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Martedì 1 luglio 2008
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Lo sguardo oltre l’immagine
Marco Dinoi indaga nel suo saggio come raccontare la realtà senza farsi imbrigliare dai cliché
JACOPO NESTI
“La fine della storia”, concetto rilanciato
da Fukuyama nel 1992, è stato travolto.
L’accelerazione degli eventi su scala
mondiale lo ha spazzato via, insieme a
tutte quelle visioni teoriche incapaci di
aggiornare i propri schemi concettuali
dopo il crollo del Muro di Berlino, orfane
dell’Unione Sovietica e della contrapposizione dei “blocchi”.
Come purtroppo ci siamo resi conto, ormai da diversi anni la storia si è messa di
nuovo a correre. All’impazzata, sarebbe
anche il caso di dire con un pizzico d’ironia, visto l’impensabile evoluzione che
gli scenari geopolitici hanno fatto registrare nell’ultimo decennio, cogliendoci
più volte di sorpresa. A partire da un indolente pomeriggio di fine estate, quando improvvisamente ci siamo ritrovati
tutti di fronte agli schermi televisivi, increduli, ad assistere alla più imponderabile diretta televisiva catastrofica della
storia: l’11 settembre 2001. Un evento
che ha cambiato il mondo, e invaso l’immaginario collettivo come nessun altro,
tanto da essere definito da Karlheinz
Stockhausen «L’opera d’arte più grande
mai esistita».
Abitanti di New York a parte, la scintilla
che ha riacceso il motore tragico della
storia è stata vissuta dal resto del mondo
attraverso la mediazione dei mezzi di comunicazione, televisione in testa. Infatti,
l’11 settembre è stato anche un potentissimo tzunami mediatico che attraverso
l’etere ha inondato dell’immagini della
tragedia tutti i telespettatori del globo.
Soltanto questo aspetto ha fatto sgorgare, dall’immagine del World Trade Center colpito a morte, fiumi d’inchiostro
che si sono diramati in ogni direzione, a
colmare di senso, o della sua ricerca,
ogni anfratto, ogni fessura della nostra
curiosità, interesse o perplessità in relazione al ruolo dei media nel racconto del
disastro. La riflessione critica, teorici dei
media in prima fila, si è subito rivolta a
questa analisi per comprendere come le
immagini dell’impatto, delle torri fumanti e del loro crollo abbiano flirtato con la
nostra percezione dell’evento, della realtà che si stava compiendo sull’isola di
Manhattan, e come abbiano partecipato
alla sua costruzione cognitiva. Per capirne, in definitiva, quali siano state tutte le
implicazioni e conseguenze, nella consapevolezza di quale importanza e influenza i mezzi di comunicazione hanno nelle
società contemporanee.
In questo filone d’indagine si inserisce
anche il saggio di Marco Dinoi, Lo sguardo e l’evento (da poco pubblicato per Le
Lettere, 324 pagine, 25 euro) che appunto ritorna sull’attacco alle Twin Towers
per esaminarne i risvolti mediatici.
In particolare l’autore è interessato alle
questioni che si articolano intorno al rapporto fra realtà e rappresentazione mediatica, fra l’evento e la sua immagine,
per capire come sia possibile darne testimonianza visiva senza che questa tradi-
La bellezza di un panorama dipende
dall’accordo estetico delle parti che lo
compongono. Ogni singolo albero, costruzione o ponte vi concorre in maniera decisiva, svolgendo un ruolo importante per creare quella particolare
armonia compositiva che tanto ci impressiona. Certo l’occhio è attratto dalla cattedrale con il campanile svettante, o dall’elegante palazzo cittadino,
ma anche questi singoli elementi traggono parte della loro bellezza dalle
relazioni architettoniche che instaurano con il contesto, con quegli edifici
ritenuti minori, che tuttavia contribuiscono ad arricchire con la propria singolare figura l’insieme generale. Chi
dipinge un panorama conosce bene
questa regola, e dunque dedica ai soggetti cosiddetti secondari la stessa attenzione usata per quelli principali,
convinto che ciascuno di essi risulterà
prezioso per la riuscita della rappresentazione.
Nel volume “Artisti pistoiesi del XXI
secolo” (Edizioni Pegaso, 112 pagine)
il curatore Fabrizio Borghini sembra
appunto ispirarsi allo stesso criterio
per costruire la sua visione d’insieme
sull’arte nella città di Pistoia. E’ il panorama ad interessarlo, non i singoli
artisti. Tenerli assieme in un unico luogo, abbracciarli nello stesso sguardo,
sca la complessità del fatto che intende
raccontare. Ovvero, parafrasando il sottotitolo di un noto libro di Jean Baudrillard, che l’immagine non uccida la realtà.
Inoltre, l’autore è interessato ad indagare quali possano essere le «strategia di
resistenza» che la cultura può attuare per
offrire uno sguardo meno afflitto dal vizio della banalizzazione mediatica.
Partendo dall’affermazione «sembra un
film», comune e diffusa reazione di fronte all’immagine del disastro, l’autore rileva come la finzione cinematografica del
filone catastrofista sia stata assunta dagli
spettatori come cornice concettuale di riferimento per avere delle risposte coerenti con la propria esperienza.
Attraverso di essa cercherebbero di attenuare la carica traumatica della realtà in
corso, di rendere più comprensibile e
metabolizzabile, sia da un punto di vista
cognitivo che emotivo, i contorni inammissibili della tragedia in atto. Il riferimento alla dimensione finzionale sarebbe inoltre il sintomo di un ampliamento
del verosimile verso i territori dell’immaginario virtuale di cinema e videogiochi.
Ampliamento che, da un altro lato, testimonia come la realtà veicolata attraverso
i mezzi di comunicazione, soprattutto
quelli legati all’uso dell’immagine, tenda
a perdere alcuni tratti caratteristici della
sua esperienza diretta. In particolare ne
risulterebbe alterata la subordinazione
della rappresentazione all’oggetto rappresentato, facendo registrare un’inversione dove l’immagine mediatica anticipa la sua fonte che rimane appiattita dietro di essa, senza alcuna possibilità di
raccontare una verità altra. Tuttavia – secondo l’autore – questa, entro certi limiti, non è una tendenza ineluttabile, e
menziona come una parte minoritaria
ma importante del cinema contemporaneo abbia sperimentato, nelle proprie
opere, una certa distanza fra l’occhio e
l’oggetto, in grado di attenuare l’ipertrofia dei cliché, con il loro effetto negativo
di far aderire la cosa al suo simulacro,
fino al punto di farla sparire dietro di
esso. L’evento e l’immagine devono invece rimanere – sempre secondo l’autore collegati ma distinti, portatori di una funzione ontologica diversa. Fra di loro ci
deve essere una relazione di continuo
rimando, nella quale, soprattutto, la seconda non diventi una sclerotizzazione
del primo, perché a quel punto diventa il
suo cliché che fa scattare in maniera automatica lo stesso contenuto semantico,
cancellando la funzione interpretativa e
critica dello spettatore e sospingendolo
verso sempre le stesse banalizzazioni.
Marco Dinoi evidenzia come sia pericoloso questo processo di semplificazione,
perché comporta una serie di conseguenze negative che dal piano cognitivo (come noi interpretiamo la realtà) si spostano poi sul piano attivo (come noi agiamo
su di essa per cambiarla). Precisa infatti
come l’immobilizzazione dell’evento nel
cliché, causi una reazione a catena della
banalizzazione dando luogo ad altre semplificazioni, come le note etichette “attacco all’America” e “attacco all’Occidente”
che furono impiegate per rubricare l’11
settembre e preparare l’irreggimentazione cognitiva di massa che sarebbe sfociata nell’adesione assoluta alla risposta militare.
Attraverso le tematiche legate allo sguardo, alle possibilità di rappresentazione
della realtà da parte dei mezzi di comunicazione, questo saggio di Marco Dinoi
offre un interessante analisi del sistema
dei media, nel loro essere strumenti di
mediazione degli eventi, costruttori e fornitori per la platea dei telespettatori del
racconto dei fatti che accadono lontano
da casa nostra. Ci spinge così ad aprire
gli occhi di fronte ai loro limiti intrinseci
di mezzi di comunicazione, e ci si mette
in guardia sui rischi che si annidano dietro la “pretesa referenziale” dell’immagini del mondo che continuamente ci ammanniscono. Purtroppo alla fine della lettura, ci rimane l’amarezza di scoprire che
lo sguardo di Marco Dinoi, prima studente e poi docente all’Università di Siena, si
è prematuramente spento, lasciandoci
questa preziosa opera come ultimo frutto.
Sapere che Lo sguardo e l’evento rimarrà
il suo ultimo saggio ci obbliga però ad
un’attenzione ancora maggiore, ad una
lettura più scrupolosa, per capirne a fondo la complessità del suo pensiero, in
modo che niente vada perduto.
E che le sue idee e le sue intuizione attraverso di noi continuino a circolare e svilupparsi, affinché il suo sguardo, insieme al suo ricordo, possa rimanere vivo.
In particolare l’autore
è interessato alle questioni
che si articolano intorno
al rapporto fra realtà
e rappresentazione
mediatica, fra l’evento
e la sua immagine,
per capire come sia
possibile darne
testimonianza visiva
senza che questa tradisca
la complessità del fatto
che intende raccontare
“LA FINE DELLA STORIA” Sopra un
drammatico particolare dell’attacco alle torri
gemelle dell’11 settembre 2001. Sotto la
copertina del libro scritto da Marco Dinoi.
Sembrava un film...
Dipingere è una visione d’insieme:
Fabrizio Borghini presenta
gli artisti pistoiesi del XXI secolo
Sfogliando questo volume, possiamo dire che il «cronista dell’arte»
(come lui stesso si definisce) ha compiuto un’ottima ricognizione
che non è benevolo o indulgente, ma che nel suo complesso non può che
semplicemente descrittivo, teso a co- essere positivo visto il numero di artigliere l’esistente, senza giudizi o pre- sti selezionati e la loro qualità.
giudizi. Prima, infatti, di qualsiasi va- Sfogliando questo volume, possiamo
lutazione sul valore estetico delle ope- dire in definitiva che il «cronista delre, Borghini sente l’urgenl’arte» (come lui stesza del racconto, della doso si definisce) ha
Sono sempre
cumentazione, del mostracompiuto un’ottima
i quadri a dire
re cosa c’è sotto il sole artiricognizione, conferstico di Pistoia. Da cronimando ancora una
l’ultima parola
sta meticoloso e serio, è
volta la sua capacità
sulla bontà dello
ben consapevole che la didi cogliere e descrignità del suo lavoro consisguardo di Borghini vere la realtà. Ma soste nel dar evidenza alle
no sempre i quadri a
cose, nel porle all’attenziodire l’ultima parola
ne degli interessati, siano essi critici, sulla bontà dello sguardo di Fabrizio
addetti ai lavori o semplici appassio- Borghini, e in questo senso, molte sonati. Poi spetterà a qualcun altro il no le opere che saltano fuori da quecompito di soffermarsi sulle singole ste pagine per reclamare un “supplepagine, sul singolo quadro o sul singo- mento d’indagine” o per un fugace,
lo artista per provare ad approfondire quanto inatteso, ratto dell’occhio.
lo sguardo nell’analisi e nel giudizio,
Jacopo Nesti
LA BELLEZZA
E’
RACCHIUSA
TUTTA QUI E’
il panorama a
interessare
Borghini, non
i singoli artisti