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RASSEGNA STAMPA
lunedì 19 maggio 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
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LA REPUBBLICA
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IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere.it (Roma) del 19/05/14
La Barbuta: incendi, botte e minacce
Allarme sicurezza al campo nomadi
Scontro tra bosniaci e macedoni, «soggetti criminali che gestiscono un
vero e proprio racket». «A pagare le conseguenze sono le altre
famiglie». Bruciata la sede della Cri
ROMA – «Una pentola a pressione che sta per scoppiare». Arci Solidarietà, 21 Luglio e
Croce Rossa lanciano un preoccupante allarme sul villaggio attrezzato de La Barbuta, che
ospita 580 rom di etnie diverse. Il campo, che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello
del Piano nomadi della giunta Alemanno, è una sorta di limbo ai margini della Capitale,
dove, nonostante un servizio di guardiania attivo 24 ore su 24, tutto è permesso. Negli
ultimi mesi, di notte si sono verificati numerosi incendi, interi moduli abitativi sono stati
devastati. All’interno de La Barbuta vige anche una sorta di giustizia sommaria, la maggior
parte dei rom subisce estorsioni e minacce ad opera di un paio di residenti considerati i
“veri padroni del campo”. Per questo motivo, molti residenti per paura di violente ritorsioni
sono scappati dal campo.
Video girato dagli abitanti
«Il Comune sa tutto, ma resta a guardare», dicono le associazioni. Corriere.it ha
ripetutamente chiesto all’assessorato alle Politiche sociali l’autorizzazione necessaria per
entrare nel campo e documentare con foto e video quanto avviene. Un’autorizzazione
sempre negata. L’assessore Rita Cutini spiega che preferisce attendere per dare la
propria posizione su quanto accade nel campo. Ma le immagini girate da alcuni residenti
aiutano a capire le reali condizioni de La Barbuta. Anche se si tratta di un filmato
amatoriale è possibile notare i vecchi moduli abitativi incendiati. Le carcasse di lamiera
non sono mai state rimosse o messe in sicurezza. Uno stato di abbandono soprattutto
rischioso per i molti bimbi che popolano il campo.
Fiamme dolose tra i container
Negli ultimi mesi sono stati incendiati sei container (4 moduli abitativi e due di servizi), ma
gli episodi verificatisi dall’attivazione del campo sono innumerevoli. Le cause di questi atti
potrebbero essere molteplici, come spiega Paolo Perrini di Arci Solidarietà: «Molti rom
sono stati convinti a trasferirsi al villaggio de La Barbuta con la promessa di un lavoro o di
un miglioramento delle condizioni di vita rispetto ad altri campi, ma questo non è avvenuto.
Questi incendi potrebbero essere una sorta di vendetta per il mancato rispetto degli
impegni». L’ultimo episodio in ordine di tempo si è verificato due settimane, quando le
fiamme hanno distrutto il sistema elettrico del modulo della Croce Rossa. «Il villaggio è
insicuro di giorno e diventa un vero e proprio far west nella notte – spiega Flavio Ronzi
presidente provinciale di Cri -. Operare in queste condizioni è sempre più difficile».
Ostaggio di criminali
Nel campo la maggior parte dei residenti sarebbe sotto scacco di due o tre personalità
criminali , con precedenti per traffico d’armi e sfruttamento della prostituzione, che
imporrebbero agli altri rom la loro legge. Un modus operandi basato su estorsioni, minacce
e ritorsioni. Un sistema facilitato dalla decisione della Giunta Alemanno di far insediare
nello stesso contesto comunità fra loro in contrasto. «Ne La Barbuta ci sono due grossi
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gruppi, quello bosniaco e quello macedone. Al primo appartengono queste persone che
agiscono nel campo in maniera indisturbata – spiega Carlo Stasolla presidente di 21
Luglio -. Soggetti criminali che gestiscono un vero e proprio racket di cui sono vittime tutti
gli altri rom, indipendentemente dalla comunità di appartenenza».
Nessuno sporge denuncia per paura
«I residenti non denunciano questi fatti per paura di gravi conseguenze. Queste due o tre
persone dettano legge sull’intero campo, il Comune conosce questa situazione, è
informato dei loro precedenti penali, ma non fa nulla per intervenire». Secondo Arci
Solidarietà sarebbe questo uno dei motivi che porta ad incendiare i moduli abitativi. «Molti
residenti stanchi di questo sistema lasciano il campo – continua Perrini – e distruggono i
container perché non siano più riassegnati».
Famiglie in fuga verso Tor de’ Cenci
Interi nuclei familiari, dunque, per fuggire a questa situazione sono ritornati nell’area di Tor
de’ Cenci o a Castel Romano. A subire le conseguenze più dure di questo sistema sono i
bambini. «Abbiamo il compito di portare i piccoli a scuola. Spesso, però, non troviamo più i
bambini perché durante la notte la famiglia ha abbandonato il campo – spiega Perrini -.
Allora dobbiamo cercare di capire dove si sia trasferita la famiglia per continuare a
garantire ai minori il servizio scolastico».
Per costruire il campo spesi 12 milioni
Nei piani della Giunta Alemanno il campo de La Barbuta avrebbe dovuto essere la
soluzione per far confluire un numero rilevante di rom e sinti in un’unica struttura,
contrastando così il fenomeno degli insediamenti abusivi. Il costo sostenuto per la sua
costruzione è stato di 12 milioni di euro. Secondo i dati di 21 Luglio nel 2013 la gestione
del campo è costata 171.000 euro, con una spesa mensile per una famiglia di 5 persone
pari a 2.960 euro. A queste somme vanno aggiunti 150.000 euro (sempre annui) per il
servizio di guardiania e 1.500 euro al giorno per il servizio di trasporto dei minori a scuola.
Giustizia sommaria e addio alle scuole
Nei fatti, però, questi costi non producono risultati: il campo è in balia di se stesso, la
guardiania non riesce ad impedire incendi e atti di «giustizia sommaria» e molti minori,
costretti ad abbandonare La Barbuta perché le famiglie rischiano ritorsioni da altri
residenti, interrompono il loro percorso scolastico. Problemi che la Giunta Marino non ha
ancora risolto. «C’è una responsabilità chiara della Giunta precedente e di quella attuale
nel mantenere il sistema dei campi. Luoghi di illegalità istituzionale che sono terreno fertile
per pochi soggetti criminali che impongono a tutti le proprie regole – spiega Stasolla -.
Abbiamo intentato un’azione legale contro il Comune di Roma per chiedere la chiusura del
campo perché discriminatorio a livello razziale. A settembre ci sarà la decisione, è
comunque assurdo che i diritti di questo tipo debbano essere difesi con leggi e non con
azioni politiche».
L’allarme dei volontari: impossibile aiutare
Il grido di allarme delle associazioni è chiaro: non è possibile operare in queste condizioni.
«Lavoriamo in una situazione di emergenza continua, è impossibile fare un progetto a
medio termine – spiega Perrini -. Proviamo un profondo senso di impotenza. Con
Alemanno, almeno, c’era un programma chiaro (il piano nomadi) che non apprezzavamo.
La nuova Giunta, invece, non sembra avere alcuna idea in merito, si contraddistingue in
quest’ambito per una netta incapacità di azione politica. Ma la situazione in questo campo
è al limite, da un giorno all’altro potrebbe verificarsi una tragedia».
«Rom, un tabù anche a sinistra»
La presunta inerzia dell’amministrazione Marino sul tema nomadi è ribadita da« 21
Luglio»: «L’Assessorato alle Politiche Sociali non ha niente da dire, non sembra avere
nessuna idea, non pare avere nulla di diverso da proporre, non vuole cambiare registro. Al
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di là delle parole l’intenzione dell’ufficio appare quindi quella di voler mantenere il sistema
discriminatorio dei campi nomadi. Questo è chiaro anche per la volontà espressa
dall’assessore Cutini nel voler costruire il nuovo campo in località Cesarina». Un silenzio,
che, secondo Arci Solidarietà nasconde motivi precisi: «Il Comune non fa niente perché
l’argomento rom, anche a sinistra, è un tema taboo, che rischia di far perdere molti voti».
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/14_maggio_19/barbuta-incendi-botte-minacceallarme-sicurezza-campo-nomadi-720ad1c6-df2b-11e3-b0f4-619ff8c67c6b.shtml
Da il Mattino.it del 18/05/14
«No al petrolio nel Sannio»
la marcia dei No triv
Benevento. Secondo gli esperti europei, la concessione di licenze di prospezioni o di
trivellazioni alla ricerca di idrocarburi sono un processo da attuare con grandissima
cautela, e la Commissione Europea ha sottolineato la pericolosità ambientale delle
ricerche petrolifere.
È sempre più forte, in particolare in Campania, l’interesse delle compagnie petrolifere alla
trivellazione dell’Appennino Sannita. Si moltiplicano infatti i permessi di ricerca concessi
dal ministero dello Sviluppo Economico e sottoposti alle richieste di valutazione
ambientale regionali che hanno interessato anche il Fortore. Ieri un nutrito gruppo di
manifestanti del Comitato No Triv, dell’Irpinia e Fortore, ha raggiunto S.Bartolomeo,
partendo da Benevento e attraversando tutto il Fortore e pre Fortore, con una marcia per
dire no alle trivellazioni petrolifere nel Sannio.
La tappa più importante è stata Baselice, dove rappresentati del posto hanno accolto i
manifestanti e si sono uniti a loro per giungere S.Bartolomeo. «La preoccupazione
maggiore è sul rischio di inquinamento delle acque superficiali e sotterranee - ha detto uno
dei manifestanti, il geologo Roberto Pellino - oltre all’eventuale sprigionamento di
matariale radioattivo che potrebbe compromettrre aree destinate a pascolo e coltivazioni.
E dal momento che questa è un’area vocata principalmente all’agricotura questo rischio
diventa determinante. Si potrebbe ipotizzare inoltre che una complessità nelle risposte del
suolo alle vibrazioni sismiche che non consente di valutare adeguatamente gli effetti di
una trivellazione per i differenti comportamenti alle vibrazioni degli strati. Infine, vanno
valutate le possibilità di rottura della tubazione che potrebbe avere effetti superficiali, legati
alle risalite degli idrocarburi, non immediati ma ritardati nel tempo. Per arrivare ai
giacimenti petroliferi le falde acquifere vengono attraversate dalle trivellazioni, visto che
sono in genere a profondità inferiori rispetto ai giacimenti.
La perforazione dei pozzi procede contemporaneamente all’incamiciatura del foro con
pareti di acciaio e cemento iniettato, in modo da superare gli strati acquiferi ed evitare che
i fluidi di trivellazione ed estrazione risalgano all’esterno dell’incamiciatura e si diffondano
nelle rocce permeabili che possono costituire le pareti del pozzo e che contengono acque
in movimento (falde), così degradandone la qualità», conclude.
A S.Bartolomeo i manifestanti sono stati accolti dal sindaco Vincenzo Sangregorio, dal
presidente provinciale dell’Arci Benevento e dal segretario del Circolo Legambiente
Valfortore Nicola Latella. E dall’incontro sembra essere emersa la necessità di organizzare
una manifestazione per sensibilizzare la pubblica opinione affinche si prenda coscienza
della pericolosità rappresentata dalle previste trivellazioni tra il comune di Baselice e
Foiano.
http://www.ilmattino.it/benevento/petrolio_sannio_trivelle_proteste/notizie/697251.shtml
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ESTERI
Del 19/5/2014 – pag. 13
Turchia, 18 arresti per il disastro della miniera
Mentre nel Paese è ancora alta la tensione per le 301 vittime, la giustizia
si mette in moto
Diciotto persone sono state arrestate in Turchia per il disastro nella miniera di Soma,
nell’ovest del Paese, dove sono morte 301 persone. Lo ha riferito la tv turca. Tra gli
arrestati vi sono dirigenti e impiegati della compagnia mineraria proprietaria dell’impianto.
Cinque persone fermate sono interrogate dai procuratori. Il disastro di martedì scorso (solo
l’altro ieri i soccorritori hanno finito di estrarre i cadaveri) ha continuato a essere al centro
delle proteste anti-governative che hanno causato scontri violenti soprattutto nelle grandi
città, tra accuse di negligenza alla società proprietaria della miniera, al governo per non
aver preso misure malgrado i problemi noti del sito estrattivo, al premier turco Recep
Tayyip Erdogan per aver minimizzato sulle responsabilità e per un atteggiamento che la
gente ha percepito come segno di indifferenza per la sorte dei minatori. Da un rapporto
preliminare pubblicato dai media turchi, però, sarebbero emerse diverse violazioni delle
norme di sicurezza, tra cui l’assenza di una spia per le emissioni di monossido di carbonio
e i soffitti in legno anziché in metallo. Intanto il villaggio di Soma, a 140 chilometri da
Smirne, è sotto assedio da parte della polizia, decisa a impedire nuove proteste.
RABBIA E DOLORE
Il disastro è stato innescato «da una scintilla non determinata», aveva detto Ramazan
Dogru, manager della compagnia, aggiungendo che «le fiamme si sarebbero accresciute
perché c’era un ingresso d’aria». «Non c’è stata negligenza », aveva ribadito l’ingegnere
della miniera, Akin Celik. «Faccio questo lavoro da 20 anni - aveva aggiunto -ma non ho
mai visto niente del genere. Non vogliamo che in futuro nessuno dei nostri dipendenti si
faccia mai più del male, anche solo a un’unghia». L’altro ieri, su Erdogan si era abbattuta
una nuova polemica. Ripreso in un video mentre si avventa contro un contestatore, poi
picchiato dalle sue guardie, avrebbe rivolto all’uomo pesanti insulti antisemiti. Lo avevano
affermato i siti dei principali giornali dell’opposizione, tra cui Sözcü. Nel giorno dei primi
funerali delle vittime, sepolte in fosse comuni, le grandi città del Paese avevano reso
omaggio ai caduti di questa tragedia e per il secondo giorno consecutivo il dolore si è
trasformato in rabbia. A Smirne, decine di sindacalisti sono stati ricoverati dopo gli scontri
con la polizia che ha usato i gas lacrimogeni e gli idranti per disperdere una protesta a cui
hanno partecipato più di 20.000 persone. Per denunciare le condizioni di lavoro nelle
miniere di carbone privatizzate, vari sindacati avevano proclamato lo scorso 15 maggio
uno sciopero nazionale. A Smirne, nelle strade sono scese 20mila persone che la polizia
ha cercato di fermare con gli idranti; proteste si erano avute anche a Mersin e Antalya; a
Istanbul, la polizia ha bloccato una manifestazione e chiuso un’importante arteria di
traffico. Ad Ankara un migliaio di operai ha tentato di marciare verso il ministero del
Lavoro: alcuni indossavano caschi e sventolavano bandiere con l’immagine di Che
Guevara. «Il fuoco di Soma brucerà l’Akp», il partito Giustizia e Sviluppo di Erdogan che
però nelle elezioni di marzo, a dispetto di tutti i pronostici, ha vinto con ampio margine le
legislative.
LA TESTIMONIANZA
Erdal Bicak, 24 anni, aveva già terminato il suo turno, quando il suo capo gli ha chiesto di
ritornare sottoterra a causa di un problema. Parlando all’Associated Press, Bicak afferma
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che «la compagnia è colpevole». Spiegando che gli uffici hanno macchine che misurano i
livelli di metano presente nelle gallerie, sottolinea che «i livelli di gas erano molto alti, ma
nessuno ci ha avvertiti in tempo ». Il minatore sopravvissuto ha aggiunto che l’ultima
ispezione alla sicurezza di Soma è avvenuta sei mesi fa, ma gli ispettori si sono fermati
solo a 100 metri di profondità, sena sapere cosa ci fosse più in basso. L’incidente è infatti
avvenuto a 2 km di profondità. Il minatore racconta che le gallerie nel sottosuolo sono
molto strette ripide, e tanto basse da non permettere di stare in piedi, ciò che ha reso
difficile la fuga. Al momento dello scoppio e dell’incendio, Bicak era in un’area a un
chilometro dalla superficie con altri 150 minatori. Le maschere d’ossigeno in loro
dotazione, denuncia, non erano state verificate per anni. Lui e un suo amico hanno
cercato di trovare un’uscita, ma vi era molto fumo e la galleria era stretta e ripida. I due
hanno continuato a schiaffeggiarsi l’un l’altro per non perdere conoscenza.
Del 19/5/2014 – pag. 12
Bosnia e Serbia sono state colpite da alluvioni record con decine di
morti
Nei posti della pulizia etnica croati, islamici e ortodossi scoprono la
solidarietà
I Balcani sepolti dal fango ora nelle strade
dell’odio i vecchi nemici si aiutano
PAOLO RUMIZ
DOBOJ (BOSNIA) - ADELNICE, ancora boschi stremati, persino tralicci piegati dal
gelicidio. È lo stesso posto dove vent’anni fa vedevi i primi segni di guerra, le case
dinamitate o sforacchiate dai kalashnikov. E poi via, oltre una cordigliera desertica, dove
penetrarono le avanguardie del Turco, e dove la Bosnia col suo labirinto di acque spinge
come un cuneo verso la valle della Kupa, ultimo fiume delle Alpi.
Lassù sembra che Mediterraneo e Centro Europa si diano battaglia a colpi di vento. Oltre,
pensi, andrà meglio. E invece no. Dopo Gradiska, quando la Sava sembra raddoppiare di
portata per l’immissione dei primi affluenti di destra — l’Una e il Vrbas — proprio lì le prime
colline di Bosnia sono inghiottite da uno strato di nubi grasse color topo. L’aria è ferma, in
bilico fra i monti e la Pannonia. Ma il peggio arriva col fiume Bosna, lo stesso che sfiora
Sarajevo. Fra Derventa, Modrica e Doboj il traffico si interrompe, i ponti sulle montagne
son venuti giù, la precedenza è tutta per i mezzi di soccorso.
Ora esce il sole, il paesaggio luccica di rivoli, mostra plasticamente la dimensione della
catastrofe. Maglaj è sotto quattro metri d’acqua. A Doboj si parla di settanta vittime e di
numerosi dispersi. A Srebrenica, fa sapere Azra Ibrahimovic, si arriva solo per la strada
alta delle miniere; Bratunac e Potocari sono isolate. Travnik, la città di Ivo Andric, è andata
sotto, e così anche Prijedor e Zenica. Fra Modrica e Zepce il fiume si è mangiato
200 metri di ferrovia e chilometri di asfalto stradale. Ma il peggio è il seminato perduto:
granturco spazzato via, alberi di prugne e ciliegie che hanno perso i frutti. Dopo l’alluvione,
la paura della carestia.
C’è una colonna croata che sale da Slavosnski Brod, la catena della solidarietà è partita
alla grande, anche fra ex nemici, sulle stesse strade della pulizia etnica. Serbi, croati,
musulmani, cartelli in cirillico, in alfabeto latino, ora nessuno guarda la differenza. E’
saltato tutto, l’emergenza ridicolizza le spartizioni di Dayton. «Dite che mandino aiuti
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dall’Italia, ma non al governo che si mangerebbe tutto. Portate direttamente a noi. Cibo,
vestiario, materassi, coperte, badili».
Ma italiani non si vedono, gli aiuti governativi sono a quota zero. Dalla Serbia, dove il
disastro prosegue oltre la frontiera della Drina, arriva notizia di colonne slovene, ungheresi
e anche russe. Mosca è già al lavoro con squadre a Obrenovac, cuore del disastro a
Sudovest di Belgrado. Annunciano aiuti gli Emirati. Manca solo l’Europa. La gente non la
vede, in Serbia come a Sarajevo. All’Unione, ti fanno capire, i Balcani interessano per
i giochi della geopolitica, e chi se ne frega se «stavolta è quasi peggio della guerra», se i
fiumi si portano via villaggi e fabbriche, se “le colline si muovono” e sommergono quel
poco che due Paesi in ginocchio sono riusciti a ricostruire.
Alcune strade si stanno già riaprendo, ma il rischio è sulle montagne dove i campi minati
ancora non bonificati smottano in alcuni punti. Una situazione afgana. Il territorio abraso
dall’incuria e dalla guerra è diventato un acceleratore di piene, e così non tanto i grandi
fiumi, ma i piccoli “potok” si trasformano in killer, centuplicano la portata in poche ore. A
Dobrinja, periferia di Sarajevo, un rigagnolo ha trascinato via un uomo. A Modrica e a
Zvornik c’è chi ha visto corpi portati dalla Drina come nei giorni della pulizia etnica, quando
le bande trasformarono i ponti in scannatoi.
La gente si è ritirata sui piani alti o sui tetti, e aspetta soccorso. Vecchi, adulti e bambini
dormono all’aperto, sulle colline. Per via degli ospedali tagliati fuori molte donne hanno
partorito in casa o in ambulatorio. Le facce. Indescrivibili. Molto oltre la rassegnazione.
Ti guardano per dire: che può succederci di peggio? Cosa ancora, dopo gli scannamenti, il
silenzio dell’Occidente, il genocidio impunito, la criminalità al governo e una grande
alluvione? Eppure non c’è fatalismo. Nessuno aspetta la protezione civile, come da noi.
Qui sono vent’anni che non c’è. Quelli che possono, sono a spalare. E sarebbero tanti di
più, se li si rifornisse di stivali di gomma. Stivali che, ovviamente, non ci sono.
Capacità di scherzare, anche col fango alle cintola: «Va male, malissimo. Ma intanto
facciamoci un cicchetto». Frase già sentita, vent’anni fa, a Sarajevo assediata. Quattro
giorni fa, quando la Miljacka si è improvvisamente gonfiata nella capitale, qualcuno aveva
sparato l’immagine dell’onda con sopra, in fotoshop, un surfista. “Grazie Tito”, ghigna
Emina Bruha Brkovic, alludendo alla diga di Lukavac piena fino all’orlo. Il senso è: meno
male che fu Tito a farla costruire. Se l’avessero appaltata quelli di oggi, sarebbe già venuta
giù.
La note stonate, come sempre, dalla politica. «Sabac non deve cadere» proclamano i
giornali serbi, gonfi di Dio-Patria-Famiglia. E fanno il verso alla Grande Guerra, quando
proprio Sabac, sulla Sava, fu nucleo della resistenza contro l’austro-ungarico invasore.
«Mobilitazione generale!», volano parole così. Ma funzionano: in diecimila hanno
accumulato sacchi di sabbia attorno alla città, e ora il top della piena è passato, scende su
Belgrado. E intanto partono appelli al mondo: “È una delle peggiori emergenze climatiche
del secolo. Gli sfollati fra Bosnia e Serbia solo almeno settantamila».
La Drina dalle parti di Bijeljina è inavvicinabile: la confluenza con la Sava è diventata un
lago dove solo le cicogne sembrano a loro agio. Ci sono già stato un mese fa, sul fiume
cantato da Ivo Andric attraverso la storia di un ponte. Le colline a Sud di Loznica,
specialmente, mi sono parse un piccolo Eden. Sterminati frutteti, le prugne più buone del
mondo, cespugli di more e mirtilli e, ai crocicchi, piccoli chioschi “turchi” profumati di
grigliata. Ma soprattutto acqua, un reticolo luccicante di acqua benedetta tra i boschi,
villaggi e mille piccoli ponti. Nessuno avrebbe detto, un mese fa, che quei rigagnoli
avrebbero mosso le montagne.
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Del 19/5/2014 – pag. 15
I ribelli del generale Khalifa Hiftar all’assalto del palazzo del Congresso:
“È un vero campo di battaglia” I media: “Sette deputati prigionieri”. A
Bengasi scontri con gli islamisti: almeno ottanta morti, cento i feriti
Libia nel caos, attacco al Parlamento
GIAMPAOLO CADALANU
NON è bastata la morte di Muammar Gheddafi per scacciare l’incubo della guerra civile: la
Libia è di nuovo spaccata, con una fetta del paese e delle Forze armate addirittura
all’attacco delle sedi istituzionali di Tripoli, e un’altra fetta che invece difende lo status quo,
mentre cresce il ruolo delle milizie islamiche di stampo qaedista. Ieri davanti al Congresso
nazionale c’era quello che Al Jazeera ha definito «un campo di battaglia»: le milizie del
generale Khalifa Hiftar hanno attaccato il palazzo del Parlamento per «arrestare gli
estremisti» islamici.
L’alto ufficiale, ex collaboratore del colonnello Gheddafi poi fuggito negli Stati Uniti e
rientrato in Libia solo nel 2011, ha preso la testa del dissenso contro la deriva jihadista di
parte del paese: con lui sono schierati i miliziani di Zintan, protagonisti della rivoluzione,
mentre gli uomini di Misurata, anch’essi colonna della rivolta anti-regime, sembrerebbero
schierati con i jihadisti radicati a Bengasi e in tutta la Cirenaica.
L’attacco al Parlamento è stato respinto, dopo che le forze di sicurezza avevano fatto
evacuare i parlamentari. Non è ben chiaro se i militari abbiano preso qualche politico in
ostaggio, secondo il Libya Herald in mano ai ribelli ci sono almeno sette parlamentari.
Diverse testimonianze riferiscono che le truppe fedeli a Hiftar hanno anche sparato contro
una vicina base militare, controllata da una milizia islamista. A tarda serata, Tripoli
appariva deserta, con i segni degli scontri vicino al Parlamento e nella zona di Abu Salim e
al quartiere della “collina verde”.
Il generale sembra deciso ad andare avanti, convinto che le autorità del Paese non
abbiano mandato legale per governare. Il Parlamento è in effetti diviso, con gli islamisti
che cercano di varare un nuovo governo e i laici che vorrebbero nuove elezioni. Proprio
poche ore prima dell’attacco, il premier ad interim Ahmed Maiteeq aveva annunciato la
formazione di un nuovo governo, che avrebbe dovuto essere votato nei prossimi giorni.
Ma dopo quasi due mesi di impasse, a prendere l’iniziativa ci ha pensato appunto Hiftar,
venerdì, con un robusto attacco contro gli islamisti a Bengasi: si parla di una ottantina di
morti negli scontri, mentre i feriti sono almeno il doppio.
Due fra le milizie più potenti schierate a Tripoli, denominate Al Qaaqaa e Sawaaq,
composte in gran parte da miliziani provenienti da Zintan, si sono schierate con il
generale. I primi hanno spiegato la decisione con un comunicato apparso su internet:
abbiamo attaccato il Parlamento perché «sostiene i terroristi». I due gruppi avevano già
indirizzato un ultimatum ai parlamentari perché sciogliessero la camera.
I vertici libici parlano di colpo di Stato. Nouri Abu Sahmein, presidente del Parlamento, di
tendenze islamiche, ne ha parlato alla tv Al Nabaa: «Noi siamo stati eletti per questo ruolo,
e lo portiamo avanti. Chi ci attacca colpisce qui e là per far vedere che ha influenza, ma
noi e le milizie leali alle istituzioni abbiamo tutto sotto controllo». Secondo fonti di Tripoli, il
governo ad interim avrebbe chiesto alle brigate di Misurata, fedeli al Parlamento e di
tendenze islamiste, che avevano lasciato la capitale, di rientrare per difenderla.
Dopo la rivoluzione del 2011, l’attività politica libica è stata spesso paralizzata dagli scontri
fra fazioni: le scaramucce fra brigate paramilitari, gli attacchi al Parlamento e persino il
sequestro del premier, nei mesi scorsi, hanno bloccato ogni tentativo di stabilizzare il
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Paese e hanno preso in consegna giacimenti, condutture e porti, riducendo l’estrazione di
petrolio da 1,4 milioni a 200 mila barili al giorno. L’attacco di ieri, lanciato da Hiftar con il
programma di “ripulire” le istituzioni dalla presenza islamista, sembra un passo ulteriore
verso il caos. Già a febbraio il generale aveva suscitato voci di golpe comparendo in
pubblico con l’uniforme d’ordinanza per chiedere che un comitato presidenziale fosse
investito di poteri governativi per indire nuove elezioni e togliere il paese dall’impasse.
Del 19/5/2014 – pag. 15
UN GOVERNO OSTAGGIO DELLE MILIZIE
RENZO GUOLO
LA LIBIA precipita nel caos. Nelle ultime settimane si sono susseguiti assalti al
Parlamento, sequestri di parlamentari e minsitri, attacchi di gruppi jihadisti e salafiti. Sullo
sfondo, la consueta incapacità del governo centrale di imporre la propria sovranità sulle
milizie e sulla Cirenaica, dove i separatisti guidati da Ibrahim al Jadran continuano a
controllare parte dei terminal della regione.
L’attacco contro le milizie islamiste radicali dell’ex-generale della riserva Khalifa Hiftar, non
è che l’ennesimo episodio di questa infinita transizione. Hiftar punta a catalizzare quanti
ritengono di mettere fine alla fibrillazione seguita al post-Gheddafi. Il suo bersaglio è
duplice: piegare le forze islamiste, accusare di destabilizzare il paese, e riportare l’Est
sotto il controllo di Tripoli. Il governo centrale ha definito questo tentativo «un colpo di
Stato»: del resto le forze della Fratellanza Musulmana sono decisive in Parlamento, come
ha dimostrato anche la farsesca vicenda della nomina di Ahmed Maiteeq a nuovo primo
ministro al posto del premier a interim Abdullah al-Thani, annullata innescando una grave
crisi istituzionale. Con il risultato, paradossale, che la Libia si è trovata con due capi del
governo, anche se un governo effettivo non c’è.
Hiftar, che si è presentato come capo dell’Armata nazionale, ha l’appoggio anche di
effettivi e mezzi dell’esercito regolare, frustrato dalla sua irrilevanza nell’attuale situazione
e dagli attacchi condotti dalle milizie dell’Est contro le sue truppe. Bisognerà vedere se
riuscirà a aggregare altre unità. Anche se il capo di Stato maggiore delle forze regolari,
Abdessalem Jadallah al-Salihin, ha fatto appello a militari e milizie rivoluzionarie, vero
cuore del potere, perché si oppongano contro chiunque tenti di controllare Bengasi con la
forza.
Hiftar ha vissuto per vent’anni negli Stati Uniti dopo aver abbandonato, alla fine degli anni
Ottanta, il regime di Muammar Gheddafi. Potrebbe essersi mosso autonomamente,
puntando a un crescente consenso interno e internazionale se il suo tentativo di
«sradicare il terrorismo» andasse in porto. In caso contrario, nessuno si preoccuperebbe
della sua sorte. Un tentativo, comunque, destinato a alimentare l’instabilità sulle sponde
del golfo della Sirte.
del 19/05/14, pag. 15
Pluralismo e Religione
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Gli intellettuali islamici che raccolgono la
sfida
di Monica Ricci Sargentini
Mentre il mondo s’indigna per le studentesse nigeriane rapite da Boko Haram e per la
condanna a morte di una sudanese cristiana per apostasia, a Istanbul filosofi, storici,
giuristi e attivisti dei diritti umani ci presentano un Islam diverso, capace di convivere con
la democrazia, il pluralismo e di praticare la parità di genere. Le condanne a morte per
blasfemia o apostasia, le persecuzioni dei cristiani, la limitazione della libertà delle donne
sono applicazioni di una verità, quella contenuta nel Corano, o una sua distorsione? A
sentire i professori e gli esperti di Islam, riuniti alla Bilgi University per gli «Istanbul
Seminars» organizzati da Reset, esiste una via diversa da quella del fondamentalismo che
alla lunga potrebbe diventare predominante. «Il Corano deve essere contestualizzato alla
nostra epoca — dice l’indonesiano Syafiq Haysim, esperto di questioni di genere
all’interno dell’Islam e co-fondatore della Rahima Foundation — prendiamo ad esempio la
poligamia. Ai tempi di Maometto era molto praticata, quindi il Corano cerca di limitarne
l’uso. Questo vuol dire che al giorno d’oggi andrebbe abolita se consideriamo l’evoluzione
dei tempi. È assurdo dire che se non accetti la poligamia vai contro Allah».
Il problema è che l’Islam è una religione senza centro, manca un’autorità gerarchica, e
quindi ognuno applica la sharia in modo diverso. «Il pluralismo — sostiene Haysim — è
assolutamente compatibile con la nostra religione. A Medina Maometto ha scritto una
Costituzione in cui tutti i gruppi sono presenti nella struttura politica: musulmani, ebrei,
cristiani e pagani. In Indonesia, per esempio, abbiamo più chiese che moschee. Certo ci
sono stati episodi di mancato rispetto delle minoranze anche da noi ma li stiamo
superando».
Compromesso è la parola chiave per l’israeliano Avishai Margalit, professore di filosofia a
Princeton e autore di «A decent society: «Dobbiamo sempre pensare che la conseguenza
del pluralismo è la capacità di arrivare al compromesso, di trovare un consenso, in modo
da evitare il conflitto. Io sono ottimista. Sono convinto che queste società dovranno cedere
al pluralismo attraverso la pluralità. Andiamo verso mondi sempre più variegati in cui non
esiste una sola verità, una sola religione, una sola cultura. Più le società musulmane
diventeranno plurali e più ci sarà una pressione verso il pluralismo. Io penso che ci
vorranno dieci o quindici anni».
Margalit fa l’esempio della Costituzione tunisina, approvata lo scorso gennaio dopo infinite
discussioni e limature, e considerata un esempio di modernità senza precedenti nei Paesi
arabi: «C’è stato lo scontro sulla parità di genere, all’inizio si parlava di complementarità
con l’uomo che, chiaramente, era la negazione dell’uguaglianza. Poi quel passaggio è
stato tolto ma è rimasto il cavallo di troia della difesa della moralità. Nell’articolo 49 si dice
che la legge limita le libertà garantite dalla Costituzione per proteggere i diritti altrui, la
sicurezza pubblica, la difesa nazionale, la sanità pubblica o la morale pubblica. È chiaro
che il passo si presta alle più diverse interpretazioni». La Costituzione tunisina afferma la
libertà di credo e di coscienza e proibisce il takfir , cioè il trattare una persona come
miscredente o apostata. Ferida Abidi, avvocata, ne va particolarmente fiera perché lei
stessa ha contribuito alla stesura della Carta. Abidi, che è membro del partito islamico
Ennahda e presidente della Commissione dei diritti e delle libertà, non vuol sentire parlare
dei casi che hanno fatto scalpore nel mondo come quello della studentesse rapite in
Nigeria. Nei suoi occhi, incorniciati dal velo, spunta una chiara diffidenza verso chi porta
ad esempio ciò che in molte parti del mondo scatena l’islamofobia.
«Le libertà, l’uguaglianza, la fratellanza — dice convinta — sono gli obiettivi dell’Islam così
come la democrazia, che è l’equivalente della nostra Shura ed è basata sul dialogo.
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L’Islam ha sempre dato un grande spazio alla donna che è uguale all’uomo. Il mio partito
ha condannato il rapimento delle giovani in Nigeria che è contrario ai principi dell’Islam».
«Maometto non odiava di certo i libri, anzi diceva di leggere» incalza Syafiq Haysim. Dal
pensatoio dei Seminari di Istanbul, quel ponte ideale sul Bosforo che unisce culture
diverse sembra più reale che mai.
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INTERNI
Del 19/5/2014 – pag. 1-21
MAPPE
L’Europa ringrazi gli antieuropei
ILVO DIAMANTI
PER fortuna ci sono gli antieuropei. Che scendono in piazza contro l’Unione Europea e
contro l’euro. Per fortuna dell’Europa. Ma, in fondo, anche di Renzi e del Pd. Perché
grazie agli antieuropei si parla dell’Europa.
E grazie al M5s, oltre che a Renzi, anche il Pd ha ritrovato le piazze. Gli antieuropei. Sono
i soli soggetti politici a mobilitarsi e a mobilitare l’opinione pubblica, in questa fase.
D’altronde, l’Unione Europea piace a pochi. (Come emerge da un sondaggio DemosPragma per la Fondazione Unipolis, gennaio 2014.) Esprime fiducia nei suoi riguardi il
27% degli elettori, in Italia, come in Gran Bretagna (che, però, è fuori dall’euro), il 33% in
Francia, il 38% in Spagna. Solo in Germania il consenso nella Ue è maggioritario (55%).
Non a caso, visto che la Germania costituisce l’asse portante dell’Unione. E gran parte del
malessere, negli altri Paesi, dipende proprio da questo. Altrettanto — e, forse, più —
negativo è il giudizio sulla moneta. Sull’euro. Poco più del 12 per cento degli italiani
(intervistati da Demos, ottobre 2013) ritiene, infatti, che la moneta unica abbia prodotto
«vantaggi ». Meno di metà rispetto a dieci anni prima, quando l’entusiasmo seguito
all’ingresso nella moneta si era già consumato.
Nell’aria si respira, dunque, una diffusa euro-delusione, particolarmente densa presso le
componenti sociali più vulnerabili. Gli operai, le casalinghe, i disoccupati. Ma anche i
lavoratori autonomi. Soprattutto nel Centro Sud. Non c’è, dunque, da sorprendersi di fronte
a questa “singolare” campagna elettorale europea. Nessuno che si azzardi a dirsi
europeista, in modo convinto. Tanto meno, a favore dell’euro. Non solo in Italia. Ma
soprattutto in Italia. Prevalgono gli argomenti eurodelusi. Eurocritici, se non euroscettici.
Disposti, al più, a indicare “l’Europa che vorremmo”. Che costruiremo. Domani. In caso di
vittoria e di governo. Mentre ben più espliciti e determinati sono i soggetti — e i messaggi
— politici antieuropei. Contro l’Europa delle banche e dei mercati, dei burocrati e dei
funzionari. Contro l’Europa che neutralizza la sovranità degli Stati nazionali e/o dei popoli.
Al più, l’Europa disegnata da questa campagna elettorale è un “non-luogo”. Un’entità
incerta e indefinita. Per questo la campagna anti-europea diventa utile. Non tanto quella
opportunista, condotta da Berlusconi, che contesta l’Europa (e la Germania) che lo
contesta. Ma l’antieuropeismo determinato e convinto. Espresso, soprattutto, dalla Lega e
dal M5s. La Lega, in nome dell’Europa dei popoli. E dell’indipendenza del popolo padano,
in particolare. Il M5s, contro la democrazia in-diretta — e poco democratica — delle
istituzioni europee. Definite, da Grillo, «un club Med, un dolce esilio dei trombati alle
elezioni nazionali ». Ma, soprattutto, contro l’euro. Non a caso, il M5s propone di restare
nella Comunità (non nell’Unione) Europea, ma di uscire dall’euro. Di tornare alla moneta
nazionale. Con un referendum.
Ecco, la Lega e, soprattutto, il M5s — su posizioni peraltro lontane e diverse — hanno,
comunque, il merito di porre l’Europa, le sue istituzioni, la sua moneta al centro del
dibattito. Per paradosso, sono i principali partigiani dell’Europa e dell’euro. Perché li
prendono sul serio. E suggeriscono, al tempo stesso, la questione che dovrebbe, davvero,
venire posta e sottoposta a tutti, in questa fase. E cioè: cosa succederebbe se uscissimo
davvero dall’Unione Europea? E dall’euro?
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A dare ascolto ai sondaggi — che ovviamente non sono referendum — il risultato
sembrerebbe netto e scontato. Il disincanto europeo, infatti, non pare giungere fino al
punto di rottura. Fino a sfociare in euro-scetticismo o, peggio, in euro-rifiuto. Meno di un
italiano su quattro, infatti, pensa che converrebbe uscire dalla Ue. Mentre meno del 30%
pensa che l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro e tornare alla lira. Gli italiani, dunque, in
larghissima maggioranza, anche se insoddisfatti, restano attaccati alla Ue e all’euro.
Perché temono che, “fuori” dall’euro e dalla Ue, le cose andrebbero peggio. Potrebbero
precipitare. E dunque: l’Europa e l’euro “nonostante tutto”, potremmo dire (echeggiando la
formula coniata da Edmondo Berselli per l’Italia).
Il problema è che non è facile sostenere le buone ragioni di un’idea e di un progetto
“nonostante tutto”. Così prevale il silenzio. La reticenza. I sussurri. Gli unici a gridare sono
gli anti Ue e soprattutto gli anti euro. Come Grillo. Che, peraltro, ha spostato la campagna
delle europee sul piano interno. Nazionale. Non solo, ma soprattutto lui. Perché Grillo e il
M5s sono divenuti i principali antagonisti del governo e di Renzi. Hanno trasformato il voto
in un referendum: pro o contro Renzi. Pro o contro il M5s. Grillo, proprio per questo, sta
mobilitando le piazze. Come prima del voto del febbraio 2013. Con la differenza, rispetto a
un anno fa, che anche il Pd di Renzi lo ha seguito sullo stesso terreno. Che poi è il teatro
tradizionale della sinistra. La piazza.
Al di là dello scontro sui numeri, in base a report giornalistici e fotografici, com’è avvenuto
in occasione delle recenti manifestazioni di Reggio Emilia, la novità è questa. Non solo
Grillo, ma anche il Pd di Renzi è tornato in piazza. Non avveniva da tempo. Ma di ciò deve
ringraziare “anche” la sfida di Grillo. Che lo costringe a mobilitarsi, a rafforzare la propria
identità attraverso la partecipazione e la comunicazione “pubblica”. Ad agire come un
“partito”. Così gli antieuropei ci costringono a parlare dell’Europa e delle sue ragioni.
Senza svalutarle. In quest’epoca di non-luoghi e di non-partiti, non mi pare una cattiva
notizia.
Del 19/5/2014 – pag. 3
L’incognita astensione che deciderà il risultato
ROMA - I toni alti disgustano invece di infiammare. Lo spettro dell’astensione si aggira
sulle elezioni del 25 maggio con alcuni picchi che i sondaggisti hanno rilevato. Un esempio
per tutti? All’indomani delle violenze ultrà nella finale di Coppa Italia a Roma, Euromedia
Research diretto da Alessandra Ghisleri registrò un crollo di votanti rispetto alla
percentuale delle europee del 2009, in cui l’affluenza alle urne fu del 66%. Delusione,
assenza dello Stato, sconforto: e ci si allontana dalle urne.
Ancora più allarmanti sono le previsioni di altri analisti e politologi. Per i quali sono però i
fatti dell’Expò a determinare la differenza. Mazzette, tangenti, collusioni politiche
costituiscono il colpo finale sulla voglia di andare a votare. Nando Pagnoncelli della Ipsos
qualche giorno fa aveva fatto notare che alla gente comune, a chi ha un figlio in cerca di
lavoro, a chi è alle prese con le difficoltà quotidiane non piace questa escalation di insulti. I
toni estremi appunto allontanano molti elettori mentre cooptano i simpatizzanti e i militanti
5Stelle. La disaffezione si prevede sarà forte.
L’astensionismo è una incognita. Non si sa chi avvantaggi alla fine, se Grillo o Renzi. I
sondaggisti su questo non si sbilanciano, le opinioni divergono: per alcuni più astensione è
favorevole al Pd, che può contare su uno zoccolo duro di militanti e elettori; per altri
sarebbero invece i grillini a volare se i votanti calano. Nicola Piepoli racconta della
sacralità del voto e di quando nel 1946 accompagnò la madre al seggio a Novara.
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L’astensionismo è una brutta bestia da allontanare – afferma Piepoli - però l’Italia non avrà
la maglia nera tra i paesi Ue in fatto di non-voto. Ad aiutare la partecipazione ci sono le
elezioni amministrative. Se infatti in 4 mila comuni si vota per le europee, in altrettanti
- ragionano all’Istituto Piepoli si vota anche per altro. Il traino amministrative o regionali - in
Piemonte e in Abruzzo si vota per il rinnovo del consiglio regionale - dovrebbe far lievitare
la partecipazione.
Comunque tra ottimisti e pessimisti la linea di confine passa attorno al 60%: sotto è
allarmante, sopra è accettabile. Se votasse solo un elettore su due, la politica dovrebbe
fare una seria autocritica. È vero che le europee sono da sempre le elezioni meno
partecipate, e il trend del voto degli ultimi anni è stato in costante calo, tuttavia per i partiti
è un test politico non di poco conto. Ghisleri nota che i fatti dell’Expo, gli stipendi altissimi
dei manager, gli altri scandali sono benzina in favore dell’astensione. L’ultima settimana,
ribadisce, è quella decisiva. Non è ottimista sulla previsione di affluenza. Né lo è Roberto
Weber di Ixè: «Bisogna caricare sulle medie delle ultime europee, la flessione delle più
recenti tornate elettorali». ( g. c.)
Del 19/5/2014 – pag. 4
LA GIORNATA
Tasi, è braccio di ferro tra governo e Comuni
Delrio: proroga possibile
Il Pd vuole lo slittamento a settembre del pagamento
Oggi l’incontro decisivo, sindacati preoccupati
ROMA - Scontro governo-Comuni sulla Tasi. Ieri il sottosegretario alla presidenza del
Consiglio Graziano Delrio ha invitato i tantissimi Comuni (circa il 90% del totale) che
ancora non hanno deliberato le aliquote sulla base della quali calcolare l’importo della
nuova tassa «a decidere alla svelta».
Replica dell’Anci, l’associazione dei Comuni: quando ad aprile il Parlamento ha approvato
le modalità per l’applicazione della Tasi, i Consigli comunali degli enti che andranno al
voto domenica (oltre quattromila) erano già stati sciolti. E deliberare con una seduta
straordinaria entro il 23 maggio, come stabilisce la legge in vigore, ormai non sembra
realistico.
Al di là delle schermaglie si sta lavorando a far slittare i termini per il pagamento della
prima rata della Tasi, l’imposta cioè sui servizi indivisibili che, insieme alla Tari, ha
sostituito l’Imu sulla prima casa. Oggi ci sarà un incontro tecnico al ministero
dell’Economia tra il governo e i Comuni. Entro la settimana si deciderà «se ci sarà una
proroga o no», ha detto Delrio a Maria Latella (Skytg24). Il governo è orientato a far slittare
i termini per ridurre le complicazioni a carico dei contribuenti già impegnati in queste
settimane con il 730. I sindacati temono il caos. «È da due mesi che chiediamo il rinvio»,
ha detto il presidente della Commissione Bilancio della Camera, Boccia (Pd). Ma lo
slittamento determinerebbe una perdita di liquidità per i Comuni mettendo a rischio
addirittura il pagamento degli stipendi e l’erogazione dei servizi. Dunque il governo
dovrebbe anticipare le risorse che arriveranno ai Comuni in ritardo. Si parla di non meno di
2 miliardi.
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Del 19/5/2014 – pag. 6
Prescrizione, stop dopo il primo grado
LIANA MILELLA
ROMA - Sei anni per chi auto-ricicla denaro sporco, 5 per chi falsa i bilanci delle imprese,
prescrizione bloccata dopo la sentenza di primo grado. Tutto nel disegno di legge Orlando
che già contiene l’associazione mafiosa punita più duramente di oggi, fino a 15 anni, e una
politica penale sui sequestri e le confische che stringe molto di più i criminali, ma fa vivere
le aziende. In via Arenula, con un occhio attento a quel che succede in Senato, lievita il
provvedimento che, per il suo contenuto, per la prima volta dopo ormai 12 anni, invertirà la
storia della giustizia sulle leggi ad personam (quella sul falso in bilancio e la famosa ex
Cirielli).
Un risultato non da poco per il Pd, che però deve “tenere con sé” anche gli alfaniani di
Ncd, e soprattutto non deve distrarsi sulle mosse di M5S.
Ovviamente si tratta di scelte delicatissime. Esse hanno alle spalle, come nel caso della
prescrizione, ampi studi di commissioni di esperti (quella di Fiorella, nel caso di specie),
ma l’ultima parola spetta alla politica. E quando di mezzo ci sono reati come il falso in
bilancio o addirittura la prescrizione, anche un ministro attento al dialogo come il
Guardasigilli Andrea Orlando, dovrà spendere tutta la sua energia e capacità di manovra
governativa e parlamentare per portare a casa un risultato significativo e non un mero
compromesso, su cui peserebbero poi gli attacchi di Grillo.
I punti fermi che, al momento, si possono mettere in fila vanno distinti a metà tra le novità
delle misure e la strategia governativo-parlamentare per portarle a casa. Innanzitutto. Il
reato più “avanti” come elaborazione è l’auto-riciclaggio, visto che il testo è a palazzo Chigi
già da tre settimane, con un certo malcelato fastidio di via Arenula per essere ancora “in
lista di attesa”. Ma alla fine, proprio questa attesa, potrebbe giocare a favore di Orlando,
che dopo il voto del 25, potrà spendere un provvedimento assai più importante. Anche il
falso in bilancio non è indietro. L’idea è di tornare al vecchio testo pre-azzeramento di
Berlusconi, con una pena massima di 5 anni che consentirà le intercettazioni. La pagina
più indietro, e anche quella di stesura più complessa, è la prescrizione, su cui l’ipotesi
dello stop dopo il primo grado è molto gettonata.
Ma che rapporto c’è, in queste ore, tra Orlando e Pietro Grasso, il presidente del Senato
che, nel suo primo giorno da senatore del Pd, aveva presentato un ddl anti-corruzione
oggi tornato in auge? Spiegano, nei due palazzi, che sicuramente Orlando e Grasso non
stanno litigando sulla primogenitura del progetto anti-corruzione. Non c’è una rivalità, o
una sorta di gara a chi arriva per primo al traguardo. Il ddl Grasso, ormai, è diventato un
ddl D’Ascola, dal nome del senatore Ndc Nico D’Ascola, avvocato di Reggio Calabria,
referente di Niccolò Ghedini per Tarantini (l’uomo delle escort di Berlusconi), adesso
nuovo legale di Scajola, che ne è il relatore e ha unificato le varie proposte sull’anticorruzione. Quel testo, che contiene pure auto-riciclaggio e falso in bilancio, dovrebbe
andare in aula il 27 maggio, i grillini spingono, la commissione si è già divisa. Ma, negli
ultimi giorni, dal governo è emersa la volontà di condurre i giochi con un proprio testo. Che
andrà sempre presentato al Senato per evitare inutili conflitti e perdite di tempo. Su
questo, tra Grasso e Orlando, non ci sarebbero problemi.
Resta l’ultimo aspetto. L’intesa politica tra Pd e Ncd. In cauda venenum. Angelino Alfano,
ex Guardasigilli di Berlusconi, ma oggi leader di Ncd e soprattutto ministro dell’Interno, ha
già dato il suo via libera sul ripristino del falso in bilancio, e davvero non è poco. La sua
parola dovrà poi valere anche al momento del voto. Resta il nodo della prescrizione, su cui
l’ampio partito degli avvocati di sicuro darà battaglia aperta in Parlamento.
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Del 19/5/2014 – pag. 5
Ora Passera vuole fare il leader dei moderati
L’ex ministro sul Corriere: «Grillo e Renzi populisti, non risolvono i
problemi». Il 14 giugno il lancio di «Italia Unica»
ROMA - «Il ballottaggio tra Renzi e Grillo è dannoso perché entrambi non rappresentano
la risposta giusta ai problemi degli italiani Una grande parte dell’elettorato non sa chi
votare. Alcuni si rifugiano in Renzi e Grillo per mancanza di alternative, per moltissimi
Berlusconi è il passato remoto, Alfano e Casini il passato prossimo e manca una nuova
proposta politica seria e alternativa ai populismi. È a questo che stiamo lavorando». A
dirlo, in un’intervista ieri al Corriere della Sera, l’ex ministro Corrado Passera, che il 14
giugno a Roma darà inizio al processo costituente di «Italia Unica», la formazione politica
a cui sta lavorando da mesi con un ristretto gruppo di collaboratori, e che vorrebbe
lanciare alle prossime politiche. Una forza riformista, con l’obiettivo di riempire il vuoto
nel centrodestra, soprattutto se Berlusconi dovesse franare e la coppia Alfano- Casini non
si rivelasse in grado di drenare i voti in uscita da Forza Italia. «Da tre mesi il premier è in
campagna elettorale, guarda esclusivamente a quell’obiettivo e non certo a rimettere in
moto l’Italia», spiega Passera. «E infatti il suo Def è più timido di quelli presentati dai
governi precedenti. Manca una visione di lungo termine e gli 80 euro sono una misura a
uso e consumo dell’elettorato del Pd. Persino il Jobs act si è ridotto a poco meno di un
topolino», afferma Passera. Quanto a Grillo «è uno sfasciacarrozze che ha preso come
bersaglio l’euro per spostare l’attenzione dalla quasi totale mancanza di proposte
costruttive ». «Il centrodestra è come se non fosse in partita. Quello spazio va riempito
da una forza politica libera dai retaggi del passato e capace di un programma di
trasformazione radicale», dichiara l’ex ministro, secondo cui «non è possibile che 10
milioni di voti rischino di non contare più niente». «La mia non è un’opa sull’esistente, è
una proposta aperta fatta a coloro che non si riconoscono nei populismi imperanti,
incluso Renzi», spiega. «Non siamo interessati a improvvisate federazioni di partitini, ma
a costruire un movimento politico in grado di presentarsi da protagonista alle prossime
scadenze elettorali. Anche sul programma siamo pronti ad un confronto aperto attraverso
una consultazione via web». A fine 2012, Passera si era chiamato fuori all’ultimo
momento dalla nascente lista Monti, proprio per la sua contrarietà ad una operazione che
teneva insieme i civici con Udc e Futuro e libertà di Fini. A fine febbraio l’ex ministro ha
presentato il suo movimento a Roma, in una esclusiva location nei pressi di Caracalla,
parlando della possibilità di muovere 2-300 miliardi di euro per far ripartire l’Italia. Da
allora è seguito un intenso tour in molte regioni italiane per presentare il suo progetto. Ieri
le reazioni dal centro destra sono state gelide: «Ho sorriso quando ho visto l’intervista di
Passera», dice Angelino Alfano. «Non è ministro da un anno e mezzo, non si presenta a
queste europee e annuncia che lo farà alle politiche. È coraggio post datato, a futura
memoria. Parli chi ha gli attributi per mettersi in campo». Ancora più duro Maurizio
Gasparri di Fi: «Passera ha già dimostrato assoluta inadeguatezza da ministro. Ora,
inanellando una serie di luoghi comuni, si propone addirittura come leader dei moderati.
Sono più i milioni che ha guadagnato che i voti che prenderebbe. Ha ambizioni? Prenda
voti dei cittadini per dare corpo alle sue megalomanie. Vedrà che non se lo fila nessuno».
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Del 19/5/2014 – pag. 7
EXPO/ I VERBALI
Luigi Grillo e i rapporti con Angelino
ROMA . Nell’inchiesta Expo entra una telefonata intercettata tra l’ex senatore Pdl Luigi
Grillo e Cesare Previti. Il primo, tra i protagonisti dell’ affaire, si vanta di rapporti col
ministro Alfano. Lui non li nega, ma smentisce che quello sia suo consulente. Nel partito
però si apre un piccolo caso, il senatore Naccarato chiede «chiarezza».
Nel colloquio, intercorso lo scorso 24 marzo, Grillo dice a Previti (entrambi avvicinatisi al
Ncd in questi mesi) che il ministro dell’Interno «gli avrebbe offerto il ruolo di consigliere
economico personale», al «fine di seguire anche un po’ le nomine», annotano i militari
della Guardia di Finanza di Milano. E ancora, Grillo «dice che gli avrebbe parlato di
Giuseppe (Nucci, ex manager di Sogin) e su quest’ultimo, Alfano avrebbe risposto «sì sì,
va bene lo mettiamo in conto di dargli uno... poi te ne parlerà anche Cesare». Grillo poi,
scrive ancora la Gdf, «aggiunge, sempre parlando di Nucci, che avrebbe sentito anche
Giuseppe, gli ho detto guarda ci vediamo domani, con Cesare c’abbiamo sempre a cuore
la tua vicenda, non dubitare. Adesso sto andando da Alfano e poi ti dico ». Il ministro ne
parla durante la trasmissione In Mezzora con Lucia Annunziata. Sostiene di conoscere e
stimare l’ex parlamentare, dicendosi certo che «verrà fuori» dall’inchiesta, ma nega che
sia uno dei suoi consulenti («Sono tutti on line»).
La spiegazione non basta a uno dei suoi senatori. «Da fondatore Ncd al pari di altri 22 che
il 2 ottobre 2013 salvarono governo e legislatura per salvare il Paese dal baratro —
dichiara con enfasi Paolo Naccarato — penso sia necessario chiarire pubblicamente se è
vero o meno, ed io sono convinto che non lo sia, che il leader Alfano avrebbe offerto il
ruolo di consigliere all’ex senatore Grillo». È l’unica reazione politica all’intercettazione. Ed
è un altro capitolo, dopo quello della lettera anonima contro i vertici Ncd mai pubblicata,
che conferma gli attriti interni tra il senatore calabrese e i massimi dirigenti.
( c. l.)
del 19/05/14, pag. 2
Un decreto dopo le Europee
Cantone controllerà gli appalti
Il Guardasigilli Andrea Orlando annuncia che, nel «pacchetto giustizia», ci sarà il via libera
della maggioranza sul nuovo reato di autoriciclaggio e sul ripristino del falso in bilancio
mentre la riforma della prescrizione nei processi è una partita ancora tutta da giocare. Ma
il primo provvedimento del governo sarà il decreto legge per conferire più poteri al
commissario anticorruzione Raffaele Cantone che, dopo le vicende giudiziarie, deve
vigilare anche sull’Expo.
Spiega Orlando: «In tema di criminalità economica e criminalità organizzata, che sono
ambiti sempre più difficilmente distinguibili, ci vuole una regia unitaria del governo. Un
tavolo unico per delimitare un quadro di riferimento complessivo per il falso in bilancio e
l’autoriciclaggio. Ma bisogna anche avviare una riflessione, che magari non sarà
contemporanea al primo provvedimento, sui tempi del processo. Va affrontato una volta
per tutte il nodo della prescrizione: è inutile girarci intorno, continuando a ragionare sulla
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pena massima edittale finalizzata ad evitarla, quando il punto è riorganizzare il sistema dei
tempi del processo, anche sulla base del lavoro svolto da varie commissioni ministeriali».
Sulla tabella di marcia del governo, Orlando mostra dunque una cifra da manutentore: di
uno che, forse, «vorrebbe passare alla storia più per aver fatto ripartire la macchina
piuttosto che per essere un grande riformatore dei codici». E così — anche davanti allo
scandalo Expo e alle legittime richieste del dottor Raffaele Cantone (Anticorruzione)
nominato da Renzi commissario anti tangenti per l’Esposizione universale 2015 — il
ministro resta con i piedi ben ancorati a terra.
Ci sarà infatti, a breve, ma difficilmente prima delle elezioni, un mini decreto legge, che
consentirà a Cantone di operare in ambito Expo con più uomini e mezzi nonostante la
squadra incompleta (mancano ancora gli altri 4 componenti dell’Autorità) e con più poteri.
È scontato, però, che nel decreto non ci sia alcun riferimento al potere di revoca degli
appalti sul quale lo stesso premier ha detto che bisogna andarci con i piedi di piombo («Va
verificato dal punto di vista amministrativo»). Mentre in chiave di prevenzione, Cantone
otterrà più poteri per l’accesso preventivo alle informazioni: sul piano del coordinamento,
precisa il ministro Alfano, «dobbiamo mettere in squadra prefettura, forze dell’ordine e
Anticorruzione».
Sul resto i tempi saranno più lunghi. Sul reato di autoriciclaggio, che dopo anni di
discussioni punirà chi reinveste denaro frutto di altri delitti, il governo aveva già scelto la
linea dura con il ddl Orlando che, però, è fermo da quasi un mese a Palazzo Chigi. Ora
l’articolo 2 del testo (reclusione da 3 a 8 anni) potrebbe essere stralciato e veicolato come
emendamento al testo base anticorruzione del Senato (relatore Nicola D’Ascola del Ncd),
che è più soft perché prevede che scatti l’autoriciclaggio solo in presenza di un danno alla
concorrenza e ai mercati. Ma su questa ipotesi Orlando è cauto: «Bisogna fare un po’ di
ordine non solo tra governo e Senato, ma anche tra Senato e Camera dove c’è
l’emendamento Causi al testo sul rientro dei capitali».
Sul falso in bilancio da ripristinare invece il ministro Orlando giudica «molto importante
l’apertura del Ncd»: «Senza fughe in avanti, sta maturando un quadro politico in cui ci
sono le condizioni per un intervento organico». E qui il governo potrebbe intervenire sul
testo del Senato per alzare la pena per falso in bilancio (attualmente prevista da 1 a 4
anni, sotto la soglia per far scattare custodia cautelare e intercettazioni).
Il passo più difficile è ridare ossigeno ai tempi del processo per evitare che, tra
impugnazioni e ritardi, una marea di dibattimenti finiscano con la prescrizione. Ma in
questo caso il governo rischia di perdere il treno della riforma della giustizia promessa da
Renzi per giugno: «La riforma della prescrizione è tutta rimessa alla verifica delle
condizioni politiche e a un punto di equilibrio tecnico. Questo, oggettivamente, è il passo
più delicato e va gestito con cautela perché incide su enne processi. Non solo su quelli di
Berlusconi…».
del 19/05/14, pag. 3
Genova per don Gallo: “Ci mancano le tue
parole”
di Silvia D’Onghia
e David Perluigi
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Genova
In prima fila, a prendersi l’ombra nell’angolo perché il sole picchia forte, c’è una signora dai
capelli d’argento. È minuta e fragile, la sua età la avvicina molto a don Gallo. Mentre Ilaria
Cucchi racconta la storia di suo fratello Stefano, la signora annuisce spesso: se potesse,
quella giovane donna provata dal dolore eppure così combattiva, se la abbraccerebbe.
Confuso tra il pubblico che sente parlare di droga e carcere, e di morti per mano dello
Stato, c’è persino qualche poliziotto. Poco lontano si sentono le grida dei bambini sul
monopattino. La presenza di don Andrea Gallo, al Palacep di Genova, è più che mai viva:
la leggi negli occhi di queste persone, la respiri camminando attraverso il parco giochi, la
avverti nei discorsi e nei ricordi di chiunque si sia alternato al microfono, in questa duegiorni genovese del Fatto Quotidiano. Ed è una presenza allegra, gioiosa, battagliera, mai
stanca, così come era lui. Lo ricordano, al mattino, Dario Vergassola e Antonio Padellaro,
che poi non lesinano battute: “Primo Greganti avrebbe dovuto chiamarsi settimo: non
rubare”.
“DOBBIAMO uscire dalla logica criminosa secondo cui il tossicodipendente commette un
reato” ha ammonito il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone. Il vice capo
vicario del Dap, Luigi Pagano, è invece tornato sull’attualità: “Non chiediamoci se Scajola
è stato trattato meglio degli altri, chiediamoci perché gli altri non sono stati trattati come
lui”. Il riferimento è ai Cucchi, agli Aldrovandi, ai Magherini: “Pro - cessi che se non fossero
mediatici, sarebbero finiti nel nulla”, secondo l’avvocato di quelle famiglie, Fabio Anselmo.
A parlare di Europa, c’erano invece Carlo Freccero e don Paolo Farinella, insieme al
direttore Antonio Padellaro e Andrea Scanzi. “Voterò la Lista Tsipras, perché quello che
vedo e ho visto in Grecia, la marginalizzazione delle persone e i tagli all’assistenza di
Stato, dovrebbero spaventare, e molto, anche noi in Italia”, ha dichiarato don Paolo, che si
è detto stufo di votare per il “male minore”. “Negli intenti Tsipras poteva essere una valida
alternativa di sinistra, ma ha sbagliato mediaticamente tutto”, gli ha replicato l’ex direttore
di Rai2 e Rai4. “Il protagonismo e la litigiosità, tipica delle liste che nascono dalla società
civile, hanno indebolito la Lista Tsipras già ai primordi – ha spiegato Padellaro –. Tutti noi
dovremmo augurarci che si possa creare da lunedì una opposizione ancora più forte a
questa alleanza che ci governa. Questo sarebbe un passo avanti per il Paese”. “Quello di
domenica è un referendum tra Pd e M5S, tra Matteo Renzi e Beppe Grillo” è stato
l'intervento di uno degli spettatori del dibattito “ma Grillo deve capire che anche se
dovesse superare il 25 per cento, dovrebbe cominciare a pensare a delle alleanze”. Tra
uno gnocco fritto e una birra, c’è tempo di parlare del diritto alla diversità. Celeste
Costantino, Rossella Bianchi, Regina Satariano e Franco Grillini hanno discusso con
Chiara Paolin dell’in - credibile ritardo italiano (“La legge sul cambiamento di sesso è del
1982, da allora non è stato fatto più nulla”), e del Papa (“Sarà pure aperto, ma mica le fa
lui le leggi”).
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 19/05/14, pag. 13
La Valle alle urne
Sì Tav contro NoTav, voto non comune
di Di Cosimo Caridi
e Thomas MacKinson
Insieme a quattromila comuni, anche la Tav va al voto. La scelta è tra occupazione e
natura, tra vecchi principi e nuove convenienze. Ideale e reale di una valle abbarbicata in
alto che non vede oltre il “mostro”, favorevoli e contrari. All’orizzonte il cielo vira verso un
curioso “rosso-grillato”, ma è difficile distinguere tra una nuova alba e il tramonto. Appena
usciti dall’autostrada tre bandiere NoTav, però, avvertono: tu che passi, farai una scelta di
campo. A Susa se ne vedono altre, appese ai balconi, ma più in vista sono le insegne in
francese delle rivendite alimentari. “Questo è il posto ideale per il turismo –spiega una
commessa che sta mettendo in fila le bottiglie di Pastis – i francesi vengono per la
montagna. Sciano in alta valle e possono fare lunghe passeggiate partendo da qui”.
Mentre parla tre mezzi militari passano davanti al negozio. Li guarda: “Certo quelli non ci
aiutano”. A pochi passi dal municipio un gruppetto di ventenni chiacchiera davanti al
ristorante Mirò. “Nessuno di noi ha il posto fisso – racconta uno di loro mentre tormenta il
pacchetto di sigarette – da 10 di giorni faccio il pizzaiolo qui. Sono contro il Tav, ma ora
lavoro dove vengono a mangiare i carabinieri. Le forze dell’ordine sono le uniche risorse
che quest’opera ha portato. Quasi tutti gli operai del cantiere vengono da fuori”. Gli altri
ascoltano in silenzio. “Usciamo e lavoriamo assieme. La divisione Si- Tav/NoTav è una
roba mediatica, per la gente che non è della valle”. Andrea, commerciante ventiseienne,
non è d’accordo: “Se ti esponi, iniziano a farti dispetti. Qui il tav ci serve, questa valle è
morta. Gli unici che sono contrari sono quelli che hanno le spalle coperte, come Plano”.
Parla di Sandro Plano, già due volte sindaco di Susa poi presidente della Comunità
Montana e ora nuovamente candidato primo cittadino. Plano, iscritto al Pd, corre in una
lista civica, ma senza l’appoggio del suo partito. I democratici torinesi hanno tentato due
volte di espellerlo dal partito, proprio a causa delle sue posizioni contrarie al tav. Se la
vedrà alle urne con Gemma Amprino, professoressa di storia e sindaco uscente. Lei si
rivolge al bacino elettorale del centro-destra, ma soprattutto a chi l’opera l’ha accettata e
vuole essere presente a tutti i tavoli per gestire “le opere di accompagnamento”, come le
definisce o “compensazioni” secondo il suo rivale. Grande assente: una lista M5s, che alle
ultime politiche, con quasi il 43% delle preferenze, è diventato il primo partito. “Abbiamo
fatto una scelta di responsabilità – spiega Francesca Frediani, valsusina candidata M5s
per le regionali – Plano non poteva essere il nostro candidato: è iscritto al Pd. Ma in
questo momento per noi è più importante che ci sia un sindaco NoTav, piuttosto che un
sindaco 5stelle”. Nonostante la dote dei voti grillini la gara tra Plano e Amprino, che intanto
ha raccolto attorno a sé i partiti tradizionali, dal Pd al Ncd, è tutt’altro che scontata. In ballo
ci sono decine di milioni di euro di compensazioni che Plano rifiuta tout court, perché
anche solo discuterne è accettare il mostro. I primi 10 milioni sono in arrivo entro il 2015.
Poi arriveranno i fondi per la stazione internazionale di San Giuliano, frazione di Susa.
Progettata dall’archistar Kengo Kuma costerà intorno ai 50 milioni. “Dovrebbe portare gli
sciatori francesi”, spiega Luca Perino, proprietario di una delle case che verrebbero
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abbattute per far posto all’alta velocità. “Ma qui non si scia, bisogna salire altri 40
chilometri per arrivare a Bardonecchia”. Scarponi e sci sulle spalle si va in bus fino a
Bussoleno, la stazione precedente, e poi un altro treno. “Una vera pazzia, se si pensa che
oggi il tgv ferma a Oulx, praticamente sulle piste”. Chi di compensazioni non ha mai voluto
sentir parlare è Nilo Durbiano, sindaco uscente di Venaus, paesino simbolo della lotta
NoTav. Era sindaco da poco più di un anno quando nel 2006, a suon di scontri e
manifestazioni, il cantiere dell’alta velocità lo fecero smontare. Dopo 10 anni da primo
cittadino Durbiano, sfruttando il decreto Del Rio, che ha eliminato il limite di due mandati
per i comuni al di sotto dei 3mila abitanti, si è ricandidato. “Impegno per Venaus” è la sua
lista civica e il simbolo è marcatamente NoTav unisce centro-sinistra e grillini. L’M5s non
fa campagna elettorale per lui, ma come per Susa ha preferito non presentare una lista
propria nonostante anche qui, a febbraio 2013, Grillo raccolse percentuali da capogiro, più
del 50%. Dall’altra parte della barricata c’è Stefano Castaldini, manco a dirlo, convinto
promotore dell’alta velocità. Per arrivare a Venaus si sale verso il Moncenisio e si svolta in
Val Cenischia. Immediatamente sui piloni della luce ricompaiono le bandiere. Ancora e
rigorosamente NoTav. Poi a destra della carreggiata si vedono tre baracche e un grande
orto. “Negli anni sono passate di qui migliaia di persone e io non mi sono mai mosso”.
Biagio da quasi dieci anni vive nel presidio NoTav di Venaus, che è stato costruito davanti
alla montagna dove sarebbe dovuto entrare il treno ad alta velocità. “All’inizio dal paese
venivano a vedere il presidio – continua Biagio, mentre si spazzola i pantaloni sporchi
dopo una giornata passata a tagliare l’erba – poi più nessuno. Ora c’è chi vorrebbe
persino che fosse rimosso. Dicono che arrivando fa una brutta impressione, si vede prima
il presidio poi Venaus”. Entrando in paese sembra però che l’eredità del movimento NoTav sia più ampia. “Questa valle ha una storia di resistenza e partigiani –spiega Paolo
Bertini, il maestro della scuola elementare del paese – l'uso della forza da parte dello
Stato per imporci l’opera ha fatto sviluppare una di rinascita di quei valori e ci ha reso più
coscienti”. Durbiano ha strappato 10 milioni di euro, senza chiedere compensazioni, per
mettere in sicurezza buona parte il paese dal dissesto idrogeologico, ma la scuola
rimaneva non a norma. Quindi da 4 anni elementari e materne si sono trasferite nei
container. “Certo l’istruzione e l’alta velocità – continua il maestro – sono in due capitolati
di spesa diversi, ma come si può pensare che nella stessa valle si possano spendere
miliardi per un treno e non ci siano i fondi per un piccolo istituto elementare”.
del 19/05/14, pag. 23
Alimenti Per limitare gli sprechi
Allungare la vita di pasta, riso e caffè
L’Ue discute sulla data di scadenza
Coldiretti: Bruxelles pronta a rivedere le norme. L’idea di togliere le
parole «Da consumarsi preferibilmente entro...». In Italia le rispetta una
persona su tre
Luigi Offeddu
«Da consumarsi entro il primo giugno», spiega la scritta sulla busta di tortellini, o sulla
confezione del gruviera. Può accadere perfino che l’anno indicato sia il 2015, o il 2016, o
che invece la minaccia potenziale si concreti già l’indomani: dubbi molesti, digiuno
prudenziale, timori irrazionali, a quanti è capitato? Dieci minuti a pensarci su, e poi il
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tubetto o la scatoletta vola in pattumiera: e magari, un anno dopo, sarebbe stata la stessa
leccornia, buona e salutare.
Ma ora l’Unione europea si preparerebbe ad abbattere il tabù: cioè a eliminare le etichette
con la data di scadenza dalle confezioni di alcuni prodotti alimentari a lunga
conservazione. Obiettivo, economico ed etico, evitare la piaga dello spreco alimentare:
cioè quei 515 euro all’anno di cibi scaduti che ogni famiglia italiana archivia nei cassettoni
per strada, o quegli 89 milioni di tonnellate di prodotti (presumibilmente) a rischio che
finiscono nei rifiuti di tutta la Ue.
Si tratta di prodotti «secchi»: pasta, caffè, formaggi duri, riso, e così via. Mentre quelli
«liquidi» o «umidi», come lo yogurt o altri latticini facilmente deperibili, non verrebbero
toccati dalla svolta: nel loro caso, pensano gli esperti dei laboratori Ue, l’abolizione
dell’etichetta con la data potrebbe rappresentare un vero pericolo igienico.
In Europa, secondo le norme vigenti finora, sia i «secchi» che i «liquidi» possono essere
potenziali veicoli di intossicazione se il loro consumo non avviene entro la data stabilita dai
laboratori; in Africa, o in Asia, possono essere invece beni di lusso, cioè di sopravvivenza,
a prescindere da qualsiasi scadenza indicata sulla confezione. E anche su questo si basa
la motivazione etica che, insieme con quella economica, sarebbe alla fase del futuro
provvedimento.
È da tempo che se ne parlava, fra Bruxelles e Strasburgo. Ora, a preannunciare la novità,
sono state alcune anticipazioni pubblicate dal giornale tedesco Bild e dalla Coldiretti. Ma
una conferma ufficiale è giunta solo poche ore fa, quando una nota è comparsa sul lungo
ordine del giorno dell’Agrifish o Consiglio dei ministri Ue dell’Agricoltura e della pesca,
fissato per oggi. Dopo un’altra nota su «Riduzione dell’uso dei prodotti protettivi delle
piante», e prima di un’altra ancora su «Protezione degli animali durante il trasporto», ecco
il tema più delicato: «Perdita di cibo, spreco di cibo».
Nell’Agrifish siedono i ministri dell’Agricoltura di tutti i 28 Paesi Ue. E sarebbero soprattutto
quelli di Olanda e Svezia a premere per il cambiamento, con l’appoggio di Austria,
Germania, Danimarca e Lussemburgo. Altri sono schierati sul fronte opposto, o neutrali.
Date le procedure e i tempi della Ue, sarebbe davvero una sorpresa se dalla riunione di
oggi sfociasse una qualche decisione operativa. Cambiamenti di questa portata richiedono
mesi, a volte anni. Tuttavia, il solo fatto che l’argomento venga affrontato pubblicamente,
rappresenta un fatto importante.
«La tentazione di mangiare cibi scaduti per non sprecare - rileva Coldiretti - non deve
andare a scapito della qualità dell’alimentazione, in una situazione in cui molti cittadini
sono costretti a risparmiare sulla spesa privandosi di alimenti essenziali per la salute o
rivolgendosi a prodotti low cost che non sempre offrono le stesse garanzie qualitative».
Preoccupazioni che sembrano confermate dai dati sulle vendite «low cost» nei
supermercati alimentari: queste sono infatti le uniche a far registrare un’impennata nel
commercio al dettaglio italiano con aumento del +2,9 per cento. La crisi economica
sembra comunque aver preceduto l’iniziativa di Bruxelles: secondo elaborazioni della
Coldiretti su dati Gfk Eurisko, solo il 36 per cento degli italiani ammette infatti di attenersi
rigorosamente alla data di scadenza dei prodotti, e aggiunge che prima di buttarli controlla
personalmente la loro condizione. Secondo la stessa ricerca, poi, appena il 54 per cento
degli italiani controlla quotidianamente il frigorifero.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 19/5/2014 – pag. 10
Così i fondi stranieri hanno conquistato il
capitalismo italiano
Hanno in portafoglio il 38 per cento di Piazza Affari
E sono ormai al capolinea patti storici e salotti buoni
ETTORE LIVINI
MILANO - LA BORSA tricolore è stata per quarant’anni una riserva di caccia con due soli
protagonisti: i salotti buoni — un groviglio di patti di sindacato e partecipazioni incrociate
tra banche e famiglie incaricato di gestire gli affari dei soliti noti — e le aziende di Stato.
Oggi il vento è cambiato. Gli ex-poteri forti, fiaccati dallo sfarinamento delle dinastie
industriali, dai prestiti in sofferenza e dalla crisi, sono a corto di quattrini. E in virtù
dell’aurea legge (“Articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto”) coniata da Enrico Cuccia, il deus
ex machina di questo mondo, il listino milanese ha trovato il suo nuovo padrone: i grandi
fondi esteri. Un universo magmatico a molti volti — tra cui quello delle mitiche Scottish
Widows, i fondi delle parrocchie presbiteriane e i gestori dei risparmi dei professori
dell’Illinois — che in un mese, con un uno-due violento quanto inatteso, ha spazzato via i
cocci del capitalismo di relazione tricolore e ha messo ko all’assemblea dell’Eni e di
Finmeccanica il Tesoro italiano.
La Waterloo dei salotti buoni ha una data e un luogo preciso: l’assemblea di Telecom Italia
a Rozzano, 16 aprile 2014. Il copione, lo stesso degli ultimi sette anni, era in teoria già
scritto: Telco — la holding partecipata da Generali, Mediobanca e Intesa San Paolo, uno
degli ultimi residuati dei salotti buoni — avrebbe voluto nominare con il 22,8% del capitale
un nuovo cda a sua immagine e somiglianza. Facendo ratificare al mercato le decisioni
prese nelle segrete stanze del miglio quadrato attorno a Piazzetta Cuccia. Non è andata
così. Alla conta dei voti, è arrivata la sorpresa: i grandi investitori internazionali hanno
battuto i vecchi padroni di Piazza Affari, nominando tre loro rappresentanti in consiglio.
Un eccezione? No, la nuova regola. La presenza dei fondi nelle assemblee delle società
italiane è raddoppiata in due anni dall’11,6% al 21,6% del capitale rappresentato, dice uno
studio della Fondazione Bruno Visentini. Oggi con 200 miliardi di investimenti hanno in
portafoglio il 38% di Piazza Affari. Sono loro il primo azionista delle Generali (all’ultima
assemblea avevano il 15,2%), di Unicredit e Intesa Sanpaolo con quote attorno al 30% e
di molte altre blue chip. E dopo anni vissuti da minoranza silenziosa hanno iniziato a far
sentire la loro voce nella foresta pietrificata della finanza tricolore. Ne ha dovuto prendere
atto, obtorto collo, anche il governo Renzi. Palazzo Chigi e il Tesoro hanno passato
giornate a limare i nuovi requisiti di onorabilità da proporre alle assemblee di Eni,
Finmeccanica ed Enel. Convinti di farli approvare senza problemi. Anche loro hanno fatto i
conti senza l’oste. Quando il rappresentante di via XX settembre ha messo ai voti il piano
all’assemblea Eni, i grandi fondi esteri — allergici alle intrusioni dello Stato — si sono
messi di traverso e la norma non è passata. Confermando così che l’Italia ha perso il
controllo della maggiore (e più strategica) impresa nazionale. Lo stesso è accaduto in
Finmeccanica.
L’identikit dei nuovi padroni di Piazza Affari è un’immagine insieme semplice e complessa.
Semplice perché sono i gestori di quella valanga di liquidità ammucchiata negli ultimi anni
(o pompata dalle banche centrali) che muove gli equilibri geopolitici del mondo, spostando
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masse enormi di denaro dalle star-up di Internet ai laboratori biotech, dai derivati ai titoli di
stato, dai dollari all’euro, magari affondando — salvo poi reinnamorarsene in questi mesi
— i paesi in odore di crisi. Complessa perché in questo mare magnum ci sono mille realtà
finanziarie diverse: fondi a lungo termine, attivisti, hedge che muovono quattrini ai ritmi
frenetici dei millesimi di secondo dettati dai programmi computerizzati del listini.
Speculatori? Tutt’altro, dicono loro. «Il 50% dei nostri sottoscrittori sono famiglie, tra cui
migliaia di italiani, magari con solo 10mila euro da investire. Non mi pare che questi siano i
fantomatici raider di cui si parla», è il mantra di Andrea Viganò, country head del fondo
Blackrock, il colosso Usa che gestisce 4.300 miliardi di patrimonio (il doppio del Pil
tricolore, 10 volte il valore dell’intero listino tricolore) e che negli ultimi mesi si è messo in
tasca il 6% di Intesa e Unicredit, il 5% di Bpm, il 3,7% di Mps oltre a quote importanti in
Generali, Fiat, Atlantia e Mediaset.
Il loro sbarco in Italia coincide, non a casa, con l’implosione del sistema dei salotti buoni.
Mediobanca, fiutato il vento, ha da tempo iniziato a smontare il suo reticolo di
partecipazioni per concentrarsi sul core business della banca d’affari, In pochi mesi si
sono sciolti come neve al sole patti di sindacato storici e inossidabili come quelli di Pirelli,
Rcs e Benetton. Oggi a questo piccolo mondo antico — che non a caso ha messo in
vendita 4 miliardi delle sue quote incrociate — è venuto a mancare il collante che lo
teneva unito: i soldi (spesso degli altri). «Le vecchie famiglie non li hanno. Le banche di
riferimento nemmeno. Il meccanismo del do ut des, delle operazioni gestite chiamando a
raccolta un gruppo ristretto di amici si è inceppato. Le aziende per crescere o per non
morire sono costrette a cercarli dove ci sono: dal mercato e dai fondi», spiega Dario
Trevisan, il legale milanese che da anni rappresenta i nuovi poteri forti di Piazza Affari alle
assemblee delle aziende quotate. Trevisan non è un Agnelli né un Berlusconi. Eppure si è
presentato all’assemblea di Generali con il 15% dei voti, in quella di Telecom con il 27% e
all’Eni con il 30%, più dello Stato. «E’ un bene? Sì — sostiene lui — . I fondi non sposano
interessi e non hanno miopi visioni locali».
Il rischio, dicono i critici, è che i grandi fondi seguano logiche finanziare di breve respiro.
«Mi sento di dire che non è così — assicura Valerio Battista, ad di quella Prysmian che
uscendo da Pirelli è diventata la prima grande public-company italiana gestita dai grandi
investitori istituzionali — : la maggioranza di quelli che stanno sbarcando ora sul mercato
italiano è gente seria che investe sul lungo termine. Gente che non ha paura di mettere
soldi su un buon progetto. Il loro problema è la remunerazione del capitale, non la
diluizione delle quote». «In America il boom pluridecennale dell’hi-tech e delle
biotecnologie è stato sostenuto proprio dai loro soldi. Il mercato su questo fronte è molto
più efficiente di banche e famiglie», dice Umberto Mosetti, uno dei massimi esperti italiani
di corporate governance che con il fondo Amber ha combattuto con successe alcune
battaglie tra cui quelle contro la gestione Besnier in Parmalat. Qualcuno, dopo il voto
all’Eni, vede a rischio l’italianità del Belpaese Spa. «Rischio che non esiste — dice il
“mercatista” Mosetti — visto che il totem della difesa dell’identità delle nostre aziende è
stato utilizzato finora per arricchire singole persone e non nell’interesse della nazione».
Nessuno, per ora, pare aver intenzione di alzare barricate. Anche perché lo Tsunami dei
fondi internazionali è stato uno dei fattori chiave per riportare lo spread italiano sotto quota
200. L’importante, dice l’esperienza del passato, è non sottovalutarne l’umoralità. Come
arrivano, spesso vanno.. Alla stessa velocità. E se vogliono colpire duro, anche Vedove
scozzesi, preti presbiteriani & Co. sono in grado di far male a chiunque: hanno fatto saltare
i vertici di Hewlett Packard, costretto un colosso come Apple a rivedere la sua politica di
dividendi, tagliato lo stipendio a un nume tutelare della pubblicità come Martin Sorrell. Il
30% di loro ha votato contro le super-buste paga dei manager italiani nell’ultima tornata di
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assemblee. Chi ha orecchi per intendere, intenda. La loro battaglia, nello stivale, è solo
all’inizio.
Del 19/5/2014 – pag. 1-9
Se si lavorasse di meno?
PIERRE CARNITI
MALGRADO IL TEMA DEL LAVORO sia oggetto di sempre più debordanti inchini retorici,
la disoccupazione resta un problema dei disoccupati. Né potrebbe essere diversamente,
considerato che negli ultimi anni le politiche pubbliche si sono concentrate sulla cosiddetta
«riforma del mercato del lavoro», che ha moltiplicato forme e normative dei rapporti di
lavoro lasciando ovviamente immutata la dimensione della disoccupazione. Così, più
diventava chiaro che il problema con cui eravamo (e siamo) alle prese è la mancanza di
domanda di lavoro, più ci si è accaniti con interventi sul versante dell’offerta. Quel che è
certo - venga aggiunta o meno qualche nuova immaginifica norma al già ricco
armamentario dei contratti di lavoro - è che non ci saranno effetti sulla disoccupazione.
Per affrontare concretamente il problema il primo aspetto di cui si deve tenere conto è la
disoccupazione provocata da «insufficienza da domanda effettiva»: ossia da domanda
assistita da una adeguata distribuzione dei redditi. L’assunto è semplice. Essendo
necessaria manodopera per produrre le merci, se queste non trovano domanda adeguata
sul mercato l’occupazione è inevitabilmente destinata a calare. È appunto quanto è
avvenuto nel corso della crisi con cui siamo ancora alle prese. Il rimedio a simile
disoccupazione (detta «keynesiana», perché descritta magistralmente da Keynes)
consiste nel rilancio della domanda tramite aumento dei consumi delle famiglie e dello
Stato. Purtroppo il potere d’acquisto dei salari, e dunque delle famiglie, perde colpi perché
la contrattazione langue (quando addirittura non regredisce). Mentre, per quanto riguarda
la domanda pubblica, più stringenti sono i vincoli di bilancio (e questo è appunto il caso
dell’Italia), più probabile è che le misure di rilancio si rivelino insufficienti. O che
comunque, proprio a causa dei vincoli di bilancio, tra misure tendenzialmente espansive
ed interventi restrittivi della spesa pubblica il saldo algebrico sia alla fine negativo. Il
secondo tipo di disoccupazione, di cui poco si parla ma le cui conseguenze sono sempre
più evidenti ed estese, è quella tecnologica. Il punto da avere ben chiaro in proposito è
che non esiste più (ammesso che sia mai esistita in passato) una correlazione pratica e
stabile tra produzione di merci ed occupazione. In ogni caso, mentre è ancora vero che se
la produzione cala anche l’occupazione scende, non è più vero il contrario. In sostanza
non ha alcun fondamento la convinzione, per altro ancora assai diffusa, che se la
produzione riprende pure l’occupazione aumenta. Tant’è vero che sempre più spesso, pur
in presenza di un aumento degli investimenti o di modesti aumenti del Pil, i disoccupati
crescono invece di diminuire. La spiegazione per questo andamento asimmetrico è
semplice: i posti di lavoro che si guadagnano dove si «producono» le macchine e si innova
la tecnologia non compensano quelli che si perdono dove si «introducono» le macchine e
le innovazioni tecnologiche. Si tratta appunto della «disoccupazione tecnologica».
Fenomeno non nuovo (già individuato da Ricardo nel XIX secolo) di sostituzione del lavoro
con macchine. Ma che ora, con la diffusione dell’informatica, dell’automazione e della
robotica, ha assunto un’ampiezza ed una velocità eccezionali. Sia pure su scala e con una
intensità diversa, si tratta di un evento già largamente sperimentato nella prima e nella
seconda rivoluzione industriale, a cui (allora) si è risposto con una riorganizzazione degli
orari ed una ripartizione del lavoro (...). In effetti i cospicui incrementi di produttività ottenuti
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nella prima fase della rivoluzione industriale nel XIX secolo (caratterizzata dal passaggio
dall’energia idraulica al vapore e poi all’elettricità) sono stati seguiti da una riduzione
dell’orario di lavoro prima da 80 a 72 e poi fino a 60 ore settimanali. Allo stesso modo nel
XX secolo, quando le economie industrializzate hanno sperimentato una nuova
organizzazione produttiva (con il fordismo e le linee di montaggio), il forte aumento della
produttività ha condotto ad un ulteriore accorciamento della settimana lavorativa, che è
arrivata a 48 ore e poi a 40. Analizzando la storia economica e facendo una previsione sul
futuro, in una celebre conferenza tenuta a Madrid nel 1930 (Prospettive economiche per i
nostri nipoti), Keynes si diceva convinto che nel giro di un secolo l’umanità avrebbe potuto
risolvere definitivamente quello che negli ultimi due secoli era stato il suo assillo principale,
il problema economico: «Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei
paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Non vi sarebbe
nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Peraltro non sarebbe fuori
luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori». E partendo
da queste premesse giungeva ad una conclusione che non esitava a definire
«sconcertante». Perché sconcertante? Perché, a suo avviso, non esiste paese o popolo
che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza: «Per troppo
tempo infatti siamo stati allenati a faticare anziché godere. Per l’uomo comune, privo di
particolari talenti, il problema di darsi un’occupazione è pauroso, specie se non ha radici
nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale. Per
ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi, che avremo
bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Turni di tre ore e settimana lavorativa
di quindici ore possono (però) tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo.
Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo
che è in ciascuno di noi». A sua volta il fondatore della Fiat Giovanni Agnelli, muovendo da
considerazioni pratiche, ha sostenuto che è anche nell’interesse delle imprese rispondere
alla innovazione tecnologica con una riduzione degli orari di lavoro. Il suo ragionamento è
esplicitato in una lettera del 5 gennaio 1933 diretta a Luigi Einaudi: «Partiamo dalla
premessa che in un dato momento, in un dato paese, a ipotesi nella parte industrializzata
di questo nuovo mondo, via siano 100 milioni di operai occupati. Sia il loro salario medio di
un dollaro. Sulla base di un dollaro ogni giorno nasce una domanda di 100 milioni di dollari
di beni e servizi e ogni giorno industriali ed agricoltori mettono sul mercato 100 milioni di
merci e di servizi. Produzione, commercio, consumi si ingranano perfettamente l’un l’altro.
Non esistono disoccupati. Non si parla di crisi. Noi industriali diciamo, nel nostro
linguaggio semplice, che gli affari vanno. Alla macchina economica non occorrono
lubrificanti. A un tratto uno o parecchi uomini di genio inventano qualcosa e noi industriali
facciamo a chi arriva prima ad applicare la o le invenzioni le quali permettono risparmio di
lavoro e maggiore guadagno. Quando le nuove applicazioni si siano generalizzate risulta
che con 75 milioni di uomini si compie il lavoro il quale prima ne richiedeva 100.
Rimangono 25 milioni di disoccupati nel mondo. Quale la causa? La incapacità
dell’ordinamento del lavoro a trasformarsi con velocità uguale alla velocità di
trasformazione dell’ordinamento tecnico (...). Rendiamo uguali le velocità dei due
movimenti progressivi, quello tecnico e quello, chiamiamolo così, umano. Poiché a
produrre una massa invariata di beni e servizi occorrono 600 invece che 800 milioni di ore
di lavoro, tutti i 100 milioni di operai occupati nel primo momento per 8 ore al giorno
rimarranno occupati nel secondo momento per 6 ore al giorno. Poiché essi producono la
stessa massa di beni di prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La
domanda operaia di beni e servizi resta di 100 milioni di dollari. Nulla è mutato nel
meccanismo economico, il quale fila come oro colato. Non c’è disoccupazione, non c’è
crisi» (...). Dunque il fatto tanto indiscutibile quanto trascurato è che la disoccupazione
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attuale (se si esclude l’occupazione derivante dai servizi alla «persona», o certi lavori
manuali, come ad esempio l’idraulico) ha una chiara impronta «ricardiana», come
conseguenza del passaggio dalla produzione fordista a quella post-fordista. Che ha
significato progressiva sostituzione dell’informatica, dell’automazione e della robotica al
lavoro. Ne è derivato un eccesso di manodopera che viene espulsa dalla produzione e
che, in assenza di politiche capaci di dare risposte concrete al problema, resta lì. Nella
terra di nessuno. Almeno finché sopporta la propria esclusione. Questa disoccupazione
era già presente negli ultimi decenni del secolo scorso, ma allora si era pensato di poterla
recuperare, almeno in parte, tramite la «precarizzazione» del mercato del lavoro, in base
all’assunto che le imprese avrebbero avuto «convenienza» ad utilizzare quei lavoratori
«usa e getta». Almeno in una certa misura così è stato. Ma con l’ovvia conseguenza di un
calo sensibile della produttività del lavoro. Perché se si possono costringere i precari a
lavorare di più non gli si può imporre anche di lavorare meglio. Da qui la comparsa di una
occupazione flessibile ma a bassa produttività. Come hanno ampiamente messo in
evidenza diverse ricerche. Contro l’occupazione patologicamente flessibile ha provato a
muoversi la riforma Fornero. Con soluzioni discutibili, ma con una motivazione giusta: il
lavoro precario deve costare di più del lavoro stabile. Oggi, con il decreto sul lavoro del
governo Renzi, siamo alla «riforma della riforma». Giustificata da una discussione
surreale. Essa verte infatti, non su se sia utile o meno disincentivare forme dilaganti di
lavoro flessibile e precario, ma su se l’obbligo a motivare la causale sia da ritenere una
ragione sufficiente o meno a scoraggiare le aziende dal fare assunzioni. Inutile dire che
non è certo da simile approccio che potrà derivare un aumento dell’occupazione. E
peraltro nemmeno la tanto auspicata crescita porterà i nuovi posti di lavoro che invece
servirebbero. Almeno per i prossimi anni. Le ragioni sono tante. Non ultima quella relativa
al fatto che, come detto, la disoccupazione con cui siamo alle prese è appunto in larga
misura di tipo «ricardiano»: quindi non può essere curata con «placebo» e rimedi
estemporanei che intervengono solo sui sintomi invece che sulle cause (...). Resta il fatto
che la ridefinizione del ruolo dell’individuo e delle organizzazioni che rappresentano il
lavoro in una società sempre più deprivata del lavoro di massa costituisce sicuramente la
questione fondamentale con cui dovrà sapersi confrontare la società del futuro. Nello
stesso tempo bisogna sapere che per riuscire ad affrontare concretamente questa sfida il
punto da avere chiaro, fin da ora, è che sarà impossibile fare davvero i conti con la
questione della disoccupazione se si continuerà ad ignorarne la sua duplice natura,
«keynesiana» e «ricardiana». Perciò di una cosa occorre essere consapevoli: fino a
quando questa presa di coscienza non incomincerà a farsi adeguatamente strada, la
disoccupazione continuerà purtroppo a restare (per quanto ciò venga a parole considerato
riprovevole) essenzialmente un problema dei disoccupati.
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