto il processo. La creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece di nulla, per cui esiste il cosmo, per cui esistiamo noi. «La scienza dimostra che l’universo può crearsi dal nulla… », «Non è necessario appellarsi a Dio… », «La creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece di nulla… ». Sono parole fortissime! Anche il clamore mediatico che annunciava l’evento fu enorme. Quando uscì il libro molti giornali e siti web riportarono a grandi lettere quanto su scritto. E il mondo dell’atesismo salutò le affermazioni del celebre astrofisico come il trionfo della scienza e della ragione. Richard Dawkins, commentando il testo di Hawking, concluse: «Così come Darwin ha smentito l’esistenza di Dio con la sua teoria sull’evoluzione biologica, adesso Hawking la nega anche dal punto di vista della fisica». Sono espressioni di fuoco, specialmente se si pensa che il mistero dell’origine cosmica è probabilmente il campo in cui lo scienziato ateo si è sempre sentito più a disagio. Infatti, ad un certo punto nella catena dei perché e delle spiegazioni, gli scienziati si sono sempre trovati di fronte a una strada sbarrata, un punto oltre il quale la scienza non riesce ad andare. E questo limite è la creazione dell’universo, l’origine ultima dell’universo fisico. Ma le cose stanno proprio così come esposte nelle conclusioni del libro? Vediamo di raccogliere alcune riflessioni. Queste, aderendo pienamente alla laicità del metodo scientifico, si focalizzano su alcuni aspetti di base (come idee, scelte, assunzioni) determinanti per la costruzione e l’attendibilità scientifica del modello4. 3. MA LE COSE STANNO PROPRIO COSÌ? Un serio limite del modello Come scrivono gli stessi autori, la M-teoria su cui il modello si basa deve ancora essere «confermata». E autorevoli scienziati non credono nella M-teoria 5,6. Senza alcun tipo di verifica scientifica si rischia di scivolare nella filosofia. Senza riscontro si contravviene a una delle condizioni basilari dell’ipotesi scientifica dai tempi di Galileo: la controprova. Da un punto di vista scientifico, il modello di Hatle-Hawking presenta un serio limite: non può essere né verificato né falsificato. Ad esempio, gli altri universi ipotizzati dalla teoria sono assolutamente inaccessibili e fisicamente isolati dal nostro e non possono essere raggiunti per quanto si viaggi nel tempo e nello spazio. E ciò fa sì che l’idea ispiratrice del modello sia più simile ad una scelta “metafisica” che ad una teoria “scientifica”. E’ utile notare che la cosmologia è un campo particolare, unico fra le scienze: non è possibile fare esperimenti per ottenere risultati ripetibili, ma solo raccogliere osservazioni sull’unico universo che percepiamo e cercare correlazioni fra di esse. Si tratta di un surrogato del metodo sperimentale, il quale richiederebbe di creare apposta in laboratorio un universo o almeno una galassia ed osservare le sue proprietà. Cosa che chiaramente non possiamo fare! Nel caso del modello standard abbiamo una conferma significativa nella radiazione cosmica di fondo e altri indizi che ci permettono di pensare ad una sua validità. Ma per l’ipotesi di molti universi, non osservabili nemmeno in linea di principio, non abbiamo assolutamente nulla. E così, almeno per il momento, il modello “dimostra” ben poco. Da dove vengono le leggi? Ancora per quanto riguarda l’affermazione che «la scienza dimostra che l’universo può crearsi dal nulla sulla base delle leggi della fisica», vediamo di chiarire anche altri aspetti. Il modello di Hartle-Hawking è “costruito” in modo che non occorre più una singolarità per la genesi dell’universo. I due fisici avanzano l’idea dell’assenza di una singolarità con conseguenze molto pesanti. Così Hawking afferma: Se l’universo avesse avuto inizio con una singolarità, si potrebbe sempre supporre l’esistenza di un creatore. […] La teoria quantistica della gravità, però, è venuta a dischiudere una nuova possibilità: quella che lo spazio-tempo non abbia un confine e che, di conseguenza, non sia necessario determinare che cosa avviene in corrispondenza di questo confine. Non ci sarebbe singolarità […] né margini estremi dello spazio-tempo, arrivati ai quali potremmo solo appellarci a Dio7. Se lo spazio e il tempo non hanno un confine, non c’è mai stato uno stato iniziale nel quale le leggi naturali della fisica non valgono. Pertanto tutto rientra nell’ordinario e valgono le leggi ordinarie della fisica; l’esistenza dell’universo si giustifica da sé e non è necessario alcun intervento divino. L’universo sarebbe quindi completamente autonomo, e tutto determinato dalle leggi di natura e dal puro caso8. Potremmo considerare l’universo come un «sistema chiuso», che contiene in sé la ragione della propria esistenza. Questo però è un punto delicato che va approfondito. Nel modello si parte dal presupposto che le leggi siano “date”, cioè siano già “là”, pronte all’uso. Dopodichè, date le normali leggi della fisica, l’universo può procedere per conto proprio. E’ autosufficiente, anche per quanto concerne il suo avvio. Ma dovremmo a questo punto dare risposta ad altri interrogativi, ad esempio: Da dove hanno origine le leggi naturali? Le leggi esistono indipendentemente dall’universo fisico? Il concetto di legge è così ben radicato negli scienziati che, fino a non molto tempo addietro, molti studiosi non si soffermavano più di tanto a riflettere sulla natura e sull’o49 FISICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 rigine di queste leggi: le accettavano come date e basta. Finché le leggi naturali erano originate da una Entità sovrannaturale, la loro esistenza era scontata parimenti a quella dell’esistenza della materia o delle forze, anch’esse create da Dio. Ma se si elimina l’origine divina delle leggi, la loro esistenza diventa un profondo mistero. E allora viene legittimo chiedersi da “dove vengono le leggi?”. E, ovviamente, senza questa risposta la scienza può “dimostrare” ben poco! Qualcuno potrebbe tuttavia ipotizzare che le leggi hanno avuto origine con l’universo. Ma, se così fosse, allora tali leggi non potrebbero spiegare la genesi dell’universo in quanto le leggi non sarebbero esistite fino al momento in cui l’universo si è generato. Ma poi… è sufficiente una legge? Accettiamo che l’universo fosse soggetto alle ordinarie leggi della fisica, come suggerisce il modello. Supponiamo quindi risolto il problema dell’origine delle leggi: sono là, scolpite ab aeterno, pronte all’uso. Viene allora spontaneo chiederci: Ma può una legge, un’equazione matematica, fare qualcosa “tutto da sola”? Possedere il progetto per un prodotto, non significa avere il prodotto. Occorre anche la materia prima e l’apparato strumentale per la realizzazione del prodotto. Può un’equazione matematica da sola, senza la presenza di alcunché, creare materia? Anche Platone era cosciente dell’insufficienza della matematica. Avvertiva infatti la necessità di considerare per la creazione dell’universo la preesistenza di una materia prima informe e di un artigiano che la lavorasse. E Galileo, uno dei padri della fisica moderna, suggerì i fenomeni fisici osservati come punto di partenza per l’indagine scientifica e assegnò alla matematica il compito di descriverli tramite teorie poi da confermare. Nulla e vuoto quantistico Come abbiamo detto, la produzione di materia-antimateria generata dal vuoto quantistico presuppone l’esistenza delle leggi della fisica; in particolare presuppone le leggi della relatività generale (per le proprietà fisiche della struttura spazio-tempo) e della meccanica quantistica (per le equazioni che governano l’evoluzione degli stati fisici). Ma non è solo il mistero dell’origine di queste leggi a cui occorre dare una risposta. Esiste anche un altro aspetto del modello che è opportuno ricordare e che richiede una spiegazione9. Partiamo dalla seguente considerazione. Dal modello appare evidente come il nulla, di cui spesso Hawking parla, non è il niente: è uno stato fisico instabile. Hawking parla di vuoto quantistico. E’ necessario ricordare la distinzione che viene fatta in fisica fra nulla e vuoto quantistico: Il nulla è «ni-ente», «non essere»: niente materia, niente energia, niente antimateria, niente spazio, niente tempo, nessuna struttura spazio-temporale. E come tale non possiamo 50 assegnargli alcuna proprietà, come ad esempio una «instabilità fisica». Il vuoto quantistico invece è qualcosa di presente nella struttura spazio-tempo; è uno «stato fisico instabile» che può dare luogo, a spese della sua energia, alla creazione di materia e antimateria (come, ad esempio, a coppie di particelle-antiparticelle). Nulla e vuoto quantistico sono in fisica due concetti tanto diversi da richiedere l’uso di due distinti simboli (i cosiddetti vettori di stato) per rappresentarli nelle equazioni matematiche utilizzate per gli sviluppi teorici. Nulla e vuoto quantistico non sono quindi da confondere. E, nel modello di Hartle-Hawking, il termine «nulla» va inteso come uno stato fisico instabile. All’accensione della miccia che mette in moto il processo di auto-generazione dell’universo, ci troviamo quindi con almeno tre cose pre-esistenti da spiegare: - le leggi della fisica, - la struttura spazio-tempo (quadri-dimensionale della relatività generale), - il vuoto quantistico. Multiverso e coincidenze Le leggi della fisica attualmente note e che governano il mondo in cui viviamo, si fondano su alcuni parametri, le cosiddette «costanti fisiche fondamentali», di cui conosciamo con notevole precisione il valore numerico. Ad esempio: la velocità della luce, la carica dell’elettrone, la costante gravitazionale. Queste quantità hanno lo stesso valore, immutabile, in ogni punto dell’universo e in ogni istante. Se una sola di queste costanti fosse diversa da quella che è, anche di pochissimo, allora l’universo che noi conosciamo non avrebbe potuto formarsi: dai minuscoli atomi alle gigantesche galassie e, in particolare, non avrebbe potuto dare origine alla vita stessa! Da notare che per generare l’universo che abitiamo occorrono parametri molto esatti e regolati con una straordinaria precisione: non sono ammessi neppure piccolissimi scarti. Come si possono «spiegare» queste coincidenze? A questo proposito sono stati scritti fiumi di carta. Esistono fra gli scienziati punti di vista molto diversi, talvolta divergenti. Le coincidenze cosmologiche affinché si realizzi l’universo e la vita che conosciamo sono numerosissime. Secondo molti scienziati è proprio nel cercare una spiegazione a queste costanti che si trovano gli indizi più forti, oserei dire più inquietanti, che portano a una profonda riflessione sull’esistenza di un disegno superiore. Le coincidenze sembrano infatti testimoniare a favore dell’esistenza di un Creatore. E Hawking-Mlodinow come spiegano le «coincidenze», le «regolazioni fini» delle leggi di natura? Ad esempio, come si spiega l’impressionante corrispondenza tra le condizioni necessarie per la comparsa della vita e l’equilibrio fisico-chimico che soddisfa queste richieste e che è presente nell’universo che abitiamo? I due fisici così scrivono: SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | FISICA le regolazioni fini delle leggi di natura possono essere spiegate dall’esistenza di universi multipli […] il concetto di multiverso può spiegare la regolazione fine della legge fisica senza bisogno di un creatore benevolo che abbia fatto l’universo a nostro vantaggio10. Risposta chiarissima. Ma che peso possiamo dare a tali dichiarazione se gli stessi promotori delle teorie del multiverso ammettono che questi mondi non sono osservabili nemmeno in linea di principio? L’astronomo John Barrow arriva ad esprimere l’idea che sia difficile «anche solo concepire» un simile multiverso tante sono le cose che potrebbero essere diverse. Così scrive: Uno degli elementi che rendono difficile anche solo concepire un simile Multiverso, è che vi sono così tante cose che potrebbero essere diverse. […] Vi sono diverse strutture matematiche; diverse possibili leggi di natura; diversi valori delle costanti di natura; […] diverse condizioni di partenza per l’universo; e diversi esiti casuali di complesse serie di eventi11. Non c’è dubbio che, prima di dare credito al modello, bisognerebbe accettare l’ipotesi del multiverso come «scientificamente valida». Eleganza matematica e «verità ultima» Conviene ricordare come nella proposta del modello non c’è nessun primo momento, nessun inizio. Il fondamentale problema delle «condizioni iniziali» viene annullato proprio eliminando questo evento. Come affermano gli stessi autori, la teoria è stata espressamente costruita per vanificare il problema dell’avvio e quindi l’ipotesi di Dio. E’ però da notare che gli autori propongono una ben precisa formulazione matematica per quanto riguarda certe scelte, cioè certe «assunzioni» che devono essere fatte per la costruzione del modello; questa formulazione svolge in effetti il ruolo di una legge delle condizioni iniziali. Secondo loro hanno fatto scelte che sono quelle naturali sul piano dell’eleganza matematica. Non è nuovo il fatto che alcuni scienziati siano ammaliati da una particolare formulazione per certi requisiti di naturalezza ed eleganza. Ma a tali requisiti, c’è da chiedersi, quale valore può essere attribuito al fine della ricerca della realtà, cioè al fine della ricerca della «verità ultima»? Senza ombra di dubbio va attribuito un grande valore alla matematica, ma in questo caso ci sono scelte fatte in aggiunta alla matematica. Forse in maniera un po’ drastica, il cosmologo Alexander Vilenkin definisce il modello di universo autosufficiente come: «esercizi in cosmologia metafisica»12. Il problema dell’inizio Si ha quasi l’impressione che molti provino riluttanza, quasi timore, a considerare un inizio dell’universo. E questo forse è dovuto alle implicazioni metafisiche che comporterebbe, per esempio l’esistenza di un Creatore. Questa supposizione potrebbe essere una spiegazione. Buona parte della ricerca cosmologica dell’ultimo mezzo secolo è stata volta a escogitare modelli alternativi al Big Bang in grado di sostenere l’idea di un universo “eterno”. Dobbiamo ricordare che agli inizi del Duemila alcuni fisici (A.Borde, A.Guth e A.Vilenkin) hanno dimostrato un significativo teorema. Questo afferma che, per non violare una serie di ipotesi, un universo deve necessariamente emergere da una singolarità, deve quindi avere un “inizio”! Per quanto riguarda l’universo ciclico, Vilenkin scrive: «E’ stato detto che un’argomentazione basta a convincere un uomo ragionevole, mentre una dimostrazione serve a convincere anche un uomo irragionevole. Con questo teorema i cosmologi non possono più nascondersi dietro la possibilità di un universo che si perde in un passato eterno. Non c’è via d’uscita, essi devono affrontare il problema dell’inizio del cosmo»13. Seguendo il pensiero di Vilenkin sembra che non ci sia niente da fare. Ogni evidenza di cui siamo in possesso suggerisce che ci sia stato un inizio, e questo per tutti i modelli possibili ed immaginabili. Probabilità e possibilità Qualcuno ha osservato che la M-teoria è una teoria quantistica. Pertanto, nel rispetto del principio di indeterminazione, è di natura probabilistica e fornisce una misura della probabilità di un evento. Nel nostro caso, il formalismo matematico sviluppato dagli autori del modello fornisce la probabilità dell’esistenza di una soluzione matematica di un universo con certe caratteristiche. Ma questo non è la stessa cosa dell’esistenza reale di quell’universo. La soluzione matematica è qualcosa di astratto che deve ancora realizzarsi. Al di là di tutte le perplessità di cui abbiamo parlato, la teoria suggerirebbe tutt’al più che esiste una probabilità non nulla per un particolare universo; indicherebbe che c’è una possibilità, con probabilità ben definita, che questo universo possa concretizzarsi. Al risultato del modello matematico, sembra invece che dagli autori venga attribuito un valore di certezza, rispetto a un più limitato valore di possibilità definita. Una certezza che poi conduce a conclusioni non da tutti condivisibili. Un insieme di speranze, idee e aspirazioni Fanno riflettere alcune asserzioni di chiaro contenuto per quanto riguarda la fondatezza dell’ipotesi proposta di multiverso. In un famoso libro Dal Big Bang ai buchi neri del 1989 Hawking aveva scritto: «Vorrei sottolineare che questa idea che il tempo e lo spazio siano finiti, ma illimitati, è solo una proposta: essa non può essere dedotta da alcun altro principio»14. Ancora: «Una teoria scientifica è solo un modello matematico da noi costruito per descrivere le nostre osservazioni: essa esiste solo nella nostra mente»15. E il fisico-matematico Roger Penrose (collaboratore per anni di Hawking nello sviluppo della teoria del Big Bang) 51 FISICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 smentisce il collega con parole fortissime. Descrive Il grande disegno come ingannevole, aggiungendo che la M-teoria «non è nemmeno una teoria, non è scienza ma un insieme di speranze, idee e aspirazioni»16. Così l’idea che la scienza «dimostra» l’autosufficienza dell’universo ne esce piuttosto indebolita. 4. MA QUALE VERITÀ SCIENTIFICA? Ad oggi la scienza non ha né dimostrato né escluso niente. I risultati scientifici, basati sull’osservazione, si limitano a suggerire la necessità di una riflessione su uno stadio più profondo di conoscenza. La ricerca più estrema conduce al momento l’uomo ad una parziale conoscenza di appena il quattro per cento dell’universo: una minuscola gocciolina nell’immensità di un mare, da vertigine, di materia ed energia con proprietà ancora ignote. E la matematica, il potentissimo strumento di ricerca e la sua straordinaria efficacia, indiscutibilmente «può»…ma non tutto. Al di là delle contrapposizioni credo vada dato ampio merito agli autori del modello di avere compiuto un tentativo, giusto o no, di spiegare l’origine dell’universo nell’ambito della fisica. Ma, sulla base delle varie considerazioni fatte, si rimane sconcertati di fronte alla conclusioni così fortemente espresse. Si rimane perplessi sul fatto che gli autori abbiano: - presentato al grande pubblico i risultati di un tentativo come il «trionfo della scienza» e della ragione; - divulgato le loro conclusioni come l’ultima conquista della scienza che «mette fine al mistero dell’origine cosmica»; - sentenziato infine, sulla base di un’ipotesi che non può essere né verificata né falsificata dall’osservazione, che «Dio non è necessario». Queste conclusioni hanno avuto una diffusione mediatica senza precedenti volta ad una platea di pubblico senza conoscenze specialistiche che, ovviamente, non è in grado di fare una valutazione critica sul lavoro da cui sono tratte. A tutt’oggi le affermazioni rappresentano la cultura dominante diffusa dai media sull’origine dell’universo. Ma quale tipo di «verità scientifica» rappresenta questa cultura? RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1. F. Saporetti, Big Bang: chi ha acceso la miccia? Una straordinaria avventura scientifica, Pendragon, Bologna 2014. 2. S. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, trad. it. di L. Sosio, Rizzoli, Milano 1989; S. Hawking e L. Mlodinow, Il Grande Disegno. Perché non serve Dio per spiegare l’universo, trad. it. di T. Cannillo, 52 Mondadori, Milano 2011; J. B. Hartle and S. W. Hawking, Wave function of the Universe, Phys. Rev. D 28, 2960, 15 Dec 1983. 3. S. Hawking e L. Mlodinow, Il Grande Disegno, op. cit. 4. F. Saporetti, Big Bang: chi ha acceso la miccia?, op.cit. 5. L. Smolin, L’universo senza stringhe. Fortuna di una teoria e turbamenti della scienza, trad. it. di S. Freudiani, Einaudi, Torino 2007. 6. P. Woit, Neanche sbagliata. Il fallimento della teoria delle stringhe e la corsa all’unificazione delle leggi della fisica, Codice, Torino 2007. 7. S. Hawking, La Teoria del Tutto. Origine e destino dell’Universo, trad. it. di D. Didero, Rizzoli, Milano 2003, pp. 125,130 e 131. 8. S. Hawking, L’universo in un guscio di noce, trad. it. di P. Siena, Mondadori, Milano 2002, p.89. 9. G. Masiero, Contrordine, prof. Hawking: l’Universo ha avuto un inizio, ma non sappiamo come!, Uccr, 4 feb 2012. 10. S. Hawking, e L. Mlodinow, Il Grande Disegno, op. cit., p.157. 11. J. D. Barrow, I numeri dell’universo. Le costanti della natura e la teoria del Tutto, trad. it. di T. Cannello, Mondadori, Milano 2003. 12. A.Vilenkin, Birth of Inflationary Universes, Physical Reviev D27 (1983): 2854; Creation of the Universe from Nothing, Physical Letters 117B (1982): 25-28. 13. A.Vilenkin, Un solo universo o infiniti? Alla ricerca di altri universi, trad. it. di L. Gazzardi, Cortina Raffaello, Milano 2007. 14. S. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, trad. it. di L. Sosio, Rizzoli, Milano 1989, p. 161. 15. Ivi, p. 164. 16. http://www.uccronline.it/2010/10/11/lastrofisico-penrose-ex-collega-di-hawking non-ha-superato-dio. SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE GIURIDICHE Il brevetto tra Europa e Cina * CARLA ROMANO Università degli Studi di Napoli Federico II Il presente articolo contiene una delle prime traduzioni italiane del Chinese Patent Office. on tutto si può esigere da principio e l’idea che ci siamo fatti di diritti e doveri è alquanto fuorviante oltre a non essere soddisfatto dall’idea tradizionale: l’idea per cui il mio dovere è fondato sulla “controreciprocità di un obbligo” che si configura come l’inverso di diritto altrui non basta a giustificare certi fondamenti di diritto né tanto meno a promuoverli. Per quello che ci attende questo schema non funziona. Il concetto di “auctore” ha viaggiato nel tempo e nelle varie forme attraverso cui poteva essere modellato ha raggiunto anche la forma di titolo. Un inventore ha diritto di essere considerato tale: il brevetto nasce come titolo giuridico per dare all’inventore un monopolio esclusivo di sfruttamento della propria invenzione limitato nel tempo e territorialmente. Una tutela in omaggio al “mondo delle idee”, ma ogni idea è tutelabile? E soprattutto, tutte le invenzioni sono realmente brevettabili? Ovviamente no. Si devono rispettare innanzitutto determinati requisiti: NOVITÀ, LICEITÀ, ORIGINALITÀ, INDUSTRIALITÀ, SUFFICIENZA DI DESCRIZIONE. L’invenzione si considera nuova se non è compresa nello stato della tecnica (art. 46 cod. pr. ind.): “2. Lo stato della tecnica è costituito da tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico nel territorio dello Stato o all’estero prima della data del deposito della domanda di brevetto, mediante una descrizione scritta od orale, una utilizzazione o un qualsiasi altro mezzo. 3. E’ pure conside- rato come compreso nello stato della tecnica il contenuto delle domande di brevetto nazionale o di domande di brevetto europeo o ancora internazionali designanti e aventi effetto per l’Italia, così come sono state depositate, che abbiano una data di deposito anteriore a quella menzionata nel comma 2 e che siano state pubblicate o rese accessibili al pubblico anche in questa data o più tardi. 4. Le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 non escludono la brevettabilità di una sostanza o di una composizione di sostanze già compresa nello stato della tecnica, purché in funzione di una nuova utilizzazione”1. La liceità è il requisito che non permette la brevettazione di tutto ciò che sia contrario all’ordine pubblico e al buon costume (art. 50 cod. pr. ind.): “1. Non possono costituire oggetto di brevetto le invenzioni la cui attuazione è contraria all’ordine pubblico o al buon costume. 2. L’attuazione di un’invenzione non può essere considerata contraria all’ordine pubblico o al buon costume per il solo fatto di essere vietata da una disposizione di legge o amministrativa”2. L’attività inventiva è il requisito attinente all’originalità dell’invenzione (art. 48 cod. pr. ind.): “1. Un’invenzione è considerata come implicante un’attività inventiva se, per una persona esperta del ramo, essa non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica. Se lo stato della tecnica comprende documenti di cui al comma 3, dell’articolo 46, questi documenti non sono presi in considerazione per l’apprezzamento dell’attività inventiva”3. L’industrialità è, infine, definita nell’art. 49 cod. pr. ind., secondo cui “Un’invenzione è considerata atta ad avere un’applicazione industriale se il suo oggetto può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola”4. La mancanza di uno solo di questi requisiti comporta la nullità del brevetto, ma non ci sono solamente queste ipotesi. L’art. 76 cod. pr. ind. * Articolo oggetto di precedenti pubblicazioni con le Riviste: Filodiritto, Portale di informazione giuridica, Persona e Danno, Rivista di diritto e storia costituzionale del Risorgimento, Diritto&Diritti. 1 2 3 4 1. BREVE EXCURSUS SULLA NORMATIVA ITALIANA N DEL BREVETTO Art. 46 cod. pr. ind. Art. 46 cod. pr. ind. Art. 48 cod. pr. ind. Art. 49 cod. pr. ind. 53 SCIENZE GIURIDICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 54 ne menziona altre tre: “1. Il brevetto è nullo: a) se l’invenzione non è brevettabile ai sensi degli articoli 45, 46, 48, 49, e 50; b) se, ai sensi dell’articolo 51, l’invenzione non è descritta in modo sufficientemente chiaro e completo da consentire a persona esperta di attuarla; c) se l’oggetto del brevetto si estende oltre il contenuto della domanda iniziale; d) se il titolare del brevetto non aveva diritto di ottenerlo e l’avente diritto non si sia valso delle facoltà accordategli dall’articolo 118. 2. Se le cause di nullità colpiscono solo parzialmente il brevetto, la relativa sentenza di nullità parziale comporta una corrispondente limitazione del brevetto stesso. 3. Il brevetto nullo può produrre gli effetti di un diverso brevetto del quale contenga i requisiti di validità e che sarebbe stato voluto dal richiedente, qualora questi ne avesse conosciuto la nullità. La domanda di conversione può essere proposta in ogni stato e grado del giudizio. La sentenza che accerta i requisiti per la validità dei diverso brevetto dispone la conversione del brevetto nullo. Il titolare del brevetto convertito, entro sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di conversione, presenta domanda di correzione del testo del brevetto. L’Ufficio, verificata la corrispondenza del testo alla sentenza, lo rende accessibile al pubblico. 4. Qualora la conversione comporti il prolungamento della durata originaria del brevetto nullo, i licenziatari e coloro che in vista della prossima scadenza avevano compiuto investimenti seri ed effettivi per utilizzare l’oggetto del brevetto hanno diritto di ottenere licenza obbligatoria e gratuita non esclusiva per il periodo di maggior durata. 5. Il brevetto europeo può essere dichiarato nullo per l’Italia ai sensi del presente articolo ed, altresì, quando la protezione conferita dal brevetto è stata estesa”5. Dunque, sono cause di nullità anche l’insufficiente descrizione e l’estensione brevettuale oltre il contenuto originario della domanda, il che può accadere quando il richiedente si avvalga dell’art. 172 cod. pr. ind. e l’Ufficio ne conceda erroneamente il brevetto, (art 172 cod. pr. ind.). Il diritto cerca di dare disciplina a un campo, come quello dell’invenzione, in costante ascesa, del resto viviamo ancora nel secolo in cui “Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze dinamiche, senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo”6, dunque il binomio scienza-diritto deve imbrigliare questo “Προμηθεύς δεσμώτης”, per dare la possibilità alla tecnica di andare avanti e migliorare se stessa, portando con sé benefici che abbiano anche carattere di socialità. Antonio Guarino era solito dire “Ogni società muta nel tempo e così il ius che ne è la sovrastruttura”; un ius che cambia a seconda della società, un ius che rispecchia le esi- genze di “questa o quella” società e dunque muove da pretesa. Ma chi può pretendere? Per pretendere bisogna essere: io sono, dunque esisto “ergo” pretendo. Ogni vita pretende e questa forma di pretesa se comune o necessaria può trovare un’applicazione “de facto”, costringendo lo schema-logico di diritto a recepire. La pretesa nasce nell’essere e in esso si sviluppa pur non essendo ancora ovvero pur non essendo esistente; e allora come divenire? Fermo restando che nel diritto il divenire è un contesto che si sviluppa nella misura in cui è possibile la trasformazione di una società non è possibile surrogare una soluzione alla mera pretesa, è il ragionamento ad essere garante della possibilità di quella pretesa di venire ad esistenza. L’imperativo bioetico ci fa capire che tutti gli esseri viventi hanno diritto al rispetto e devono essere trattati non come mezzi che giustificano lo scopo, vecchia massima di origine machiavellica, ma come fine in se stessi, ed è lo stesso Fritz Jahr che deve averne tenuto conto nella coniazione del termine7. Pretesa e fine sono concetti fondamentali nel binomio diritto-bioetica; il diritto come pretesa e gli esseri viventi come fine rendono qualunque forma di ragionamento tanto tortuoso quanto instabile, oltre che potenzialmente insoddisfacente. L’intenzione umana o l’intenzione in senso stretto non bastano a fare diritto, dunque non basta una mera pretesa e non basta un mero fine (in bioetica avremmo detto “non si può parlare di vita nel semplice vivere”). Abbiamo bisogno di qualcosa in più. L’essenza dell’essere uomo in quanto tale porta all’ascesa verso il progresso e inevitabilmente ci conduce nel mondo delle possibilità dove tecnica e scienza si uniscono per dare voce a una progressione a cui la scienza fornisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante; questa progressione raggiunge il suo massimo culmine nell’invenzione e cioè un’ideazione tecnica esterna che contempla la modellazione della realtà materiale con il compito di determinare il soddisfacimento di bisogni umani. In forma stereotipata potremmo dire che è una soluzione di un problema tecnico non ancora risolto, ma risolvibile e si badi non è una soluzione “alternativa” ma una soluzione che determina una progressione, un “andare avanti” rispetto alle altre soluzioni prospettate in precedenza. Deve dirsi come innovazione tecnico-funzionale. Dunque, tutto si può pretendere in ragione della tecnica? Ci sembra che la risposta debba essere negativa. Del resto molti filosofi, pur non preoccupandosi del diritto, hanno avanzato le peggiori ipotesi nell’eventualità in cui non si riuscisse ad imbrigliare nelle maglie della ragione il “Promethéus desmótes”: “La sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha lanciato col suo smisurato successo, che coinvolge ora anche la natura stessa dell’uomo, la più grande sfida che sia mai venuta all’essere umano dal suo stesso agire”8. L’art. 2585 dispone che “Possono costituire oggetto di brevetto le nuove invenzioni atte ad avere un’applicazione industriale, quali un metodo o un processo di lavorazione industriale, una macchina, uno strumento, un utensile o un dispositivo mecca- 5 Art. 76 cod. pr. ind. 6 H. JONAS, Il principio responsabilità, 1979 pp. 1-2 7 Articolo Bio-ethik of Fritz Jahr, definizione della parola “Bioetica” 8 H. JONAS, Il principio responsabilità, 1979 pp. 1-2 SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE GIURIDICHE nico, un prodotto o un risultato industriale e l’applicazione tecnica di un principio scientifico, purché essa dia immediati risultati industriali. In quest’ultimo caso il brevetto è limitato ai soli risultati indicati dall’inventore”9. Secondo i commi 2, 3, 4 e 5 dell’art. 45 D.Lgs. 30/2005 non sono brevettabili: «2. Non sono considerate come invenzioni ai sensi del comma 1 in particolare: a) le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici; b) i piani, i principi ed i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciale ed i programmi di elaboratore; c) le presentazioni di informazioni. 3. Le disposizioni del comma 2 escludono la brevettabilità di ciò che in esse è nominato solo nella misura in cui la domanda di brevetto o il brevetto concerna scoperte, teorie, piani, principi, metodi, programmi e presentazioni di informazioni considerati in quanto tali. 4. Non sono considerati come invenzioni ai sensi del comma 1 i metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale e i metodi di diagnosi applicati al corpo umano o animale. Questa disposizione non si applica ai prodotti, in particolare alle sostanze o alle miscele di sostanze, per l’attuazione di uno dei metodi nominati. 5. Non possono costituire oggetto di brevetto le razze animali ed i procedimenti essenzialmente biologici per l’ottenimento delle stesse. Questa disposizione non si applica ai procedimenti microbiologici ed ai prodotti ottenuti mediante questi procedimenti»10. La prima volta che si parlò di brevetti fu il 19 marzo 1474 a Venezia, « L’andarà parte che per auctorità de questo Conseio, cha da un che farà in questa Cità algun nuovo et ingegnoso artificio, non facto per avanti nel dominio nostro, reducto chel sarà a perfection, siche el se possi usar, et exercitar, sia tegnudo darlo in nota al officio di nostri provveditori de Comun. Siando prohibito a chadaun altro in alguna 9 Art. 2585 c.c. 10 Commi 2, 3, 4 e 5 dell’art. 45 D.Lgs. 30/2005 terra e luogo nostro, far algun altro artificio, ad immagine et similitudine di quello, senza consentimento et licentia del auctor, fino ad anni 9. »11. E’ nell’Inghilterra di Giacomo I che i brevetti cominciarono ad essere concessi per volontà regia, in un periodo compreso nei quattordici anni, attraverso “litterae patentes”, da qui la denominazione anglosassone di “Patent”. L’European Patent Organisation, EPO o EPOrg è un’organizzazione pubblica internazionale creatasi con la Convenzione europea dei brevetti (in inglese Convention on the Grant of European Patents, abbreviato EPC) che ha lo scopo di rilasciare un unico brevetto valido per tutti i Paesi sottoscriventi. Quid est bios? Quid est iuris? Cosa riguardo al diritto e cosa riguardo la vita... un corpo, ad esempio, è brevettabile? Fin dove può spingersi la scienza? L’Europa ha dato per prima la risposta: per i Verdi europei è “direttiva Frankestein”. Per il premio Nobel Dario Fo si potrebbe definire “una schiacciante vittoria delle multinazionali”, per molti parlamentari europei “la grande speranza”. La direttiva europea sui brevetti delle invenzioni biotecnologiche ha cercato di armonizzare le varie posizioni naturali, ma il tutto è stato trasposto in una chiave totalmente nuova che mai ci si sarebbe aspettati. L’articolo più controverso della direttiva è quello relativo alla brevettabilità di materiale biologico di origine umana, ma nonostante questo l’Europa rimane fermamente legata al principio di rispetto “dell’essere in quanto tale” e lo dimostra il fatto che non sono brevettabili: varietà vegetali, razze animali o processi biologici (Direttiva 44/98/ CE*). Si è aperto di seguito un vivace dibattito sulla possibilità di brevettare il “corpo umano”. Dal contesto in cui ci siamo mossi è ovvio che l’indirizzo europeo e più in generale quello del diritto si muove in una situazione di diniego, ma si potrebbe anche essere più precisi, precludendo qualunque spiraglio, dicendo che l’art. 5 della direttiva 44/98/CE* prevede espressamente che “il corpo umano, nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo, nonché la mera scoperta di uno dei suoi elementi, ivi compresa la sequenza o la se11 Archivio di Stato di Venezia, Senato terra, registro 7, carta 32 55 SCIENZE GIURIDICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 quenza parziale di un gene, non possono costituire invenzioni brevettabili ”. Se si guarda a Stati più permissivi viene quasi da chiedersi se sia possibile e in che misura una fuga di cervelli in tali Paesi come Giappone, Cina, America del sud per poter procedere a esperimenti altrimenti qui vietati. Improbabile ma non del tutto impossibile: si è parlato di “computerizzazione dell’uomo brevettabile” concetto alquanto pericoloso e fuorviante per la Comunità europea; si è parlato di possibilità di duplicazione del corpo umano in quanto parte lesa o danneggiata suscettibile di sostituzione (in una visione alquanto “ultraterrena dell’essere”, l’essere può guarire se stesso e autorigenerarsi senza essere soggetto a un proprio ciclo vitale). Tutto questo porta a chiedersi fino a che punto ci si potrà spingere nella speranza che diritto e ragione abbiano la meglio. Vediamo un possibile ragionamento tecnico che ha potuto influenzare ragioni giuridiche ed etiche. Possiamo quindi sostenere con sicurezza che l’ambito della pretesa è luogo di determinazione reale mediante scopi e fini che sono attuati oggettivamente dai medesimi individui che li accolgono poi soggettivamente. Ciò implica che l’efficacia degli scopi non è legata al concetto razionale, alla riflessione o al libero arbitrio dell’uomo e sempre per ragionamento potremmo dire che è “absoluta”, cioè svincolata dall’uomo. Allora è possibile usare, nella misura in cui sia lecito, questo ragionamento a copertura di ogni richiesta dell’essente? Ovviamente no. L’efficacia è vincolata a quella che potremmo definire una qualche “occasione di coscienza”, ma se è così allora nel manifestarsi della piena volontà sussiste ed è operante una sorta di “scopo”. Ed è proprio su questo scopo che si fonda l’analisi ontologica del valore e quindi la decisione vincolante sul piano etico per cui il mondo e la modernità possono muovere pregiudizi contro proposte di scienza mediante “produzione” di diritto. Ma questa è solo una possibile soluzione, ne potremmo definire molte altre partendo da varie ipotesi. Supponiamo di confutare una concezione del sé relativa alla soggettività. Questo sé in quanto tale rivendicherà un’azione in quanto tale ovvero un’agire determinato del soggetto che si chiamerà scopo, ma se è determinato in quel soggetto di per sé relativo allora lo scopo è da ricercarsi solo in una vita che è cosciente ossia solo per le forme di vita che sono dotate di coscienza ovvero quelle volontarie (v. Art. 1 codice civile*, “Articolo 1. La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita (462, 687, 715, 784). (3° comma abrogato)”. V. Art 42 codice penale*,Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva. Nessuno può essere punito per un’azione od omissione prevista (corsivo nostro) dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge. La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione od omissio56 ne. Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o colposa”. Con la comparsa di soggettività del tutto svincolate dal normale concetto di creazione farebbe il suo ingresso un nuovo principio di azione del tutto nuovo ed eterogeneo e si instaurerebbe una differenza radicale, anche se graduale, non soltanto fra creature che sono accumunate da questo principio di coscienza e quelle che non lo sono, ma anche tra queste stesse creature sottoposte al principio universale della nascita e la porzione molto meno ampia (futura) di chi non vi sarà sottoposto. E’ dunque un principio estraneo a natura “l’essere predisposto in altro modo e non per quello scopo”. Ora potremmo notare che se non sei predisposto inevitabilmente sei inadeguato e potremmo anche supporre in base al grado di inadeguatezza può emergere nella natura “un’occasione”, emerge un’occasione dalla natura giunta a quello stadio per via dell’alternativa di coscienza proposta dall’uomo. Un’obiezione del genere è nella sua gradualità di transazioni irrilevante agli inizi dell’evoluzione con lo stesso livello di trascendenza che potrebbe avere una ameba o qualunque essere da cui potrebbe iniziare un nuovo concetto di “sensibilità”. Ma questa teoria d’infusione azzardata sul piano ontologico potrebbe manifestare nel corso dell’evoluzione una soggettività che non costituisce si badi un salto evolutivo dello stadio precedente poiché questo è sottostante a una non contaminata attribuzione dello scopo che appartiene solo ad uno stadio nuovo. Quindi in tale caso l’agire sarebbe orientato verso uno scopo proprio, è orientato come la nostra generazione e proprio come lo sono state le altre, mentre questo principio verrebbe del tutto a mancare se la funzione organica inconscia proponesse un salto qualitativo completamente estraneo alla legge di natura. Non risulta essere compatibile l’idea per cui si aggiunge qualcosa di nuovo ad una generazione che precede senza modificarne realmente nessun aspetto biologico o neurologico, come manifestazione supplementare dello stadio raggiunto. Una semplice qualità non può fare questo senza che si apportino modifiche al profilo causale, cioè ci devono essere delle forme in cui si esprimono fattori diversi in questo stesso sistema. Poniamo un’altra soluzione, più semplice: se io creo un essente o meglio un potenziale tale questo essendo una novità emergente, se non vuole essere del tutto arbitrario e quindi irrazionale deve porsi in un rapporto temperato dalla continuità sostanziale e non formale , ma sappiamo per legge di natura tutto ciò che è di grado superiore modifica e qualifica ciò che è di grado inferiore, dunque questo essente sarà comunque soggetto a cambiamenti di natura che svilupperanno potenzialità preesistenti anche per il nuovo organismo che dunque non sarà totalmente nuovo configurandosi come qualcosa che è e al tempo stesso non è e questo equivale a un “non datur”. Una volta viste queste tre soluzioni possiamo capire meglio come e perché la giurisprudenza si muova in un certo modo nei confronti della suddetta argomentazione, facendosi spalleggiare da un’etica di rigetto che risulta logicamente sostenibile per via delle sue categorie esplicative che poi si appoggiano ad una morale che non possiamo definire moderna o SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE GIURIDICHE cieca, ma che al contrario ha sempre caratterizzato e caratterizzerà lo spirito dell’umanità volto a soddisfare non un dato esteriore ma una prassi fisica che ha come scopo principale il non cadere nella tentazione di una metafisica riduzionista che si fa forte sull’evidenza artificiale. Una tentazione che va nell’opposta direzione dell’antropomorfismo. Ma supponiamo che l’etica abbia dato il suo benestare, è possibile brevettare? E’ possibile sottoporre a brevetto un essere umano? (Caso tra l’altro verificatosi in Cina, dove da poco tempo il Governo ha considerato questo genere di “ricerche” reato a tutti gli effetti punibile con dieci anni di reclusione più eventuali pene accessorie). Lasciando da parte (e tra l’altro già largamente esauriti le motivazioni filosofico-giuridiche che hanno portato la maggior parte dei Paesi a scartare ufficialmente queste ipotesi di brevetto) passiamo a una nuova soluzione (la quarta) più tecnica che si rifà alla legge italiana sui brevetti. Può questo “essente” soddisfare il primo requisito? L’essere umano non è un’attività inventiva o una novità intrinseca o novità originale né passo inventivo né tanto meno nuova soluzione tecnica a un problema lasciato irrisolto, potremmo fare appello alla nostra 3° soluzione, ovverosia qualcosa che si configura a metà tra essere e non essere non può configurarsi come nuovo essere né tanto meno come “essere in quanto tale” visto che non trova soluzione in natura per cui possiamo parlare di un “non datur”, se non è dato non può che non essere; sdrammatizzando potremmo dire che tra le varie cose per cui non “è”, non è nemmeno originale; non può essere soddisfatto nemmeno il secondo requisito ovvero quello della industrialità e nelle nostre prime due soluzioni abbiamo fatto chiaramente appello a un concetto di coscienza e scopo; la liceità viene meno nel momento in cui (3° soluzione) si muovono i passi in modo decisamente opposto all’antropomorfismo; la sufficienza di descrizione è qui una problematica secondaria. Proviamo però ad esaurire la necessaria nozione di brevettabilità con un principio non di “nuovo essente” ma di rigenerazione o meglio riparazione di ciò che già è. E’ il caso ad esempio delle cellule staminali che in alcuni casi sono state determinanti nella risoluzione di malattie (è il caso francese di una coppia che decide di avere un altro figlio per poter “curare” la primogenita affetta da una grave malattia degenerativa; si è parlato di bambino nato “allo scopo”, uso indebito di maternità, “bimbo guaritore”, di che se ne possa dire entrambi i bambini oggi sono in salute). Indagare sullo “scopo” della nascita quando questa rimane soggetta alla metafisica immanente non avrebbe senso perchè rappresenterebbe solo un’accusa etica difficilmente conciliabile in diritto. Potremmo dire un’accusa etica “di negazione sull’affermazione”, una coppia vuole un figlio per un dato scopo (salvare la primogenita tramite conservazione del cordone da cui è possibile reperire cellule in grado di poter guarire la bambina)--> negazione dell’affermazione, ovverosia pregiudizio etico. Ma un pregiudizio etico non è condizione necessaria né tanto meno sufficiente a sminuire l’affermazione, c’è lo scopo, c’è la coscienza, c’è l’arbitrio senza lasciare fuori la tradizionale idea di partogenesi, allora cosa? Cosa potrebbe essere così destabilizzante per lo scopo? La possibilità. La possibilità di una metafisica razionale a patto che la razionalità non venga esclusivamente determinata dalle percentuali di scienza positiva, accompagnata da una consapevole coscienza, è tollerabile nella misura in cui si sappia che lo scopo è possibile così come potrebbe non essere possibile. La mera scienza non basta come pretesa per ergersi a diritto ma deve essere accompagnata da soggettività e quindi arbitrio nella visione però di una possibilità, ammettendo dunque che sussiste anche la possibilità contraria e che il realizzarsi della seconda non comporti poi il sopperire della coscienza conformatasi in un certo modo. Il requisito che manca in questo contesto non è l’utilità o la novità (novità elemento che rende tale un brevetto e comunque l’utilità è una condizione imprescindibile per poter riconoscere come tale l’ “invenzione industriale”), ma la European Patent Office ha stabilito che le linee di Staminali non possano essere brevettate. Il fatto è che non è possibile pensare al brevetto di cellule al di fuori di un ambito medico circoscritto; si deve tenere poi in considerazione che nel nostro sistema è possibile il brevetto di un test per scoprire il cancro ma non del gene associato al cancro; la domanda è spontanea: “E se in quel gene malato ci fosse “possibilità” di trovare la cura?”. Le soluzioni giuridiche rimangono controverse, fatto sta che non si è mai trovati una vera soluzione. Tralasciando il concetto di “possibilità” può accadere che il potenziale possibile venga sovrasviluppato perché la scienza esprime forze senza precedenti che una volta innescate non possono essere controllate (e nemmeno potrebbero a livello giuridico se vengono innescati certi cicli attivi dei sistemi di produzione) alimentati dall’economia che imprime loro un impulso incessante, si cadrebbe quindi nei vortici di fallimento indicati nelle quattro soluzioni precedenti (questo potrebbe spiegare perché le posizioni a torto siano maggiori di quelle a favore e lo stallo giurisdizionale creatosi) . Detto ciò il pericolo potrebbe essere rappresentato (e in larga parte lo è già) dal carattere troppo permissivo che alcuni Paesi e in particolar modo la Cina hanno dimostrato di avere nei confronti di questo tipo di brevetti. 2. CHINA PATENT&TRADEMARK Il medesimo ruolo che in sostanza l’European Patent Office (EPO) ricopre per i Paesi dell’Unione in Cina è ricoperto dal China Patent&Trademark Office (CPO). Ma come funziona la disciplina cinese? Per certi versi è simile all’esperienza europea, per altri se ne distacca in modo deciso. L’art. 10 del Patent Law of the People’s Republic of China disciplina la materia di trasferibilità dei diritti: “Se un individuo intende trasferire il diritto di richiedere un brevetto o i diritti sul brevetto stesso a uno straniero, un’impresa straniera o altra organizzazione straniera, deve eseguire le procedure in conformità con le disposizioni di leggi e regolamenti amministrativi. Per il trasferimento del diritto di richiedere un brevetto o di diritti di brevetto, le parti interessate devono stipulare un contratto scritto e file per la registrazione 57 SCIENZE GIURIDICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 presso il dipartimento di amministrazione dei brevetti sotto il Consiglio di Stato, e quest’ultimo deve fare un annuncio del trasferimento. Il trasferimento del diritto di richiedere un brevetto o di diritti di brevetto avrà effetto a partire dalla data di registrazione”12. Anche in Cina come in Europa tutto ciò che è contrario all’ordine pubblico (qui specificamente si fa menzione di “interessi”) non può costituire oggetto di brevettazione, articolo 5: “I brevetti non sono concessi per invenzione-creazioni che violano la legge o etica sociale, o danneggiano gli interessi pubblici. I diritti di brevetto non sono concessi per le invenzioni che vengono compiute basandosi su risorse genetiche che si ottengono o sono utilizzati in violazione delle disposizioni di legge e regolamenti amministrativi”13. Il riconoscimento in merito alla notorietà del marchio avviene a seguito della richiesta del titolare (art. 5 e 45 del Regolamento sui marchi)14. L’art. 14 del medesimo Reg. disciplina i fattori di utilizzazione di brevetti di grande importanza: “Se un brevetto d’invenzione di un’impresa statale o istituzione è di grande importanza per gli interessi nazionali o pubblici, previa approvazione da parte del Consiglio di Stato, dipartimento competente sotto il Consiglio di Stato o di governo del popolo della provincia, regione autonoma, o del comune direttamente sotto il governo centrale può decidere di avere il brevetto ampiamente applicato entro un ambito approvato e consentire alle unità designate di sfruttare il brevetto, e dette unità pagheranno royalties al titolare del brevetto in conformità con le norme dello Stato”15. “Dopo che la domanda di brevetto viene pubblicata, il richiedente può richiedere all’unità o ai singoli che sfruttano tale brevetto di pagare una quantità appropriata di royalties” (art. 13)16. 12 Patent Law of the People’s Republic of China Article 10 The right to apply for a patent and patent rights may be transferred. If a Chinese unit or individual intends to transfer the right to apply for a patent or patent rights to a foreigner, foreign enterprise or other foreign organization, it or he shall perform the procedures in accordance with the provisions of relevant laws and administrative regulations. For the transfer of the right to apply for a patent or of patent rights, the parties concerned shall conclude a written contract and file for registration at the patent administration department under the State Council, and the latter shall make an announcement thereof. The transfer of the right to apply for a patent or of patent rights shall become effective as of the registration date. 13 Patent Law of the People’s Republic of China Article 5 Patent rights shall not be granted for invention-creations that violate the law or social ethics, or harm public interests. Patent rights shall not be granted for inventions that are accomplished by relying on genetic resources which are obtained or used in violation of the provisions of laws and administrative regulations. 14 Art. 5 e 45 del Regolamento sui marchi 15 Patent Law of the People’s Republic of China Article 14 If an invention patent of a State-owned enterprise or institution is of great significance to national or public interests, upon approval by the State Council, the relevant competent department under the State Council or the people’s government of the province, autonomous region, or municipality directly under the Central Government may decide to have the patent widely applied within an approved scope and allow the designated units to exploit the patent, and the said units shall pay royalties to the patentee in accordance with the regulations of the State. 16 Patent Law of the People’s Republic of China Article 13 After the application for an invention patent is published, the applicant may require the unit or individual that exploits the said patent to pay an appropriate amount of royalties. 58 Il dipartimento di amministrazione dei brevetti nell’ambito del Consiglio di Stato stabilisce un comitato che ha lo scopo di revisionare il brevetto “se un candidato al brevetto è insoddisfatto con la decisione presa dal Dipartimento di amministrazione dei brevetti nell’ambito del Consiglio di Stato sul rigetto della domanda, egli può, entro tre mesi dalla data di ricevimento della notifica, presentare una richiesta con il comitato di revisione del brevetto per la revisione. Dopo la revisione, il Patent Review Board deve prendere una decisione e notifica al richiedente del brevetto della stessa. Se il richiedente brevetto è soddisfatto della decisione di revisione da parte del comitato di revisione del brevetto, può adire le vie legali in tribunale del popolo entro tre mesi dalla data di ricevimento della notifica”17. L’art. 45 continua dicendo “A partire dalla data in cui il dipartimento di amministrazione dei brevetti sotto il Consiglio di Stato ha annunciato la concessione di un diritto di brevetto, se una unità o individuo ritiene che tale concessione non è conforme alle pertinenti disposizioni della presente legge, può chiedere che il brevetto sia invalidato”18. “La licenza obbligatoria è legata alla fornitura del mercato nazionale, fatta eccezione (art. 53) per la licenza obbligatoria concessa in conformità con le disposizioni del paragrafo (2) dell’articolo 48 o dell’articolo 50 della presente legge”19. La legge sul diritto d’autore del 1991, emendata nel 2001 accorda la protezione dei diritti d’autore anche a stranieri e apolidi purché: il paese natio abbia stipulato un trattato bilaterale e/o un trattato multilaterale e/o di accordo internazionale con la Cina in materia di diritti d’autore oppure che l’opera sia stata ab origine pubblicata in Cina20. La medesima legge stabilisce come interesse prioritario quello pubblico21. Il diritto di autore comprende i diritti morali e patrimoniali22. Nell’ambito dei diritti morali, sulla base della Convenzione di Berna (art. 6 bis) , si riconoscono quattro diritti paternità, pubblicazione, revisione e d’integrità23. 17 Patent Law of the People’s Republic of China Article 41 The patent administration department under the State Council shall establish a patent review board. If a patent applicant is dissatisfied with the decision made by the Patent Administration Department under the State Council on rejecting of the application, he may, within three months from the date of receipt of the notification, file a request with the patent review board for review. After review, the Patent Review Board shall make a decision and notify the patent applicant of the same. If the patent applicant is dissatisfied with the review decision made by the patent review board, he may take legal action before the people’s court within three months from the date of receipt of the notification. 18 Patent Law of the People’s Republic of China Article 45 Beginning from the date the patent administration department under the State Council announces the grant of a patent right, if a unit or individual believes that such grant does not conform to the relevant provisions of this Law, it or he may request that the patent review board declare the said patent right invalid. 19 Patent Law of the People’s Republic of China Article 53 Except for the compulsory license granted in accordance with the provisions of Subparagraph (2) of Article 48 or Article 50 of this Law, compulsory license shall mainly be exercised for the supply to the domestic market. 20 Legge cinese sul diritto d’autore del 2001 21 Legge cinese sul diritto d’autore del 2001 22 Legge cinese sul diritto d’autore del 2001 23 Legge cinese sul diritto d’autore del 2001, Convenzione di Berna (art. 6 bis) SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE GIURIDICHE La durata del brevetto è, come nella maggior parte dei Paesi dell’UE, di vent’anni, art. 42 (Patent Law of the People’s Republic of China) e stabilisce che: “La durata del brevetto dell’invenzione diritto è 20 anni e quella del diritto di brevetto per modello di utilità e del brevetto di disegno a destra è di dieci anni rispettivamente, tutto a partire dalla data di applicazione”24. Il primo emendamento della legge sui brevetti datata 1992 ha reso brevettabili composti e preparati farmaceutici in Cina25. La legge italiana si premura di entrare nello specifico, invece, nella declinazione di “medicinale”: ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane, ogni sostanza o associazione di sostanze che può essere utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica considerata con efficacia (efficacia da intendere nel senso “positivo” del termine, escludendo quindi un’attenzione eccessiva verso gli effetti collaterali che pure potrebbero verificarsi nel caso di assunzione di farmaci), immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica, medicinale immunologico, medicinale omeopatico, radiofarmaco, medicinali derivati dal sangue o dal plasma umani (Art. 1 Dlgs 219/2006)26. La legge sui brevetti cinese ne tutela “procedimenti di preparazione ed usi”27. Nel Titolo II del Dlgs 219/2006 all’art. 2 “Campo di applicazione; prevalenza della disciplina dei medicinali su altre discipline” si stabilisce che “Il presente decreto si applica ai medicinali per uso umano, preparati industrialmente o nella cui produzione interviene un processo industriale, destinati ad essere immessi in commercio sul territorio nazionale, fatto salvo il disposto del comma 3”, ovverosia “I medicinali destinati esclusivamente all’esportazione e i prodotti intermedi sono soggetti soltanto alle disposizioni del titolo IV del presente decreto”28. Per la legislazione cinese il titolare ha potere esclusivo nei confronti dei prodotti coperti da brevetto29. Il Dlgs 219/2006 sembra preoccuparsi di definire maggiormente obblighi che non doveri, chiarendo che “Il rilascio dell’autorizzazione non esclude la responsabilità anche penale del produttore e del titolare dell’AIC”30. Nell’ambito farmaceutico cinese le sostanze naturali posso essere protette in qualità di brevetto se i loro parametri chimico-fisici risultano ancora estranei, se esse possono essere definite e se possono essere sfruttate31. In Italia premesso che “1. Nessun medicinale può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione comunitaria a norma del 24 Patent Law of the People’s Republic of China Article 42 The duration of the invention patent right shall be 20 years and that of the utility model patent right and of the design patent right shall be ten years respectively, all commencing from the date of application. 25 Legge sui brevetti, 1 emendamento, 1992 26 Art. 1 Dlgs 219/2006 27 Legge cinese sui brevetti 1992 28 Art. 2 Dlgs 219/2006 29 Legge cinese sui brevetti 1992 30 Art. 39 Dlgs 219/2006 31 Legge cinese sui brevetti 1992 regolamento (CE) n. 726/2004”32 rientrano in campo di brevettazione anche i medicinali omeopatici, il Dlgs 219/2006 al’art. 1 in analisi definisce omeopatico “ogni medicinale ottenuto a partire da sostanze denominate materiali di partenza per preparazioni omeopatiche o ceppi omeopatici, secondo un processo di produzione omeopatico descritto dalla farmacopea europea o, in assenza di tale descrizione, dalle farmacopee utilizzate ufficialmente negli Stati membri della Comunità europea; un medicinale omeopatico può contenere più sostanze”33. Anche nella legislazione cinese in materia di brevettazione si fa chiaramente riferimento a una “descrizione chiara” e si rende necessario il riferimento ad almeno uno dei relativi usi34. Esempi e dati proposti devono essere convincenti35. Uno dei requisiti basilari è l’osservanza delle leggi, soprattutto se si cade in una materia molto delicata come quella delle “risorse genetiche” art. 5 della presente legge36. E così in Italia e in generale nei Paesi dell’UE il rispetto dell’ordine pubblico, del buon costume e il rispetto della legge sono degli assunti fondamentali che non potevano rimanere estranei alla materia industriale. Un netto distacco è invece presente in materia di trattazione delle risorse genetiche, non ci sembra questa la sede giusta per approfondire, ma poniamo qui dei punti su cui è necessario soffermarci per capire a fondo il significato di questo distacco. L’art. 5 della direttiva 44/98/CE prevede espressamente che “il corpo umano, nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo, nonché la mera scoperta di uno dei suoi elementi, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, non possono costituire invenzioni brevettabili”37. Articolo assai significativo nella misura in cui predetermina l’indirizzo europeo, dunque anche dell’Italia, in relazione a tale argomentazione. Al seguente art. 6 della medesima direttiva si fa riferimento a un elenco non tassativo di ipotesi escluse dalla possibilità di brevettazione per contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume: “i procedimenti di clonazione di esseri umani; i procedimenti di modificazione dell’identità genetica germinale dell’essere umano; le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali”38. La normativa cinese pone in questo senso, un grande problema giurisprudenziale: l’art. 5 della legge in materia (Legge sui brevetti 1992) stabilisce che non è possibile brevettare ciò che è “contrario alla legge” il che fa presupporre un rimando ad un’ulteriore normativa, rimando a cui la medesima non fa esplicito riferimento39. La normativa cinese fa inoltre riferimento alla necessità di esplicitare la provenienza del materiale genetico e se esistono cause tali da impossibilitare questo requisito è necessario darne ragione40. In Italia “Per interpretare i principi e le linee guida delle norme di 32 33 34 35 36 37 38 39 40 TITOLO III Capo I Art. 6. Dlgs 219/2006 Art. 1 Dlgs 219/2006 lett. d) Legge cinese sui brevetti 1992 Legge cinese sui brevetti 1992 Legge cinese sui brevetti 1992 Art. 5 della direttiva 44/98/CE Art. 6 della direttiva 44/98/CE Art. 5 Legge cinese sui brevetti 1992 Art. 26 Legge cinese sui brevetti 1992 59 SCIENZE GIURIDICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 buona fabbricazione, i produttori e le autorità competenti tengono conto delle linee guida dettagliate di cui all’articolo 47, secondo paragrafo, della direttiva 2001/83/CE, pubblicate dalla Commissione nella “Guida alle buone prassi di fabbricazione dei medicinali e dei medicinali in fase di sperimentazione”41. Una sostanza già conosciuta non può essere brevettata neanche qualora se ne proponesse un nuovo uso42. In Italia il brevetto di indicazione protegge un nuovo uso di un composto già conosciuto. Per la legge cinese sui brevetti possibile instaurare un procedimento di revisione entro tre mesi dalla data della notifica del rigetto43. L’art. 40 del Patent Law of the People’s Republic of China stabilisce che se non ci sono motivi di rigetto “il dipartimento di amministrazione dei brevetti sotto il Consiglio di Stato deve prendere una decisione sulla concessione del modello di utilità o design diritto di brevetto, rilasciare un certificato di brevetto relativo, e intanto provvedere alla registrazione e annunciare la medesima”44. Cosa accade se, in caso di rigetto, non si è d’accordo? “Il dipartimento amministrazione dei brevetti nell’ambito del Consiglio di Stato istituisce un comitato di revisione del brevetto. Se un candidato brevetto è insoddisfatto della decisione presa dal Dipartimento di amministrazione dei brevetti nell’ambito del Consiglio di Stato sul rigetto della domanda, egli può, entro tre mesi dalla data di ricevimento della notifica, presentare una richiesta...di revisione”45. I brevetti possono essere sottoposti anche per questa legislazione a procedure di annullamento: “Se un individuo ritiene che tale concessione non è conforme alle pertinenti disposizioni della presente legge può chiedere che il brevetto sia non valido”46. La decisione viene annunciata e registrata dal dipartimento di amministrazione dei brevetti nell’ambito del Consiglio di Stato, restando invariata la possibilità di adire in giudizio davanti al tribunale del popolo, entro tre mesi dalla data di ricevimento della notifica47. Ci sembra ora di avere i mezzi necessari per poter parlare della problematicità legata alla brevettabilità dei farmaci, fenomeno molto più complesso di 41 Art. 60 Dlgs 219/2006 42 Legge cinese sui brevetti 1992 43 Legge cinese sui brevetti 1992 44 Patent Law of the People’s Republic of China Article 40 If no reason for rejection is discerned after preliminary examination of a utility model or design patent application, the patent administration department under the State Council shall make a decision on granting of the utility model or design patent right, issue a corresponding patent certificate, and meanwhile register and announce the same. The utility model patent right and the design patent right shall become effective as of the date of announcement. 45 Patent Law of the People’s Republic of China Article 41 46 Patent Law of the People’s Republic of China Article 45 47 Patent Law of the People’s Republic of China Article 46 The patent review board shall examine the request for declaring a patent right invalid and make a decision in a timely manner and notify the requesting person and the patentee of its decision. The decision on declaring a patent right invalid shall be registered and announced by the patent administration department under the State Council. A person that is dissatisfied with the patent review board’s decision on declaring a patent right invalid or its decision on affirming the patent right may take legal action before a people’s court, within three months from the date of receipt of the notification. The people’s court shall notify the opposite party in the invalidation procedure to participate in the litigation as a third party. 60 quanto si possa pensare. In realtà non basta sottolineare la necessità di un “ricorso alla legge” visto che ci sono delle ipotesi in cui nella normativa cinese la violazione è esclusa: l’art. 69 sembra essere sprovvisto di una base giuridica solida nella misura in cui determina la possibilità che prodotti già brevettati e/o procedimenti già brevettati venduti dal titolare del medesimo diritto o dall’unità o dall’organizzazione/individuo autorizzato (che cioè ne ha acquistato i diritti dal precedente titolare per sostituirlo nell’ “uso” del brevetto e dunque nel lucro sui diritti) in assenza di violazione48. Quest’ultimo caso è legato alla questione dei farmaci generici. In Italia abbiamo il sistema di controllo EMEA (European Medicines Agency): istituita dal regolamento (CE) n. 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 200449. Essa “istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’agenzia europea per i medicinali, di seguito denominato”: “regolamento (CE) n. 726/2004”50. In Europa, come abbiamo visto, vengono spesso imposti ai Paesi componenti l’Unione determinati standard di applicazione e diverse limitazioni, che se non presenti nella lex fori vengono immesse nella stessa attraverso l’utilizzazione della immediata applicazione come quella derivante da direttive e regolamenti (questo punto di vista normativo introduce una realtà simile a quella “federale”). La normativa cinese dimostra di avere molte “vacatio” dal punto di vista normativo, nella Legge sui brevetti si rimanda ad altre leggi non bene specificate, il che porta ad “riciclo normativo” di dubbia attendibilità dal punto di vista sociale (un simile processo può essere giustificato solo dal fatto che la Cina intenda mantenere vario, eterogeneo e versatile il concetto “brevetto”). 48 Patent Law of the People’s Republic of China Article 69 The following shall not be deemed to be patent right infringement: (1) After a patented product or a product directly obtained by using the patented method is sold by the patentee or sold by any unit or individual with the permission of the patentee, any other person uses, offers to sell, sells or imports that product; (2) Before the date of patent application, any other person has already manufactured identical products, used identical method or has made necessary preparations for the manufacture or use and continues to manufacture the products or use the method within the original scope; (3) With respect to any foreign means of transportation that temporarily passes through the territory, territorial waters, or territorial airspace of China, the relevant patent is used in the devices and installations for its own needs, in accordance with the agreement concluded between the country it belong to and China, or in accordance with any international treaty to which both countries have acceded, or on the principle of mutual benefit; (4) Any person uses the relevant patent specially for the purpose of scientific research and experimentation; and (5) Any person produces, uses, or imports patented drugs or patented medical apparatus and instruments, for the purpose of providing information required for administrative examination and approval, or produces or any other person imports patented drugs or patented medical apparatus and instruments especially for that person. 49 Regolamento (CE) n. 726/2004 50 Art. 1 Dlgs 219/2006 lett. ff) SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE MATEMATICHE Il Titanic: affondare con stile * FRANCO BAGNOLI Dipartimento di Fisica e Astronomia e Centro per lo Studio di Dinamiche Complesse, Università di Firenze, Italia. INFN, Sez. Firenze N el film Titanic [1], quando la poppa del transatlantico è in procinto di affondare (vedere la Fig. 1), Jack Dawson (Leonardo DiCaprio) dice a Rose DeWitt Bukater (Kate Winslet) di tenersi pronta a nuotare con tutte le sue forze, perché la nave, affondando, cercherà di risucchiarla negli abissi. Ma il fenomeno del “gorgo” che risucchia naufraghi e scialuppe si verifica realmente o è solo un mito? E, se esiste, come si spiega secondo le leggi della fisica? Il verificarsi della suzione è certo. Nelle sue memorie [3], il comandante giapponese Tameichi Hara [4] descrive vividamente la sua esperienza di gettarsi fuori da un incrociatore che affonda, e del vortice risucchiante risultante. Tale fenomeno è anche oggetto di un episodio di MithBuster [5] che nega questo effetto, ma l’esperimento è stato fatto con una barca troppo piccola, probabilmente. * Una versione inglese di questo articolo, Sinking with the Titanic, è apparsa su Europhysics News 46/2, 30 (2015) DOI: http://dx.doi.org/10.1051/ epn/2015205. Una versione in spagnolo, El Titanic se hunde (traduzione di R.M. Herrera), è apparsa sul giornale online Revista C2 (2015), http://www.revistac2.com/el-titanic-se-hunde Facendo ricerche su Internet, si possono trovare generalmente tre tipi di spiegazione. La prima attribuisce l’effetto all’aria contenuta nella barca, che fuoriesce durante l’affondamento abbassando così la densità dell’acqua, che non è più capace di sostenere persone e scialuppe. La seconda spiegazione è che l’acqua, riempiendo gli spazi vuoti all’interno della nave, risucchierebbe le persone all’interno. La terza è collegata al trascinamento viscoso che fa nascere dei vortici dietro un corpo (la nave che affonda) che si muove all’in- FIGURA 1: L’affondamento del Titanic dal diario di uno dei sopravvissuti, John B. Thayer III (passeggero di prima classe..) [2]. 61 SCIENZE MATEMATICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 le), un cilindro trasparenterno di un fluido. E’ lo te e di un bicchiere, dal stesso effetto per cui è diametro circa la metà sconsigliato viaggiare del cilindro e con un fonsu una decappottabile se do spesso (per aumentare si hanno i capelli lunghi: la stabilità e per spostare si viene inevitabilmenpiù acqua). te frustati sul viso (Fig. Riempire per metà 2), anche se ovviamenil cilindro con acqua e te questo effetto non si inserire il bicchiere (il vede mai nei film (Fig. nostro Titanic) in modo 3). che galleggi. Segnare il È facile visualizzare FIGURA 2: Andare in decappottabile con i capelli lunghi non è piacevole [6], anche se si è livello dell’acqua con questo fenomeno (cam- su una Ferrari... biando il sistema di rifeun pennarello da lavagna bianca e chiedere al rimento) soffiando verso pubblico di votare per una mano che nasconde tre possibili risposte alla una candela (la fiamma domanda (vedi Fig. 4): si dirige verso la mano), Cosa succederà al livelo muovendo una mano in lo dell’acqua dopo che il una bacinella contenente Titanic (il bicchiere) sarà piccoli oggetti gallegaffondato? (a) salirà, (b) gianti (che seguono la resterà uguale, o (c) si mano). abbasserà? L’intensità del trasciSorprendentemente, namento è proporzionale ho trovato che la magalla velocità dell’oggetto gior parte delle persone in movimento, almeno FIGURA 3: Grace Kelly che guida una Sunbeam Alpine [7] in Caccia al ladro di Alfred Hitchcock (1955) [8]. sceglie la risposta (a), ma per piccole velocità. Tuttavia, c’è un effetto più evidente, statico e non dinami- effettuando l’esperimento si vedrà che il “livello del mare” co, causato semplicemente dalla spinta di Archimede che è, si abbassa dopo l’affondamento (l’effetto è più visibile se il chissà perché, generalmente trascurato. Possiamo utilizzarlo bicchiere sposta una grande massa d’acqua e se il cilindro è per effettuare uno spettacolo di fisica casalingo [9], nel qual stretto). La spiegazione implica un breve richiamo della legge di caso suggerisco di acquistare il “tappo da bagno” Tubtanic [10], per l’introduzione iniziale. Abbiamo anche bisogno di Archimede. La spinta di galleggiamento esercitata da un un “iceberg” (da utilizzare per l’introduzione e la sfida fina- fluido su un corpo immerso è uguale al peso del fluido che FIGURA 4: l’esperimento 62 SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE MATEMATICHE il corpo sposta. Dato che il bicchiere galleggia, questa forza è uguale al peso del vetro. Ma poiché la densità del vetro è maggiore della densità dell’acqua, il bicchiere deve spostare una massa d’acqua più grande del volume del vetro, un’azione che è ovviamente possibile grazie alla parte cava (riempita di aria) interna, come succede per le navi. Dopo l’affondamento, il bicchiere sposta solo il volume del vetro, e il livello dell’acqua si abbassa. Per una nave che affonda, questo significa che tende a scavare un “buco” nel mare, che viene immediatamente riempito dall’acqua vicina con un effetto di trascinamento su tutto ciò che galleggia nelle vicinanze. L’entità di questo effetto, come quello di trascinamento viscoso, dipende dalla velocità di affondamento, quindi è difficile distinguere tra i due. Dopo l’esecuzione di questa esperienza, si può rimuovere il bicchiere, mettere l’”iceberg” all’interno del cilindro, segnare ancora una volta il livello dell’acqua e chiedere di pronunciarsi su una seconda domanda: che cosa accadrà al livello dell’acqua dopo lo scioglimento del ghiaccio?1 Si deve aspettare per un po’ di tempo per la fusione, quindi è conveniente effettuare questo esperimento all’inizio dello spettacolo, raccogliere le risposte e ritornare sull’argomento alla fine, dopo aver presentato altri fenomeni. E ora una sfida, presa da “Veritasium” (un canale YouTube) [11]. Infiliamo una pallina da golf in un bicchiere e 1 Il livello dell’acqua non cambia dopo lo scioglimento, poiché il ghiaccio sposta una massa d’acqua pari alla sua massa, che riempie perfettamente il “buco”. aggiungiamo del sale in modo che galleggi appena. Che cosa accadrà alla palla se versiamo successivamente nel bicchiere un liquido un po’ più leggero (olio o sapone liquido)? (a) salirà (rispetto al fondo del bicchiere), (b) rimarrà alla stessa altezza o (c) affonderà? 2 RIFERIMENTI [1] https://it.wikipedia.org/wiki/Titanic_(film_1997) [2] http://www.stevenujifusa.com/2012/04/a-philadelphiateenager-remembers/ [3] Tameichi Hara, Per un milione di morti (Longanesi 1968) (Japanese Destroyer Captain, Ballantine Books, 1961. ISBN 0-345-27894-1) [4] http://en.wikipedia.org/wiki/Tameichi_Hara [5] http://www.discovery.com/tv-shows/mythbusters/videos/sinking-titanic-minimyth.htm [6] https://fakebernie.files.wordpress.com/2010/08/20100 817-tg-testing-ferrari-hair-dryer.jpg [7] http://it.wikipedia.org/wiki/Sunbeam_Alpine [8] http://it.wikipedia.org/wiki/Caccia_al_ladro [9] https://youtu.be/1T92T6rp6Ys [10] http://www.amazon.co.uk/Paladone-PP0258-Tubtanic-Bath-Plug/dp/B003Y3Q1GW [11] https://www.youtube.com/watch?v=C_covjcIcZ4 2 Salirà, poiché, dal punto di vista della palla, il liquido più leggero sostituisce l’aria, ed è sicuramente più denso rispetto a quest’ultima. 63 INGEGNERIA INDUSTRIALE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Ricerca sulla possibilità di sfruttare le correnti marine per la produzione di energia elettrica, con il sistema della turbina a differenza di densità aria-acqua ANTONINO MARIA FERRO I FUNZIONAMENTO DELLA MACCHINA l seguente trovato consiste in una macchina semplice che immersa sotto i fondali marini è in grado di ricavare energia meccanica sfruttando le correnti sia calde che fredde. Il dispositivo concerne in una turbina, ancorata all’interno di una camera, che si divide in due zone: la parte inferiore o dove le correnti marine agiscono sulle pale della turbina e la parte superiore dove vi è una camera d’aria ad alta pressione, mantenuta costante da un compressore d’aria immerso nel mare. Il principio di funzionamento sta nel fatto che l’aria tende a salire ma rimane intrappolata nel vano della turbina senza possibilità di fuga, la differenza di densità aria-acqua permetterebbe la rotazione della turbina. Insieme, si può trovare immerso, anche l’alternatore che sviluppando energia elettrica sarebbe riportata in superficie mediante dei collegamenti elettrici via cavo. In realtà nel fondale marino verrebbero ad essere effettuati delle modifiche per incanalare meglio le correnti in modo che, abbiano più forza nelle turbine, mediante delle prese di forza come viene schematizzato nella figura 1 Quello che fa in realtà ruotare la turbina sono le correnti marine, ma importante è la differenza di densità che vi è all’interno della camera, quindi dell’aria compressa e dell’acqua delle correnti marine, il livello dell’acqua si mantiene appena sotto l’asse della turbina. I problemi tecnici per la realizzazione di una centrale idroelettrica marina di questo genere non sono indifferenti, bisogna notare che la maggior parte della struttura oltre a essere realizzata in metallo, deve essere ricoperta in materiale plastico, onde evitare problemi di corrosione delle strutture (come vedremo alcune parti saranno necessariamente in plastica). La collocazione di un impianto di questo genere non è di facile soluzione bisogna tenere conto di diversi fattori: quelli ambientali, come la profondità rispetto al livello del mare, più infatti è profonda la collocazione, maggiore deve essere la pressione dell’aria stessa. Anche la robustezza dell’impianto varia in base alla profondità. Tutti gli strumenti a causa della corrosione sottoposta sono in plastica, in particolare le turbine, l’argano, che serve a muovere le paratoie per raccogliere il flusso delle correnti marine, anche il vano che, contiene la turbina è in plastica. Questo perché la plastica non si corrode come il ferro. Nella figura 1, vengono schematizzate tutte le parti principali che, formano una centrale idroelettrica sottomarina. Elenco degli strumenti presenti in figura 1 e in figura 2 Figura 1 64 -1 Turbina con il proprio vano; -2 Compressore d’aria; -3 Compressore d’aria con ventola; -4 Alternatore immerso; -5 Abitacolo di controllo pressurizzato; -6 Entrata dell’abitacolo; -7 Argano per variare la portata della massa delle correnti marine; -8 Paratoia mobile con apertura comandata dall’argano; -9 Uscita dell’acqua a bassa velocità; -10 Corrente marine; SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | INGEGNERIA INDUSTRIALE -11 Acque di scarico; -13 Condotta forzata; -S suolo fondale marino; -L livello massimo per l’entrata dell’acqua dalle correnti marine alla turbina. Figura 2 Nella figura 2, viene evidenziato principalmente il funzionamento della turbina, la corrente batte nell’invaso e fa ruotare le pale della turbina sviluppando energia meccanica, quest’ultima utilizzata viene trasformata in energia elettrica, mediante un alternatore collegato all’asse della turbina quest’ultima, può essere di tipo «Francis o Pelton» [1]. La pressione dell’aria, viene mantenuta costante da un compressore d’aria in modo che, vi sia la possibilità che esista sempre una differenza di densità tra acqua ed aria che permetta la rotazione della turbina. Da tenere conto che, per motivi di sicurezza esistono due compressori separati, uno per l’abitacolo, uno per la turbina. I compressori devono inoltre avere la possibilità di essere caricati esternamente, nel caso la pressione risulti di un valore inferiore a quello programmato. Per fermare la turbina, quindi metterla fuori servizio è necessario solo sollevarla con dispositivi meccanici, dalla condotta forzata, oppure chiudere l’invaso. I vantaggi nello sfruttamento delle correnti marine sono le seguenti: manutenzione non eccessiva, sfruttando nel tempo considerevole, costi di realizzazione non eccessivi, facilità nel trovare i luoghi di produzione, impatto ambientale sotto controllo, in quanto dipende dalle dimensioni della struttura, nessun tipo di inquinamento, nessun danno alla flora o alla fauna. «Per ottenere i valori della potenza si esprime innanzi tutto il valore della forza F, che è equivalente al prodotto della massa M (dell’acqua della corrente marina), per l’accelerazione F=M*a» [2] «La potenza P della forza F, che si sposta nella propria direzione, con velocità V (m/sec) è P=F*V si misura in Watt» [3]. Normalmente si usa misurare la potenza delle centrali elettriche con i multipli KW o MW. L’abitacolo sottomarino deve necessariamente essere in cemento armato e rivestito in metallo o plastica, nel caso si permetta il controllo a dei sub, l’entrata deve essere nella parte inferiore, c’è da dire che, l’aria all’interno della struttura deve essere ventilata e mantenuta a un livello di pressione tale da non allagare l’abitacolo stesso, nel caso le profondità non permettano il lavoro dei sub, l’entrata deve essere nella parte superiore e tale da permettere l’aggancio di uno scafo. Comunque i sistemi di sicurezza cambiano rispetto al tipo di centrale. L’abitacolo ha quindi la funzione di alloggiare l’alternatore elettrico e le apparecchiature di funzionamento automatico dell’impianto. «Quindi ha la funzione di una stazione elettrica»[4] Consideriamo il sistema mostrato nella foto 1 usato per l’esperimento. E’ composto da una turbina inserita in un condotto trasparente in plastica. Il tubicino viene collegato ad una sorgente d’acqua abbastanza forte da garantire una corrente a moto massimo. Il fluido dentro il tubo esce ad una certa velocità, (simulando una corrente marina). «Il movimento che si crea è del tipo a corrente laminare»[5]. Mentre l’esperimento procede, si riempe il contenitore d’acqua, che in mare ciò non avviene in quanto la corrente continua ad avere un movimento nei fondali, che nel caso di centrali idroelettriche marine non viene fermato ma continua il suo moto. Pur simulando una corrente marina, il fluido può diventare una « corrente turbolenta»[6] Questa potrebbe variare le caratteristiche all’interno dell’abitacolo della turbina. Nella foto 2, è ben visibile il livello dell’acqua vicino all’asse della turbina quest’ultima immersa sott’acqua. Nella foto 4, è ben visibile il vano turbina con il tubicino che simula la corrente marina. Uno studio per la realizzazione di un impianto marino potrebbe essere quello di realizzare « un effusore convergentedivergente» [7] Foto 1 Foto 2 65 INGEGNERIA INDUSTRIALE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 Figura 3 Nella figura 3 è visibile l’effusore dove viene spiegato il comportamento dello stesso, applicato al sistema idroelettrico marino. La massa di fluido entrante con pressione P0, nel tempo T0, comporta in c, un aumento di velocità, quindi una maggiore quantità di energia fluida che agisce sulla turbina. Superato il punto c, (turbina) l’acqua rallenta la sua velocità in e, trova spazio per continuare il suo moto, con velocità minima. L’acqua uscente rientra nuovamente nel percorso della corrente marina. Per la progettazione di un effusore per sfruttare l’energia delle correnti marine si deve la sezione della strozzatura, e la massa del flusso. Bisogna comunque sapere quanta energia vogliamo ottenere in base a quanta massa (corrente fluida) abbiamo a disposizione. Bisogna quindi conoscere la velocità della corrente marina. In realtà la velocità V del fluido è sempre maggiore di 0, V>0, e non può verificarsi il contrario V<0 in quanto lo studio della corrente marina propone un verso sempre identico, a qualsiasi periodo dell’anno. Se non si raggiunge una determinata velocità, che si ottiene mediante lo schema di effusore, la turbina non si muove, questo valore dipende dal progetto ingegneristico di convergenza e divergenza della massa fluida. La descrizione del moto della velocità del fluido comporta una compressione nella sezione strozzatura dell’effusore. Nelle considerazioni fatte finora si è sotto inteso che la velocità fosse costante, ma nel caso la velocità variasse, è necessario avere un aumento o una diminuzione della massa fluida, che si ottiene soltanto mediante delle paratoie. Questo sistema deve essere automatizzato occorrono, quindi, attenti studi ingegneristici. Ritornando all’effusore quando il fluido oltrepassa la turbina, le sue proprietà cambiano: V1>V2, M1=M2, P1>P2. Dove V è la velocità del fluido, M è la massa del fluido, P è la pressione del fluido. Con V1, M1, P1, indichiamo la velocità, la massa, e la pressione all’ingresso dell’effusore. Con V2, M2, P2, indichiamo la velocità, la massa, e la pressione all’uscita dell’effusore. Un’altra importante osservazione, è che il vettore velocità V della direzione del fluido (corrente marina) si mantenga unidirezionale. Nell’esempio la corrente viene creata dalla velocità dell’acqua che esce da un rubinetto, in questo caso quindi non vengono calcolate perdite di carico, che invece sono presenti in realtà in un impianto idroelettrico sottomarino, dovute alle paratoie. Vi sono quindi due problemi da risolvere, per ciascun im66 pianto. « - 1 data la portata in massa nella paratoia quale è la perdita di carico? -2 data la caduta di pressione qual è la portata?» [8]. Queste grandezze dipendono dalla manutenzione dell’impianto ogni quanti anni vengono pulite le paratoie quindi la rugosità dei piani. Si può presumere che ogni 10 anni si debba smontare l’impianto in particolare la zona delle paratoie e della turbina, per una efficiente pulizia delle apparecchiature. «Si possono utilizzare altri tipi di effusori» [9] «Per calcolare gli attriti delle correnti marine»[10] Nella realizzazione della struttura è necessario per i sistemi automatici la conoscenza della portata dell’acqua un sistema è quello del «venturimetro» [11] Per l’inviluppo dell’acqua è necessario inoltre una protezione da oggetti che possono danneggiare l’impianto in particolare la turbina, quindi si realizza una grata in metallo o altro, per evitare danni all’impianto. Simbologia F-forza. M-massa dell’acqua. a-accelerazione dell’acqua. P-potenza. V-velocità dell’acqua. P0-pressione del fluido. T0-tempo necessario al passaggio della massa dell’acqua. c- punto della turbina. V-velocità della corrente marina. V1-velocità dell’acqua all’ingresso. V2-velocità dell’acqua all’uscita. M1-massa dell’acqua all’ingresso. M2-massa dell’acqua all’uscita. P1-pressione dell’acqua all’ingresso. P2-pressione dell’acqua all’uscita. RINGRAZIAMENTI Ringrazio per la collaborazione il Sig. Volpetti Giovanni Battista. Ringrazio anche la G.F. Plast di Udine per la collaborazione alla realizzazione del prototipo. BIBBLIOGRAFIA [1] Bossi A. Sesto E. 1968 Impianti Elettrici (Turbine ad azione e reazione) Delfino Ed pag 317-321. [2] Stefano L.Straneo 1978 Manuale di Elettrotecnica (Principio fondamentale della dinamica), seconda edizione rifatta, Roma, E.S.A.C Ed Scientifiche, A. Cremonese pag 140. [3] Stefano L. Straneo 1978 Manuale di Elettrotecnica (Potenza), seconda edizione rifatta, Roma, E.S.A.C Ed Scientifiche, A. Cremonese pag 141. SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | INGEGNERIA INDUSTRIALE [4] Bossi A. Sesto E. 1968 Impianti Elettrici (stazione elettrica), settima edizione, Milano, Delfino Ed pag 558-561. [5] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (Esperimento di Reynolds), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 317 [6] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (Esperimento di Reynolds), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 317 [7] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (Effusore), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 368 [8] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (corrente nei tubi), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 330 [9] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (cor- rente comprimibile), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 390 [10] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (corrente comprimibile), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 390 [11] Pnueli D. Gutfinger C. 1995 Meccanica dei fluidi. (Misure di portata), prima edizione, Bologna, Zanichelli Ed S.p.A pag 343 Il prototipo del simulatore, visibile nelle foto riportate nel testo, si trova presso Scuole Paritarie Gaspare Bertoni di Udine. Info: www.ferroantoninomaria.com 67 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 La vendita delle armi: crimine contro l’umanità? ROBERTO FIESCHI Professore Emerito di Fisica, Università degli Studi di Parma H o letto recentemente che nel 2014 dodici Paesi dell’UE, tra cui l’Italia, hanno venduto armi per quasi 7 miliardi di dollari all’Egitto. Non è una notizia che scuote l’opinione pubblica. Più in generale, il SIPRI, l’istituto internazionale impegnato in ricerche su conflitti, armamenti e disarmo, stima che la spesa militare mondiale del 2013 sia stata di 1.750 miliardi di dollari, equivalenti al 2,4% del prodotto interno lordo mondiale o a 250 dollari per ogni persona al mondo oggi. I principali esportatori di armi, in percentuale sull’export, sono (anni 2009-2013): 68 Esportatore 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. USA Russia Germania Cina Francia UK Spagna Ucraina Italia Israele Percentuale sull’export globale 29 27 7 6 5 4 3 3 3 2 SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI nel creare la domanda per la Fra i maggiori importatori sua mercanzia, ogni tipo di ai primi cinque posti troviaarmamenti; lo faceva venmo India, Arabia Saudita, dendo indifferentemente alla Cina, Emirati Arabi Uniti parti in contrasto o addirittue Pakistan che insieme cora fomentando le guerre. prono il 33% del mercato Non era l’unico a impieglobale. Bisogna anche tegare metodi del genere per nere conto del mercato nero vendere armi e arricchirsi, che sfugge alle statistiche solo uno dei più abili (https:// ma è florido; tre conflitti in mises.org/library/merchantparticolare – nell’ex Jugodeath-basil-zaharoff). slavia, in Afghanistan e in La giustificazione tipica Iraq, e la dissoluzione della dei mercanti di morte è semLibia – hanno contribuito pre stata la difesa del Paese. alla diffusione fuori controlMa i produttori e i mercanti lo delle armi, e i flussi hanno di morte spesso forniscono raggiunto gruppi terroristici, armi sia al proprio paese, milizie, mafie. Qualche altro dato: sono Zacharias Basil Zaharoff (Muğla, Impero Ottomano, 1849 - Monte sia a paesi potenzialmente avversari. Dei 25000 cannostate disseminate in molti Carlo, 1936) ni prodotti dai Krupp prima Paesi circa 100 milioni di del 1890 solo 10000 furono mine anti-uomo e ogni anno ne vengono introdotte almeno altre 500000; ogni anno dalle destinati alle forze armate germaniche; il resto a Paesi che, esplosioni vengono mutilate o uccise circa 15000 persone, come l’Austria e la Cina, in seguito li impiegarono contro la Germania stessa; nella guerra boera (Sudafrica, 1898-1902) spesso bambini. Il 2013 ha visto alcuni progressi negli sforzi mondiali per i soldati inglesi furono massacrati dalle mitragliatrici Maxim il rafforzamento dei controlli sul commercio di armamenti che Zaharoff, per conto della britannica Vickers, aveva forconvenzionali; a luglio l’Assemblea Generale dell’ONU ha nito ai Boeri; la Turchia, nella guerra contro l’Italia (1911), raggiunto un accordo sul testo del Trattato sul commercio di impiegò una flotta largamente fornita dall’Italia stessa. Non dobbiamo quindi stupirci se oggi in Siria i mercanti di armi (Arms Trade Treaty, ATT), dopo sei anni di negoziamorte armano più o meno direttamente tutte le parti in lotta, ti! I risultati tuttavia non sono molto incoraggianti. Molte sono le cause delle guerre che insanguinano il mon- fino ai gruppi terroristici dell’Isis, contribuendo ai massacri do, ma è certo che i produttori e i commercianti di armi in di militari e civili. Lucidamente il Papa ha detto: “Questa guerra in Siria è molti casi contribuiscono ad alimentare conflitti interni e guerre tra gli Stati. Sicuramente è loro interesse che il mer- davvero una guerra per risolvere problemi o è una guerra cato si espanda e che vi siano soggetti disposti a impiegare commerciale per vendere queste armi, cioè per incrementarne il commercio illegale? Diciamo No al commercio e alla somme ingenti per l’acquisto di ordigni di morte. proliferazione delle armi.” Questo è avvenuto anche in tempi lontani. Di fronte alla diffusione e all’imponenza del fenomeno, si Nel 1733 il finanziere Amschel Mayer Bauer Rothschild (capostipite dell’impero Rothschild) dichiarò: “La nostra resta sconcertati. Una delle difficoltà ad affrontarlo sta nella politica è quella di fomentare le guerre, ma dirigendo con- scarsa consapevolezza nella popolazione e negli stessi attori, ferenze di pace, in modo che nessuna delle parti in conflitto a tutti i livelli. Una organizzazione burocratica quasi perfetpossa ottenere guadagni territoriali. Le guerre devono esse- ta fa sì che quasi nessuno degli attori si renda conto delle re dirette in modo tale che le Nazioni, coinvolte in entrambi sue indirette, maggiori o minori, responsabilità di fronte a gli schieramenti, sprofondino sempre più nel loro debito e, un fenomeno che contribuisce a provocare distruzioni e lutti immensi. L’operaio che tiene in ordine gli impianti non può quindi, sempre più sotto il nostro potere”. Molti anni fa ho letto una biografia di Basil Zaharoff, gre- sentirsi responsabile, e così pure il tecnico specializzato o il co, mercante di armi, uno degli uomini più ricchi del suo capo reparto: esaudiscono il compito al quale sono assegnati e portano onestamente a casa il salario; il progettista di nuovi tempo e uno dei massimi mercanti di morte. Alla fine dell’Ottocento Zaharoff riuscì a vendere alla Gre- sistemi di arma è orgoglioso dei miglioramenti che sviluppa; cia uno dei primi sottomarini, Nordenfelt I, a propulsione a il responsabile dell’azienda e quello delle vendite devono far vapore, destinato a non funzionare. Quindi convinse i turchi quadrare i bilanci, pena il fallimento dell’azienda stessa; il che ciò poneva una minaccia, e ne vendette loro due, uno ministro degli esteri deve tener conto degli interessi del Padei quali ben presto affondò; infine persuase la Russia ad ese nei rapporti con gli altri stati; il ministro del commercio acquistarne due, per contrastare la minaccia turca nel Mar deve incrementare le esportazioni; il ministro della difesa sa Nero. Anche nei decenni seguenti Zaharoff fu un maestro che se le fabbriche d’armi del Paese producessero solo per 69 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 ad un’indole maligna, quanla difesa, non sarebbero in to appunto a inconsapevogrado di autosostenersi. Un lezza; non all’odio, ma alla esempio recente: il sindaco incapacità di critica. di Cadice in campagna eletLa società tedesca degli torale criticava l’industria anni 1933 -1945 non condegli armamenti; dopo la sua teneva elementi in grado elezione benedice il contratto di impedire il verificarsi dei cantieri navali Navantia dell’Olocausto, una grande per la costruzione di cinque impresa, un genocidio fredfregate destinate all’Arabia do, accurato e sistematico Saudita; i posti di lavoro pianificato razionalmente innanzi tutto, si giustifica il (*) e gestito efficientemente sindaco. tramite una burocrazia obbeOgni attore è una diente all’autorità (Z. Baurotellina di un ingranaggio man: Modernità e Olocauperfetto, che lo esonera Hannah Arendt (Hannover, 1906 – New York, 1975) sto). Analogamente nessuna dalla visione dell’insieme; è delle società attuali ha in sé semplicemente una persona completamente calata nella realtà che ha davanti: lavorare, gli strumenti per uscire da una situazione – la produzione eseguire il proprio compito, cercare una promozione, e il commercio della armi - che è indirettamente causa di riordinare numeri nelle statistiche, eccetera. Nella catena di lutti immensi; troppo forte è la cooperazione di vasti settori passi che portano alla produzione e al commercio delle armi del Complesso militare industriale (D. Eisenhower, 1961) sono assenti le emozioni umane, incluso l’odio. La divisione e della politica, troppo alta l’efficienza della tecnica e della del lavoro crea una distanza tra chi contribuisce al risultato burocrazia, troppo ampia l’acquiescenza dell’opinione pubblica. Né ci si può aspettare una riflessione autocritica degli finale e il risultato stesso. Così la violenza è stata sottratta alla nostra vista, ma non attori ai vari livelli: è psicologicamente facile ignorare la propria responsabilità quando si è semplicemente un anello eliminata. Con questa schematizzazione non si vuole negare che con- intermedio nella catena di un’azione immorale e si è lontani sapevolezza e responsabilità siano del tutto assenti; in qual- dagli esiti finali dell’azione stessa. che misura esistono, salendo dai livelli esecutivi più semplici L’azione di denuncia appassionata – pur importante - di verso i livelli dirigenziali. In ogni caso non si può accettare persone e di gruppi concerned non è sufficiente a incidere sui che inconsapevolezza equivalga ad assenza della responsabi- meccanismi perfettamente legali che la sostengono. lità individuale. “La banalità del male”: in un altro ben noto contesto, così Hannah Arendt definì l’inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. Dal dibattimento in aula al processo, infatti, la Arendt ricavò l’idea che il male perpetrato (*) Il 20 gennaio 1942 si tenne a Berlino la cosiddetta Conferenza di Wannsee; presieduta da Heydrich, generale delle SS. in essa si esaminaroda Adolf Eichmann - come dalla maggior parte dei tedeschi no a fondo i dettagli burocratico-amministrativi del progetto di “soluzione che si resero corresponsabili della Shoah - fosse dovuto non finale della questione ebraica” (Endlösung der Judenfrage) 70 N. 37 - 15 SETTEMBRE 2016 RICERCHE Le ricerche e gli articoli scientifici sono sottoposti prima della pubblicazione alle procedure di peer review adottate dalla rivista, che prevedono il giudizio in forma anonima di almeno due “blind referees”. 72 SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE Bianco, bruno e beige: diverse sfumature di grasso MONICA COLITTI, TOMMASO MONTANARI Dipartimento di Scienze Agroalimentari, Ambientali e Animali, Università degli Studi di Udine Quando la dieta offre più calorie del necessario, esse vengono immagazzinate nel tessuto adiposo. Il vantaggio evolutivo del tessuto adiposo è stato quello di soddisfare la necessità di sopravvivere senza mangiare continuamente, ma oggi che la quantità di cibo disponibile è molto più elevata rispetto al passato, vi è una diffusione epidemica dell’obesità. Secondo recenti dati della World Health Organization, la percentuale di persone adulte sovrappeso in Europa si attesta tra il 32-79% negli uomini e il 28-78% nelle donne e quella delle persone obese tra il 5-23% degli uomini e il 7-36% delle donne (WHO, 2014). Negli adulti, il sovrappeso è definito quando l’indice di massa corporea (BMI) è ≥ 25kg/m2, l’obesità quando il BMI è ≥ 30kg/m2. L’aumento della percentuale di peso nei bambini è un dato allarmante in quanto oltre il 60% dei ragazzi è sovrappeso prima della pubertà. Prevenire l’obesità ed i fattori di rischio ad essa correlati quali la sindrome metabolica, le malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2 e alcune forme di cancro, è diventato un intervento urgente che deve essere attuato attraverso approcci diversi e innovativi. Ovviamente la terapia più comune coinvolge la diminuzione dell’assunzione di cibo e/o l’aumento del consumo di energia, ma da recenti ricerche una delle terapie possibili potrebbe partire proprio dal tessuto adiposo stesso. Ciò riveste importanza anche nel trattamento di pazienti geneticamente predisposti a sviluppare obesità e le conseguenti malattie metaboliche e cardiovascolari. Pertanto, riconsiderando il tessuto adiposo non solo come organo di riserva per lo stoccaggio di substrati altamente energetici, questo lavoro vuole riepilogare le diverse funzioni delle cellule adipose coinvolte in un’ampia gamma di pathways cellulari e porre in luce le nuove e possibili indicazioni nella lotta all’obesità. IL TESSUTO ADIPOSO Il tessuto adiposo è un tessuto connettivo ed è pertanto costituito da due componenti principali distinte: le cellule e la matrice extracellulare. Nel tessuto adiposo la prima com- ponente prevale sulla seconda. Le cellule adipose sono presenti in tutte le sedi in cui vi sia tessuto connettivo lasso; in determinate regioni gli accumuli di cellule adipose raggiungono un volume tale da sostituire il tessuto lasso, come ad es. nel connettivo sottocutaneo. Un importante accumulo di grasso si trova intorno ai reni, ai visceri e al cuore: l’insieme di questi accumuli va a costituire il cosiddetto grasso viscerale. Accumuli più o meno consistenti di tessuto adiposo si formano anche tra i muscoli e nei sepimenti di connettivo che ne separano i vari fasci, questo grasso è detto interfascicolare. Il tessuto adiposo sottocutaneo interessa l’intera superficie corporea e soprattutto gli strati profondi della pelle. Il grasso è localizzato per il 50% nel pannicolo sottocutaneo, dove svolge una funzione sia coibente che meccanica; per il 45% nella cavità addominale, dove forma il tessuto adiposo viscerale; infine per il 5% nel tessuto muscolare, dove svolge un’azione di aiuto al lavoro muscolare. Gran parte dei depositi viscerali è costituita da grasso mesenterico e omentale; depositi minori, con significato assimilabile al grasso viscerale dell’addome, si trovano in regione epicardica e nel mediastino. Il tessuto adiposo bianco non è molto vascolarizzato e reagisce prontamente ai periodi di minore o maggiore disponibilità alimentare. Si presenta in forma di masserelle e lobi separati da connettivo da cui origina una fittissima rete di fibrille reticolari che circoscrive ogni cellula adiposa e circonda pure i capillari. Gli adipociti, cellule completamente differenziate, a loro volta sono distinti in due citotipi fondamentali, ovvero gli adipociti bianchi e bruni, molto diversi tra loro per formazione e funzioni. I due tipi cellulari si organizzano rispettivamente nel tessuto adiposo bianco (WAT, white adipose tissue) e in quello bruno (BAT, brown adipose tissue) (Tabella 1). Al microscopio ottico le cellule del WAT appaiono come elementi rappresentati per oltre il 90% del loro volume da un’unica goccia lipidica non circondata da membrana (da cui il termine di tessuto adiposo univacuolare), che occupa qua73 SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 si interamente il citoplasma. Sono cellule molto grandi, dal diametro di circa 50-100µm e circondate dalla membrana basale, il cui citoplasma è ridotto a una sottile rima appena visibile (Fig.1A). Il nucleo è schiacciato alla periferia dalla goccia lipidica e solo in questa zona perinucleare il citoplasma risulta un poco più abbondante e visibile. Nel citoplasma sono presenti tutti gli organuli quali mitocondri, apparato del Golgi e reticolo endoplasmatico. La forma sferica rappresenta il miglior modo di accumulare volume nel minimo spazio e consente anche di esportare una notevole massa di molecole energetiche senza scomporre troppo l’anatomia del tessuto: in una sfera, infatti, una minima riduzione di diametro corrisponde a una considerevole riduzione del volume. Il BAT, nella specie umana, è presente durante la vita fetale e nel neonato, ma è stato recentemente dimostrato attraverso la tomografia a emissione di positroni con fluorodesossiglucosio (FDG PET) combinata con la tomografia computerizzata a raggi X (TC), che nell’uomo adulto esistono aree metabolicamente attive di adipociti bruni positive alla termogenina (uncopling protein 1 o UCP1) (Virtanen et al., 2009; Gifford et al., 2015) localizzate nelle aree sottocutanee dei muscoli anteriori del collo, nella parete addominale anteriore e nell’inguine; in aree perivascolari a livello di arteria carotide comune, aorta, arteria brachiocefalica e arteria coronaria epicardica; a livello del pericardio e nelle zone connettivali che circondano reni, ghiandole surrenali, pancreas e fegato (Jeremic et al., 2016). È invece ben sviluppato in alcuni roditori e negli animali ibernanti. L’organizzazione del BAT è globulare, le cellule sono grandi circa un terzo dell’adipocita bianco (40µm) e presentano nucleo sferico centrale, il citoplasma contiene numerosissime gocce lipidiche ricche di trigliceridi, fosfolipidi, glicolipidi, colesterolo (da cui il nome alternativo di grasso multivacuolare) (Fig.1B). Le caratteristiche principali di questo tessuto adiposo sono la colorazione rosso-brunastra (da cui il nome di grasso ‘bruno’), la ricchissima vascolarizzazione e la presenza nelle cellule di molti mitocondri con abbondanti creste (Cannon e Nedergaard, 2004; Cinti, 2005). Questa particolare morfologia mitocondriale è dovuta alla necessità di avere la massima estensione possibile della membrana mitocondriale interna dove è inserita l’UCP1, la proteina funzionale di queste cellule (Cinti et al., 2001; Klaus et al., 1991). Questa proteina è espressa unicamente in queste cellule ed è responsabile del meccanismo molecolare di produzione di calore da parte dell’adipocita bruno. La proteina è detta ‘disaccoppiante’ in quanto nei mitocondri del BAT la respirazione cellulare è disaccoppiata dalla sintesi dell’adenosina trifosfato (ATP, adenosine triphosphate), pertanto l’ossidazione degli acidi grassi, anziché ATP, produce calore utile per aumentare, ad es., la temperatura corporea degli animali ibernanti al momento del risveglio. L’UCP1 causa la diffusione di protoni attraverso la membrana mitocondriale interna portando a una perdita del gradiente elettrochimico che il mitocondrio normalmente usa per produrre ATP (Klingenberg, 1999). Nonostante gli adipociti bruni da soli costituiscano la maggior parte del volume del tessuto, altri tipi cellulari sono inclusi in esso: cellule endoteliali dei capillari, cellule interstiziali e pre-adipociti che, in condizioni di un’aumentata richiesta di termogenesi, si dividono e si differenziano per formare nuovi adipociti bruni (Prunet-Marcassus et al., 2006). È ampiamente riconosciuto che il BAT gioca un ruolo fisiologicamente dominante nella termogenesi non da brivido, ad es. quando la temperatura corporea sale da un livello estremamente basso durante il risveglio dal letargo (Kitao e Hashimoto, 2012). La termogenesi del BAT è fisiologicamente stimolata dalla noradrenalina (o norepinefrina) rilasciata dalle fibre nervose del sistema simpatico che lo innervano. La trasduzione del segnale della termogenesi avviene principalmente attraverso i recettori β3-adrenergici presenti sulla membrana degli adipociti bruni ed è accoppiata all’attivazione dell’adenilato ciclasi (AC, adenylyl cyclase) che porta ad un aumento dei livelli di adenosina monofosfato ciclico (cAMP, cyclic adenosine monophosphate) citosolico (Zhao et al., 1998). L’aumento del cAMP induce l’idrolisi Tabella 1. Principali differenze morfologiche, funzionali e di espressione genica tra grasso bianco e bruno. Caratteristiche Morfologia Funzioni Geni coinvolti nel metabolismo Adipociti bianchi Adipociti bruni Univacuolare Multivacuolare (numerose piccole gocce lipidiche) Cellule grandi (fino a 200µm) 40-60µm Scarsi mitocondri, poche creste allungate Numerosi mitocondri con tante creste Deposito di energia sotto forma di trigliceridi e mobilizzazione degli acidi grassi Ossidazione e termogenesi Secrezione di adipochine (***)a Secrezione di adipochine (*) UCP1 (-)b UCP1 (+++) UCP2 (++) UCP2 (+) UCP3 (+/-) UCP3 (+) Subunità c della F0-ATPasi (+) Subunità c della F0-ATPasi (+/-) Geni della catena respiratoria (+) Geni della catena respiratoria (+++) Enzimi dell’ossidazione degli acidi grassi (+) Enzimi dell’ossidazione degli acidi grassi (+++) Glicerolo chinasi (+/-) Glicerolo chinasi (+++) *** secrezione alta; * secrezione bassa b no (-), espressione molto bassa o incerta (+/-), moderata (++), alta (+++) a 74 SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE Fig. 1. Struttura del grasso bianco (A, WAT) e bruno (B, BAT). Colorazione ematossilina-eosina. Microscopio ottico, 25x. delle riserve di trigliceridi attraverso l’attivazione della protein chinasi A (PKA, protein kinase A). Attraverso questo processo, gli acidi grassi vengono liberati e fungono da substrato per l’ossidazione mitocondriale e allo stesso tempo attivano le UCP1 (Cannon e Nedergaard, 2004). Seale et al. (2008) hanno descritto l’esistenza di due popolazioni di tessuto adiposo bruno: quello “classico” (per es. interscapolare) e quello “reclutabile” sparso tra i depositi di tessuto adiposo bianco. Petrovic e collaboratori (2010) hanno denominato questo terzo tipo cellulare adipociti “brite” (“brown-in-white”) o adipociti beige, le cui caratteristiche, proprietà e funzioni sono intermedie fra i due tipi precedentemente descritti. Per comprendere l’origine degli adipociti beige è utile ricordare quella dei bianchi e dei bruni. DIFFERENZIAMENTO DEL TESSUTO ADIPOSO BIANCO, BRUNO E BEIGE Il tessuto adiposo deriva dal mesoderma embrionale e condivide con il midollo osseo la presenza di una popolazione di cellule eterogenea che comprende cellule staminali mesenchimali (MSC, mesenchymal stem cells) da cui si sviluppano gli adipociti, ma anche cellule cartilaginee, osso e tessuto muscolare (Pittenger et al., 1999). Una volta che le MSCs sono indirizzate verso la linea adipocitaria, attraverso un processo chiamato “determinazione”, esse portano alla formazione di pre-adipociti dall’aspetto simile ai fibroblasti, che hanno la capacità di differenziarsi in adipociti maturi. In molte specie animali la formazione del WAT comincia nel mesoderma durante la fase media e terminale della vita intrauterina, come morfologicamente evidenziato negli embrioni di uomo, maiale, topo e ratto (Poissonnet et al, 1983; Valet et al., 2002). Dopo la nascita, l’espansione del tessuto adiposo è estremamente rapida e ha come risultato non solo una crescita delle dimensioni cellulari, ma anche del numero delle cellule adipose. Una volta indotto lo stimolo differenziativo, le cellule sono sottoposte a profondi cambiamenti a livello sia trascrizionale che morfologico (Avram et al., 2007). La crescita e il differenziamento delle cellule di grasso è controllata dalla comunicazione tra le singole cellule e tra le cellule e l’ambiente extracellulare attraverso una serie di stadi. Due sono i principali eventi coinvolti: il reclutamento e la proliferazione dei pre-adipociti, seguito dalla fase di differenziamento che li converte in cellule mature dalla forma sferica e in grado di accumulare lipidi. L’adipogenesi avviene nel corso di tutta la vita in risposta sia al normale rinnovamento cellulare che al bisogno di aumentare le riserve di grasso che accade anche quando si eccede al fabbisogno nutrizionale (Gregoire et al., 1998). Si possono distinguere due fasi di crescita del tessuto adiposo: una prima fase caratterizzata da una marcata iperplasia che aumenta il numero delle cellule e una fase adulta in cui il numero di adipociti è apparentemente stabile e compare invece una crescita ipertrofica. L’iperplasia è causata dalla differenziamento dei precursori ad adipociti maturi ed è un processo irreversibile, a differenza dell’ipertrofia. Interessante notare che anche nello stadio adulto persiste il potenziale di generare nuove cellule (Johnson e Francendese, 1985; Avram et al., 2007). Alcuni Autori hanno invece proposto una diversa teoria secondo la quale il tessuto adiposo cresce inizialmente grazie alla combinazione di iperplasia e ipertrofia, poi mentre il numero di cellule raggiunge rapidamente un plateau, l’ipertrofia cellulare continua fino al raggiungimento di un “maximum” di dimensione cellulare (Johnson e Francendese, 1985; Otto e Lane, 2005). Quando il “maximum” viene raggiunto, in accordo con l’ipotesi “della dimensione critica della cellula adiposa” (“critical fat cell size hypothesis”), gli adipociti producono e rilasciano una serie di fattori paracrini che controllano la proliferazione dei pre-adipociti e che quindi sono coinvolti nello sviluppo dell’obesità (Hausman et al., 2001). Questa attivazione è indotta principalmente dal fattore di crescita insulino-simile (IGF, insulin-like growth factor) liberato dagli adipociti ipertrofici e dall’insulina libera, incapace di legarsi allo specifico recettore sull’adipocita. Si ha quindi un’iniziale differenziamento delle cellule staminali verso la formazione di adipoblasti e pre-adipociti ed una successiva attivazione della mitosi delle cellule staminali per ristabilire il numero basale di queste a livello dello stroma (Gregoire et al., 1998). I pre-adipociti reclutati mantengono la loro capacità di crescere, ma devono uscire dal ciclo cellulare prima di essere convertiti in adipociti. L’arresto della crescita è il requisito necessario al differenziamento. Durante il differenziamento, l’acquisizione del “fenotipo 75 SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 adipociti” è caratterizzato da cambiamenti nell’espressione di numerosi geni. CONTROLLO TRASCRIZIONALE DELL’ADIPOGENESI I diversi passaggi coinvolti nella transizione da pre-adipociti ad adipociti sono principalmente regolati dall’attivazione di una cascata trascrizionale che coinvolge il recettore nucleare PPARγ (peroxisome proliferator-activated receptor γ) e alcuni membri della famiglia delle C/EBPs (CAAT/enhancer binding proteins) (Gregoire et al., 1998; Rangwala e Lazar, 2000; Rosen e Spiegelman, 2000). Il PPARγ svolge un importante ruolo fondamentale nell’adipogenesi: è necessario per il differenziamento cellulare e mantiene lo stato differenziativo: infatti la sua eventuale soppressione determina la perdita della capacità di accumulo lipidico e il decremento di marcatori adipogenetici (Elberg et al., 2000). Esistono due forme di PPARγ (PPARγ1 e PPARγ2), originate da uno splicing alternativo. Entrambe risultano essere espresse a livello del tessuto adiposo, ma solo la forma 2 costituisce un marcatore specifico di questo tessuto. Oltre alle capacità differenziative, PPARγ riveste un ruolo nel conferimento dell’insulino-sensibilità cellulare. La famiglia dei C/EBP comprende 5 membri: C/EBPα, C/ EBPβ, C/EBPδ, C/EBPγ e CHOP. Essi vengono espressi in tempi diversi durante il differenziamento: i più precoci risultano essere la forma β e d che, in concerto, promuovono l’espressione di C/EBPα e PPARγ. C/EBPα è richiesto per l’attuazione di una normale adipogenesi: topi con delezione di questo gene mostrano l’assenza di tessuto adiposo sottocutaneo, perirenale, ed epididimale, ma un normale sviluppo del tessuto adiposo a livello mammario, con ipertrofia del tessuto adiposo bruno (Yeh et al., 1995; Fève, 2005). Nonostante PPARγ e C/EBPα risultino entrambi necessari per la formazione del tessuto adiposo, il primo sembra rivestire un ruolo dominante: il knocking down di C/EBPα in fibroblasti embrionici murini può essere ripristinato dalla sovraespressione di PPARγ, ma non si osserva invece l’evento in senso opposto. Un altro gene coinvolto nella regolazione dell’adipogenesi è la SREBP-1c (sterol regulatory element binding protein1c): essa infatti partecipa all’attivazione di geni che regolano il metabolismo degli acidi grassi e del colesterolo. Il suo ruolo è pro-adipogenico in quanto la sua espressione ectopica promuove l’accumulo di lipidi, favorendone la captazione e la biosintesi (Kim e Spiegelman, 1996). Inoltre, SREBP1c controlla l’espressione di alcuni geni come sintetasi degli acidi grassi (FAS, fatty acid synthetase), lipoprotein lipasi (LPL, lipoprotein lipase) e acetil-coenzima A carbossilasi (ACC, acetyl-coenzyme A carboxylase). Il solo marcatore universalmente accettato per identificare i preadipociti è il preadipocite factor 1 (Pref-1 o DLK1). Questo gene è fortemente espresso sia in pre-adipociti bianchi che bruni, ma non in adipociti maturi, in quanto la sua espressione viene enormemente ridotta con l’induzione del differenziamento (Smas e Sul, 1993). Pref-1 viene sintetiz76 zato inizialmente come proteina transmembrana e successivamente subisce un taglio proteolitico producendo una proteina solubile che agisce inibendo l’adipogenesi. La sua espressione deve essere sottoregolata o funzionalmente inattivata affinché il differenziamento possa procedere (Avram et al., 2007). La sovraespressione della proteina in animali da laboratorio ha mostrato una riduzione dell’adipogenesi, mentre la sua soppressione ha dimostrato un accumulo di tessuto adiposo (Gregoire et al., 1998). L’adipogenesi possiede anche una regolazione negativa, mediata principalmente da alcuni componenti della famiglia di Wnt (Wingless-type MMTV integration site family), che indirettamente interagiscono con fattori trascrizionali appartenenti alla famiglia di TCF/LEF e che inibiscono l’adipogenesi impedendo l’induzione di PPARγ e C/EBPα (Ross et al., 2000). Durante l’adipogenesi si osserva anche una trascrizione elevata dei geni che codificano per fatty acid binding protein 4 (aP2/FABP4), proteina in grado di legare acidi grassi; per fatty acid translocase (FAT/CD36) che codifica per un trasportatore degli acidi grassi; e per una proteina associata ai vacuoli lipidici, la perilipina (PLIN1). Il raggiungimento del fenotipo maturo è correlato anche all’acquisizione della capacità endocrina del tessuto adiposo, vengono infatti prodotte e secrete numerose molecole ad azione autocrina, paracrina e sistemica che partecipano sia alla regolazione del metabolismo che modulando alcune caratteristiche del sistema immunitario. GRASSO BRUNO E GRASSO BRITE Il BAT deriva da un precursore cellulare che può differenziare in cellule muscolari e in cellule adipose brune e che esprime il fattore determinante la miogenesi, Myf5. In effetti, considerando il metabolismo ossidativo del grasso bruno, come pure il suo colore e il contenuto in mitocondri le cellule brune appaiono più simili alle fibre muscolari che agli adipociti bianchi. Il gene proline rich domain-containing protein 16 (PRDM16) è stato identificato come un “interruttore” molecolare tra gli adipociti bruni e i miociti. Infatti, l’espressione ectopica di questo gene in mioblasti induce il differenziamento in adipociti bruni che presentano tutto il corredo necessario alla termogenesi. Quando PRDM16 viene espresso in modo transgenico in adipociti bianchi sottocutanei di topi, grasso bruno compare in quella sede (Seale et al., 2011). PRDM16 stimola la trascrizione di numerosi geni mitocondriali, aumenta l’espressione di UCP1 e diminuisce l’espressione del gene resistina nel grasso bianco; favorisce inoltre la formazione di mitocondri (Wolf, 2009). Ghorbani et al. (1997) hanno dimostrato che alcuni geni del BAT possono essere indotti da PRDM16 anche in assenza del fattore di differenziamento PPARγ e quindi senza il differenziamento in cellule adipose. Pertanto il destino del grasso bruno sarebbe determinato prima della differenziamento dei pre-adipociti in adipociti bruni maturi. Il tipo brite invece è Myf5 negativo, ma esprime PRDM16 SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE e il PPARγ (Seale et al., 2007; Seale et al., 2008). Il grasso brite compare in seguito allo stimolo del freddo o di β3 agonisti e ha una sua specifica espressione genica; essi possono originare da un distinto precursore non miogenico, diverso da quello del grasso bianco e bruno (Wu et al., 2012; Colitti e Grasso, 2014). ATTIVAZIONE E RECLUTAMENTO DEL TESSUTO ADIPOSO BRUNO DAL GRASSO BIANCO L’identificazione di due popolazioni diverse di BAT (“classico” e “reclutabile”) comporta che la sua attività funzionale, in diverse condizioni fisiologiche, sia determinata da fattori diversi: gli effetti acuti della noradrenalina, che stimolano la termogenesi attraverso diversi gradi di attività, e la capacità termogenetica totale che dipende dal reclutamento delle cellule adipose. Nell’attivazione, lo stimolo dei recettori β3-adrenergici in seguito all’esposizione al freddo porta a un forte aumento della concentrazione intracellulare di triiodotironina (T3) direttamente o per conversione della tetraiodotironina (T4) mediante iodotironina 5’-deiodinasi di tipo 2 (DIO2). T3 nel nucleo conduce alla trascrizione di UCP1 che porta alla produzione di calore secondo il meccanismo già descritto. È evidente che la possibilità di trasformazione di cellule di grasso bianco in cellule simili alle cellule adipose brune sotto stimoli ormonali (catecolamine), rilasciati in situazioni stressogene o con basse concentrazioni di glucosio ematico, può avere rilevanti applicazioni terapeutiche per l’obesità e le sindromi ad essa correlate nell’uomo (Seale e Lazar, 2009; Betz e Enerbäck, 2011). Indipendentemente dal fatto che il BAT presente nell’uomo adulto incida sul totale della spesa energetica giornaliera, la possibilità di aumentare la quantità e/o la funzione di questo tessuto potrebbe essere una terapia efficace e sicura per limitare l’obesità. La sintesi di farmaci o di fattori endogeni che attivano la funzione di PRDM16 o mimano la sua azione potrebbe essere una fattibile cura per l’obesità. Egualmente, ingegnerizzare ex vivo adipociti bruni per impianti autologhi potrebbe essere una possibile alternativa. Tuttavia poco si conosce sui possibili meccanismi che potrebbero mantenere l’omeostasi energetica come un aumento di appetito o la generazione di un calore non accettabile (Seale e Lazar, 2009). IMBRUNIMENTO DEL WAT Il fenomeno di imbrunimento del WAT può essere indotto da una moltitudine di fattori endogeni, farmacologici e nutrizionali, i quali possono agire direttamente a livello di adipocita, stimolando l’espressione di UCP1 o di geni che ne regolano positivamente la trascrizione, oppure a livello di sistema nervoso centrale (SNC), andando ad influire sulle pathway che possono condurre ad un aumento della stimolazione del simpatico sul tessuto adiposo. FATTORI FARMACOLOGICI ED ENDOGENI Numerosi fattori che possono condurre all’imbrunimento del WAT sono raggruppati nella classe degli attivatori del sistema nervoso simpatico (SNS). L’attivazione del SNS stimola, negli adipociti bianchi, i fenomeni di lipolisi e di ossidazione degli acidi grassi ed è inoltre associata alla sovraespressione di geni coinvolti nella funzionalità mitocondriale e nella termogenesi tipica degli adipociti bruni. Tra gli attivatori del simpatico distinguiamo gli agonisti β3-adrenergici e i neuropeptidi segnale endogeni. La somministrazione cronica di agonisti β3-adrenergici (come per esempio le molecole sintetiche BRL 26830A, CGP-12177 oppure CL-316243) stimola l’espressione di UCP1 e la comparsa, nelle masse di WAT, di adipociti beige con caratteristiche strutturali estremamente affini a quelle degli adipociti bruni (elevata densità di mitocondri, divisione multiloculare dei depositi lipidici) (Pico et al., 1998). I recettori β3 della norepinefrina sono presenti esclusivamente nel tessuto adiposo (Cannon e Nedergaard, 2004) e quindi rivestono un ruolo determinante anche nella stimolazione della lipolisi; essi sono diffusi e attivi principalmente nei depositi omentale, mammario e sottocutaneo (Wajchenberg, 2000). I neuropeptidi più importanti nella stimolazione centrale del sistema simpatico sono la leptina (LEP), il peptide TLQP-21 derivante dal nerve growth factor inducible (VGF) e il fattore neurotrofico cerebrale (BDNF, brain-derived neurotrophic factor). La leptina è una proteina sintetizzata esclusivamente nel WAT (Wajchenberg, 2000) in risposta a un incremento dell’introduzione di alimenti e la sua produzione è positivamente regolata da diete ricche in carboidrati e lipidi e povere di proteine (Cannon e Nedergaard, 2004). La leptina è attiva a livello centrale, dove stimola una pathway con effetto positivo sui nervi simpatici. Interagendo con i propri recettori nel SNC a livello ipotalamico (nucleo arcuato e nucleo ventromediale), la leptina stimola la produzione di melanocortina (MSH, melanocyte-stimulating hormone) che, a sua volta, interagisce con i recettori di tipo 4. Questa interazione è probabile che dia luogo alla liberazione del fattore di rilascio della corticotropina ipotalamica (CRH, corticotropin releasing hormone), il quale stimola il rilascio di norepinefrina a livello delle sinapsi del simpatico (Cannon e Nedergaard, 2004). Nell’adipocita, la leptina è attiva anche come fattore che regola positivamente la produzione di recettori β3-adrenergici; inoltre, l’incubazione in vitro di adipociti bianchi in presenza di leptina produce come effetto un aumento della sintesi dei fattori di trascrizione quali il peroxisome proliferator-activated receptor gamma coactivator 1α (PGC-1α) e il PPARα, che sono fondamentali nell’attivazione della trascrizione di UCP1 e altri geni coinvolti nella termogenesi disaccoppiata (Scarpace e Matheny, 1998; Commins et al., 1999). Il TLQP-21 e il BDNF sono attivi nella stimolazione dell’espressione di UCP1 e di altri geni chiave selettivamente negli adipociti bianchi piuttosto che in quelli bruni (Bartolomucci et al., 2006; Cao et al., 2011, During et al., 2015). 77 SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 I farmaci attivi sul metabolismo centrale della serotonina possono produrre un effetto di stimolo del SNS. La serotonina prodotta dal nucleo del rafe dorsale è attiva sul nucleo ventromediale, quindi la stimolazione serotoninergica di questa area è coinvolta nel processo di normale reclutamento degli adipociti bruni e, possibilmente, anche nel fenomeno di imbrunimento. Inoltre, questa pathway serotoninergica è coinvolta nella regolazione della sazietà, per cui si evidenzia un doppio effetto anti-obesità: uno di stimolazione della funzionalità del BAT e uno di riduzione dell’ingestione di alimenti. Studi su topi hanno dimostrato che gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (come ad es. la sibutramina) e i farmaci stimolanti il rilascio centrale di serotonina hanno, quindi, un effetto diretto sulla stimolazione della funzionalità del BAT (Cannon e Nedergaard, 2004). L’espressione dell’enzima cicloossigenasi 2 (COX2) e la conseguente produzione di prostaglandine nel WAT sono processi chiave nell’espressione di UCP1 a valle della stimolazione adrenergica dell’adipocita. COX2 è stimolata, nel WAT, dall’esposizione cronica al freddo e dalla somministrazione di agonisti β3-adrenergici. All’aumento della produzione di prostaglandine negli adipociti bianchi consegue una stimolazione dell’imbrunimento e un aumento del dispendio energetico. Le prostaglandine PGE2 e PGI2 agiscono sia attraverso l’attivazione di specifici recettori di membrana accoppiati a proteine G stimolanti che attraverso il legame con i recettori nucleari PPAR, direttamente coinvolti nella trascrizione di UCP1 (Madsen et al., 2010). I peptidi natriuretici cardiaci sono due ormoni (peptide natriuretico atriale, ANP, e peptide natriuretico ventricolare, BNP) che controllano l’omeostasi dei fluidi e l’emodinamica. Essi abbandonano il torrente circolatorio tramite il recettore C dei peptidi natriuretici (NPRC). In studi su topi in cui il gene per il NPRC è stato disattivato (Lo e Sun, 2013), si è riscontrato che i peptidi natriuretici stimolano l’imbrunimento del WAT attraverso una cascata di trasduzione di segnale parallela a quella indotta dalla norepinefrina: infatti, mentre la stimolazione adrenergica attiva in modo cAMPdipendente l’enzima PKA, i recettori dei peptidi natriuretici cardiaci sono accoppitati, tramite proteina G stimolante, all’enzima guanilato ciclasi che, producendo guanilil monofosfato ciclico (cGMP, cyclic guanylyl monophosphate), stimola l’enzima protein chinasi G (PKG, protein kinase G) ad attivare le varie pathway di trasduzione del segnale, generalmente attivate da PKA, tra cui la cascata della MAPK p38. L’effetto di questi peptidi è quindi additivo a quello della stimolazione adrenergica (Bordicchia et al., 2012). L’imbrunimento degli adipociti bianchi può essere anche favorito da ligandi agonisti del PPARγ (come il rosiglitazone) e del PPARα (come il bezafibrato). Gli agonisti del PPARγ stimolano la biogenesi dei mitocondri in una conformazione ricca di creste, la sovraespressione di UCP1 e altri geni coinvolti nel catabolismo lipidico e la multilocularizzazione dei depositi adiposi nell’adipocita bianco. Il meccanismo d’azione di questi ligandi è correlato alla capacità 78 di PPARγ di stabilizzare il fattore PRDM16 e indurre l’espressione di PGC-1α. I ligandi di PPARα sono attivi nella stimolazione di PRDM16 e di PGC-1α, nonché nella genesi dei mitocondri e nell’induzione della lipolisi. Inoltre, questi agonisti sono responsabili di un incremento dell’espressione di UCP1 negli adipociti bianchi, ma non in quelli bruni (Cabrero et al., 2001; Sell et al., 2004). Gli ormoni tiroidei hanno un effetto diretto sull’espressione di UCP1, in quanto l’ormone T3, legandosi ai recettori b degli ormoni tiroidei, interagisce a sua volta con un elemento del promotore del gene UCP1, incrementandone l’espressione (Cannon e Nedergaard, 2004). La stimolazione di UCP1 da parte degli ormoni tiroidei è indipendente dalle pathways attivate dalla norepinefrina e i due percorsi partecipano sinergicamente all’aumento dell’espressione di UCP1. Nonostante ciò, la stimolazione adrenergica partecipa indirettamente alla pathway degli ormoni tiroidei in quanto la norepinefrina attiva l’enzima DIO2, che nell’adipocita converte l’ormone T4 in T3. DIO2 è indotto, quindi, dalla stimolazione adrenergica, mentre è fortemente inibito dal proprio substrato, ovvero T4 (Bonet et al., 2013). Tuttavia, mentre in vitro il trattamento con T3 stimola l’attività degli adipociti bruni e l’imbrunimento di quelli bianchi, non ci sono evidenze di tale effetto del trattamento con T3 in vivo (Lee et al., 2012). La molecola 5-aminoimidazolo-4-carbossiamide ribonucleoside (AICAR) è un composto in grado di attivare e prolungare l’azione della protein chinasi attivata dall’AMP (AMPK), un enzima che partecipa all’espressione delle proteine correlate alla funzionalità del BAT e all’imbrunimento del WAT tramite l’attivazione del PGC-1α attraverso processi di fosforilazione e deacetilazione (Gaidhu et al., 2011). FATTORI ENDOCRINI MUSCOLARI Nel processo di imbrunimento del WAT possono essere anche coinvolte le miochine, fattori prodotti e secreti dai muscoli scheletrici; tra queste rivestono notevole importanza l’irisina e l’acido β-aminoisobutirrico (BAIBA). L’irisina è un peptide che deriva da un taglio proteolitico della proteina fibronectin type 3 domain-containing protein 5 (FNDC5e) il cui rilascio nel sangue è strettamente legato all’espressione di PGC-1α (Kammoun e Febbraio, 2014). Questa proteina ad azione ormonale è responsabile dei benefici dell’esercizio fisico sulla riduzione del grasso corporeo, in quanto ha un effetto protettivo contro l’obesità indotta dalla dieta e la resistenza all’insulina (Lo e Sun, 2013). L’irisina è selettivamente attiva sulle cellule bianche, quindi l’espressione genica degli adipociti bruni non viene alterata dalla sua azione. Negli adipociti non è stato ancora individuato un recettore selettivo per l’irisina, ma sembra che tale proteina espleti il suo effetto anti-obesità incrementando l’espressione del PPARα (Boström et al., 2012). L’acido β-aminoisobutirrico (BAIBA) è una miochina liberata dal muscolo scheletrico all’atto della contrazione del sarcomero. Essa deriva dal metabolismo della valina e del- SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE la timina e la sua concentrazione cresce proporzionalmente all’espressione di PGC-1α nel miocita. Il BAIBA circolante produce effetti sugli adipociti bianchi, in quanto ne stimola il fenomeno dell’imbrunimento andando ad attivare l’espressione di proteine quali UCP1 e Cell death activator (CIDEA), e sugli epatociti, nei quali viene stimolato il processo di β-ossidazione degli acidi grassi. Gli effetti del BAIBA quindi possono condurre a un differenziamento di cellule adipose bianche verso una linea brite e a una riduzione del grasso corporeo tramite l’attivazione del metabolismo epatico, che potrebbe avere potenziali benefici nel trattamento della steatosi epatica (Roberts et al., 2014). Il meccanismo d’azione del BAIBA non è stato ancora del tutto spiegato, ma sembra essere dipendente dall’espressione del PPARα sia negli adipociti che negli epatociti, in quanto studi su topi nei quali il PPARα è stato antagonizzato farmacologicamente o disattivato a livello genico non sono stati riscontrati i benefici del BAIBA (Kammoun e Febbraio, 2014). ALTRI FATTORI Il fattore di crescita dei fibroblasti 21 (FGF21) è una proteina coinvolta nella regolazione del metabolismo epatico dei lipidi, nell’omeostasi della glicemia e nella funzionalità delle cellule β del pancreas. Viene sintetizzato prevalentemente dal fegato, ma in risposta all’esposizione alle basse temperature e alla stimolazione β-adrenergica è espresso anche nei depositi di BAT e negli adipociti bianchi in via di imbrunimento. Il meccanismo d’azione del FGF21 è strettamente dipendente dall’espressione del PGC-1α ed incide direttamente sull’espressione del PGC-1α stesso e dell’UCP1 (Lo e Sun, 2013). Inoltre, i suoi effetti sono più marcati nei depositi sottocutanei di WAT (Fisher et al., 2012). L’espressione di FGF21 è up-regolata non solo nel WAT sensibile all’imbrunimento, ma anche nei muscoli scheletrici e è presente nel siero; ciò suggerisce un ruolo sistemico di FGF21 nella regolazione dell’omeostasi energetica (Lo e Sun, 2013). Nella classe dei fattori morfogenetici dell’osso, il membro 7 (BMP7, bone morphogenetic protein 7) è strettamente necessario allo sviluppo e al corretto funzionamento del BAT, in quanto è necessario per il reclutamento di cellule staminali mesenchimali verso la linea di adipociti bruni (Lo e Sun, 2013). Esso infatti influisce sull’espressione di PRDM16, UCP1 e PGC-1α e stimola la genesi dei mitocondri tramite pathways dipendenti dal PGC-1α stesso, dalla MAPK p38 e da ATF-2 (activating transcription factor 2). I risultati riguardanti l’effetto del BMP7 circa l’imbrunimento del WAT sono discordanti, in quanto alcuni Autori hanno riscontrato un aumento della funzionalità del BAT, ma nessun fenomeno di imbrunimento di adipociti bianchi, mentre altri Autori hanno osservato un effetto sinergico dell’attività del BMP7 sulla stimolazione β-adrenergica nell’induzione dell’imbrunimento del WAT (Bonet et al., 2013). In ulteriori studi invece è stato evidenziato come l’ablazione del gene codificante per il recettore del BMP7 porti a una riduzione del BAT, ma ciò innesca dei meccanismi compensativi di imbrunimento del WAT (Lo e Sun, 2013; Schulz et al., 2013). FATTORI NUTRIZIONALI Le abitudini alimentari rivestono un ruolo cruciale nello sviluppo del tessuto adiposo in ogni fase della vita di un organismo. La suscettibilità di un animale a sviluppare obesità e altre dismetabolie, tra cui spicca il diabete mellito e la sindrome metabolica, può essere determinata prima della nascita. Infatti, lo stato nutrizionale della madre incide sulla programmazione delle cellule che daranno origine, nella prole, agli adipociti bianchi, bruni e brite. In particolare, episodi di malnutrizione della madre durante la gravidanza incrementano il rischio dell’insorgenza di obesità e diabete nell’età adulta della prole. Ciò è provocato da un’alterazione della funzionalità endocrina degli adipociti e da una diminuzione dell’innervazione simpatica delle aree adipose, favorendo l’ipercellularità e l’accumulo, anche ectopico, di lipidi (Palou et al., 2013). Un altro fattore di rischio potenzialmente coinvolto in questo meccanismo è la sensibilità dell’animale in età neonatale allo sviluppo della resistenza alla leptina. In questa fase della vita, la leptina presente nell’animale deriva da fonti che sono più importanti della produzione endogena, quali il trasferimento placentare dalla madre durante la gestazione e l’assunzione di leptina attraverso il latte materno. Pertanto l’alimentazione della madre riveste un ruolo cruciale nella sensibilizzazione della prole allo sviluppo dell’obesità. Nel neonato, esiste un preciso momento in cui si ha un picco plasmatico di leptina che determina il corretto sviluppo dei circuiti ipotalamici che regoleranno per tutta la vita l’assunzione di cibo e il controllo del peso corporeo. Un’alterazione di questo picco ha conseguenze deleterie sul metabolismo dell’animale in età adulta, in quanto viene estremamente ridotto il livello di recettori ipotalamici per la leptina e l’insulina (Palou et al., 2013). Per quanto concerne il ruolo della dieta nell’imbrunimento del WAT in età adulta, è possibile riscontrare un effetto diretto sul trascrittoma dell’adipocita bianco sia della composizione della dieta che della presenza di particolari molecole nelle matrici alimentari (Colitti e Grasso, 2014). La riduzione dell’apporto di alcuni aminoacidi essenziali, come la metionina e la leucina, ha come conseguenza una riduzione del grasso addominale, l’attivazione del catabolismo dei lipidi nel BAT e l’aumento dell’espressione di UCP1 negli adipociti bianchi. Questi effetti sono prodotti da meccanismi d’azione diversi: la riduzione di metionina porta ad un aumento della stimolazione β3-adrenergica degli adipociti, mentre un limitato apporto di leucina induce un aumento della secrezione di CRH (corticotropin-releasing hormone, ormone rilasciante la corticotropina) da parte dell’ipotalamo che stimola la risposta simpatica (Hasek et al., 2010; Cheng et al., 2011). Diete ricche di lipidi e povere di proteine stimolano l’espressione di UCP1 nel BAT e potenziano il signaling della leptina, innescando un feedback positivo sulla funzionalità 79 SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 degli adipociti bruni. Nel WAT, invece, l’espressione di UCP1 è repressa con differenze specie-specifiche (Cannon e Nedergaard, 2004, Bonet et al., 2013). La vitamina A è coinvolta nei processi di imbrunimento del WAT e di attivazione e reclutamento di adipociti bruni mediante le sue diverse forme quali l’acido all-trans retinoico e la retinaldeide. Il primo di essi ha potenti effetti sul metabolismo degli acidi grassi, in quanto attiva la lipolisi e il tasso di ossidazione degli acidi grassi liberi, portando a una riduzione del contenuto lipidico degli adipociti; ovviamente viene anche influenzata l’espressione genica delle proteine interessate in questi metabolismi (inclusa la UCP1), che risultano essere sovraespresse. La retinaldeide può espletare queste funzioni sia previa conversione in acido all-trans retinoico che in assenza di modificazioni strutturali. L’azione stimolante della retinaldeide è sinergica a quella dell’acido all-trans retinoico. Paradossalmente il β-carotene, che è il precursore naturale degli analoghi della vitamina A, ha un effetto opposto a quello dei retinoidi sul metabolismo dei lipidi negli adipociti, in quanto favorisce l’ipertrofia degli adipociti bianchi e la regressione di quelli bruni e brite (Bonet et al., 2003; Kiefer et al., 2012). La capsaicina è una delle molecole responsabili del sapore piccante del peperoncino; i suoi analoghi non piccanti rientrano nella famiglia dei capsinoidi. Sia la capsaicina che i capsinoidi sono composti anti-obesità con effetto agonista sulla norepinefrina. Essi infatti, oltre a stimolare il rilascio di catecolamine dalle ghiandole surrenali, si legano a dei recettori specifici presenti nel WAT e nel tratto gastrointestinale, i TRPV1 (transient receptor potential vanilloid type-1). L’attivazione di questi recettori favorisce la termogenesi attraverso la stimolazione dell’innervazione vagale afferente e di quella simpatica efferente (Zhang et al., 2007; Yoneshiro et al., 2012). La fucoxantina è un carotenoide delle alghe brune dotato di effetto anti-obesità. L’accumulo dei suoi metaboliti nel WAT stimola l’imbrunimento degli adipociti bianchi attraverso l’attivazione di UCP1 e di altri geni correlati al catabolismo dei lipidi e l’aumento della sensibilità degli adipociti alla stimolazione simpatica. L’effetto è specifico sugli adipociti bianchi, in quanto le cellule del BAT non vedono alterata l’espressione dei propri geni (Maeda et al., 2005). Il consumo di olio d’oliva aumenta il consumo di ossigeno complessivo dell’organismo e l’espressione delle isoforme di UCP nei diversi tessuti, compreso il grasso. Nello specifico, i composti dell’olio d’oliva attivamente coinvolti nella funzionalità degli adipociti e nel processo di imbrunimento sono l’oleuropeina e l’acido oleico. L’oleuropeina aumenta l’espressione di UCP1 negli adipociti bruni e la secrezione di catecolamine (Oi-Kano et al., 2008). L’acido oleico contribuisce moderatamente alla riduzione del peso corporeo e dell’assunzione di alimenti, senza però influire sull’espressione di UCP1 nei vari tipi di adipocita. L’acido 2-idrossioleico è un derivato sintetico dell’acido oleico e, rispetto a quest’ultimo, è più attivo nella riduzione del peso corporeo 80 e, inoltre, contribuisce all’aumento dell’espressione di UCP1 negli adipociti bianchi, favorendone l’imbrunimento. Questo effetto è ottenuto tramite il potenziamento della pathway del cAMP/PKA (Oi-Kano et al., 2007; Vogler et al., 2008). L’idrolisato di proteine del salmone (SPH, salmon protein hydrolysate) è una fonte di proteine ricche in glicina e taurina che aumenta il livello plasmatico di acidi biliari, i quali contribuiscono a migliorare la resistenza all’obesità derivata da una dieta iperlipidica. Gli acidi biliari aumentano l’espressione di diversi geni coinvolti nel metabolismo lipidico e nella funzionalità del BAT, compresi UCP1 e DIO2, sia negli adipociti bianchi che in quelli bruni. L’azione di questi composti si espleta tramite l’attivazione di un recettore di membrana (TGR5) accoppiato a proteina G e all’enzima adenilato ciclasi che, a sua volta, attiva le numerose pathway di trasduzione del segnale. Questi segnali regolano l’espressione di UCP1 e altri geni coinvolti nel disaccoppiamento e nell’imbrunimento del WAT (Liaset et al., 2011). I coniugati dell’acido linoleico sono in grado di ridurre il peso corporeo e la massa di tessuto adiposo; tra questi, la molecola più attiva è l’isomero trans-10, cis-12 dell’acido linoleico. Tra gli effetti di queste molecole si osservano: aumento dell’apoptosi degli adipociti bianchi, calo della lipogenesi e del differenziamento dei pre-adipociti e incremento dell’ossidazione degli acidi grassi. Inoltre, si sono osservati marcati effetti anche sull’espressione di UCP1 nel WAT (ma non nel BAT) e di geni correlati ad un fenotipo ossidativo. L’azione dei coniugati dell’acido linoleico è indipendente dalla stimolazione β3-adrenergica degli adipociti (House et al., 2005). Il resveratrolo è un polifenolo che ha la capacità di attivare l’AMPK andando ad interferire sulla respirazione cellulare, provocando un disequilibrio tra AMP e ATP. Anche altri geni a valle di AMPK sono attivati dal resveratrolo (Lagouge et al., 2006) e l’effetto globale di questa stimolazione è un aumento della resistenza all’obesità e all’insorgenza del diabete. Nel WAT viene inibita l’adipogenesi e aumenta l’espressione della lipasi (con un conseguente aumento della mobilizzazione degli acidi grassi) e la modulazione del PPARγ (Alberdi et al., 2011). Tra gli acidi grassi essenziali omega 3, i più importanti sono l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaexaenoico (DHA). La loro azione anti-obesità si riflette in una modulazione del metabolismo in diversi tessuti, incluso il BAT, nel quale viene incrementata l’espressione di UCP1. A livello di WAT si assiste invece ad un aumento della stimolazione della β-ossidazione degli acidi grassi e dell’espressione dei geni coinvolti nelle pathways ossidative mitocondriali. In seguito alla somministrazione di EPA e DHA, nel grasso bianco si ha la sovraespessione del gene PGC-1α; tuttavia, l’espressione di UCP1 non viene direttamente influenzata negli adipociti bianchi dagli acidi grassi essenziali. La modulazione dell’espressione genica indotta dagli acidi omega 3 è mediata dall’interazione diretta con gli adipociti e dal loro legame con i fattori di trascrizione del gruppo PPAR. Gli effetti di queste molecole, infatti, sono SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE Fig. 2. Segnali endogeni (riquadro marrone), fattori endocrini (riquadro azzurro), fattori nutritivi (riquadro verde) e recettori (riquadro viola ombreggiato) che stimolano la trasfomazione dell’adipocita bianco in beige (BDNF: fattore neurotrofico cerebrale; TLQP-21: peptide 21 derivante dal VGF; β3AR: recettore β3-adrenergico; SSRI: inibitori selettivi del reuptake della serotonina; BMP7: fattore morfogenetico dell’osso 7; NPRA: recettore A dei peptidi natriuretici cardiaci; FGF21: fattore di crescita dei fibroblasti 21; GPCR: recettore accoppiato a proteina G; BAIBA: acido β-aminoisobutirrico; TGR5: recettore accoppiato a proteina G specifico per gli acidi biliari; cAMP: adenosina monofosfato ciclica; PKA: protein chinasi A; p38 MAPK: protein chinasi p38 attivata da mitogeni; cGMP: guanosina monofosfato ciclica; PGC-1α: coattivatore 1α del PPARγ; UCP1: proteina disaccoppiante 1; COX2: cicloossigenasi 2). molto simili a quelli indotti dalla somministrazione di agonisti farmacologici del PPARα e del PPARγ (Buckley e Howe, 2010). Un altro fattore nutrizionale di interesse è la polvere della conchiglia di capasanta, o pettine di mare, la quale è composta per il 98-99% da carbonato di calcio, mentre per l’1-2% da composti organici, specialmente complessi glicoproteici. Questa frazione organica della polvere stimola la lipolisi e regola l’espressione di UCP1 negli adipociti bianchi, ma non in quelli bruni (Liu et al., 2006). Le diverse pathways cellulari che comportano l’imbrunimento del WAT sono riassunte in Figura 2. TESSUTO ADIPOSO BIANCO COME ORGANO ENDOCRINO Alla funzione di serbatoio di substrati ad alto valore energetico come colesterolo, trigliceridi e vitamine liposolubili, al tessuto adiposo è stata affiancata la funzione di organo endocrino in grado di rilasciare una serie di sostanze di bioattive note come adipochine. Esse si associano al ruolo dell’adipocita nell’omeostasi energetica e contribuiscono a determinare le maggiori complicanze che accompagnano l’obesità (Trayhurn e Beattie, 2001). Oltre alla nota leptina, l’adiponectina è uno dei geni più attivamente espressi negli adipociti maturi, rilevata in quantità significativamente maggiori nel grasso sottocutaneo rispetto a quello viscerale (Fain et al., 2004). E’ stato messo in luce che la funzionalità mitocondriale delle cellule adipose sia essenziale per la sintesi e la secrezione dell’adiponectina. L’ormone viene rilasciato nel circolo sanguigno e rappresenta circa il 0,01% di tutte le proteine del siero (Berg et al., 2002). I suoi effetti biologici però non dipendono solamente dalle relative concentrazioni in circolo, ma anche dall’espressione tessuto-specifica dei suoi recettori (FischerPosovszky et al., 2007): AdipoR1 e AdipoR2 (Yamauchi et al., 2003). L’adiponectina circolante sensibilizza l’organismo all’insulina stimolando la fosforilazione e l’attivazione della proteina chinasi attivata da AMP ciclico che regola il metabolismo energetico. I suoi livelli circolanti sono ridotti nell’obesità a differenza delle altre adipochine. Alti livelli di adiponectina sono presenti in individui magri, mentre la sua espressione è sottoregolata in adipociti non funzionali come in organismi obesi (Ouchi et al., 2011). La proteina legante il retinolo (RBP4) è una proteina specifica per il trasporto in circolo del retinolo (vitamina A) e livelli plasmatici elevati sono stati osservati in diversi modelli animali di obesità ed insulino-resistenza (Abel et al., 2001). La visfatina, originariamente identificata nel grasso viscerale come pre-B cell colony-enhancing factor (PBEF) prodotto dal midollo osseo, dal fegato e dal muscolo, sembra essere specifica dei depositi adiposi addominali, infatti la sua concentrazione plasmatica è correlata con il grado di obesità addominale (Fukuhara et al., 2005). Questo ormone è sovraregolato durante la differenziamento adipogenica e i suoi livelli plasmatici aumentano durante lo sviluppo dell’obesità. La visfatina ha effetti simili a quelli dell’insulina in cellule in coltura e pare attivi il recettore insulinico legandolo in un 81 SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 punto distinto da quello dell’insulina. L’effetto si tradurrebbe come un’attivazione delle pathways regolate dall’insulina attraverso un nuovo meccanismo di sensibilizzazione. Il tessuto adiposo è importante sede di produzione di angiotensinogeno e di angiotensina II. Livelli più elevati di mRNA per l’angiotensinogeno sono rilevabili nel tessuto adiposo di soggetti obesi in confronto a quello di soggetti normopeso, ed è rilevabile una correlazione positiva tra BMI e concentrazioni circolanti di angiotensinogeno (Van Harmelen et al., 2000). L’angiotensina II è noto essere un potente vasocostrittore e il rischio di ipertensione aumenta con il BMI. Si è dunque assunto che l’aumentata sintesi di angiotensinogeno possa contribuire all’ipertensione che così frequentemente si associa all’obesità. Inoltre, l’angiotensina II sembra esercitare effetti proinfiammatori nell’adipocita stimolando la produzione e secrezione di PAI-1, leptina, IL6, IL-8. e lo stress ossidativo (Skurk et al., 2004). L’11-idrossisteroidodeidrogenasi (11-HSD) è un enzima che amplifica l’azione locale dei glucocorticoidi, facilitando la conversione del cortisone inattivo a cortisolo. L’enzima è ben espresso nel tessuto adiposo umano, con attività maggiore nel tessuto omentale rispetto a quello sottocutaneo (Bujalska et al., 1999). L’aumentata attività di 11-HSD, che si osserva nell’obesità umana, si associa all’espansione del tessuto adiposo viscerale dovuta ad ipertrofia adipocitaria. Questo potrebbe essere uno dei meccanismi di reclutamento di nuovi adipociti; l’enzima, infatti, stimola il differenziamento degli adipociti grazie all’attività paracrina del cortisolo. Elevati livelli di 11-HSD determinano un aumento della concentrazione locale di cortisolo, che stimola la lipasi lipoproteica e la lipasi ormono-sensibile del tessuto adiposo con rilascio di acidi grassi liberi, contribuendo in parte all’alterato profilo metabolico e dell’insulino-resistenza propri dell’obesità addominale (Bittolo-Bon, 2008). L’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1) inibisce la produzione di plasmina e ostacola gli eventi da essa mediati come la fibrinolisi e la degradazione della matrice extracellulare. La maggiore sorgente di PAI-1 nelle persone obese è il tessuto adiposo e i livelli circolanti di PAI-1 correlano con il grado di obesità addominale. Gli adipociti sono in grado di secernere citochine anche se è stato dimostrato che le maggiori sorgenti di citochine nello stesso tessuto adiposo sono i macrofagi (Ouchi et al., 2011). Un sovraccarico di lipidi negli adipociti può iniziare uno stato di stress cellulare e un’attivazione delle vie di segnale dell’infiammazione, la quale porta a un’aumentata produzione di citochine proinfiammatorie adipocitarie quali le interleuchine 1, 6, 8, 10 (IL-1, IL-6, IL-8, IL-10), incluso il fattore di necrosi tumorale α (TNF-α), e molecole chemoattrattive, come la proteina chemoattrattiva monocitaria di tipo 1 (monocyte chemoattractant protein-1, MCP-1), il fattore inibitorio della migrazione macrofagica e l’interferone γ (Chung et al., 2006; Shoelson et al., 2006). E’ ormai noto, infatti, che l’obesità corrisponde ad uno stato di infiammazione di basso grado e che il tessuto adiposo viscerale è la sede patogenetica di molti dei disturbi correlati all’obesità 82 (Ouchi et al., 2011). L’infiltrazione monocitaria nel tessuto adiposo amplifica il processo flogistico ed è positivamente correlata con l'aumento del BMI. La resistina è un membro della famiglia delle molecole ricche di cisteina ed è associata all’attivazione dei processi infiammatori. Benché studi su animali modello dimostrino che la resistina promuova la resistenza all’insulina, tale evidenza nell’uomo è ancora poco chiara. Nel topo viene sintetizzata negli adipociti, mentre nell’uomo è prodotta principalmente dai macrofagi e monociti e non è misurabile negli adipociti. Nell’uomo la trascrizione del gene della resistina nei globuli bianchi mononucleari è indotta dalle citochine pro-infiammatorie (Steppan et al., 2001; Ouchi et al., 2011). Il BDNF fa parte della famiglia delle neurotrofine che include anche il nerve growth factor (NGF), la neurotrofina-3 (NT-3) e la neurotrofina-4/5 (NT-4/5). Il BDNF è diffuso sia a livello centrale che periferico. Sul sistema nervoso promuove lo sviluppo e il differenziamento neuronale, la modulazione della connessione sinaptica e la regolazione dei fenomeni di riparazione neuronale. Inoltre, il BDNF può modulare l’attività dell’asse ipotalamo-ipofisario (HPA), regolando il metabolismo energetico, il comportamento alimentare e quindi l’obesità (Noble et al., 2011). A livello ipotalamico l’espressione del BDNF è positivamente regolata dalla leptina, la cui secrezione invece viene inibita nell’adipocita dal BDNF (Cao et al., 2010). A livello periferico è stato identificato in diversi tessuti tra i quali il tessuto adiposo dove sembra svolgere un ruolo paracrino/autocrino nell’omeostasi del metabolismo lipidico (Chaldakov et al., 2009; Colitti et al., 2015). CONCLUSIONI Il ruolo di “riserva” del tessuto adiposo, unito al monotono aspetto morfologico tissutale e all’assenza del riconoscimento di una sede anatomicamente definita del tessuto, sono stati tra i motivi che hanno contribuito a far sì che in passato gli studi sul tessuto adiposo fossero molto scarsi. La scoperta della leptina nel 1994 ha avuto il merito di portare il tessuto adiposo in primo piano e di considerarlo non solo come un organo di riserva energetica, ma addirittura come un importante organo endocrino capace di interagire direttamente con centri encefalici. Inoltre, le più recenti evidenze che descrivono nell’uomo adulto aree di grasso bruno attive nella termogenesi e nel metabolismo ossidativo disaccoppiato alla produzione di energia e la possibilità di indurre l’imbrunimento del grasso bianco attraverso un’adeguata stimolazione, hanno aperto nuove prospettive terapeutiche per il trattamento dell’obesità e delle sue complicanze. Le attuali ricerche sono pertanto volte a identificare i fattori endogeni ed esogeni coinvolti in questo processo. Tra essi si annoverano fattori ormonali di origine nervosa e muscolare, farmaci attivi a molteplici livelli tra il sistema nervoso centrale e quello periferico, e molecole nutrizionali che possono espletare effetti analoghi a quelli dei farmaci regolando la sintesi delle proteine tipiche SCIENZE E RICERCHE • N. 37 • 15 SETTEMBRE 2016 | SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE del grasso bruno. La futura ricerca scientifica sarà volta a chiarire i meccanismi di azione dei vari fattori e, in base a tali conoscenze, implementare strategie terapeutiche innovative che possono contribuire a contenere la diffusione epidemica dell’obesità nel mondo e a ridurre la frequenza di mortalità associata alle dismetabolie e alle malattie cardiovascolari associate ad essa. BIBLIOGRAFIA Abel E.D., Peroni O., Kim J.K., Kim Y.B., Boss O., Hadro E., Minnemann T., Shulman G.I., Kahn B.B. (2001). 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