Approfondimento IV Il tema ispiratore: Leopardi, la modernità e la

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Approfondimento IV Il tema ispiratore: Leopardi, la modernità e la
Approfondimento IV
Il tema ispiratore: Leopardi, la modernità e la classicità
(l’educazione intellettuale)
1. Leopardi tra antichi e moderni
1. 1. L’idea delle Operette morali
Come abbiamo già illustrato, la materia delle Operette è fondamentalmente
bipartita. Fin dal Prologo, costituito dalla Storia del genere umano, abbiamo da un lato il
mondo antico, dall’altro il mondo moderno. Da un lato figure mitologiche quasi fuori del
tempo storico, che si chiariranno essere gnomi, folletti, ma anche Prometeo, la Terra, la
Luna, che sono da Leopardi personificate; dall’altro personaggi reali, appartenuti alla
storia, magari colti in momenti in cui non li immagineremmo facilmente, come Colombo
che parla col suo secondo, Parini che ragiona della gloria, o Tasso che si intrattiene a
colloquio con l’ombra di un suo antenato. A chiudere il discorso, alcune maschere
filosofiche, quali Stratone di Lampsaco, il già ricordato Copernico nonché Plotino e
Porfirio.
Si tratta a questo punto di chiarire il senso della questione sollevata da Leopardi,
anche nel rapporto con il più ampio quadro della cultura europea, a cominciare dagli
innesti che questa aveva nel primo Ottocento su quelle italiana
Diamo di seguito, per l’utilità di chi legge, l’indice dell’edizione tradizionalmente
accolta come definitiva e che si suppone sia più delle altre rispondente alle reali
intenzioni dell’Autore. Come infatti vedremo più avanti, Leopardi non fece in tempo a
realizzare compiutamente il proprio disegno anche per via delle difficoltà opposte dalla
censura. Per rendere visibile lo snodarsi del discorso, per come ci sembra vada inteso,
abbiamo numerato secondo la successione in cui si trovano le varie Operette,
disponendole però in un primo e un secondo gruppo, a cui segue il finale con lo scorrere
di quelle che possiamo chiamare le maschere filosofiche leopardiane. Usiamo
quest’espressione per indicare i personaggi dietro i quali si cela, più credibilmente che in
altri, il pensiero dello scrittore.
1. Storia del genere umano
2. Dialogo d’Ercole e di
Atlante
3. Dialogo della Moda e della
Morte
4. Proposta di premi fatti
all’Accademia dei Silografi
5. Dialogo di un Folletto e di
uno Gnomo
6. Dialogo di Malambruno
e Farfarello
7. Dialogo della Natura e
di un’Anima
8. Dialogo della Terra e
della Luna
9. La scommessa di Prometeo
10. Dialogo di un Fisico e di un
Metafisico
11. Dialogo di Torquato Tasso e
del suo genio familiare
12. Dialogo della Natura e
di un Islandese
13. Il Parini ovvero della
gloria
14. Dialogo di Fererico Ruysch
e delle sue mummie
15. Detti memorabili di
Filippo Ottonieri
16. Dialogo di Cristoforo
Colombo e di Pietro Gutierrez
17. Elogio degli Uccelli
19 Frammento apocrifo di
Stratone di Lampsaco
20. Dialogo di Timandro e
di Eleandro
21. Il Copernico
22. Dialogo di Plotino e di
Porfirio
23. Dialogo di un venditore
d’almanacchi e di un passeggere
24. Dialogo di Tristano e
di un amico
18. Cantico del Gallo Silvestre.
Le ultime sei operette (inizialmente tre), visibilmente unite da un tono ragionativo,
che si fa qua e là dialettico e analitico nonché fortemente ironico, specie nelle ultime due,
valgono lo sforzo di portare a conclusione un ragionamento, conseguente al confronto tra
mondo antico e mondo moderno.
L’assenza del Medioevo non è casuale. Per Leopardi infatti il moderno è quello che
vuol somigliare all’antico, superando d’un balzo l’età di mezzo. Quel che gli preme è fare
quello che i suoi contemporanei sembrano ostinarsi a non fare: un bilancio di quanto i
moderni siano riusciti a realizzare nel tentativo di uguagliare gli antichi.
Che ne è, sembra chiedersi pagina dopo pagina l’autore delle Operette morali, del
progetto modernità? I moderni ce l’hanno poi fatta a porsi allo stesso livello degli
antichi?
1. 2. La volontà di veder chiaro nella questione
A dominare l’orizzonte speculativo leopardiano c’è il dubbio autentico e sofferto
che sia un errore parlare di un vero e proprio sorpasso da parte dei moderni sugli antichi.
Anzi, quanto più se ne parla, tanto più è legittimo sospettare che il sorpasso sia solo
nella mente di chi, con eccesso di fiducia, giunga del tutto irresponsabilmente a ritenere
fisiologico il progresso e costante – magari perché provvidenzialisticamente connaturato
alla storia – il miglioramento dell’uomo e della società.
Questo dubbio che è onesto dubbio intellettuale, da Leopardi proposto al suo
lettore con molta chiarezza, va preso in attenta considerazione, anche perché il dubitare
– che da Cartesio, anzi da Petrarca in poi, era stato rivalutato come mezzo di
esplorazione utile a individuare errori probabilmente commessi – ci avverte della severità
con cui Leopardi intende procedere nella sua indagine. Il dubbio, che non è in questo caso
dubbio esistenziale, ma dubbio squisitamente intellettuale, conclude alla domanda: ha
senso essere certi di cose come il progresso e di qualcosa come una naturale tendenza da
parte dell’uomo a migliorare sé stesso e il mondo? L’aspirazione dell’uomo alla felicità è
sufficiente garanzia del fatto che egli sia poi in condizione di procurarsi realmente tale
felicità?
1. 3. I torti e le ragioni di Leopardi
Va qui detto che, a dispetto del fatto che la cultura italiana nei decenni successivi al
conseguimento dell’unità nazionale, desse sostanzialmente torto a Leopardi su questi
due punti (lo scetticismo circa i meriti dell’uomo moderno e il recupero del dubbio come
strumento di ricerca), le moderne scienze sociali sembrano piuttosto dargli ragione.
L’evoluzionismo sociale infatti è stato fondatamente accusato d’essere espressione di un
pregiudizio etnocentrico, in forza del quale i popoli dell’Occidente europeo hanno
considerato paradigmatica la loro esperienza e supposto che il processo storico, che ha
riguardato la loro crescita economica, culturale e politica, fosse contrassegnato da un
carattere evolutivo. La verità – sostengono oggi gli antropologi, che seguono la via
battuta da Claude Levi-Strauss e da altri – è che non ci sono popoli più o meno evoluti;
ci sono soltanto culture diverse che si uniformano a modelli e a valori diversi. Quando
poi si valutano le altre culture, restando rigorosamente ancorati alla propria e ai suoi
paradigmi, non se comprende la storia. Quel che balza agli occhi è solo l’assenza di
alcune cose che vengono percepite come conquista della propria civiltà. Non si vede
invece la presenza di altre cose che, perdute alla nostra civiltà, si sono magari in altre
mantenute.
Tutto ciò è singolarmente coincidente con certe critiche che Leopardi rivolge al
secolo del progresso, dove le invenzioni della moderna tecnologia rendono sicuri tanti
suoi contemporanei di aver conseguito importanti traguardi di civiltà. Ironicamente
indicherà nella Palinodia a Gino Capponi quel che il nuovo secolo promette: “meglio
fatti al bisogno, o più leggiadri / certamente a veder, tappeti e coltri, / seggiole, canapè,
sgabelli e mense, / letti, ed ogni altro arnese, adorneranno di lor menstrua beltà gli
appartamenti; e nove forme di paiuoli, e nove / pentole ammirerà l’arsa cucina (vv.115121). Ed è veramente sorprendente come sia qui anticipata l’attenzione a certe icone del
progresso che la civiltà occidentale ha finito col rivendicare come propria: le suppellettili
di cucina, che, nelle pubblicità televisive dei prodotti che la moderna industria alimentare
porta sulla nostra tavola, hanno una visibilità ossessiva, con pentole a pressione,
pirofile, guanti da forno offerti allo sguardo dello spettatore in “arse” (cioè linde,
splendenti) cucine. Se un tale narcisistico compiacimento, così tipico della civiltà
contemporanea, può essere ingenuo e perfino infantile, non è bene che porti poi a una
forma di superbia che ci induca a intendere quale segno di primitività i cerimoniosi e
complessi rituali di saluto, con cui presso altri popoli si è mantenuto il senso di un
doveroso contegno da tenere gli uni nei confronti degli altri. Quando questo accade, si è
imboccata una via di non ritorno verso una decadenza prima lenta e graduale poi rapida e
definitiva.
La ragione che su questo punto le moderne scienze sociali riconoscono a Leopardi
(e ad altri che espressero in modo diverso i suoi stessi dubbi) è che l’uomo moderno è
piuttosto prigioniero della sua cultura e che quel che i romantici chiamarono “tradizione”
è una sorta di pericolosa arma a doppio taglio soprattutto per quanto riguarda la
possibilità obiettiva di una crescita, di uno sviluppo di un progresso autentici.
Quanto al dubbio, è stato in tempi recenti ampiamente rivalutato negli ambienti
colti, a dispetto di tante confortanti certezze che il mondo dei media tenta di diffondere,
forse per indurci a comprare cose che, al pari degli almanacchi dell’epoca di Leopardi,
non ci sono granché utili. Tra questi finti contenitori di gioie, ci sono quegli infiniti
passatempi che, assorbendo la nostra capacità di concentrazione sui fatti reali, fanno sì
che l’uomo d’oggi spenda gran parte della sua vita a non vivere autenticamente, ma
fuggendo dai problemi che sarebbe saggio tentare almeno di risolvere.
Quest’ultimo aspetto è decisivo a proposito di un’attualità da riferire o negare alle
Operette morali.
Leopardi e il progetto modernità
2.1. Che cos’è la modernità
Come abbiamo già accennato, Leopardi non è per noi un anti-moderno. La sua
avversione, anche in parte snobistica, per certe novità non va confusa col misoneismo
codino di certi ambienti aristocratici e cattolici, tendenti a coniugare le ragioni del trono e
dell’altare, secondo una prospettiva a cui sappiamo guardava la sua famiglia. E allora
qual è il suo rapporto col moderno? A noi sembra un rapporto veramente profondo,
proprio perché intimamente dialettico.
Diversamente da molti suoi contemporanei, che hanno perso la testa per il
progresso tecnologico, Leopardi non ha perso di vista il progetto della modernità. Lo
vediamo nel Copernico, un’operetta fondamentale per quanto riguarda una possibile
dichiarazione di intenti, cioè un chiarimento circa i propositi dell’autore. Essa infatti fu
scritta a ridosso della pubblicazione della prima edizione dell’opera, nel momento in cui
è normale che uno scrittore, valutato il possibile impatto del suo lavoro col pubblico,
tenti di recuperare il senso della propria opera, anche alla luce delle prime risposte che il
lavoro preparatorio della stampa suggerisce: a cominciare dalle indicazioni del censore,
dall’impressione dell’editore e degli ambienti a lui collegati, per finire con le reazioni del
pubblico che acquista (o non acquista) il libro. Per il resto si pensi al seguito della
vicenda del Copernico, che, scritto successivamente al grande blocco unitario delle
Operette e in certo modo ripensando l’opera nel suo insieme, fu inserito solo
nell’edizione postuma curata da Antonio Ranieri, quando i timori della censura si
allentarono. Nella nuova operetta è lo stesso Copernico a svelare in che cosa consista il
progetto modernità, per come è visto da Leopardi. Rivolgendosi al Sole, che lo incoraggia
a sostenere le sue teorie, Copernico dice:
Che vi dirò poi degli uomini? Che riputandoci (come ci riputeremo sempre) più che primi e più
che principalissimi tra le creature terrestri; ciascheduno di noi, se ben fosse vestito di cenci e che non
avesse un cantuccio di pan duro da rodere, si è tenuto per conto di essere un imperatore; non mica di
Costantinopoli o di Germania, ovvero di metà della Terra, com’erano gl’imperatori romani, ma un
imperatore dell’universo; un imperatore del sole, dei pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e
causa finale delle stelle, dei pianeti, di vostra signoria illustrissima, e di tutte le cose. Ma ora se noi
vogliamo che la Terra si parta da quel suo luogo di mezzo; se facciamo che ella corra, che ella si voltoli,
che ella si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, né più né meno, che si è fatto di qui addietro
degli altri globi; infine che ella divenga del numero dei pianeti; questo porterà seco che sua maestà
terrestre, e le loro maestà umane, dovranno sgomberare il trono, e lasciar l’impero; restandosene però
1
tuttavia co’ loro cenci, e colle loro miserie, che non sono poche .
Dalla risposta che il Sole dà a Copernico, apprendiamo che, se gli uomini non si
accontenteranno di essere quello che sono, “andranno raziocinando a rovescio, e
argomentando in dispetto della evidenza delle cose, come facilissimamente potranno
fare”2.
Ne risulta che Leopardi accusa l’uomo del suo tempo di parlare a vanvera quando
ragiona di moderno e di modernità, o quando rivendica il diritto di porsi come arbitro
delle cose del mondo. In realtà è facile dimostrare come, rispetto alla spinta iniziale data
dagli umanisti al Rinascimento, un tale antropocentrismo impoverisse irrimediabilmente
il senso di quel che Giovanni Pico della Mirandola aveva insegnato nel suo De hominis
dignitate, autentico manifesto della cultura umanistica a cui si era ispirato con tutta
evidenza Michelangelo Buonarroti quando nella Cappella Sistina aveva rappresentato la
Creazione di Adamo.
2.2. La polemica con i contemporanei
Va qui osservato che, agli occhi dei contemporanei di Leopardi, e diversamente da
come vide Pico, l’uomo non è “a immagine e somiglianza di Dio” in quanto virtualmente
capace di elevarsi fino a scoprire il divino che è in lui, idea che sembra a tratti affascinare
Leopardi. Infatti, alla coscienza della maggior parte dei cattolici che si pongono agli inizi
1 G. Leopardi, O. M. Il Copernico, Scena IV, parla Copernico.
2 Ibidem.
dell’Ottocento di fronte al fatto che l’uomo sia responsabilmente e coscientemente “a
immagine e somiglianza di Dio”, l’espressione va intesa come nocciolo della Rivelazione
e significa perciò semplicemente, e nel senso più piattamente proprio, che l’uomo è un
servitore privilegiato di Dio, per la cui utilità è stato creato il mondo. Di qui discende
l’obbligo di prendersi cura del giardino in cui Iddio ci ha collocato, comunque questo
debba intendersi come coscienza propria o come creato. In quella che potremmo
chiamare a questo punto “l’evangelica vigna di Renzo”, l’uomo ha rispetto a Dio un
rapporto di totale sottomissione che esclude qualunque spirito di emulazione. Questo
punto è importante perché sfuggiva evidentemente a coloro che nell’Ottocento si posero
in Italia quali interpreti di una presunta spiritualità medievale qualche tratto
caratteristico di quell’età. A parte un doveroso accenno all’Imitatio Christi, che diffusa al
tempo che prepara la rivoluzione umanistica, raccoglie pure l’eredità di un misticismo
che vede nel Cristo un modello da imitare, c’è uno spirito di emulazione che è
caratteristico di un’etica cavalleresca. In virtù di un tale principio, al di là del rapporto di
sudditanza del vassallo rispetto al signore, resta pur sempre la possibilità al vassallo la
possibilità di lealmente e generosamente competere con il suo signore, ponendosi
all’occorrenza al suo livello come pari. Il rapporto di fiducioso e totale abbandono a Dio,
che il pensiero cattolico dell’Ottocento esprime con molta chiarezza con Alessandro
Manzoni e soprattutto con Nicolò Tommaseo (ma anche con padre Gioacchino Ventura,
con Antonio Rosmini e con Terenzio Mamiani), pone decisamente la modernità sotto
scacco rispetto a una concezione feudale che, a parole, si dice superata in virtù del
progresso. In altri termini, mentre al principio dell’età moderna Pico della Mirandola
pensava di spingere l’uomo ad elevarsi al di sopra dei bruti per scoprire il divino che è in
lui, e in certo modo sfidare Dio, per i contemporanei di Leopardi, che “recuperano” la
spiritualità medievale da loro interpretata secondo le romantiche suggestioni, si tratta di
rendere incolmabile il divario tra umano e divino, per cui moderno è ai loro occhi ormai
irriducibilmente contrapposto ad antico, anziché a medievale. Questo punto è
fondamentale per chi voglia intendere la differenza tra il modo di porsi di Leopardi e
quello dei suoi contemporanei, ai quali egli polemicamente si riferisce. Perciò occorre che
ci si soffermi a illustrare questo aspetto in alcuni suoi lati fondamentali. Il punto è, come
vedremo importante anche sul piano di una ricognizione delle letture a cui implicitamente
Leopardi rimanda il suo lettore e che sono opere di un certo successo nelle quali, come
vedremo a suo tempo, i vivi assistono a dialoghi tra ombre di antichi sapienti, eroi e
filosofi di quell’età, che – insistiamo nel ricordarlo – i primi moderni si erano prefissati di
uguagliare sotto il profilo morale.
2.3. Il moderno romanticamente inteso: la nostalgia del medioevo
Adesso peraltro il moderno, per come l’Ottocento romantico lo intende, pretende
di aver superato sul piano della spiritualità il mondo antico proprio grazie all’eredità
consegnatagli dal mondo medievale. Questa, in sintesi la grave ipoteca che gli uomini del
tempo di Leopardi hanno posto su un concetto a cui s’erano invece legate le speranze
degli umanisti. La modernità, così intesa, celebra da un lato la scienza newtoniana,
sorretta da una teoria cosmologica che, quanto più appare coerente, se non alla lettera
almeno allo spirito delle Sacre Scritture, tanto più si assume come definitiva e certa
(Kant); d’altro lato la modernità intesa come contrapposta all’antichità, si accorda nel
mondo cattolico col senso della bolla Inscrutabilis di Urbano VIII, nella quale il papa
aveva tacciato di superbia l’uomo che pretendesse di scrutare le verità del mondo,
cercandole nel galileiano libro della natura, piuttosto che nella Bibbia3. Posizione che
preannuncerà il dogma dell’infallibilità del papa e il Sillabo, due eventi con cui la Chiesa
di Roma volta risolutamente le spalle a qualsiasi forma di liberalismo, che moderato o
democratico, appare comunque rivoluzionario.
3. Dalla parte degli antichi
3.1. Autorità politica e autorità religiosa
3 .Germana Ernst, riferendosi a questa “severissima” bolla pontificia così ne sintetizza il contenuto: “La
fiduciosa affermazione dell’uomo fatto a “immagine e somiglianza di Dio” che aveva caratterizzato
l’umanesimo e aveva attraversato buona parte del secolo sedicesimo, per sottolineare la dignità e
l’eccellenza dell’uomo, subiva un drastico ridimensionamento. Fin dalle prime righe il documento
ammoniva “questo superbo animale”, affinché “non s’innalzasse nel suo sapere, ma temesse e prostrato a
terra adorasse l’immensa maestà del suo fattore”(G. Ernst, Gli astri e la vita dell’uomo negli opuscoli
astrologici di Tommaso Campanella, conferenza tenuta nel quadro………. ).
Se, come è molto probabile, Leopardi (come i suoi contemporanei) nulla sapeva
della bolla di papa Urbano, ne intendeva però gli effetti che, col tempo, essa aveva reso
visibili e palpabili in un pensare divenuto diffuso, dove più spesso che non si creda il
pensare diffuso risente, a distanza, degli orientamenti, dei suggerimenti e delle
imposizioni che vengono dall’alto. Perciò Leopardi, che è suddito dello Stato Pontificio,
non ha alcuna esitazione nel ricondurre al clima nato dalle scoperte astronomiche dei
secoli XVI e XVII una sorta di inversione di rotta del pensiero cattolico, o meglio di
quella parte di esso che confluisce nella cultura ufficiale. Basti pensare che – come
sostiene Giovanni Gentile, curatore di una celebre riedizione delle Operette morali – ci
sarebbe nella parte finale del dialogo un riferimento certo a Giordano Bruno, lì dove il
Sole, concludendo, dice a Copernico che “forse, dopo te, ad alcuni i quali approveranno
quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra cosa
simile…”, e, visto che l’operetta sembra ricalcare la bruniana Cena delle Ceneri, va pure
tenuto in conto che il riferimento non fosse assolutamente casuale. E qui ci pare che
Gentile, il quale non ebbe una grande considerazione del Leopardi filosofo, ma che lo
lesse con diligente attenzione, cogliesse pienamente nel segno.
Questo punto è veramente importante e cruciale. Leopardi, che proviene da una
famiglia colta di cattolici osservanti, sa che prendere alla lettera le Scritture è una cosa
che non va fatta e che, a ogni buon conto, non è mai stata fatta seriamente da persone
serie, come dimostrano le numerose dispute sorte in ogni tempo circa l’interpretazione di
questo o di quel brano del Vangelo. Sa che la preoccupazione di turbare gli animi
semplici e, assieme a loro, certi delicati equilibri politico-sociali può, in particolari
situazioni storiche, spingere la Chiesa ad assecondare nel suo popolo una credulità ai
limiti della superstizione. Sa anche che in passato, perfino in tempi recenti, ci sono stati
pensatori cattolici, a volte sacerdoti (come per esempio Antonio Genovesi), che hanno
tentato con discreto successo di mettere d’accordo le istanze del mondo moderno con la
tradizione cattolica. Non stupisce quindi che l’allontanamento dagli insegnamenti della
Chiesa sia in Leopardi graduale e parallelo alla convinzione che mano a mano matura in
lui circa l’impossibilità di proseguire su quella linea. Che sia così lo dimostrano i molti
passi dello Zibaldone che attorno al 1821 Leopardi scrive circa la possibilità di accordare
il proprio punto di vista con quello del pensiero cristiano-cattolico, in un momento in cui
ottimisticamente la conciliabilità della propria filosofia con l’insegnamento dei Padri e dei
Dottori della Chiesa, gli appare garanzia del fatto che essa possa perciò stesso conciliarsi
con lo spirito della religione. Leggiamo in data 18 maggio 1821:
Non è egli un paradosso che la Religion Cristiana in gran parte sia stata la fonte dell’ateismo, o
generalmente dell’incredulità religiosa? Eppure io così la penso. L’uomo naturalmente non è incredulo,
perché non ragiona molto […] L’uomo naturalmente per lo più immagina, concepisce e crede una
religione, cosa dimostrata dall’esperienza, nello stesso modo che immagina, concepisce e crede tante
illusioni, ed alcune di queste, uniformi in tutti; laddove la religione è immaginata da’ diversi uomini
naturali in diversissime forme. La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle cose, che esamina la
natura, le nostre immaginazioni ed idee ec.; lo spirito profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fonti
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della incredulità .
e ancora in data 5-7 settembre dello stesso anno:
Il mio sistema abbracciando e ammettendo quasi tutto il sistema dell’ateismo, negando tutti i
sistemi ec e pur facendone risultare l’idea costante di Dio, religione, morale ec. mi par l’ultima e decisiva
prova della religione; o se non altro che non può per ragioni esser dimostrata falsa quella rivelazione, che
d’altronde avendo prove di fatto si deve tener per vera, perché il fatto nel mio sistema decide, e la ragione
non se gli può mai opporre.
Ma se Dio è superiore alla morale, se il buono o cattivo non esiste assolutamente ec. Dio non può
egli ingannarci in ciò che ci ha rivelato, promesso, minacciato ec.? No; perch’egli ci vieta d’ingannare.
La legge che ci ha data, quel modo del suo essere ch’egli ci ha manifestato, la maniera in cui l’ha fatto, i
rapporti che preso con noi, i doveri che ci ha prescritto verso luii, verso i nostri simili verso noi stessi,
ciò che ci proibito, gl’insegnamenti che ci ha dato, la verità che ci ha fatto amare, la natura in cui ci ha
formati, l’ordine di cose che ha stabilito, ec. decidono del modo in cui egli deve pertarsi verso noi, cioè
ha voluto e vorrà portarsi, si è portato e porterà. Altrimenti non sarebbero buoni i suoi rapporti verso noi,
e quindi egli non sarebbe buono o perfetto cioè conveniente ed intera armonia rispetto a noi, ed a
quest’ordine di cose, che egli poteva tutt’altrimenti costituire, ma ha costituito in questo tal modo in cui
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l’ingannare è male
Quindi tutt’altro tono e orientamento, forse a seguito di qualche contrasto sorto
all’interno della famiglia
I religiosi (anche oggi, e forse più che mai, a causa della contrarietà che incontrano) sono più
appassionati della loro religione che delle altre passioni loro (di cui la religione è nemica) e per veder
trionfare il loro sistema farebbero qualunque sacrificio (come ne fanno realmente sacrificando le
inclinazioni naturali e contrarie), mentre provano verissima rabbia nel vederlo depresso e contrastato. Ma
gl’irreligiosi, quando l’irreligione deriva in essi da sola fredda persuasione o dubbio, non odiano i
religiosi, non farebbero nessun sacrificio per l’irreligione ec.ec. Quindi è che gli odi per motivo
d’opinione non sono mai reciprochi, se non quando in ambedue le parti l’opinione è un pregiudizio o ne
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ha l’aspetto.
Nel seguito emergerà invece la convinzione di una sostanziale inconciliabilità delle
proprie posizioni con quanto la Chiesa prescrive. Ci riferiamo alla famosa lettera al De
Sinner in cui Leopardi dichiara: “La mia filosofia non è piaciuta ai preti, i quali qui ed in
tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno enormemente
tutto”7.
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7
. G. Leopardi, Zibaldone [ 1059-1060]
. Ivi [ 1644]
. Ivi [ 1816-1817]
Epistolario, p. 1415.
3. 2. Le Operette come occasione per un chiarimento
All’epoca in cui appaiono le Operette morali lo scrittore ha già chiarito il proprio
orientamento per quanto riguarda certe materie e la modernità di cui parlano “gli amici di
Toscana” segna ai suoi occhi un’inversione di tendenza rispetto all’ispirazione originaria
per cui è moderno l’uomo che cerca di elevarsi con tutti gli strumenti intellettuali e
morali di cui dispone, fino a non temere di competere con Dio. In fondo tutto il pensiero
di Leopardi sta nel tentare di penetrare il mistero dell’infinito, di fare quanto la bolla
Inscrutabilis di Urbano VIII aveva proibito di tentare, il papa avocando a sé, in quanto
papa, il diritto d’esser l’unico in tutta la cristianità a invocare legittimamente l’ipse dixit
di cui Erasmo e Montaigne avevano insegnato a diffidare, diffidandone per primi loro
stessi circa se stessi.
E’ nel nome di questa modernità che Leopardi ragionerà di coraggio e di viltà per
quanto riguarda la capacità della mente umana di spingersi oltre i limiti usuali delle
convenzioni sociali, e ponendosi scandalosamente lui stesso al di là dell’ovvio. La
filosofia nasce insomma in Leopardi come accettazione di una sfida che è totale e che
riguarda il mondo, se stessi e Dio e il vincere ogni paura verso il mondo, se stessi e Dio.
Se della filosofia leopardiana si volesse a questo punto individuare un carattere, potrebbe
dirsi che Leopardi rivendica la naturale innocenza del pensiero, per cui non ha
semplicemente senso aver timore di pensare quel che tuttavia pensiamo o che, se
fossimo un poco più coraggiosi e meno ipocritamente vittime delle convenzioni,
ammetteremmo di pensare. E’ una filosofia che rivendica, per i tempi, una forma di
coraggio singolare che consiste nell’abbattere alcune barriere che, come vedremo, sono
invece tipiche della cultura dell’epoca in cui Leopardi visse.
3. 3. Il senso della storia e della cronaca in Leopardi
Da quanto fin qui abbiamo esposto risulta chiaro che l’atteggiamento polemico nei
confronti di ciò che si annuncia pomposamente moderno, innovativo, “rivoluzionario” è
in Leopardi assai ragionato. Non gli sfuggono alcune contraddizioni implicite nei concetti
di una filosofia, quella professata dai moderni, che cercano un fondamento al loro
pensare e, non trovandolo, lo prendono a prestito dalla religione, spacciandolo per quel
che non è, vale a dire per una filosofica conquista. E’ inoltre il rigore del filosofo che lo
pone nella condizione di vedere lucidamente l’inautenticità di questo discorrere a caso, e
secondo l’estro del momento, di modernità, di progresso, di rivoluzione, tutti concetti
che si propongono disinvoltamente, dopo aver “risolto” le questioni fondamentali,
affidandosi alla tradizione. Si tratta, per noi che abbiamo speso del tempo a riesaminare,
attraverso lo sguardo critico di Leopardi, tutta la sua epoca, di una mancanza di
autenticità vera e propria, di un’ingratitudine dei tempi, di un inganno collettivo, che, se
salva almeno in parte la generazione dei “rivoluzionari” dell’Ottocento romantico
dall’accusa di ipocrisia, ne fa comunque in molti casi dei ciechi che credono di vedere.
Vogliamo dire che porre un’ipoteca circa la possibilità di condurre una critica
filosofica ai concetti religiosi, e soprattutto a quei concetti che la religione può prestare
alla vita morale e politica, significa non voler vedere quali problemi potranno nascere in
una società che, nel pieno di una congiuntura rivoluzionaria, si affida supinamente alla
tradizione.
Ma vediamo più da vicino quali contraddizioni, dal punto di vista di Leopardi,
potessero sorgere dall’assunzione di una così strana prospettiva ideologico-politica.
4. Conservatorismo o spinta a un rinnovamento più sostanziale?
4. 1. L’equivoca posizione del rivoluzionarismo romantico
Per quanto un punto di vista critico possa per più aspetti dispiacere, e per quanto
ipercritico possa sembrare un atteggiamento che chiede di non arrestare la critica davanti
a nulla, non può onestamente ignorarsene la legittimità. Quello di Leopardi non è il cauto
criticismo kantiano, che si contiene nel campo dell’esperienza intesa come mondo
fenomenico; è un criticismo totale rivolto a tutto ciò di cui l’uomo può fare discorso e
mira a un obiettivo minimo, ma concretamente possibile: svelare le menzogne di cui, per
viltà d’animo, è vittima l’uomo. Per questo Leopardi si rifiuta di condividere
l’entusiasmo dei suoi “amici di Toscana”, che sono rivoluzionari da una parte e legati alla
tradizione dall’altra.
L’ironia che lui userà nei loro confronti offenderà Gino Capponi e Pietro Colletta8;
susciterà addirittura sdegno, se non cupo risentimento in Cantù e in Tommaseo, forse a
causa della volontà da Leopardi fermamente espressa nei fatti di partecipare
pubblicamente, con tale ironia, il proprio personale dissenso a un programma che non lo
convinceva9. In tutto questo le Operette giocarono notoriamente un ruolo determinante.
Ad esse farà costante riferimento anche il Leopardi poeta che, poeticamente, ripropone i
temi trattati nelle sue prose ogni volta che sente di dover prendere le distanze dalle
posizioni assunte da quell’ala che all’interno del grande partito rivoluzionario si
identificò come “moderata” e che fece capo all’“Antologia” di Vieusseux.
4.2. Rivoluzione “borghese”?
Sul piano storiografico risulta ormai sempre più chiaro in che senso la
“rivoluzione” del 1848, specialmente in Italia, sarebbe stata borghese: non nel senso che
la borghesia si fosse fatta per sua improvvisa vocazione incline a capovolgimenti
dell’ordine sociale ed economico, ma piuttosto che spettasse alla borghesia, naturalmente
“moderata”, assumere la regia di mutamenti che rischiavano di travolgere, come nell’89
era accaduto in Francia, tutto uno stato di cose. Volendo andare un po’ più in
profondità, potrebbe secondo noi ragionevolmente dirsi che la “rivoluzione” che si
compì, e di cui il Quarantotto sarebbe stata per l’Italia la prova generale, non servì tanto
alla borghesia per acquisire più potere, quanto per consolidare e legittimare i “privilegi”
di cui aveva fino ad allora goduto. Questo punto, che non interessa tanto la storia
8 Per quanto riguarda Capponi, è noto lo sfogo di questi in due sue lettere, una a Vieusseux l’altra a
Tommaseo, entrambe scritte nel novembre del 1835, dopo la pubblicazione della Palinodia a lui dedicata
da Leopardi, nelle quali Capponi si lamenta d’essere stato “coglionato” dallo scrittore, definito “maledetto
Gobbo” nella lettera a Vieusseux” (Cfr. Leopardi, Tutte le opere, cit. vol I. p.). Circa il generale Colletta è
probabile che giocasse un astio dovuto alla disponibilità da Leopardi prima accordata poi negata di
rivedere il testo della sua Storia del reame di Napoli prima della pubblicazione. Sta di fatto che in una
lettera al Capponi del maggio ’31, scritta a proposito dei Canti appena usciti, sostiene di aver letto il libro
e vi nota “la medesima, eterna ormai non sopportabile melanconia…” (Cfr Leopardi, Tutte le opere, cit, p.
1454). I due esempi bastano a dare un’idea di quanto il messaggio di Leopardi fosse sostanzialmente
frainteso e di come il superficiale “ottimismo” dei romantici rendesse necessariamente superficiale il
“pessimismo” leopardiano, ridotto allo sfogo di un’anima in pena per le sofferenze patite.
9 E’ l’ironia quel che più di ogni altra cosa detestano in Leopardi sia Nicolò Tommaseo, sia Cesare
Cantù. Non comprendono come si possa essere ironici su temi da loro avvertiti fondamentali, quali la
fiducia nel cambiamento che necessariamente porta con sé il progresso, che essi riferiscono alla capacità
dell’uomo, creatura privilegiata del creato in quanto essere pensante, intelligente e animato da generosi
ideali che lo spirito creatore di Dio volle in lui, per dirla manzonianamente, “più vasta orma stampar”.
europea, quanto piuttosto la storia italiana che ha delle sue specificità, merita d’essere
illustrato, altrimenti si rischia di non capire la posizione da Leopardi assunta nelle
Operette.
“Privilegio” è nell’epoca in cui Leopardi è nato un atto sovrano con cui si concede
a qualcuno in via eccezionale un diritto. Di “privilegi” era stata fatta la storia dei rapporti
che con la corona aveva stabilito un po’ in tutta Europa la borghesia, che attraverso il
“privilegio”, aveva trovato il modo di nobilitarsi. Gli stessi titoli nobiliari, in Italia come
altrove, potevano anche acquistarsi per privilegio reale, e il privilegio si otteneva, a volte,
semplicemente pagando, col che diversi borghesi arricchiti si erano ormai nobilitati.
Si obietterà: ma la Rivoluzione Francese non si era avuta proprio per l’abolizione
dei privilegi? E “privilegi” non erano forse gli odiosi privilegi feudali di cui avevano
goduto indiscriminatamente tutti gli appartenenti a nobili casate titolari di feudi? Vero.
Ma è anche vero che questi privilegi di classe pesavano ormai sempre di più su chi, per
goderne, non poteva rivendicare una piena proprietà di beni al cui possesso era legato lo
status sociale, l’appartenenza cioè alla classe dei nobili. La ragione è semplicissima, per
poco che si ripensi agli aspetti costitutivi del feudo: alla ricchezza di cui si è possessori
(non proprietari) si lega la funzione sociale di comando che si esercita. Chi non può
legittimamente alienare i suoi beni, specie in momenti in cui ci sia crisi di liquidità, va
incontro a situazioni difficili. E’ il dramma che, coniugando insieme ironia e senso
storico, si ricostruisce nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
4.3. Il problema visto nella vita reale e quotidiana di Giacomo Leopardi
Di questi problemi e del loro peso concreto sapevano qualcosa anche i Leopardi, i
cui problemi finanziari erano essenzialmente legati a questa situazione. Di fronte a una
commerciabilità sempre maggiore di manufatti industriali, la logica del privilegio,
contrariamente a quanto si possa pensare, va sempre più affermandosi. Si diffonde la
pratica dell’appalto pubblico, della concessione, della deroga, che porterà nel tempo
all’esproprio con indennizzo e al fenomeno delle ditte “fornitrici della casa reale”, tipici
dell’economia italiana del secondo Ottocento. Sono, a pensarci, tutte forme di
“privilegi”, spesso accordati a singoli, che già sanno d’esserne i destinatari, ancor prima
che la gara, il concorso, siano banditi. Ne nascerà un’economia nella quale l’industria
decollerà a fatica e grazie a una politica protezionistica (un nuovo privilegio, stavolta di
classe, di cui godranno alcuni ricchi borghesi, nonché nobili che hanno fatto presto ad
assumere una prospettiva di vita, tutto sommato più conveniente), per il resto restando
sempre in margine ai canali attraverso cui si esercita il commercio. E’ questo il trionfo
della borghesia in Italia: l’avere imposto, quanto alla pratica dell’escalation sociale, un
modello totalmente diverso da quello suggerito dalla vecchia etica cavalleresca,
rigidamente meritocratica nel bene e nel male, per cui si era grandi o perché santi o perché
cinici delinquenti senza scrupoli. La borghesia promuove, nel corso dell’Ottocento,
un’etica sostanzialmente affaristica che porta alla monetizzazione della ricchezza e al
definitivo affermarsi della logica dell’ investimento inteso come frutto del risparmio,
dell’accantonamento, del credito accumulato presso le banche; un’etica che valuta il
rischio, più per evitarlo che per provare il brivido della sfida; un’etica da Don Abbondio,
di cui Manzoni ha avuto, secondo noi il torto di sorridere un po’ troppo bonariamente.
Questo mondo “nuovo” non piace a Leopardi un po’ come non piacerà neanche a
Charles de Tocqueville, che non esiteremmo ad accostare a Leopardi proprio per quanto
riguarda una critica seria, stringente e coerente a ciò che i tempi moderni vanno
preparando sul piano del costume e dei comportamenti sociali.
4.4. I fatti nuovi del nuovo secolo
Per venire comunque a un esempio che sia chiarificatore di quello che intendiamo
dire, possiamo qui aggiungere un’osservazione. Abbiamo già visto che Leopardi è
consapevole del fatto che il Venditore d’almanacchi è ancora assai lontano dal potersi
considerare “signore”, nel senso in cui la parola si spenderà nell’età della borghesia. E’
però diventato “signore” ai tempi di Leopardi, soprattutto nella considerazione di chi
misura l’importanza delle persone secondo il reddito e la ricchezza di cui si dispone, chi
gli almanacchi li stampa e dà anche una paga con cui il venditore sostenta sé stesso e la
sua famiglia. Si intende che in tutto questo non c’è nulla di male. In linea di principio,
infatti, più aumenta il numero dei ricchi, più una società promette di crescere, fino a
giungere virtualmente a un benessere generalizzato. La legittimità di perseguire un tale
obiettivo non è certo cosa che Leopardi possa contrastare. Resta però il fatto veramente
sconfortante che, a distinguere il “signore” da chi non lo è, c’è, nella valutazione comune
delle cose, il metro “obiettivo” della ricchezza misurata in termini di reddito. Questo
fatto dispiace sul piano morale, dispiace tuttora, e costituisce, sempre sul piano morale,
l’eredità più imbarazzante che la “rivoluzione” borghese ci ha consegnato. Da questo
punto di vista non stupisce che al socialismo si siano rivolti alcuni antichi “signori”,
forse più per sdegno del metro morale descritto, che per altre meditate ragioni e sarebbe a
questo proposito interessante approfondire le ragioni del consenso che Leopardi ha
sempre trovato da parte di lettori di sinistra. D’altronde non è nostro compito entrare
nel merito di una questione che riguarda piuttosto la storia delle Operette morali e di quel
che esse hanno rappresentato nella vicenda culturale degli italiani, posteriore ai tempi in
cui Leopardi visse. Su questo punto quel che avevamo da dire, all’interno di una guida
alle Operette è stato già detto nel primo capitolo e non ci pare di dover aggiungere altro,
che non sia il ribadire l’importanza che certi aspetti della vita quotidiana hanno per chi si
dedichi alla filosofia da moralista, come appunto fa Leopardi.
4.5. La critica all’ottimismo della nuova classe dirigente
Tornando invece a quella che più genuinamente ci sembra costituisca la
pessimistica prospettiva di Leopardi di fronte alla ottimistica mentalità che va
diffondendosi nei tempi nuovi, non c’è dubbio che, a far da sfondo alle Operette ci fosse
la nascita di una nuova classe dirigente. E’ questo il grande fatto nuovo che si colloca
all’incrocio della storia e della cronaca dell’età di Leopardi. Tale classe dirigente è più
ricca che colta, più esperta dei commerci che della politica, più pronta alle ragioni
dell’interesse privato che non a quelle dell’interesse pubblico. Quel che preoccupa e
sconvolge Leopardi non è tanto ciò che la nuova classe dirigente sa e a cui è preparata,
ma quello che non sa, i problemi e le questioni di fronte a cui non saprà porsi con la
lungimiranza, l’energia, il coraggio necessari. Fatto che, sul piano del costume,
comporterà come vedremo, uno stravolgimento della morale, con l’uscita di scena del
desiderio della gloria, alla quale l’uomo nuovo del mondo nuovo preferisce il successo.
Sarà questo il tema centrale del Parini una delle più importanti, delle più belle, dense,
meditate e sofferte fra le Operette, a cui spetta il compito di far da ponte, assieme al
Dialogo di Plotino e Porfirio ad altre più ironiche, sottili, e convenzionalmente “facili”
prose di cui si compone l’ultima parte delle Operette morali che si chiudono in un
travolgente crescendo di ironia.
La rinuncia alla grandezza è propriamente la “rivoluzione” che sul piano del
costume si compì in Italia e che in altri paesi europei fu corretta da qualche novità più
succosa ed esilarante dei tempi nuovi. Ci riferiamo a qualche brivido d’avventura che ha
pure segnato la vita di alcuni coraggiosi imprenditori americani, francesi, tedeschi e
inglesi, dove non ci sembra che l’Italia possa definirsi un paese che conti un gran numero
di autentici “capitani d’industria”. Ci riferiamo anche alle imprese coloniali che, a partire
dal Cinquecento, interessarono alcune grandi potenze europee, a cominciare dalla Francia
e dall’Inghilterra, i due paesi leader del rinnovamento. Oggi quelle “imprese” si leggono
generalmente in termini di un affarismo legato allo sfruttamento di ricchezze acquistate
con la forza a spese di popolazioni sottomesse e espropriate perfino della loro cultura.
Lo storico non può tuttavia ignorare un certo aspetto “eroico”, capace di esaltare, in quei
tempi, nobili alla ricerca di gloria e bisognosi, perché quasi decaduti, di riscattarsi con
l’onore di imprese militari condotte a buon fine. Per quanto, alla luce di avvenimenti
successivi, una tale prospettiva possa apparire oggi discutibile, sta di fatto che ebbe in
quei tempi legittimità. Da questo punto di vista quelle “imprese” costituirono anche una
via d’uscita per contrasti sociali, una sorta di compromesso tra la borghesia in ascesa e la
nobiltà in crisi.
In Italia mancò questo momento con cui l’aristocrazia della spada potesse illudersi
di tornare agli antichi splendori e la “rivoluzione” si compì mettendo a nudo
l’inconsistenza di certe pretese non più in accordo con i tempi nuovi. Quel che non si
vide fu l’eccesso di fiducia in quanto veniva promesso e quel che mancò fu un più
scrupoloso esame della natura umana e dei meccanismi che regolano i rapporti all’interno
della società civile.
Questa “rivoluzione”, che di autenticamente liberale ha poco o nulla, rischia allora
di essere una nuova “promessa”, a cui abbandonarsi fideisticamente. Rischio che diventa
concreto, la volta che si ceda alla propaganda che traduce in termini moderni vecchi
concetti.
5. Leopardi e la storia che cambia
5.1. La “posizione” di Leopardi nelle Operette morali …
Leopardi, il quale come tutti gli scrittori scrive per il suo pubblico, si sforza di
sottoporre la logica di questi fatti a un’analisi attenta e cerca di porre i suoi lettori di
fronte alle loro stesse contraddizioni, ritenendo probabilmente che questo sia il suo
compito di filosofo-scrittore: scuotere le coscienze, facendo riflettere e riflettendo lui
stesso criticamente sui concetti nuovi che, attraverso i giornali, corrono e si diffondono
nei vari ambienti colti e semi-colti nei quali si conversa di politica, di attualità di cultura.
Uno dei primi concetti che egli sente di dove sottoporre a esame è quello di
provvidenza mostrando come il progresso di cui tanto si parla non sia altro che il
riproporsi di questo vecchio mito, screditato dalla critica che nel Candido aveva
condotto Voltaire. Viene in secondo luogo il concetto di rivoluzione che si pensa di
attuare nella certezza d’essere nel giusto quando si vuol modificare lo stato di cose
presenti. Vediamo come egli conduca la sua analisi.
5.2....e la critica al provvidenzialismo
A Leopardi non era sfuggito che l’attualizzazione del mito popolare della
provvidenza, convertito nel mito del progresso, nascondeva anche la secolarizzazione di
concetti religiosi, come lasciano intendere i passi dello Zibaldone più sopra riportati. Per
cercare di essere chiari, possiamo dire che un conto è parlare di provvidenza a chi prega o
è pronto a rivolgersi a un atto di preghiera; altro conto a chi si impegni in un affare e miri
ad uno scopo. L’idea che un’ispirazione autenticamente divina, una specie di contatto
con un’altra realtà, possa pure stabilirsi (al di là del fatto che essa si stabilisca o non si
stabilisca realmente) è secondo noi senz’altro possibile nel momento della preghiera.
Forse altrimenti non si spiegherebbe neppure il fatto che l’uomo preghi da secoli e un
po’ in tutte le culture. In fondo la preghiera, se bene interpretiamo la cosa, è
l’espressione di un desiderio che si avverte legittimo e che può divenire intenso fino a
darci il coraggio di fare noi stessi qualcosa per renderlo possibile. Per il credente quel che
si opera in lui, vale a dire ciò che lo porta a compiere una scelta, magari coraggiosa, che lo
condurrà a risolvere il suo problema, sarà frutto delle sue preghiere e benedirà perciò la
provvidenza divina. Quando però dal mondo del chiostro e della meditazione assorta
vengo al secolo (cioè alla storia che vivo), dominato da desideri mondani, la “fede” nel
progresso diviene qualcosa come la brutta copia della fede nella provvidenza, anzi a
pensarci attentamente, diventa una specie di fondazione filosofica di un concetto
inizialmente religioso. Ora, a parte il fatto che mettendosi così le cose, si finisce col
pregare di meno, cioè con meno convinzione e meno zelo, si scambia la filosofia per una
stampella con cui far procedere la fede religiosa. Quest’ultima cosa non piace a Leopardi.
Lo vediamo, come abbiamo già accennato, dai passi dello Zibaldone più sopra riportati.
Essi descrivono infatti la ragione per cui è ormai impossibile un accordo tra la filosofia di
Leopardi e gli insegnamenti della religione cattolica. Questi si originano, più che da un
travaglio interiore, da alcuni fatti contingenti, legati al momento storico vissuto dallo
scrittore. E’ l’eccesso di filosoficità (“razionalità”, nel linguaggio di Leopardi) e dottrina
che snatura la religione, ovvero ne secolarizza, come abbiamo detto, i valori. Tale
eccesso, che è visibile nei filosofi che gli sono contemporanei, da Hegel fino a Gioberti e
a Rosmini, finisce con l’indebolire la spinta iniziale alla fede, che era stato possibile si
esprimesse invece fino a qualche tempo prima. Ora gran parte di questa “razionalità” si
volge proprio a giustificare il mito cristiano della provvidenza, che Voltaire aveva messo
in discussione. Falliti, agli occhi di Leopardi, i tentativi effettuati da teologi e apologisti, i
filosofi traducono il concetto in quello di progresso, pretendendo che la storia segua un
percorso che porta l’uomo a migliorare sempre di più le proprie condizioni di vita.
Leopardi è durissimo contro una tale pretesa. Lo è per le ragioni che spiegherà nel
Dialogo di Tristano e di un amico. I pericoli più seri insiti in una tale convinzione stanno
nel presumere che si possa fare a meno di impegnarsi nell’apprendere qualcosa, dallo
scrivere libri al fare politica. A pensare perché ogni cosa vada al suo posto provvede
infatti il progresso e l’uomo è deresponsabilizzato di fronte all’obbligo di lavorare per
rendere autenticamente vivibile la propria vita.
5.3. Attualità della critica leopardiana
Questa critica, che ci pare più che fondata, colpisce per la sua attualità e può
tranquillamente rinnovarsi di fronte a certa mentalità tutt’oggi diffusa secondo la quale
l’umanità si sarebbe liberata nel corso dei secoli, proprio grazie al progresso, di idee
vecchie e sbagliate. Il punto è che certe idee diventano “vecchie e sbagliate” solo se
qualcuno fa lo sforzo di andare oltre il senso comune delle cose. Se crediamo che il
progresso sia costitutivo del processo storico, quasi che si proceda in avanti
automaticamente, allora perdiamo di vista l’utilità della critica e dell’autocritica e ci
sembrerà che comunque si pensi, lo slancio che ci è dato dai progressi compiuti fin qui
sia tale da potersene compiere degli altri senza alcuna fatica. Nel secolo della
divulgazione un tale pregiudizio è passato in quelli che piuttosto pomposamente si
chiamano oggi studi umanistici e costituiscono in buona sostanza la letteratura per come
viene insegnata agli studenti delle nostre scuole, i quali dall’impianto storicistico del libro
di testo sono tratti alla conclusione che un movimento letterario non sia altro che il
superamento di quello precedente, per cui il romanticismo supera il neoclassicismo, il
verismo supera il romanticismo, il decadentismo supera il verismo, il futurismo supera il
decadentismo. In questo modo, come diceva un simpatico professore di italiano, andando
indietro, risulta che Omero fosse un povero deficiente, dove è invece il maestro di tutti.
La sciocca illusione di una contingenza evoluzionistica che attraversa in ogni tempo la
storia merita una montagna di ironiche accuse. Di qui si origina il dispetto di Leopardi
per ogni forma di antropocentrismo, su cui gli sarà facile criticare anche il concetto di
“rivoluzione”.
Va qui ricordato che, poco più che bambino, Leopardi aveva letto l’ Essay on man
di Alexander Pope10. Sia l’opera sia il personaggio (intellettuale inglese, lettore attento
dei classici, formatosi in seno a una famiglia di tradizione cattolica e approdato a un
sostanziale deismo che qualche benpensante non mancò di rimproverargli) ci sembrano
un po’ sottovalutati dagli studiosi di Leopardi11, come in genere l’influenza che sul
10
. Ne fa fede la Dissertazione sopra l’anima delle bestie, composta da Leopardi dodicenne, nella
quale si cita, in traduzione, un ampio passo dell’ Essay on Man. Si tratta per l’esattezza dei versi della
terza Epistola dal verso 99 al verso
11
Osserviamo, per esempio, che in limine alla Ginestra si riportano alcuni versetti del Vangelo
secondo Giovanni e che proprio il ricordato Essay on Man di Alexander Pope inizia con “Awake, my
St. John”, locuzione di cui ci pare Leopardi intendesse dare una possibile ragione nel passo del Vangelo
da lui citato.
pensiero leopardiano deriva da buona parte dell’ambiente culturale anglosassone.
Ricordiamo Bacone e Locke prima degli altri, che furono importanti non solo per
Leopardi ma per la cultura italiana dal Settecento all’Ottocento. Ma ricordiamo pure
Jonathan Swift, autore oltre che della Battaglia dei libri (di cui torneremo a parlare),
anche delle Predizioni per l’anno 1708, “written – come si legge nel sottotitolo – to
prevent the people of England from being farther imposed on by vulgar Almanack –
makers”12, spunto polemico che, per le ragioni che già sappiamo, non poteva lasciare
indifferente Leopardi. Circa l’Essay on man di Pope, va detto che trasuda di uno spirito
fortemente critico rispetto a qualsiasi visione antropocentrica, spirito che ancora Pope
può intendere in quanto rispondente a quello di un sano cattolicesimo, cosa che gli
consentì di professarsi, benché illuminista e deista, cattolico comunque. Ma adesso i
tempi vanno velocemente mutando e la stessa Chiesa cattolica sembra incoraggiare,
particolarmente per opera di qualche padre gesuita, atteggiamenti assai diversi da quello
di Pope.
Tanto vale allora una conversione come sembra che Leopardi stesso la chiamasse,
quella che rivendicò, a quanto pare, in un colloquio con Vincenzo Gioberti, per cui dalla
meditazione religiosa passò risolutamente alla riflessione filosofica, che è appunto,
comunque si vogliano intendere le parole, quel che risulta egli decidesse nei fatti di fare.
5.4. L’antispiritualismo di Leopardi
Prima di chiudere questo capitolo, ci pare interessante osservare come fosse
estranea a Leopardi, probabilmente per ragioni legate alla sua formazione culturale di
stampo illuministico, qualsiasi visione del mondo improntata a una tradizione
messianica, alla quale invece sembra tornare l’Ottocento. Ci riferiamo alla popolarità di
certe teorie politiche di rigenerazione spirituale tipiche del pensiero rivoluzionario
dell’Ottocento italiano. Pensiamo insomma a varie forme di “spiritualismo”, che, quando
si pone esplicitamente nel solco del cattolicesimo (come nel caso di Gioberti), coniuga
insieme con i valori religiosi i temi della libertà e del riscatto dei popoli; quando si
12
“Scritto per scongiurare il pericolo che il popolo d’Inghilterra sia in futuro vittima di squallidi
scrittori di Almanacchi”.
annunci invece come “laico”, si risolve in una sorta di secolarizzazione dei valori
spirituali del cristianesimo, come nel caso di Giuseppe Mazzini.
Secondo noi molto correttamente Leopardi intende l’una e l’altra di queste due
prospettive come panacee caratterizzate da un evoluzionismo storico e sociale, da
mettere in relazione a una visione essenzialmente antropocentrica, specie quando la
pregiudiziale antropocentrica si presenti insieme a quella etnocentrica e si ragioni nei
termini di una resurrezione dei popoli.
Qui facciamo osservare che la “rivoluzione” ottimisticamente pensata e attuata dai
romantici, si compì malamente, come era del resto prevedibile, sul terreno di tutti più
delicato, quello della divulgazione delle idee, altro aspetto verso cui si scatenano alcune
aspre critiche da parte di Leopardi. Si pensi alla polemica nei confronti dei “gazzettieri”,
a cui lo scrittore si riferisce nella Palinodia al marchese Gino Capponi, nei Nuovi
credenti e nella Ginestra. Giornalisti, pubblicisti e opinionisti che si conquistano un
qualche nome presso il grande pubblico, sia in Italia sia altrove, troppo spesso si
abbandonano all’onda di un sentimentalismo che nulla ha a che fare con i sentimenti
profondi, con i forti contrasti familiari, generazionali, caratteriali che si trovano
nell’orizzonte intellettuale di Leopardi. I veri problemi del momento non vengono né
affrontati né discussi pubblicamente. Se qualcuno pensa a velarli con delicatezza, altri ci
mettono sopra dei veli così spessi da formare una coltre di fumo nero, dietro il quale
giace una verità scomoda che la classe dirigente non intende far conoscere per antiche
paure che i tempi nuovi rendono ancora più angosciose.