Don Carlo Gnocchi primo donatore d`organi in Italia

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Don Carlo Gnocchi primo donatore d'organi in Italia
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Il 25 ottobre 2009 si celebra a Milano in piazza del Duomo la Beatificazione di Don Carlo Gnocchi. In
questa pagina vogliamo raccontare l'ultimo atto d'amore di Don Carlo Gnocchi, la donazione delle cornee.
Don Carlo è stato il primo donatore d'organi d'Italia, quando, all'inizio dell'era dei trapianti, in Italia non
era stata ancora emanata una legge che consentiva la donazione. Donazione e trapianto furono effettuati
"illegalmente".
Don Carlo Gnocchi nasce a San Colombano al Lambro, presso Lodi, il 25 ottobre 1902, muore
prematuramente a 54 anni, martedì 28 febbraio 1956 presso la clinica Columbus di Milano dove era da
tempo ricoverato per una grave forma di tumore. L’ultima volontà di Don Carlo la Donazione delle cornee.
Lo aveva detto già un anno prima: "Se dovessi morire, voglio che cerchiate di dare i miei occhi a due dei
miei ragazzi. Mi restano solo gli occhi: anche questi sono per i miei mutilatini".
Ricorda Don Giovanni Barbareschi, amico fedele ed esecutore testamentario di Don
Gnocchi, che tre o quattro giorni prima di morire Don Carlo gli chiese: "Sei pronto a
rischiare la prigione per me? Io voglio dare la cornea. Se ti senti, vai a cercare un oculista,
che si tenga a disposizione. Se ti va male, sappi che andrai in galera per me".
Nei mesi precedenti l'evoluzione finale della malattia aveva incontrato nel Centro di
Inverigo un ragazzo cieco abruzzese. Don Carlo lo aveva subito notato e aveva avviato le
pratiche per trasferirlo e farlo operare in Svizzera, visto che in Italia i trapianti di cornea
non erano ancora possibili.
Sfidando la legge e le conseguenze, il doppio intervento fu eseguito dal
professor Cesare Galeazzi direttore del Pio Ospedale Oftalmico di Milano.
(oggi Fatebenefratelli) che ricorda nel suo diario: “Improvvisamente, una
domenica, (26 febbraio) le 2 del pomeriggio, suona il telefono. Era una
suora della clinica Columbus: «Professore venga subito, Don Carlo ha
chiesto di lei». Quando lo vidi, lui giaceva nel letto, sotto la tenda ad
ossigeno, il viso esangue, le belle mani stanche e bianche: «Cesare, ti
chiedo un grande favore, non negarmelo: fra poche ore io non ci sarò più:
prendi i miei occhi e ridona la vista a uno dei miei ragazzi, ne sarei tanto
felice. Parti subito per Roma: là nella mia casa c'è da pochi giorni un bel
ragazzo biondo e poi forse anche un altro, mi hanno detto che un trapianto
di cornee potrebbe farli rivedere, avrei già dovuto parlartene, parti subito,
promettimelo, io ti ringrazio. Addio...». Non dimenticherò mai quegli attimi
di stravolgente commozione: non ricordo nemmeno che cosa dissi, so che
piangevo e so che promisi. Ricordo che lo baciai in fronte. Uscii frastornato,
pieno di paura per l'incombente gravoso impegno così solennemente
assunto. Non sapevo nulla di questo ragazzo, ero spaventato e commosso.
Partii subito per Roma angosciato dal dubbio. Se l'intervento, ove possibile, non mi fosse riuscito? Avrei
fatto in tempo a rientrare da Roma con il ragazzo? Don Carlo palesemente agonizzava. La mattina dopo
(27 febbraio), di buon ora, sono alla casa dell'Opera di Don Carlo; chiedo del ragazzo, stentano ad
individuarlo, poi lo riconoscono in Silvio Colagrande, di 12 anni. Me lo portano in osservazione: esiti di
ustione gravissima, cornee opache in misura sub-totale; certo un caso molto difficile, ma ancora in limiti di
operabilità. Mi sento già più tranquillo. Dispongo per l'immediata partenza per Milano del giovane e
richiamo l'ospedale affinché tutto sia pronto per operare in qualsiasi momento. Preannuncio il mio rientro,
con la notizia che ormai è già di pubblico dominio. Del resto, fin dal mio arrivo a Roma ero stato aggredito
da giornalisti e fotografi.
Poco prima di ripartire (28 febbraio) mi giunge la triste, ma purtroppo attesa notizia: Don Carlo è spirato.
Eterno, ansioso viaggio di ritorno: quasi sgomento pensavo alla prova che mi aspettava: come un
principiante andavo ripetendomi i tempi dell'intervento. Ma se il colpo di trapano, per il prelievo del disco
da innestare, per l'emozione non mi fosse riuscito? E tutti quei vasi sulla cornea? Ci sarà emorragia? Il
lembo resterà trasparente? Pensavo al mio aiuto, il dottor Mario Celotti, che in quel momento stava
prelevando i bulbi dal volto spento di Don Carlo e ringraziavo Dio per le circostanze che mi avevano
risparmiato il compito. Ero preoccupato per l'esito dell'intervento. Poi, a tratti, mi rasserenavo e dicevo:
"Don Carlo mi aiuterà". Successivamente venni a sapere delle difficoltà frapposte a Celotti dalla polizia, a
causa della legge italiana di allora, che non permetteva il prelievo di cornee da un defunto. All'uscita dalla
clinica la sua auto fu per un tratto seguita da quella della polizia, che poi fece volutamente finta di
perderla.
La mattina dopo (29 febbraio), nel momento di eseguire l'intervento, mi sentivo stranamente tranquillo:
all'angoscia era succeduta una sorte di fredda determinazione. Ad un impegno assunto con un “santo”
agonizzante non v'erano alternative ed era in me, lo confesso, anche una punta di orgoglio. Per il secondo
trapianto era pronta una giovane ragazza, Amabile Battistello di 17 anni, l'unica resasi disponibile il giorno
prima. Arrivo in ospedale, vedo i giornalisti fermi all'ingresso e li evito entrando dall'ambulatorio. La
camera operatoria è pronta: vi è un silenzio particolare, è una giornata diversa. L'induzione, l'anestesia.
«Può cominciare, professore...», la voce amica di Laura, la mia anestesista. Sono sereno: i tempi
preliminari evolvono senza complicazioni e arriviamo al momento cruciale. Un attimo, ma solo un attimo di
commozione: ho nelle mani e ancora fisso l'occhio azzurro di Don Carlo che non c'è più. Ma mi aiuta, la
mano non trema, il giro di trapano è sicuro. L'insediamento della cornea risulta facile: la pupilla è
centrata, il cristallino perfettamente trasparente, il ragazzo vedrà. Anche il secondo trapianto non subì
complicazioni. Il lembo innestato venne protetto da un dischetto di pelle d'uovo sterilmente preparato e
tenuto in sito da due anse di filo incrociato. Il decorso post-operatorio fu ottimo per entrambi i pazienti,
avvolto solo da un clima di grande clamore per quanto era avvenuto."
Ricorda Silvio Colagrande, operato all'occhio sinistro, rimasto legato a Don
Gnocchi e alla fondazione, oggi direttore dell'istituto di Inverigo: "Avevo perso
quasi completamente la vista all’età di sette anni: uno zampillo di calce viva mi
aveva colpito agli occhi mentre stavo giocando, causando un’ustione gravissima
con la compromissione della cornea. Poi, al centro Pro Juventute che don Carlo
aveva aperto a Roma, avevo imparato il linguaggio Braille, nell’attesa di un
trapianto possibile soltanto all’estero. Il 27 febbraio 1956, vigilia del giorno della
morte di Don Gnocchi, tutti i suoi alunni non vedenti furono chiamati per una
visita oculistica. Quando entrai nell’ambulatorio, riconobbi la voce del professor
Galeazzi. Dopo la visita mi fu semplicemente detto che occorreva andare a
Milano, destinazione l’Istituto Oftalmico. Non mi dissero altro. Mi resi conto di quanto mi era accaduto
soltanto il giorno dopo, al risveglio dall’anestesia: ricordo che ero completamente bendato e un peso mi
circondava la testa (che era tenuta ferma da un cuscino di sabbia legato dietro al collo). Sentivo la voce
dell’infermiera che mi raccomandava di restare immobile. Rimasi così per cinque giorni e cinque notti,
vegliato dalle due infermiere Renata e Gina, perché anche nel sonno non facessi bruschi movimenti. Venne
in ospedale a trovarmi anche l’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, che poi divenne
Papa: la sua voce mi è sempre rimasta impressa. L’occhio operato riacquistò in breve sei decimi di
diottrie: rimasi però in ospedale alcuni mesi prima di essere dimesso e tornare ad Inverigo per riprendere
gli studi elementari. Questa volta, però, leggendo e scrivendo come tutti gli altri alunni."
Ricorda Amabile Battistello, operata all'occhio destro, “da bambina
accompagnata da uno zio, partivo dal mio paese, Cusano Milanino, per bussare
alla porta del professor Galeazzi affinché facesse qualcosa per ridarmi la vista.
Tutte le volte che tornavo là lui ripeteva sempre la medesima frase, quasi fosse
il ritornello di una triste filastrocca diventata col tempo anche noiosa: “Per
curare le lesioni corneali come la tua, serve un trapianto, ma i tempi non sono
maturi e la scienza è ancora indietro, abbi pazienza e fidati di me, un giorno lo
faremo e tu guarirai” mi diceva con la sua voce pacata e sicura, dal tono
paterno. Poi il trapianto. Il giorno in cui mi tolse le bende dagli occhi e mi fece
guardare verso un luogo lontano, ed io individuai una finestra aperta, il professor Galeazzi pianse. Poi
accese un grosso registratore, azionò un pulsante e la voce debole e sofferente, ma serena, del mio
benefattore, incisa su un nastro dallo stesso professor Galeazzi, disse le frasi che non scorderò mai: “Cari
amis, ve raccomandi la mia baracca... ve la lasi; pusse d’inscì ho minga podù fa. E tu professor Galeazzi,
devi promettermi che alla mia morte prenderai questi occhi e li utilizzerai affinché due ragazzi possano
vedere, è tutto quello che mi resta da dare ancora!”. Era la sua voce, che per me non aveva ancora un
volto. Volli ascoltarla tante volte, fino ad imprimermi nella mente quel timbro sofferente ma deciso. Il
professor Galeazzi, nel risentirla insieme a me, più volte si asciugò le lacrime che gli scendevano sulle
gote. Fu così, senza che ci incontrassimo, senza che ci conoscessimo, che da quel giorno Egli camminò
insieme a me. Il professor Galeazzi gli disse il mio nome, me lo confermò lui stesso, ed a me sembrò già
un grande onore che un uomo così santo conoscesse quel poco di me."
La generosità di Don Carlo e l’enorme impatto che il trapianto ebbe sull’opinione pubblica impressero in
Parlamento un’accelerazione decisiva al dibattito. Infatti l'anno successivo venne varata la prima legge
italiana sulla Donazione e il trapianto di organi "Legge 3 aprile 1957, n. 235 Prelievo di parti del cadavere
a scopo di trapianto terapeutico".
Anche la riflessione etica e teologica - che ancora non aveva articolato una piattaforma di
indicazioni sulla materia della donazione degli organi, subì, un'accelerazione decisiva. Lo si
rileva dagli interventi di Papa Pio XII. L’elogio all’atto di Don Carlo che fece la domenica
successiva (4 marzo) all’Angelus e il discorso pronunciato ai clinici oculisti e ai medici
legali dell’Associazione dei Donatori di Cornea e dell’Unione Italiana Ciechi il 14 maggio
1956, “Il cadavere non è più, nel senso proprio della parola, un soggetto di diritto, perchè
è privo della personalità che sola può essere soggetto di diritto ... In generale non
dovrebbe essere permesso ai medici di intraprendere asportazioni su un cadavere senza
l’accordo di coloro che ne sono depositari .... Consentire espressamente o tacitamente a
seri interventi contro l’integrità del cadavere non offende la pietà dovuta al defunto, quando per questo
esistono valide ragioni”. (approfondimenti: il discorso di Pio XII, con i discorsi di Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI)
Amabile Battistello e Silvio Colagrande sono vivi e vedono con le cornee di Don Carlo.
Per realizzare questa pagina abbiamo raccolto le foto e le testimonianze dei protagonisti scritte e
pubblicate in periodi diversi e ancora oggi disponibili su vari siti.
La foto del Professor Galeazzi è per concessione della famiglia.
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