La teoria politica di Thomas Hobbes

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La teoria politica di Thomas Hobbes
La teoria politica di Thomas Hobbes
1640: Elements of law natural and politic
Opere di Thomas Hobbes
1647: De cive
1650: De corpore politico
L’idea dominante
1. Pur non essendo mai stato un politico militante, Hobbes scrisse di politica partendo dal problema reale e cruciale
del suo tempo: il problema dell’unità dello stato, minacciata, da un lato, dalle discordie religiose e dal contrasto delle
due potestà, dall’altro, dal dissenso tra corona e parlamento
e dalla disputa intorno alla divisione dei poteri. Il pensiero
politico di tutti i tempi è dominato da due grandi antitesi: oppressione-libertà, anarchia-unità. Hobbes appartiene
decisamente alla schiera di coloro il cui pensiero politico
è stato sollecitato dalla seconda antitesi. L’ideale che egli
difende non è la libertà contro l’oppressione, ma l’unità
contro l’anarchia. Hobbes è ossessionato dall’idea della
dissoluzione dell’autorità, dal disordine che consegue alla
libertà del dissenso sul giusto e sull’ingiusto, dalla disgregazione dell’unità del potere, destinata ad avverarsi quando
si comincia a sostenere che il potere deve essere limitato, in
una parola dall’anarchia che è il ritorno dell’uomo allo stato
di natura. Il male che egli paventa maggiormente, e contro
il quale si sente chiamato a erigere la suprema e insuperabile difesa del proprio sistema filosofico, è non l’oppressione,
che deriva dall’eccesso di potere, ma l’insicurezza, che deriva al contrario, se mai, dal difetto di potere. Insicurezza
prima di tutto della vita, che è il primum bonum, e poi dei
beni materiali, e infine anche di quella poca o molta libertà
che a un uomo in società è concesso di godere.
1651: Leviathan
niera di vivere, che gli uomini hanno tempo fa tenuta sotto un pacifico governo, che è poi degenerata in una guerra
civile» (83). Nella prima pagina dell’Introduzione, nella famosa comparazione tra il corpo umano e il corpo politico,
la sedizione è paragonata alla malattia, la guerra civile alla
morte (5). La guerra civile è un’idea fissa: a proposito delle
associazioni disordinate di pensieri, e quindi nella sezione
psicologica e non ancora politica del libro, ricorre l’esempio di chi «parlando della presente guerra civile» domanda
«quale fosse il valore del denaro romano» (14). In De homine, a proposito della presunzione, ovvero del difetto di
coloro che si credono più saggi di quel che sono, compaiono i giudici che pretendono di dare leggi allo stato anziché
applicare quelle poste dal sovrano, con questo commento:
«questo suol essere l’inizio della maggior parte delle guerre
civili» (xiii, 7).
3. Nel capitolo i del De corpore Hobbes tesse l’elogio della
filosofia. Dalla filosofia naturale sono nate le arti meccaniche che hanno contribuito a migliorare la vita dell’uomo;
dalla filosofia civile, ancora infante, l’uomo avveduto può
ricavare l’arte di ben governare. E che cosa significa ben
governare? Significa costituire lo stato su basi così solide da
renderne impossibile la dissoluzione, cioè da tener lontano
il pericolo della guerra civile, dalla quale, così commenta,
«derivano le stragi, il deserto e la mancanza di ogni cosa»
(i, 7). Subito dopo, parlando di nuovo delle guerre civili, le
chiama «le più grandi calamità».
2. Negli anni della sua maturità il dissolvimento dello stato
in Inghilterra è giunto alla fase estrema della guerra civile.
Via via che si passa dagli Elements, scritti prima dei torbidi, al Leviathan, scritto quando la lunga e sanguinosa lotta
tra le avverse fazioni è terminata nel regicidio, il tema della
guerra civile acquista maggior rilievo: dapprima la guerra
civile è un incubo da cui bisogna liberarsi, poi è una calamità che occorre cercare di scongiurare per l’avvenire. Nel
paragrafo finale del capitolo viii della parte ii di Elements
e del xii del De cive, lo stesso tema delle fazioni che dilacerano lo stato (con la stupenda similitudine di Medea e delle
sue sorelle che tagliano a pezzi il padre per farlo rinascere)
suscita nella seconda opera per ben due volte l’immagine
della guerra civile, mentre la prima parla genericamente di
«ribellione». In Leviathan i riferimenti alla guerra civile
come al peggiore di tutti i mali sono frequenti, non solo alla
guerra civile in genere, ma a quella che ha infierito o infierisce tuttora, mentre l’autore scrive, in Inghilterra: «Del resto può comprendersi quale sarebbe la maniera di vivere là
dove non fosse un potere comunemente temuto, dalla ma-
4. Hobbes è spinto a filosofare dal turbamento che suscita in lui il pericolo della dissoluzione dello stato, perché è
convinto che la maggior causa del male sia da ricercarsi nella testa degli uomini, nelle false opinioni che essi hanno, o
ricevono da cattivi maestri, su ciò che è giusto e ingiusto,
sui diritti e sui doveri rispettivamente dei sovrani e dei sudditi. Uno dei temi costanti delle tre opere politiche è la condanna delle opinioni sediziose considerate come la causa
principale dei disordini. A proposito del diritto del sovrano
di condannare le opinioni contrarie alla salute dello stato,
commenta: «Le azioni degli uomini procedono infatti dalle
loro opinioni, e nel governare bene le opinioni consiste il
buon governo delle azioni riguardo alla pace e alla concordia» (Lev., 116). Nel passo già citato di De corpore, il discorso sul nesso tra filosofia e guerra civile prosegue in questo
modo: «La causa della guerra civile sta nel fatto che si ignorano le cause delle guerre e della pace, e che sono pochissimi quelli che hanno appreso i loro doveri, grazie ai quali si
1
non sia soggetto a discussione, poiché confronta uomini e
interferisce nel loro diritto e profitto» (Elements, Ep.). Nel
paragrafo già citato di De corpore, con un’altra variazione
sul tema, contrappone gli scritti «scientifici» dei matematici agli scritti «verbifici» dei filosofi morali, preoccupati
soltanto di «ostentare la loro eloquenza e il loro ingegno»
(i, 7). In un passo di Leviathan paragona la scienza morale e
civile al canocchiale, che permette di vedere le cose di lontano contrapponendola alle lenti moltiplicanti delle passioni che deformano anche le cose vicine (120).
rafforza e si conserva la pace, vale a dire la vera regola del
vivere civile. Ma la conoscenza di questa regola è appunto la
filosofia morale» (i, 7). Nella Prefazione ai lettori del De cive
– una delle pagine più belle dell’opera hobbesiana – paragona ai Centauri, «razza turbolenta e combattiva», i dogmi
biformi dei filosofi morali che l’hanno preceduto, «in parte
giusti e belli, e in parte brutali e bestiali, causa di tutte le
lotte e di tutte le stragi».
Il metodo
5. Se la causa principale dei mali che affliggono la società
civile è di natura filosofica, il rimedio non può essere offerto che dalla filosofia. Ma quale filosofia? Il problema della
buona filosofia, che deve finalmente cacciare la vecchia, che
per troppo tempo ha dominato e traviato le menti, è strettamente connesso al problema del metodo. Dopo essersi dedicato per anni esclusivamente a studi umanistici, Hobbes si
era convinto, attraverso i contatti avuti nei suoi viaggi continentali con alcuni dei maggiori scienziati del tempo, che
le uniche scienze progredite tanto da aver trasformato radicalmente la concezione del cosmo erano quelle che avevano
applicato il procedimento rigorosamente dimostrativo della geometria. Non si doveva da ciò presumere che la ragione
della arretratezza delle scienze morali fosse da ricercarsi in
un difetto del metodo? In un ambiente così carico di entusiasmo per i successi delle scienze naturali non era venuto
il momento di far percorrere allo studio dell’uomo e della
società la stessa strada percorsa con tanto successo dallo
studio della natura? La maggior causa di turbamento della
pace sociale era, come si è detto, la disparità delle opinioni. Ma la disparità delle opinioni dipendeva essenzialmente
dal fatto che i filosofi morali non avevano mai tentato, o per
ignoranza o per interesse, di fare della scienza politica una
scienza rigorosa. Nella geometria e nelle scienze dimostrative non vi era spazio per dispute oziose intorno al vero o
al falso. La geometria – si legge in uno dei tanti brani che
si potrebbero citare a questo proposito – «è la sola scienza
che finora sia piaciuto a Dio di regalare al genere umano»,
e poco più oltre: «le cui conclusioni sono oramai diventate
indiscutibili» (Lev., 21, 27). Eppure la filosofia morale era
quella più bisognosa di rigore. E infatti, «se si infiltra qualche errore in ricerche condotte per esercitare la mente, non
ne viene alcun danno, se non uno spreco di tempo. Invece,
in ricerche eseguite per indicare regole di vita, non solo da
errori, ma anche dall’ignoranza nascono offese, lotte, stragi» (De cive, Pref.). Hobbes credeva di sapere che una delle
cause dell’arretratezza delle scienze morali era che le loro
verità potevano ostacolare «l’ambizione, il profitto o la incontinenza umana» (Lev., 68). Non dubitava che, «se fosse stato contrario al diritto di dominio di qualche uomo o
all’interesse degli uomini che dominano “che i tre angoli di
un triangolo sono eguali a due angoli retti”, quella dottrina
sarebbe stata, se non disputata, soppressa col bruciare tutti i libri di geometria, per quanto poteva colui al quale ciò
interessava». Sin dalle prime battute del suo primo libro distingue due specie di sapere, il matematico e il dogmatico, il
primo «libero da controversie e dispute», perché confronta
unicamente figure e movimento e non interferisce nell’interesse di alcuno, mentre «nel secondo non vi è nulla che
6. In questa battaglia per una scienza politica rigorosa
Hobbes tende ad abbattere contemporaneamente diversi
bersagli. L’avversario più illustre è Aristotele, secondo cui
l’etica e la politica non erano conoscenza del certo ma del
probabile, dominio riservato non alla logica ma alla retorica: nell’epistola dedicatoria di Elements può sembrare un
accenno polemico alla dottrina tradizionale il passo in cui
si scusa del cattivo stile dicendo di essersi consultato «più
con la logica che con la retorica». Con questa opposizione alla vetusta e venerata dottrina aristotelica Hobbes fissa
uno dei principi più caratteristici del giusnaturalismo moderno, che perseguirà insistentemente l’ideale di un’etica
dimostrativa. La seconda e fittissima schiera di avversari
è costituita dagli scolastici vecchi e nuovi che giurano in
verba magistri, fondano le loro teorie non sulla ragione e
sull’esperienza ma sull’autorità dei precedenti, seguiti senza giudizio vuoi per inerzia vuoi per compiacere ai potenti,
e posseggono un sapere soltanto libresco. Hobbes paragona
coloro che perdono il loro tempo «a svolazzare attorno ai
libri» ad «uccelli che entrati pel camino, e trovandosi chiusi in una camera, svolazzano alla luce ingannatrice di una
finestra a vetri, non avendo tanto intelletto da considerare
per quale via sono entrati» (22). Altrove li paragona a colui
che «fidandosi delle false regole di un maestro di scherma,
si avventura presuntuosamente contro un avversario, che
o l’uccide o lo ferisce» (30). Poiché i covi infetti di costoro
sono le università, la polemica antiscolastica e antilibresca
procede di pari passo con la critica delle università, ove lo
studio della vera filosofia e della geometria non ha alcun posto e la filosofia, sino a che «l’autorità di Aristotele sarà la
sola corrente [...], non sarà propriamente filosofia [...] ma
aristotelia» (Lev., 439). Ai tempi in cui scrive, Hobbes ha
dinanzi a sé una terza schiera di nemici della ragione, che è
anche la più pericolosa e la più turbolenta: sono gli «ispirati», ovvero i fanatici, gli entusiasti, i visionari, i falsi profeti,
coloro che parlano non per ragione ma per fede, scambiano
i loro fantasmi per verità rivelate da Dio, sono guidati nella
enunciazione delle loro opinioni eversive dal satanico orgoglio di credersi pochi eletti in una moltitudine di reprobi.
In un passo del De cive, Hobbes li chiama «apostati della
ragione naturale» (xii, 6); in un altro passo di Leviathan,
considera l’ispirazione come un vero e proprio caso di follia
(47), e ne dipinge le vittime in questo modo: «Essi ammirano se stessi, come se fossero nelle speciali grazie di Dio
onnipotente, il quale avesse rivelato quella verità a loro, in
modo soprannaturale, per mezzo del suo spirito» (48).
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L’uomo artificiale.
7. In un passo del De homine Hobbes distingue le scienze
dimostrabili a priori, cioè in modo rigoroso, dalle non dimostrabili. Dimostrabili sono quelle i cui oggetti sono creati
dall’arbitrio dell’uomo. Ebbene, la geometria è dimostrabile perché «noi stessi creiamo le figure», mentre non è dimostrabile la fisica «perché le cause delle cose naturali non
sono in nostro potere, bensì della volontà divina». Come la
geometria, sono dimostrabili l’etica e la politica, «in quanto i principi grazie ai quali si conosce cosa siano il giusto e
l’equo, e per contro l’ingiusto e l’iniquo, cioè le cause della
giustizia, e precisamente le leggi e i patti, li abbiamo fatti
noi» (x, 5). Quale che sia la validità di questa tesi, è certo
che essa è d’importanza capitale per la comprensione e la
collocazione storica del pensiero hobbesiano. Una delle caratteristiche del pensiero rinascimentale, da cui è profondamente improntata la filosofia di Bacone, primo maestro
di Hobbes, è la trasformazione del rapporto tra natura e
arte rispetto alla concezione degli antichi: non più l’arte
imitazione della natura, ma l’arte eguale alla natura, che è
segno di una nuova e più alta valutazione delle cose fatte
dall’uomo, in genere dell’umana industriosità. Concepita
la natura come una grande macchina, penetrare il segreto
della natura vuol dire giungere a comprenderne le leggi che
ne regolano il meccanismo. Ma una volta scopertone il segreto, l’uomo è in grado non soltanto di imitare la natura,
ma anche di ricrearla, di perfezionarla, di accrescerne la potenza, costruendo altre macchine. Una di queste macchine
prodotte dall’uomo per sopperire alle deficienze della natura, per sostituire, con un prodotto dell’ingegno umano,
con un artificium, il prodotto difettoso della natura, è, per
Hobbes, lo stato.
9. Sin dalla Prefazione ai lettori del De cive lo stato è paragonato alla macchina per eccellenza, all’orologio: «Come
in un orologio e in un qualsiasi altro meccanismo più complesso non si può capire il funzionamento di ciascuna parte
e di ciascun ingranaggio, se non si smonta [...]; così pure,
nello studiare il diritto pubblico e i doveri dei cittadini, bisogna, non certo scomporre lo stato, ma considerarlo come
scomposto nei suoi elementi». L’Introduzione al Leviathan,
vero e proprio manifesto della teoria hobbesiana dello stato, comincia con queste parole: «La natura, cioè l’arte con
la quale Iddio ha fatto e governa il mondo, come in molte
altre cose, anche in questa è imitata dall’arte dell’uomo, che
può costruire un animale artificiale» (5). Dopo aver detto
che l’arte riesce addirittura a imitare «quel razionale e più
eccellente lavoro della natura, che è l’uomo», Hobbes spiega: «con l’arte è creato quel gran Leviatano, chiamato stato
(in latino civitas), il quale non è che un uomo artificiale».
Segue la minuta e puntigliosa comparazione tra le parti
della macchina naturale dell’uomo e quelle della macchina
artificiale dello stato, ove, alla fine, al fiat pronunziato da
Dio nella creazione sono equiparati «i patti e le convenzioni con i quali le parti di questo corpo politico furono dapprima fatte, messe insieme e unite» (5).
10. L’idea che lo stato, la societas civilis, proprio in quanto contrapposta all’insocievole stato naturale, sia alcunché
di costruito dall’uomo, sia un artefatto, sta a fondamento,
come dirò meglio nel paragrafo seguente, della teoria politica hobbesiana. Qui basti ancora ricordare che, oltre che con
l’orologio, lo stato è paragonato da Hobbes con ciò che è il
«costruito» per eccellenza, cioè con la casa, come nel passo seguente: «Il tempo e l’industria producono ogni giorno
nuove conoscenze. E, come l’arte di ben costruire è derivata dai principi di ragione osservati da uomini industriosi [...]
molto tempo dopo che il genere umano cominciasse [...] a
costruire; così, molto dopo che gli uomini cominciarono a
costruire gli stati, imperfetti e soggetti a cadere in disordine, i principî di ragione si son potuti trovare, mediante una
laboriosa meditazione, affinché la costituzione di quelli –
eccetto che per una violenza esterna – sia perpetua» (220).
8. Questa concezione dello stato rientra in un programma molto più vasto, che consiste nel sottrarre alla natura
non sempre benefica una parte del suo antico regno, nel
considerare come effetto della creatività e dell’inventività umana prodotti tradizionalmente attribuiti alla natura:
per Hobbes non soltanto le figure e i numeri, non soltanto
i corpi politici, la vita associata, sono prodotti dell’uomo,
ma anche il linguaggio, onde occorrerebbe aggiungere alla
geometria e alla politica una terza scienza dimostrabile,
la logica, in quanto si consideri la logica nient’altro che il
complesso degli espedienti per rendere rigoroso il linguaggio. Di questo programma la parte che Hobbes sviluppò
più ampiamente e più conseguentemente fu quella relativa
alla scienza politica. Proprio sulla base della considerazione
dello stato come automa, egli divise tutto intero il campo
della filosofia in due parti, che chiamò filosofia naturale e
filosofia civile, la prima avente per oggetto «ciò che è opera
della natura», la seconda ciò che «è costituito dalla volontà umana attraverso convenzioni e patti tra gli uomini» e
«vien chiamato stato» (De corpore, i, 9). Parimenti, anche
la storia è distinta in storia naturale, o storia «di fatti o effetti naturali che non dipendono dalla volontà umana, come la
storia dei metalli, delle piante, degli animali, delle regioni e
simili», e storia civile «che è la storia delle azioni volontarie
degli uomini negli stati» (Lev., 53).
11. Orologiaio o architetto, l’uomo, o meglio il genere
umano nel suo sviluppo storico, ha costruito, istituendo lo
stato, il più complicato, fors’anche il più delicato, certo il
più utile dei congegni, quello che gli permette nientemeno
di sopravvivere nella natura non sempre amica. Se è vero
che l’uomo è chiamato non soltanto a imitare, ma anche a
correggere la natura, l’espressione più alta e più nobile di
questa sua qualità di artifex è la costituzione dello stato.
Lo stato di natura
12. Nella descrizione dello stato di natura che le tre opere
ci offrono, con qualche variante ma sostanzialmente e funzionalmente identica, rispettivamente nei capitoli xiv della
parte i di Elements, i di De cive, xiii di Leviathan, Hobbes
adduce gli argomenti che giustificano la creazione dell’uomo artificiale. Questi argomenti nascono da un’analisi sia
delle condizioni obiettive in cui gli uomini si vengono a
trovare nello stato di natura (condizioni indipendenti dal3
la loro volontà), sia delle passioni umane (che le condizioni
obiettive in parte contribuiscono ad alimentare).
festazione del desiderio di potere. In realtà, ciò che spinge
l’uomo contro l’uomo è il desiderio inesausto di potere.
13. La principale delle condizioni obiettive è l’eguaglianza
di fatto: in quanto eguali per natura, gli uomini sono in grado di procurarsi l’un l’altro il massimo dei mali, la morte. Se
poi si aggiunge una seconda condizione obiettiva, la scarsità dei beni, per cui può accadere che più uomini desiderino
possedere la stessa cosa, l’eguaglianza fa sorgere in ciascuno la speranza di conseguire il proprio scopo. Da ciò nasce
uno stato permanente di diffidenza reciproca, che conduce
ciascuno più a prepararsi per la guerra, e all’evenienza a
farla, che a cercare la pace. Tra le condizioni obiettive Elements e De cive dànno particolare rilievo al ius in omnia,
cioè al diritto che la natura ha dato a ciascuno che viva al di
fuori di ogni società civile su tutte le cose: diritto su tutte
le cose significa che là dove le leggi civili non hanno ancora
introdotto un criterio di distinzione tra il mio e il tuo, ogni
uomo ha diritto di impadronirsi di tutto ciò che cade in suo
potere, oppure, con altra interpretazione, di tutto ciò che è
utile alla propria conservazione. A dire il vero le condizioni
obiettive basterebbero da sole a spiegare l’infelicità dello
stato di natura: l’eguaglianza di fatto, unita alla scarsità delle risorse e al diritto su tutto, è destinata da sola a generare
uno stato di spietata concorrenza, che minaccia di convertirsi continuamente in lotta violenta.
15. Solo in Leviathan Hobbes giunge a chiarire il problema
fondamentale della scienza politica, il problema del potere
(cui dedica un intero capitolo). A tal riguardo sono decisive
queste due righe: «In primo luogo considero come un’inclinazione generale di tutto il genere umano, un perpetuo e
incessante desiderio di potere sempre più grande, che cessa
solo con la morte» (64). Il potere è definito come l’insieme
dei mezzi che vengono impiegati per ottenere un apparente
vantaggio futuro. Se ne distinguono due specie: il potere
naturale che dipende da eminenti facoltà del corpo o dell’animo, il potere strumentale che consiste in mezzi, come ricchezza, reputazione, amicizie, atti ad aumentare il potere
naturale. Si potrebbe sostenere che una volta individuato
questo desiderio inesausto di potere, che cessa solo con la
morte, non vi sia bisogno d’altro argomento per dimostrare
la miserabile vita dell’uomo nello stato di natura. Ma qualora si considerino anche le sfavorevoli condizioni obiettive
poc’anzi menzionate, che stimolano anziché raffrenare la
lotta per il potere, il quadro della terribilità dello stato di
natura diventa veramente completo.
16. Questa terribilità consiste in ciò: il desiderio di potere
in una situazione in cui tutti sono eguali nel potere di nuocersi, i beni sono insufficienti per soddisfare i bisogni di ciascuno, e ognuno ha il diritto naturale su tutto, è uno stato
permanente di guerra. Lo stato di natura è lo stato di guerra
di tutti contro tutti. «È manifesto che, durante il tempo in
cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga in soggezione, essi si trovano in quella condizione, che è
chiamata guerra, e tale guerra è di ogni uomo contro ogni
altro uomo» (Lev., 82).
14. La situazione è aggravata dal fatto che gli esseri che la
natura ha messo in tali frangenti sono dominati da passioni
(anch’esse un dono della natura matrigna) che li dispongono più all’insocievolezza che alla società. L’opinione che
Hobbes ha dei suoi simili non è lusinghiera: chi volesse
trarre dalle sue opere un florilegio di massime e di giudizi sulla malizia degli uomini non avrebbe che l’imbarazzo
della scelta. Discutendo di libertà e necessità col vescovo
Bramhall, osserva che gli uomini sono refrattari alla verità
perché sono attratti dalla brama di procurarsi ricchezze o
privilegi, dall’appetito di piaceri sensuali, dall’impazienza di stare a meditare, dall’avventatezza nell’abbracciare
principi errati (EW, iv, p. 256). In un passo di Leviathan,
dopo aver distinto gli uomini in cupidi, o dediti ai propri
guadagni, e ignavi, o spinti unicamente ai piaceri sensuali, osserva: «in queste due specie di uomini è compresa la
più gran parte del genere umano» (224). Nella descrizione
dello stato di natura, la passione cui Hobbes dà particolare
risalto è la vanagloria, perché è quella passione che «deriva
dall’immaginazione o concetto del nostro potere, superiore al potere di chi contrasta con noi» (Elements, i, 9, i). Sotto la nozione ampia di vanità, si possono comprendere tutti
i piaceri dell’animo, distinti dai piaceri materiali (De cive,
i, 2). Il fatto che vi siano uomini dominati da questa passione, tali cioè che «si aspettino precedenza e superiorità
sui loro compagni», conduce inevitabilmente alla contesa.
Sinteticamente, in Leviathan Hobbes distingue tre cause
principali di lotta, la competizione che fa combattere gli uomini per il guadagno, la diffidenza che li fa combattere per
la sicurezza, la gloria che li fa combattere per la reputazione
(81). Il rilievo che egli dà alla vanagloria tra le passioni generatrici di contese dipende dal ritenerla la più visibile mani-
La guerra di tutti contro tutti
17. L’espressione «guerra di tutti contro tutti» non dev’essere presa alla lettera. O almeno, se si vuol prenderla alla
lettera, la si deve considerare come l’apodosi di un periodo
ipotetico che contenga nella protasi l’affermazione dell’esistenza di uno stato di natura universale. Ma lo stato di
natura universale, cioè quello stato in cui tutti gli uomini
siano stati all’inizio, o saranno alla fine della storia, in stato
di natura, è una pura ipotesi della ragione. Ciò che Hobbes
vuol dire parlando di «guerra di tutti contro tutti» è che là
dove si verifichino le condizioni che caratterizzano lo stato
di natura, questo è uno stato di guerra di tutti coloro che si
vengono a trovare in questo stato.
18. Secondo Hobbes, lo stato di natura si può verificare in
tre situazioni determinate e storicamente constatabili:
a) nelle società primitive, sia quelle dei popoli selvaggi del
tempo, come gli indigeni di alcune plaghe dell’America, sia
quelle dei popoli barbari dell’antichità ora inciviliti, in una
situazione, cioè, che, essendo precedente al passaggio dalla
società naturale alla società civile, può dirsi pre-statale;
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concetto, come al solito, con una similitudine: «Come la
natura di una procella non consiste solo in un rovescio o
due di pioggia, ma nella disposizione dell’atmosfera ad essere cattiva per molti giorni di seguito; così la natura della
guerra non consiste in questo o quel combattimento effettivo, ma nella disposizione manifestamente ostile, durante la
quale non vi è sicurezza del contrario».
b) nel caso della guerra civile, cioè quando lo stato c’è già,
ma per varie ragioni si dissolve, e avviene il passaggio dalla
società civile all’anarchia, situazione che si potrebbe chiamare anti-statale;
c) nella società internazionale, in cui i rapporti tra gli stati
non sono regolati da un potere comune, in una situazione
quindi inter-statale.
22. «Guerra di tutti contro tutti» è un’espressione iperbolica: tolta l’iperbole, significa quello stato in cui un gran
numero di uomini, singolarmente o a gruppi, vivono, per
mancanza di un potere comune, nel timore reciproco e
permanente della morte violenta. L’iperbole serve soltanto
a far capire che è uno stato intollerabile, dal quale l’uomo
deve presto o tardi uscire se vuol salvare ciò che ha di più
prezioso, la vita.
19. Hobbes non ha mai creduto che lo stato di natura universale fosse stato lo stadio primitivo attraversato dall’umanità prima dell’incivilimento. In un passo della polemica
col vescovo Bramhall ritiene «verosimile» che «dalla creazione in poi il genere umano non sia stato del tutto senza
società. Se in alcune parti questa mancava, poteva essere in
altre» (EW, v, p. 183). Pure ammettendo che alcune società
primitive siano vissute in istato di natura, le forme di stato di natura che gli interessano sono quelle che sussistono
anche al tempo suo: la società internazionale e lo stato di
anarchia cui dà origine la guerra civile. Soprattutto questo
secondo: lo stato di natura che egli ha sempre in mente e descrive come guerra di tutti contro tutti è in realtà la guerra
civile, che ha dilaniato il proprio paese. Ogniqualvolta parla
della guerra civile come del peggiore di tutti i mali, le attribuisce il carattere specifico dello stato di natura. Dovendo
descrivere le conseguenze del venir meno dell’autorità dello stato, che è la guerra civile, la descrive come «guerra di
ognuno contro il suo vicino», con un’espressione che riecheggia la «guerra di tutti contro tutti» dello stato di natura. Nel passo di Leviathan, in cui adduce esempi di stato di
natura, all’esempio degli Americani, addotto anche nel De
cive, segue un’allusione che non potrebbe essere più chiara:
«Del resto può comprendersi quale sarebbe la maniera di
vivere là dove non fosse un potere comunemente temuto,
dalla maniera di vivere, che gli uomini hanno tempo fa tenuta sotto un pacifico governo, che è poi degenerata in una
guerra civile» (83).
I dettami della retta ragione
23. Per uscire dallo stato di natura viene in soccorso all’uomo la ragione sotto forma di regole prudenziali, cioè di
norme ipotetiche del tipo: «Se vuoi A, devi B». L’uomo è
non meno un essere di ragione che di passione: «La ragione
nell’uomo – dice Hobbes – non è meno naturale della passione, ed è la medesima in tutti gli uomini» (Elements, i, 15,
1). «La retta ragione», ribadisce nel De cive, «fa parte della
natura umana allo stesso modo di qualsiasi altra facoltà o
sentimento» (ii, 1).
24. La ragione chi cui parla Hobbes non ha niente che vedere con là facoltà di conoscere l’essenza delle cose: è la facoltà di ragionare, inteso il ragionamento come un calcolo
(«ratiocinatio est computatio», De corpore, i, 2), per cui,
date certe premesse, si ricavano necessariamente certe conclusioni. Per Hobbes dire che l’uomo è dotato di ragione
equivale a dire che è capace di calcoli razionali, il che è un
altro modo per dire che è in grado di scoprire quali siano i
mezzi più adeguati per raggiungere i fini voluti, e quindi di
agire non solo obbedendo a questa o a quella passione, ma
seguendo il proprio interesse. Quando Hobbes dice che la
retta ragione fa parte della natura umana intende dire che
l’uomo è capace non solo di conoscere per causas, ma anche
di agire per fines, ossia di seguire regole che gli indicano i
mezzi più idonei per raggiungere il fine desiderato (come
sono appunto le regole tecniche). Ciò che ha scatenato le
più contrastanti discussioni e ha fatto impazzire i critici è
che Hobbes ha chiamato queste regole prudenziali «leggi
naturali». Ma questa denominazione è soltanto un omaggio
alla tradizione: in realtà questi dettami della ragione non
sono affatto leggi, se per legge s’intende il comando di una
persona dotata di autorità, a meno che non si ritenga, come
mostra di ritenere Hobbes per conciliare il diavolo con l’acqua santa, che queste regole della prudenza umana siano
anche espressioni della volontà divina. Infatti, dopo aver
detto che le leggi naturali sono «una specie di conclusione
tratta dalla ragione in merito a quel che si deve fare o tralasciare», egli avverte che «strettamente parlando» non sono
leggi, ma «possono essere chiamate leggi con tutto rigore,
in quanto sono promulgate da Dio» (De cive, iii, 33). In Leviathan sotto l’etichetta di leggi naturali parla addirittura
20. Hobbes è uno scrittore realista: per dimostrarlo non c’è
miglior prova che la descrizione dello stato di natura che si
viene sovrapponendo a quella della guerra civile e l’una e
l’altra a poco a poco finiscono per fare tutt’uno. Lo stato di
natura di Hobbes è molto più realistico di quello di Locke
e naturalmente di quello (che pretende di essere storico, e
non è) di Rousseau nel Discorso sull’ineguaglianza. Hegel,
che era un realista e credeva non nelle chiacchiere dei predicatori ma nelle dure lezioni della storia, concepì la società
degli stati, hobbesianamente, come uno stato di natura.
21. Si potrebbe obiettare che non è realistica la concezione
dello stato di natura come stato di guerra «permanente».
Ma per stato di guerra Hobbes intende correttamente non
soltanto lo stato di conflitto violento, ma anche quello in
cui la quiete è precaria ed è assicurata esclusivamente dal timore reciproco, come si direbbe oggi dalla «dissuasione»,
insomma quello stato in cui la pace è resa possibile unicamente dalla minaccia permanente della guerra. In tutte le
tre opere lo ripete per non essere frainteso (Elements, i, 14,
11; De cive, i, 12; Lev., 82). E in più, nell’ultima, illustra il
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stibile è lo stato. Per ottenere il bene supremo della pace
bisogna dunque uscire dallo stato di natura e costituire la
società civile.
di «argomenti convenienti» che la ragione «suggerisce»
(suggerisce, si badi e non comanda) per ottenere la pace
(84). Più oltre ripete che queste norme della ragione vengono chiamate «impropriamente» leggi, perché non sono
che «conclusioni o teoremi riguardo a ciò che conduce alla
propria conservazione o difesa» (104).
Il patto di unione
27. Sinteticamente: la ragione viene in soccorso all’uomo suggerendogli le varie vie per raggiungere uno stato
di pace; ma nessuna di queste vie è percorribile sino a che
l’uomo vive nello stato di natura, cioè in uno stato in cui
l’insicurezza generale sconsiglia a ciascuno di agire razionalmente. La condizione preliminare, allora, per ottenere
la pace è l’accordo di tutti per uscire dallo stato di natura
e per istituire uno stato tale che consenta a ciascuno di seguire i dettami della ragione con la sicurezza che anche gli
altri faranno altrettanto. Per far vivere gli uomini in pace
la ragione da sola non basta: se bastasse non vi sarebbe
bisogno dello stato, cioè delle leggi civili (sarebbero sufficienti le leggi naturali). Occorre che gli uomini si accordino
nell’istituire uno stato che renda possibile una vita secondo
ragione. L’accordo è un atto di volontà. In questo senso lo
stato non è un fatto naturale, ma un prodotto della volontà
umana: è l’uomo artificiale.
25. Lo stato di natura, si è detto, è a lungo andare intollerabile, perché non garantisce all’uomo il conseguimento del
primum bonum, che è la vita. Sotto forma di leggi naturali la
retta ragione suggerisce all’uomo una serie di regole (Hobbes ne enumera una ventina) che hanno per iscopo di rendere possibile una coesistenza pacifica. E infatti tutte quante sono per così dire subordinate a una prima regola, che
Hobbes chiama «fondamentale» e che prescrive di cercare
la pace. Poiché nello stato di guerra la vita è sempre in pericolo, la regola fondamentale della ragione, e tutte le regole
da essa derivate, conducendo l’uomo verso una coesistenza
pacifica, sono ordinate al fine veramente primario di conservare la vita. Siccome peraltro queste regole sono regole
della prudenza e non imperativi categorici, ogni uomo è tenuto ad osservarle soltanto se, osservandole, è ben sicuro
di raggiungere il fine voluto. Ora accade che nella maggior
parte dei casi il fine previsto dalla regola non venga raggiunto se la regola non venga osservata da tutti o per lo meno
dalla maggior parte dei membri di un gruppo. Hobbes afferma che io non sono tenuto, o più correttamente, non ho
interesse a osservare una regola, se non sono sicuro che
l’osservino anche gli altri. Anche qui, per rendere omaggio
alla tradizione del diritto naturale, che parla di leggi o di
comandi e non di regole di prudenza, Hobbes spiega questa difficoltà dicendo che le leggi naturali obbligano in foro
interno, ma non in foro externo. Ma nello stato di natura chi
mi assicura che gli altri osservino le regole di prudenza che
io sono disposto ad osservare? In altre parole, nello stato di
natura, dove il fine supremo non è tanto la pace quanto la
vittoria, quale sicurezza ho io che, se agisco razionalmente,
cioè per cercare la pace, anche gli altri facciano altrettanto?
Una delle prime leggi naturali è che bisogna stare ai patti.
Ma chi è tanto stolto da osservare un patto se non è sicuro
che anche l’altro contraente l’osservi?
28. Sulla natura di questo accordo Hobbes dà indicazioni
molto precise. Anzitutto deve essere un accordo di molti e
non di pochi, permanente e non temporaneo. In secondo
luogo, non deve limitarsi a costituire una semplice associazione di persone che perseguono un fine comune, perché
un’associazione di questo genere si dovrebbe reggere solo
sui dettami della retta ragione e quindi sarebbe precaria
per i motivi già considerati. Hobbes respinge nettamente
la dottrina che fonda lo stato sul pactum societatis e risolve
la società civile in una semplice società di mutuo soccorso.
Una società di questo genere non è in grado di assicurare
l’osservanza delle regole di cui essa stessa ha bisogno per
svolgere la propria funzione. Per fondare una società stabile
occorre stipulare un accordo preliminare inteso a porre in
atto le condizoni di sicurezza di ogni possibile accordo successivo. È soltanto questo accordo preliminare che fa uscire
l’uomo dallo stato di natura e fonda lo stato.
29. Quale sia il contenuto di questo accordo si può desumere da tutto quello che è stato detto sin qui sui caratteri dello
stato di natura e sull’esigenza dell’uomo di uscirne. Poiché
lo stato di natura è uno stato d’insicurezza, lo scopo principale dell’accordo è quello di rimuovere le cause di questa
insicurezza. La causa principale d’insicurezza è la mancanza di un potere comune: l’accordo che fonda lo stato ha per
iscopo di costituire un potere comune. L’unico modo per
costituire un potere comune è che tutti acconsentano a rinunciare al potere proprio e a trasferirlo a un’unica persona (sia essa una persona fisica o una persona giuridica, per
esempio un’assemblea), che d’ora innanzi avrà tanto potere
quanto basti per impedire al singolo di esercitare il proprio
potere a danno degli altri. Nella nozione generica di potere bisogna comprendere almeno due cose essenziali, i beni
economici e la forza fisica: che nello stato di natura ognuno
abbia diritto su tutte le cose vuol dire in ultima istanza che
ognuno ha potere su tutte le cose che ha la forza di conqui-
26. Risulta chiaramente dalle caratteristiche dello stato di
natura che in questo stato nessuno può essere sicuro che gli
altri osservino le leggi naturali. Lo stato di natura è quello
stato in cui le leggi naturali ci sono, cioè sono valide, ma
non sono efficaci; o, più semplicemente, è quello stato in
cui sarebbe il colmo dell’imprudenza seguire le regole della
prudenza. La ragione prescrive all’uomo di cercare la pace.
Ma per ottenere la pace occorre che le regole che prevedono le varie azioni indirizzate a tale fine siano osservate da
tutti o almeno dalla maggior parte. Il che non avviene nello
stato di natura per una ragione fondamentale: se qualcuno
viola una di queste regole, non vi è nessuno tanto forte da
costringerlo ad osservarla. Ne consegue che l’unica via per
rendere efficaci le leggi naturali, cioè per fare in modo che
gli uomini agiscano secondo ragione e non secondo passione, è l’istituzione di un potere tanto irresistibile da rendere
svantaggiosa ogni azione contraria. Questo potere irresi6
La sovranità è irrevocabile
31. La funzione che Hobbes attribuisce al patto d’unione
è di far passare l’umanità dallo stato di guerra allo stato di
pace, istituendo il potere sovrano. Questo patto d’unione
peraltro è escogitato in modo da contraddistinguere la sovranità che ne deriva con tre attributi fondamentali, che
sono i tre contrassegni della dottrina hobbesiana dello stato: l’irrevocabilità, l’assolutezza, l’indivisibilità. Il potere
statale non è veramente sovrano, e quindi non serve allo
scopo per cui è stato istituito, se non è irrevocabile, assoluto, indivisibile. Ricapitolando, il patto d’unione è:
stare e di difendere contro gli attacchi altrui. Per costituire un potere comune bisogna dunque che tutti s’accordino
nell’attribuire a una sola persona tutti i loro beni, e cioè il
diritto su ogni cosa, e tanta forza quanta basti per potere resistere vittoriosamente a chiunque si arrischiasse a violare
l’accordo. L’obbligo fondamentale che i singoli contraggono
in base a questo accordo è quello caratteristico del pactum
subiectionis, ossia è l’obbligo di ubbidire a tutto quello che
il detentore del potere comune comanderà. Hobbes chiama
questo accordo «patto d’unione» e ne enuncia la formula
in questo modo: «Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione: che anche tu ceda il tuo diritto
a lui e autorizzi tutte le sue azioni allo stesso modo» (Lev.,
112). A differenza del pactum societatis, il patto d’unione
hobbesiano è un patto di sottomissione; ma a differenza
del pactum subiectionis, i cui contraenti sono, da un lato, il
populus nel suo complesso e, dall’altro, il sovrano, è, come
il pactum societatis, un patto i cui contraenti sono i singoli
soci tra loro che s’impegnano reciprocamente a sottomettersi a un terzo non contraente. Con una contaminazione
probabilmente inconsapevole dei due contratti che stanno
a fondamento dello stato secondo una dottrina tramandata, Hobbes ha fatto dell’unico patto d’unione un contratto
di società rispetto ai soggetti e di sottomissione rispetto al
contenuto. Il risultato comunque è la costituzione di quel
potere comune attraverso cui avviene il passaggio dallo stato di natura allo stato civile.
a) un patto di sottomissione stipulato tra i singoli e non tra
il popolo e il sovrano;
b) consiste nell’attribuire a un terzo al di sopra delle parti
tutto il potere che ciascuno ha nello stato di natura;
c) il terzo cui questo potere viene attribuito è, come viene
ribadito da tutte e tre le definizioni riportate poc’anzi, un’unica persona.
Dal primo di questi caratteri discende l’irrevocabilità, dal
secondo l’assolutezza, dal terzo l’indivisibilità.
32. Una delle ragioni per cui Hobbes costruisce il patto
originario come un patto tra individui singoli (e non tra gli
individui già riuniti in popolo) e il destinatario della sottomissione è il proposito, del resto dichiarato, di sottrarlo
al pericolo, cui soggiace il tradizionale patto di sottomissione, di essere revocato, qualora fosse interpretato come
un rapporto tra mandante e mandatario, il cui contenuto
è il conferimento di un incarico di governo affidato a certe condizioni ed entro certi limiti di tempo. A favore della
irrevocabilità del patto d’unione, così com’egli l’ha concepito, Hobbes adduce sostanzialmente due ragioni: una difficoltà di fatto e una impossibilità di diritto. Se uno dei due
contraenti fosse il popolo, cioè un’universitas e non più una
multitudo, secondo il modello del pactum subiectionis, per
la rescissione del contratto basterebbe che fosse d’accordo
la maggioranza. Ma quando i contraenti sono tutti indistintamente i membri della società civile, uti singuli, cioè come
moltitudine e non come popolo, la rescissione del contratto
può avvenire soltanto se tutti sono d’accordo, cioè richiede
non la maggioranza ma l’unanimità. Siccome non è credibile, commenta Hobbes, che tutti i cittadini siano simultaneamente d’accordo nell’abbattere il sovrano, ergo «non v’è
pericolo per i sovrani di venire legalmente destituiti della
loro autorità» (De cive, vi, 19).
30. Non diversamente dalla sovranità secondo la concezione tradizionale, questo potere comprende il supremo potere economico (o dominium) e il supremo potere coattivo
(o imperium). Il potere politico è la somma dei due poteri.
«Non v’è potestà sulla terra, – dice il versetto del libro di
Giobbe che definisce il mostro Leviatano, – che sia pari a
lui». Il versetto traduce la definizione tradizionale di sovranità: «potestas superiorem non recognoscens». «Questa è
l’origine, – spiega Hobbes, – di quel grande Leviatano, o
piuttosto – per parlare con più reverenza – di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, al di sotto del Dio immortale,
la nostra pace e la nostra difesa» (Lev., 112). Nelle tre opere Hobbes dà tre definizioni dello stato via via sempre più
complesse, ma sostanzialmente simili:
a) «una moltitudine di uomini uniti come una persona da
un potere comune, per la loro comune pace, difesa e vantaggio» (Elements, i, 19, 8);
b) «un’unica persona, la cui volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti individui, si deve ritenere
la volontà di tutti questi individui; onde può servirsi delle
forze e degli averi dei singoli per la pace e per la comune
difesa» (De cive, v, 9), dove è da osservare l’eliminazione
del «vantaggio» (benefit) dai fini dello stato;
33. L’impossibilità di diritto deriva dall’aver concepito il
patto d’unione come un contratto a favore di terzo, cioè
come un contratto in cui i contraenti assumono un obbligo
non solo l’uno verso l’altro, ma anche verso il terzo a favore
del quale il contratto è stato stipulato. La natura di questo
contratto è tale che non può essere rescisso col solo consenso delle parti, ma occorre anche il consenso del terzo
al quale le parti si sono reciprocamente obbligate. Ciò significa che, una volta stabilito il patto d’unione, per rescin-
c) «una persona, dei cui atti ciascun individuo di una gran
moltitudine, con patti vicendevoli, si è fatto autore, affinché
possa usare la forza e i mezzi di tutti, secondo che crederà
opportuno, per la pace e per la comune difesa» (Lev., 112).
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il permesso di quello» (113). Illustrando questa tesi, Hobbes
fa una chiara allusione ai partiti della rivoluzione là dove
contesta coloro che «hanno preteso di aver fatto un nuovo
patto non con gli uomini ma con Dio»: il patto con Dio è
una menzogna, perché non si dànno patti che con gli uomini, tutt’al più coi mediatori tra l’uomo e Dio che sono, per
l’appunto, i sovrani.
derlo non basta il consenso dei consociati, già di fatto improbabile perché occorre l’unanimità dei voti, ma occorre
anche il consenso dello stesso sovrano. Nel De cive Hobbes
interpreta questo contratto a favore di terzo come un insieme di patti reciproci tra i consociati, il cui contenuto è il
trasferimento dei propri diritti a un’unica persona, seguiti
da una donazione di tutti questi diritti alla persona convenuta. Ne viene, spiega Hobbes, che il potere sovrano poggia sopra una duplice obbligazione da parte dei cittadini,
l’una nei confronti degli altri cittadini, l’altra nei confronti
del sovrano: con la conseguenza che, «qualunque sia il loro
numero, non possono legittimamente destituire dal potere
il sovrano senza il suo consenso» (ibid.). Più semplicemente, e forse più efficacemente, in Leviathan osserva che una
rottura di contratto tra sudditi e sovrano non può avvenire, perché tra sovrano e sudditi non è mai intercorso alcun
contratto, essendo il patto d’unione un patto dei sudditi tra
loro. Ma aggiunge un chiarimento di estrema importanza
per dare una spiegazione plausibile del perché non sussista
e non possa sussistere un patto tra sudditi e sovrano. Delle
due l’una: o si immagina questo patto come intercorrente
tra il sovrano e i sudditi come un’unica persona, ma questo
è impossibile, perché i sudditi prima di riunirsi in un’assemblea non sono una persona, e se lo fossero sarebbero già essi
stessi lo stato; o lo si immagina come intercorrente tra il sovrano e ciascuno dei sudditi singolarmente presi, e allora,
posto che sia di fatto possibile, diventa, una volta concluso,
nullo, perché «qualsiasi atto del sovrano venga incriminato
da uno di loro come violazione del patto, è l’atto insieme
suo e di tutti gli altri, in quanto compiuto a nome e con l’autorizzazione di ciascuno di loro in particolare» (114); anche se non fosse nullo, non ci sarebbe nessuno in grado di
giudicare la controversia qualora il suddito lo denunciasse.
La conclusione cui Hobbes vuol giungere è che è perfettamente inutile attribuire a qualcuno il potere sovrano con
un patto precedente alla istituzione stessa del sovrano, perché il sovrano una volta istituito non è tenuto a rispettare,
proprio per la natura stessa del potere che gli è attribuito,
alcun patto precedente. Coloro che pretendono che il sovrano sia vincolato da un patto coi sudditi (mentre è vero
che soltanto i sudditi sono vincolati tra loro) non intendono
la facile verità «che i patti, non essendo che parole e fiato,
non hanno altra forza di obbligare, trattenere, costringere
e proteggere un uomo, se non quella che hanno dalla pubblica spada, cioè dalle mani non legate di quell’uomo o di
quell’assemblea di uomini, che ha la sovranità» (115).
La sovranità è assoluta
35. Quando sostiene l’irrevocabilità del potere sovrano,
Hobbes si contrappone alla teoria del mandato (che sarà
ripresa tra gli altri da Locke). Così, sostenendo che il potere sovrano è assoluto, nel senso proprio di legibus solutus,
si contrappone alle teorie, varie e variamente argomentate, affermanti questo o quel limite al potere dello stato.
Queste teorie, predominanti in Inghilterra, prima e dopo
Hobbes, hanno dato origine alla corrente di pensiero politico del «costituzionalismo»: nonostante le interpretazioni
benevolmente liberaleggianti del pensiero hobbesiano, che
hanno avuto corso in questi ultimi anni, i costituzionalisti
considerarono sempre Hobbes come uno dei loro principali
avversari. Che il potere sovrano sia il potere maggiore che
possa essere attribuito da uomini ad altri uomini, è una delle convinzioni hobbesiane più spesso ribadite. La grandezza
di questo potere sta proprio nel fatto che chi lo detiene può
esercitarlo senza limiti esterni: in tal senso questo potere è
assoluto. Nello stato di natura non vi sono sudditi e sovrani,
o meglio ognuno è sovrano o suddito secondo la situazione
di fatto in cui versa, potendo essere ora il più potente dei
sovrani di diritto, ora il più miserevole dei sudditi di fatto. Nello stato civile dopo il patto d’unione il sovrano è sovrano e il suddito è suddito: e il sovrano è sovrano perché,
avendo ormai egli solo il diritto su tutto che prima del patto
spettava a ciascuno, è sempre sovrano e non mai suddito.
Ed è sempre sovrano e non mai suddito proprio perché il
suo potere è assoluto: se altri lo limitasse, sovrano sarebbe
l’altro, non lui.
36. Vari erano gli argomenti con cui le dottrine antiassolutistiche affermavano i limiti del potere statale. L’opera
hobbesiana è una continua e incalzante risposta a questi
argomenti. Un primo argomento contro l’assolutismo era
offerto dalla stessa forma del patto: se il patto avviene tra
il popolo come universitas e il sovrano, il trasferimento del
potere può essere condizionato all’adempimento da parte del sovrano di certi obblighi. Come abbiamo già visto,
Hobbes nega in questo caso il presupposto, cioè l’esistenza
stessa di un patto tra popolo e sovrano. Prima della costituzione del potere sovrano non c’è un popolo, ma una moltitudine, un insieme di individui isolati. Perché si formi da
una moltitudine un popolo è necessario che la moltitudine
decida di uscire dallo stato di natura, attribuendo il potere sovrano non ad una persona fisica, ma ad un’assemblea
che la comprenda o la rappresenti (assemblea popolare).
Ma in questo caso il sovrano è il popolo stesso, e in quanto
sovrano non può spogliarsi dei suoi diritti e il suo potere è
assoluto quanto quello di un monarca. Il patto tra popolo
e sovrano, se mai avviene, è in realtà un patto tra il titolare
della sovranità e colui o coloro cui se ne demanda l’eserci-
34. Superfluo sottolineare la funzione conservatrice e, per
il tempo in cui fu scritta, controrivoluzionaria di questa
dottrina. Ancor più collegata alle lotte del tempo è la tesi
parallela, esposta anch’essa in Leviathan, che non solo non
è lecito ai sudditi revocare il sovrano, cioè disfare lo stato,
ma non è neppure lecito mutare la forma di governo, cioè
trasformare, ad esempio, una monarchia in repubblica.
Anche in questo caso ricorre il solito argomento giuridico:
«Coloro che hanno già istituito uno stato, essendo perciò
legati da un patto che riconosce le azioni o decisioni di un
uomo, non possono legalmente fare un nuovo patto tra di
loro, per obbedire ad un altro, in una qualunque cosa, senza
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sottoposto imporrebbe un obbligo a se stesso. Ma resta il
problema più grave: non vi sono altre leggi oltre le leggi civili? Chiunque voglia difendere il principio dell’illimitatezza del potere sovrano deve fare i conti con le leggi comuni
del paese (la common law), tramandate per consuetudine
e applicate dai giudici (e di cui i legisti sostengono la superiorità sulle norme emanate dal re e dal parlamento) e con
le leggi naturali. Hobbes è un nemico dichiarato e accanito
dei fautori del diritto comune a cominciare da Sir Edward
Coke, contro il quale scrive in tarda età il Dialogo tra un
filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra, ove
sostiene la tesi che non vi è altro diritto che quello emanato
dal re, perché soltanto il re ha la forza di farlo valere. Ma
già in Elements, enumerando le fonti del diritto, non ne riconosce altre all’infuori della legge derivata dalla volontà
espressa o tacita del sovrano: «La consuetudine di per sé
non costituisce legge» (ii, 10, 10, e così De cive, xiv, 15; Lev.,
174).
zio. Ma un patto di questo genere non ha niente che vedere
col patto di unione che dà origine alla società civile.
37. Un secondo argomento nasceva dal contenuto del patto, indipendentemente dalla sua forma. Quali che siano i
soggetti contraenti, la maggiore o minore estensione del
potere sovrano dipende anche dalla quantità e dalla qualità
dei diritti naturali che formano l’oggetto del trasferimento.
I fautori della sovranità limitata sostengono che il trasferimento è parziale: anzi, a poco a poco si fa strada l’opinione
che tra i diritti che l’uomo ha nello stato di natura alcuni
siano inalienabili e pertanto il trasferimento di essi, in qualunque modo avvenga, sia nullo. Hobbes, al contrario, sostiene che il trasferimento è quasi totale: per dar vita allo
stato civile ogni individuo deve rinunciare al diritto su tutte
le cose e alla forza per farlo valere. In seguito alla rinuncia al
diritto su tutte le cose, all’individuo entrato a far parte dello stato, cioè diventato suddito, non rimane altro diritto che
il diritto alla vita. Che il diritto alla vita sia irrinunciabile
deriva dalla logica stessa del sistema: siccome gli individui
istituiscono lo stato per sfuggire alla minaccia permanente
di morte che caratterizza lo stato di natura, cioè per aver
salva la vita, non possono non ritenersi sciolti dal vincolo
dell’obbedienza qualora la loro vita sia per colpa del sovrano in pericolo. Il capitolo xxi di Leviathan contiene per così
dire la carta dei diritti di libertà dei sudditi dello stato hobbesiano, il più importante dei quali è espresso con queste
parole: «Se il sovrano comanda ad un uomo – per quanto
giustamente condannato – di uccidere, ferire o mutilare se
stesso, o di non resistere a quelli che l’assalgono, o di astenersi dal prendere cibo, aria, medicina o altra cosa, senza
della quale non potrebbe vivere, quell’uomo ha la libertà di
disobbedire» (142). In genere le libertà di cui godono i sudditi nel silentium legis sono mere libertà di fatto, che possono essere accresciute o diminuite o persino soppresse «secondo che coloro, i quali hanno la sovranità, pensano che
sia più opportuno» (143). Queste libertà non rappresentano
alcuna menomazione del potere illimitato del sovrano, perché «niente il sovrano rappresentante può fare ad un suddito, sotto qualunque pretesto, che possa dirsi propriamente
un’ingiustizia o un’offesa, perché ogni suddito è autore di
ogni atto che fa il sovrano» (139).
Le leggi civili
39. Quanto alle leggi naturali, quale sia la soluzione data da
Hobbes al problema, e se mai ve ne sia una, è oggetto di
viva controversia, sinora inconclusa e chi sa forse inconcludibile (e inconcludente) tra gli studiosi. Certo Hobbes ripete spesso che il sovrano è sottoposto alle leggi di natura (e
alle divine). Ma le leggi di natura sono regole di prudenza o
norme tecniche, la cui osservanza dipende dal giudizio sulla possibilità di perseguire il fine nella situazione data. Per
quel che riguarda il sovrano, sia nei rapporti con gli altri sovrani, coi quali vive allo stato di natura, sia nei rapporti coi
sudditi, cui non lo lega alcun patto, questo giudizio spetta
soltanto a lui. Siccome egli non è obbligato esternamente
verso nessuno, né verso gli altri sovrani né verso i sudditi,
ad osservare i dettami della ragione (ricordiamo che le leggi
naturali obbligano soltanto in coscienza), questi non costituiscono di fatto un limite al proprio potere. È vero che lo
scopo per cui gli individui hanno istituito lo stato è la sicurezza, e per sicurezza Hobbes intende quello stato in cui le
leggi naturali possono essere osservate senza timore di rimetterci, ed è quindi vero che essi attribuiscono al sovrano
tutti i poteri necessari affinché le leggi naturali diventino
vere e proprie leggi, ossia leggi civili; perciò potrebbe sembrare che, essendo il compito principale del sovrano quello
di rendere coattive le leggi naturali, dovrebbe essere anche
ad esse soggetto. Ma è altrettanto vero che spetta al sovrano, e soltanto al sovrano, stabilire attraverso l’emanazione
delle leggi civili ciò che è giusto e ciò che è ingiusto: con la
conseguenza che, una volta costituito lo stato, non ci sono
per i sudditi altri criteri del giusto e dell’ingiusto che le leggi civili. Innumerevoli sono i passi in cui Hobbes ribadisce
questo concetto che fa della sua morale una delle espressioni più ardite, anche se non sempre coerenti, di legalismo
etico, cioè di quella teoria secondo cui il sovrano (e quindi
anche Dio) non comanda ciò che è giusto, ma è giusto ciò
che il sovrano comanda. «Fa parte delle prerogative del sovrano stabilire e promulgare norme, cioè criteri di misura,
generali, in modo che ciascuno sappia che cosa si debba intendere come proprio e altrui, giusto e ingiusto, onesto e
disonesto, buono e cattivo; e insomma che cosa sia da fare
38. Questi primi due argomenti sono connessi con le dottrine contrattualistiche. L’argomento classico in favore
di limiti del potere sovrano ne prescinde ed è, anche per
questo, di natura più generale. Esso si fonda sul principio
della subordinazione del potere politico, chiunque ne sia il
titolare, al diritto, o più precisamente alla legge (al diritto
oggettivo), principio che era stato il fondamento etico della
dottrina costituzionalistica inglese, secondo la classica formulazione del Bracton: «Ma lo stesso re non deve essere
sottomesso all’uomo, bensì a Dio e alla legge, perché è la
legge che fa il re». Hobbes si sbriga subito della tesi secondo
cui il sovrano sia soggetto al diritto positivo, cioè alle leggi
civili, con il vecchio argomento che nessuno può obbligare
se stesso, perché «chi obbliga se stesso si potrebbe liberare
a proprio arbitrio» (De cive, vi, 14, Lev., 173). Siccome le
leggi civili sono fatte dal sovrano, se il sovrano fosse ad esse
9
e che cosa si debba rifuggire nella vita della comunità» (De
cive, vi, 9). Oppure: «Dove non esiste un potere comune,
non esiste legge e dove non esiste legge non esiste giustizia» (Lev., 83). E ancora: «Nessuna legge può assolutamente essere ingiusta, in tanto in quanto ogni uomo crea col
suo consenso la legge che egli è tenuto a osservare, e che di
conseguenza deve essere giusta, a meno che un uomo possa
essere ingiusto verso se stesso» (On Liberty and Necessity,
in EW, iv, pp. 252-53).
che sia stata promulgata con l’intenzione di offendere Dio
[...], può essere contraria alla legge naturale» (De cive, xiv,
10). A questo punto l’unico limite effettivo al proprio potere il sovrano potrebbe trovarlo nella resistenza dei sudditi
a un comando considerato ingiusto. Ma dal momento che
i sudditi si sono obbligati ad ubbidire a tutto quello che il
sovrano comanda, anche questo limite cade, e il potere sovrano è veramente illimitato sia rispetto alle leggi naturali
sia rispetto ai diritti dei sudditi, come volevasi dimostrare.
40.Si potrebbe obiettare che le leggi civili stabiliscono ciò
che è giusto e ciò che è ingiusto, perché non sono altro che
l’esecuzione coattiva delle leggi naturali: in questo senso
viene interpretato il controverso passo di Leviathan, in cui
Hobbes dice che «la legge di natura e la legge civile si contengono a vicenda e son di eguale estensione» (174); oppure
quello di De homine, in cui si dice che «le leggi naturali,
una volta costituito lo stato, entrano a far parte delle leggi
civili» (xiii, 9). Ma si può rispondere:
42. Ne è una riprova l’opinione che Hobbes sostiene a proposito della tradizionale distinzione tra forme pure e forme corrotte di governo. Questa distinzione non ha alcun
fondamento, egli dice, perché, se il criterio di distinzione
è la maggiore ampiezza di poteri del tiranno nei confronti del re, questo criterio è falso, essendo che «non si può
dare potere più grande del potere sovrano»; se mai fosse
vero che il re ha un potere limitato, questi non sarebbe più
sovrano, giacché, «se un’autorità viene concessa con certi
limiti, chi la riceve non è re, ma suddito di chi la concede»
(De cive, vii, 3). Manca totalmente nelle opere di Hobbes
una teoria dell’abuso di potere (che è appunto ciò che caratterizza il tiranno, almeno nella figura del tyrannus quoad exercitium): dal momento che l’abuso consiste nel superare i limiti stabiliti, non vi può essere abuso là dove non
vi sono limiti. Al contrario, ciò che può indurre i sudditi a
sciogliersi dal dovere d’obbedienza non è l’abuso ma il non
uso, non l’eccesso ma il difetto di potere. La ragione per cui
gli uomini hanno investito di tanto potere un altro uomo
(o una persona civile) è il bisogno di sicurezza. Vien meno
al proprio compito essenziale il sovrano che per incuria o
per debolezza o per incapacità non è in grado di impedire
ai suoi sudditi di ricadere nello stato di natura. Se il sovrano
che essi hanno istituito non li protegge, essi hanno il diritto
di cercarsi un altro protettore (Lev., 144). E infatti, il primo
dovere del sovrano è quello di non spogliarsi o di non lasciarsi spogliare dei poteri che gli sono stati conferiti (ibid.,
219); ciò che egli non deve fare dunque è non già di superare
limiti che non esistono, ma di imporsi o di accettare limiti
che non debbono esistere.
a) vi sono alcuni passi del De cive, in cui Hobbes sostiene
molto chiaramente che spetta al sovrano stabilire quale sia
il contenuto delle leggi naturali, il che val quanto dire che
è compito del sovrano non soltanto di rendere coattive le
leggi naturali, ma anche di stabilire che cosa prescrivono:
«Le leggi di natura proibiscono il furto, l’omicidio, l’adulterio e tutte le varie specie di torti. Però si deve determinare
per mezzo della legge civile, e non della naturale, quel che
si debba intendere fra cittadini per furto, omicidio, adulterio, torto» (De cive, vi, 16, e così xiv, 10; xviii, 10). Gli
esempi che Hobbes adduce per illustrare questa affermazione («non ogni uccisione è omicidio; ma è omicidio soltanto
uccidere persone che la legge civile proibisce di uccidere»),
stanno a provare che è improprio il dire che il sovrano sia
sottoposto alle leggi naturali e pertanto possa violarle;
b) pure ammesso che il sovrano possa violare le leggi naturali, resta il fatto che il suddito ha il dovere di ubbidire
a tutto ciò che il sovrano comanda, eccezion fatta per i comandi che mettano in pericolo la propria vita. Al potere del
sovrano di comandare senza limiti è correlativo l’obbligo
del suddito di ubbidire senza riserve. Al potere di cui non si
può dare uno maggiore, da una parte, corrisponde un’obbedienza «di cui non si può dare una maggiore» (chiamata nel
De cive «semplice», vi, 13), dall’altra.
La sovranità è indivisibile
43. Nelle definizioni dello stato Hobbes insiste sempre
sul fatto che la sovranità dev’essere attribuita ad un’unica persona (non importa se sia un uomo o un’assemblea).
Come aveva ben visto Rousseau, il problema fondamentale di Hobbes – quello la cui soluzione è la ragione prima e
lo scopo ultimo della sua dottrina politica – è il problema
dell’unità del potere: «Di tutti gli autori cristiani, il filosofo Hobbes è il solo che abbia visto il male e il rimedio, che
abbia osato proporre di riunire le due teste dell’aquila, e ricondurre ogni cosa all’unità politica» (Contrat social, iv, 8).
Ciò che spinge Hobbes a dedicarsi allo studio della politica
è l’avversione alle dottrine, e la paura dei moti, che provocano la disgregazione dello stato. Per evitare l’anarchia, la
sovranità deve essere, oltreché irrevocabile e illimitata, anche indivisibile. Le cause di dissoluzione dell’unità statale,
che egli considera e contro cui combatte senza tregua, sono
soprattutto due: la divisione dei poteri sovrani all’interno
41. Se si osservano bene i due argomenti sub a) e sub b), non
si riesce a vedere quali limiti effettivi ed efficaci derivino al
potere sovrano dal fatto che esso sia stato istituito per rendere coattive le leggi naturali o, più precisamente, per fare
dei dettami della ragione vere e proprie leggi. Dal momento
che spetta al sovrano determinare il contenuto delle leggi
naturali, è conforme alla legge naturale qualunque legge civile esso comandi: per quanto possa sembrare assurda una
conseguenza di questo genere, è proprio quella che Hobbes
trae là dove, ripetendo il concetto che «per quanto la legge
di natura proibisca il furto ecc., se poi quella civile comanda
di commettere una qualche usurpazione, tale usurpazione
non è più un furto», afferma: «nessuna legge civile, a meno
10
tenere anche la bilancia. Subito dopo considera tra i poteri
sovrani il potere di far leggi. Sono riuniti in questo modo
nella stessa persona i tre tradizionali poteri dello stato: il
potere esecutivo (le due spade), il potere giudiziario e il
potere legislativo. A proposito del quale in Elements commenta: «La loro [delle leggi] creazione deve di diritto spettare a colui che ha il potere della spada, mediante il quale
gli uomini sono costretti ad osservarle; infatti, altrimenti,
esse sarebbero fatte invano» (ii, 1, 10). L’analisi dei vari
poteri che spettano al sovrano è tutta quanta indirizzata a
mostrare che questi poteri sono così strettamente collegati
l’uno all’altro, così interdipendenti, che non possono non
appartenere ad una sola persona. Il potere esecutivo, cioè il
potere di costringere o di adoperare legittimamente la forza
fisica sia contro i nemici esterni sia contro i nemici interni,
che è il contrassegno stesso della sovranità, presuppone il
potere di giudicare il torto e la ragione (potere giudiziario);
il potere giudiziario presuppone che siano prestabiliti i criteri generali in base ai quali il giudizio può essere emesso,
ovvero le leggi civili. A sua volta, il potere legislativo presuppone il potere esecutivo, se le leggi debbono essere vere
e proprie norme della condotta umana e non flatus vocis. E
così il cerchio si chiude.
dello stato, e la separazione tra potere spirituale e potere
temporale.
44.Ai tempi di Hobbes, coloro che sostenevano la divisione dei poteri si richiamavano alla teoria classica del governo misto, secondo cui la miglior forma di governo è quella
che risulta da una composizione e da un contemperamento delle tre forme aristoteliche, monarchia, aristocrazia e
democrazia. Tra gli scrittori del diritto pubblico inglese, lo
stato inglese era tradizionalmente raffigurato come un corpo politico composto di una testa (il re) e delle membra (i
tre stati); alla teoria del governo misto si erano appellati i
difensori delle prerogative del parlamento contro la corona.
Già in Elements Hobbes dà una descrizione accurata del governo misto come quello in cui «il potere di fare le leggi viene attribuito a una qualche grande assemblea democratica,
il potere di giudicare a qualche altra assemblea, e il curare
che vengano eseguite le leggi ad una terza, o a un qualche
uomo» (ii, 1, 15); e ne contesta energicamente la funzione, che dovrebbe essere quella di garantire una maggiore
libertà dei cittadini, con uno dei suoi tipici ragionamenti
dilemmatici: se i tre organi vanno d’accordo, il loro potere
è altrettanto assoluto di quello di una persona sola; se sono
in disaccordo, lo stato non è più stato, ma anarchia. Questa
confutazione gli dà occasione di ripetere che la sovranità
è indivisibile, e «ciò che sembra commistione di vari tipi
di governo, non è commistione delle cose stesse, ma confusione nei nostri intelletti, che non possono scoprire senza difficoltà a chi ci siamo assoggettati» (si veda anche De
cive, vii, 4). In Leviathan passa dalla confutazione teorica
all’esemplificazione storica, che mostra quale fosse il vero
bersaglio polemico: «Se non vi fosse stata prima un’opinione, accettata dalla maggior parte dell’Inghilterra, che
questi poteri fossero divisi tra il re, i Lords ed i Comuni,
il popolo non si sarebbe mai diviso, e non sarebbe caduto
in questa guerra civile» (119). Anche in De cive (xii, 5), del
resto, non era mancata un’allusione alle vicende del paese
là dove, criticando come sediziosa la teoria secondo cui «il
potere sovrano possa essere diviso», si era riferito tra gli altri a coloro che suddividono il potere sovrano in modo da
attribuire il potere di guerra e di pace ad una persona, «ma
poi attribuiscono non a lui ma ad altri il diritto di imporre
tributi». Ne seguiva questa volta un dilemma di questa sorta: o il potere effettivo appartiene a coloro che dispongono
delle finanze, e allora il potere non è diviso che in apparenza, o è veramente diviso, e allora lo stato è sulla via della
dissoluzione, «perché non si può fare la guerra [...] né conservare la pubblica tranquillità senza denaro».
Lo Stato e la Chiesa
46. Condannando come opinione sediziosa la teoria secondo cui «il potere sovrano può essere diviso», Hobbes la illustra, oltre che con l’esempio della teoria della separazione
dei poteri, con l’opinione di coloro che dividono il potere
statale in modo da «attribuire all’autorità civile la sovranità
in tutte quelle materie che si riferiscono alla pace e al benessere di questa vita, ad altre autorità il potere di regolare
quanto riguarda la salvezza dell’anima» (De cive, xii, 5).
Quale sia il giudizio negativo che egli dà di questo modo di
risolvere il problema dei rapporti tra stato e Chiesa, risulta
chiaro da quel che si legge subito dopo: là dove i cittadini
debbono ubbidire a precetti diversi dalle leggi civili, può
accadere che siano indotti a disobbedire alle leggi civili.
«Che cosa può essere più deleterio per lo stato del fatto che
si distolgono gli uomini, con lo spauracchio di pene eterne,
dal prestare obbedienza ai governanti, ossia alle leggi, e, in
sostanza, dal praticare la giustizia?»
47. Di tutte le cause di disgregazione dello stato la più grave, per chi crede che l’unico rimedio alla disgregazione sia
l’indivisibilità del potere, è certamente l’esistenza, al di fuori dello stato e, magari anche contro lo stato, di un potere altrettanto grande, se non, nell’opinione di alcuni, superiore,
che pretende obbedienza alle proprie leggi, anzi ritiene che
l’obbedienza alle proprie leggi debba avere la precedenza
sull’obbedienza alle leggi civili, nella misura in cui premio
e castigo eterni sono più temibili del premio e castigo su
questa terra. La guerra civile, di cui Hobbes era stato atterrito spettatore, era stata anche una guerra religiosa: la lotta
contro il potere civile era stata fatta anche in nome, o sotto
pretesto, dell’ubbidienza dovuta al volere di Dio e dell’osservanza di comandamenti di autorità religiose ostili a questa o a quella autorità meramente terrena. Nonostante la
rottura dell’universalismo religioso, nessuna chiesa aveva
45. Hobbes non si limita a criticare la teoria contraria, ma
nel De cive, là dove esamina ed elenca i poteri del sovrano,
che egli chiama «spada della giustizia» e «spada della guerra», si sofferma a far notare che queste due spade, per poter
colpire, debbono appartenere alla stessa persona, perché
«nessuno può costringere legittimamente i suoi cittadini a
combattere e a sopperire alle spese di guerra, se non ha il
diritto di punire chi non ubbidisce» (vi, 7). Come se non
bastasse, siccome il diritto di punire presuppone il potere
di giudicare la ragione e il torto, chi possiede la spada deve
11
del De cive sulle leggi e le loro violazioni (ma, non essendo
ripresa in Leviathan, deve essere accolta con cautela): «La
legge naturale comanda di obbedire a tutte le leggi civili in
virtù della legge naturale che vieta di violare i patti», presa
alla lettera, finirebbe per eliminare la possibilità stessa di
un contrasto tra legge naturale e legge civile.
rinunciato alla pretesa della Chiesa romana di essere l’unica
interprete autorizzata della legge di Dio e quindi di essere
superiore allo stato; né le chiese nazionali riformate, né la
Chiesa anglicana, né le sette non conformiste, che Hobbes
detestava come irresponsabili e fanatiche incitatrici alla disobbedienza civile. «Il più frequente pretesto di sedizione
e di guerra civile negli stati cristiani, – egli scrive all’inizio
del capitolo xliii di Leviathan (384), – è per lungo tempo
derivato dalla difficoltà, non ancora sufficientemente risolta, di obbedire insieme Dio e un uomo, allorché i loro comandi sono contrari l’uno all’altro».
50. Dimostrata l’inesistenza di un potere sacerdotale diverso dal potere civile e riaffermato il concetto che il potere
per essere tale deve essere unico, Hobbes non ha neppure
bisogno di negare la differenza tra la sfera dello spirituale
e la sfera del temporale. Ciò che egli si è messo in condizione di negare, dopo aver dissolto il contrasto dei due regni, è
che alla differenza tra le due sfere debba corrispondere una
distinzione di due poteri. Il potere di decidere sulle cose spirituali (iura circa sacra) spetta esclusivamente allo stato: «Il
definire, – egli spiega, – quel che sia spirituale e quel che sia
temporale è opera della ragione, e in quanto tale appartiene
al diritto temporale» (De cive, xvii, 14). A proposito della
questione a chi spetti convocare l’adunanza dei fedeli, in
cui consiste propriamente la Chiesa, Hobbes risponde che,
affinché una adunanza di fedeli, cioè una Chiesa, possa deliberare, deve costituire una persona civile; affinché diventi
una persona civile, deve essere legalmente convocata; affinché possa essere legalmente convocata, deve essere convocata da colui che ha il potere di costringere a parteciparvi
anche i recalcitranti. Ma questi è soltanto il sovrano. Dunque non vi può essere altra Chiesa in uno stato che quella
riconosciuta (o imposta) dallo stato stesso. Non solo non vi
è separazione tra Chiesa e stato, ma Chiesa e stato sono la
stessa cosa, sono «due nomi diversi», dice Hobbes, della
stessa cosa, chiamandosi stato «in quanto consta di uomini
e Chiesa in quanto consta di cristiani» (ibid., 21). In questo
modo la teoria dell’indivisibilità del potere sovrano, fondata
sulla convinzione che il potere sovrano o è unico o non è sovrano, sfocia in una totale risoluzione della Chiesa in quanto
istituzione nello stato, e nell’affermazione senza attenuanti
della religione di stato.
48. Alla soluzione di questa difficoltà Hobbes dedica una
parte via via sempre più grande della sua opera politica,
due capitoli in Elements, la terza parte del De cive, intitolata
Religio, due parti su quattro, cioè circa metà, di Leviathan,
intitolate rispettivamente Dello stato cristiano e Del regno
delle tenebre; e proprio perché è la difficoltà maggiore, vi
si impegna con tutte le forze del suo sottilissimo ingegno,
e vi giunge attraverso una esemplare, anche se esemplarmente tendenziosa, esegesi biblica, e un richiamo costante
e coerente ai principî – necessità di un potere comune tanto
forte da impedire il ritorno allo stato di natura – che deve
fare apparire la tesi finale come la ferrea conclusione di un
sillogismo.
49. I punti fermi del ragionamento che Hobbes appoggia
sulle Sacre Scritture sono soprattutto due: anzitutto un’interpretazione antidommatica del cristianesimo, secondo
cui tutto ciò che per essere cristiani bisogna credere è che
Gesú è il Cristo figlio di Dio, e che sbarazza il campo di
gran parte delle controversie teologiche e pertanto elimina ragioni tanto frequenti quanto insidiose di dissenso; in
secondo luogo l’affermazione che il regno di Dio non è di
questo mondo e che Cristo è venuto tra gli uomini soltanto a insegnare e a predicare, non a comandare, e ha lasciato all’autorità civile il potere di comandare, o di emanare
leggi cui si debba obbedienza, tanto che gli stessi precetti
del Nuovo Testamento non diventarono legge, ma restarono soltanto consigli per avviare i peccatori sulla via della
salvazione, sino a che non furono imposti come leggi civili dai potenti di questo mondo. Incisivamente nel De cive
scrive: «Il nostro Salvatore non ha indicato alcuna legge
circa il governo dello stato, oltre le leggi naturali, cioè oltre
il comandamento di obbedire allo stato stesso» (xvii, 11,
e anche Lev., 343). Come abbiamo già visto, l’esistenza di
leggi naturali non limita in nulla il potere sovrano, perché,
una volta costituito lo stato, non vi sono altre leggi naturali all’infuori di quelle che il sovrano ha considerate tali e
quindi trasformate a suo arbitrio in leggi civili, come è confermato anche dal seguente passo: «L’interpretazione delle
leggi naturali, tanto sacre che secolari, quando Dio regna
attraverso la sola natura, dipende dall’autorità dello stato,
cioè dell’uomo o dell’assemblea cui è stato affidato il potere supremo dello stato» (De cive, xv, 17). Inoltre, nel passo
sopra citato, Hobbes fa un’affermazione ancor più impegnativa, cioè che le leggi naturali si riducono al comandamento di obbedire allo stato. Questa affermazione, che si trova
enunciata e precisata per la prima volta nel capitolo xiv, 10
Hobbes e i suoi critici
51. In tutte le tre opere Hobbes dedicò alcune delle sue pagine più battagliere a condannare le teorie pericolose per la
salvezza dello stato, ma ebbe in sorte di essere additato dai
contemporanei come autore di una delle teorie più pericolose che mai fossero state scritte per la salvezza dei sudditi.
Raccomandò che quelle fossero bandite da ogni ben costituita repubblica, e questa, invece, accolta e pubblicamente
insegnata: accadde che le teorie incriminate continuarono
a circolare e a combattersi l’una con l’altra liberamente,
mentre l’unica esecrata tanto da non poter essere nominata
senza scandalo, fu la sua. Escogitò una teoria dello stato che
doveva piacere ai conservatori valendosi degli argomenti
che erano cari ai liberali: fu combattuto con pari accanimento dagli uni e dagli altri, dai primi per il modo con cui
adduceva disinvoltamente i sacri testi, dai secondi per le
conclusioni avverse ai principî del governo costituzionale.
Fu fautore di un governo autoritario come i tradizionalisti, e della teoria del contratto come i novatori: fu respinto
dagli uni per la sua irreligiosità, dagli altri per il suo asso12
che la malizia, più l’esaltazione mistica che la brutalità, più
la stupidità che la cattiveria. D’altra parte, da uomo moderato ch’egli era, amante della pace che favorisce la meditazione e lo sviluppo del sapere, considerò come causa prima
di tutti i mali la brama di potere, di ogni mezzo di potere; in
primis la ricchezza e la reputazione.
lutismo. Da razionalista lucido e consequenziario sino alla
temerarietà combatté a fianco degli assolutisti; ma costoro
rifiutarono, per paura di compromettersi, l’alleanza, mentre i costituzionalisti dovettero ricorrere alla tradizione
della monarchia inglese per confutarlo. Quel che i contemporanei non poterono comprendere fu che il Leviatano era
il grande stato moderno, che nasceva dalle ceneri della società medievale. Presero il suo autore per uno scettico, un
cinico, sinanco per un libertino, mentre era prima di tutto
un osservatore spregiudicato che assisteva, umanamente
inorridito ma filosoficamente impassibile, alla nascita di un
grande evento di cui cercò di capire le cause e il fine. E fu
tanto convinto dell’esattezza geometrica della sua costruzione da presentare una descrizione – in ciò simile a Hegel
– come una giustificazione, il reale come razionale, quello
che era come quello che doveva essere. Come tutti i realisti,
a furia di irridere coloro che scambiano i loro desideri per
realtà, anche Hobbes fini come Hegel per scambiare la realtà più crudele per ciò che vi è di più desiderabile.
54. Ritenne che non vi fosse altro rimedio al potere di tutti
che il potere di uno solo. Credeva troppo poco alla razionalità degli uomini per ritenere che vi potesse essere altra
soluzione all’infuori del potere grande che uccide il potere
piccolo, del potere tanto grande che non possa essere eguagliato dalla somma dei poteri piccoli, del potere in una parola irresistibile. Se il segreto della salvezza sta nella creazione di un potere irresistibile, tanto vale che questo potere
sia nelle mani di uno solo piuttosto che di molti. Discutendo
delle tre forme di governo, addusse una serie di argomenti
(anche soltanto persuasivi e non dimostrativi, come precisò
nella Prefazione del De cive) per mostrare l’eccellenza della
monarchia sulla democrazia e sull’aristocrazia. Tra l’altro,
sostenne che eccesso per eccesso era da temere meno l’eccesso di potere di uno che di molti: mentre i delitti di Nerone non appartengono all’essenza della monarchia, «in regime democratico possono esserci tanti Neroni quanti sono i
demagoghi che il popolo sta a sentire a bocca aperta» (ibid.,
7). Personalmente, non partecipando alla gara del potere, si
sentiva tanto più protetto quanto più il potere era concentrato. È difficile sottrarsi all’impressione che contenga un
riferimento autobiografico l’osservazione seguente: «Nello
stato monarchico, chi vuol restare in ombra, qualunque sia il
sovrano, è fuori pericolo. Solo gli ambiziosi sono esposti alle
vendette del sovrano» (ibid.).
52. Assillato dal problema dell’unità del potere in un’epoca
di lotte laceranti, non riconobbe l’efficacia a volte benefica
del contrasto. Vide in ogni conflitto anche ideale una causa
di dissoluzione e di morte, nel dissenso anche più piccolo
un germe di discordia che rovina lo stato, nella varietà delle
opinioni un segno delle passioni umane, che lo stato, per
non perdersi, deve energicamente disciplinare. Condannò i
partiti come fazioni eccitate da demagoghi, i gruppi di minoranze dissidenti come sette di ignoranti dominate da predicatori esaltati; convinto di aver costruito l’unica possibile
teoria razionale per uomini razionali, detestava negli uni
l’eloquenza che parla al sentimento e non alla ragione, negli
altri l’ispirazione religiosa, che esalta la fede nelle cose invisibili a danno dell’esperienza. Non ammise altra alternativa
all’anarchia che l’autorità del sovrano, allo stato della divisione permanente che un potere monolitico e indivisibile.
Per chi non credeva più nella salvezza attraverso la Chiesa,
non vi era altra via alla salvezza che la società politica «Fuori dello stato è il dominio delle passioni, la guerra, la paura,
la povertà, l’incuria, l’isolamento, la barbarie, l’ignoranza,
la bestialità. Nello stato è il dominio della ragione, la pace,
la sicurezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la
scienza, la benevolenza» (De cive, x, 1).
Hobbes interpretato
55. Politicamente, Hobbes fu un conservatore. Non fu per
nulla un anticipatore dello stato totalitario come piacque ad
alcuni raffigurarlo quando il totalitarismo fece la sua apparizione in Europa. Tranne che nel nome, Leviatano, lo stato
di Hobbes non aveva nulla di mostruoso: era puramente e
semplicemente, in un’età dominata dalla concezione meccanicistica dell’universo, una grande macchina, la machina
machinarum. Per arrivare a concepire lo stato-tutto, occorrerà passare attraverso la concezione organica del popolo
degli idealisti tedeschi. Il presupposto filosofico dello stato
totalitario è la «totalità etica» di Hegel, non la «persona
civilis» di Hobbes. Per Hobbes prima dello stato non vi è
un popolo, meno ancora una Volksgemeinschaft, ma soltanto una moltitudine. Fondato su un patto reciproco tra
individui isolati e dispersi, lo stato hobbesiano è assai più
simile a un’associazione che a una comunità. Anche Hobbes, come Hegel, chiama lo stato «Dio mortale» (Lev., 112):
con la differenza che il Dio di Hegel è panteista, quello di
Hobbes teista.
53. Il suo pessimismo antropologico non gli permise di credere che l’uomo potesse salvarsi da solo; ma il suo radicale laicismo lo indusse a cercare una soluzione alla salvezza
dell’umanità diversa da quella predicata da tutte le Chiese.
Nella stessa direzione della concezione agostiniano-luterana dello stato, anche Hobbes concepì lo stato come rimedio
alla natura corrotta dall’uomo: ma nella versione laica che
egli diede di quella concezione, lo stato di corruzione da cui
occorreva uscire non era lo stato del peccato (in cui Hobbes
non credeva), ma lo stato delle passioni naturali, che era
compito della filosofia descrivere e classificare come si descrivono e classificano le parti del corpo. Lo stato, dunque
non come remedium peccati, ma come disciplina delle passioni. Da buon razionalista, Hobbes mise, tra le cause della
corruzione, più l’ignoranza che la crudeltà, più il fanatismo
56. Hobbes fu un conservatore, non un totalitario. Ma non
fu neppure, come si va sostenendo da qualche tempo per
reagire all’immagine del filosofo maledetto (a cominciare
da Leo Strauss, per passare a Michael Oakeshott e per finire a Mario Cattaneo), uno scrittore liberale, o precursore
13
le contese: volendo distinguere gli uomini dalle bestie, disse che a differenza dalle bestie gli uomini «sono continuamente in competizione per l’onore e per la dignità» (ibid.,
111). Il vero suggello dello spirito borghese è il giudizio sulla
proprietà privata: ora, mentre Locke inalzò la proprietà privata a diritto naturale e concepì lo stato come un’associazione di proprietari in difesa dei propri beni, Hobbes non
riconobbe la proprietà come un diritto naturale (nello stato
di natura non esiste ancora la divisione del mio e del tuo);
sostenne che la proprietà sorge soltanto con il sorgere dello
stato e l’unico titolare ne è il sovrano, al quale spetta stabilire, insieme con ciò che è giusto e ingiusto, ciò che appartiene all’uno e all’altro; comprese tra le teorie sediziose la
teoria secondo cui i singoli cittadini hanno la proprietà assoluta delle cose in loro possesso, perché la proprietà appartiene soltanto allo stato ed «esiste nella misura e per tutto
il tempo che lo stato vorrà» (De cive, xii, 7). La concezione
della vita che la borghesia farà trionfare sarà una concezione agonistica e antagonistica. Hobbes, come s’è detto nel
paragrafo precedente, vide di ogni forma di conflitto soltanto gli aspetti negativi e vagheggiò il modello di uno stato
capace di eliminare il dissenso attraverso un’autorità senza
limiti e, in più, in base al contratto sociale, acconsentita.
Ebbe una concezione non dinamica ma statica della società; il supremo valore che lo stato aveva il compito di realizzare non era il progresso attraverso il conflitto (e neppure
il comtiano progresso attraverso l’ordine), ma puramente
e semplicemente l’ordine. Una classe nascente ha tendenze egualitarie. Ma Hobbes, come tutti i conservatori, ebbe
radicata la convinzione che la società non si regge che sulla
diseguaglianza, principalmente sulla diseguaglianza essenziale, ineliminabile, tra il sovrano e i sudditi, tra coloro che
hanno il diritto di comandare e coloro che non hanno altro
dovere che quello di obbedire. Gli uomini sono nati eguali,
ma devono, se vogliono sopravvivere, diventare diseguali. O
altrimenti: l’eguaglianza è per natura, ma la diseguaglianza
è per convenzione; e lo stato razionale per uomini razionali
è fondato su una convenzione.
di idee liberali. Certo, Hobbes ammette in casi estremi (la
minaccia alla propria vita) il diritto di resistenza, pregia il
principio di legalità nell’amministrazione della giustizia,
vuole che il diritto sia certo, preferisce un governo con
poche leggi, chiare e semplici, a quello che ne ha troppe e
confuse, ritiene utile al benessere di una nazione una moderata libertà economica, considera dovere del sovrano concedere ai cittadini una innocua libertà; ma l’ideale per cui
si batte è l’autorità, non la libertà. Tra l’eccesso di libertà e
l’eccesso di autorità non ha mai avuto un attimo di esitazione: teme il primo come il peggiore dei mali, si rassegna al
secondo come a male minore. Tutto il suo sistema, checché
se ne dica, è fondato sulla sfiducia nella libertà: «Quando i
privati cittadini, i sudditi, chiedono la libertà, con questo
nome non chiedono veramente la libertà per sé, ma il dominio sugli altri» (De cive, x, 8). Lo stato di perfetta libertà
è lo stato di natura. Lo stato civile nasce non per salvare
la libertà dell’individuo, ma per salvare l’individuo dalla
libertà, che lo conduce alla rovina. La libertà di cui parla
Hobbes è, sì, la libertà dell’individuo rispetto allo stato, la
libertà di cui l’individuo gode nel silentium legis (Hobbes
non avrebbe mai osato dire, come dirà Hegel, che la «vera»
libertà consiste nell’obbedienza alle leggi); ma questa libertà dallo stato non è per l’individuo un diritto, bensì una
concessione del sovrano, la cui maggiore o minore estensione dipende dall’arbitrio di chi detiene il potere. Hobbes
non crede nella libertà di coscienza: nello stato, l’individuo
ha rinunciato ad avere una coscienza privata; non esiste che
una coscienza pubblica, di cui il sovrano è il solo interprete.
E non ammette la libertà di pensiero: convinto che la sedizione nasca prima di tutto nella testa degli uomini, ritiene
che sia un diritto del sovrano di «giudicare quali opinioni
o teorie siano contrarie alla pace, e di proibire che vengano insegnate» (ibid., vi, 11), di reprimere le teorie sediziose
ovvero di «sradicarle dall’animo dei cittadini, e insinuarne
altre opposte» (ibid., xiii, 9). Hobbes non riesuma la libertà
degli antichi (quando parla della democrazia ateniese, ne
parla per mostrarne i difetti), ma nulla, proprio nulla, c’induce a credere che egli volesse farsi banditore della libertà
dei moderni.
58. Credo sia difficile trovare un pensatore politico che
più di Hobbes riveli i tratti essenziali dello spirito conservatore: realismo politico, pessimismo antropologico, concezione anti-conflittualistica e inegualitaria della società.
E si potrebbe aggiungere, per completare il quadro, una
visione fondamentalmente ciclica, non evolutiva e tanto
meno dialettica, della storia, che si muove perennemente,
monotonamente, tra i due poli dell’anarchia e della società
civile, ora dilaniata da Behemoth, ora ricomposta a unità da
Leviathan, per essere di nuovo scomposta, in un corso e ricorso senza fine. Là dove si augura che ritorni la pace dopo
la guerra civile, e il potere ritorni ad essere indiviso, si lascia
andare alla previsione che il nuovo assetto sia destinato a
durare sino a che le miserie passate non saranno dimenticate, «a meno che», aggiunge, «il volgo non abbia miglior
giudizio che non abbia avuto sinora» (Lev., 119). Ma che il
volgo dovesse aver miglior giudizio in avvenire, era proprio
una di quelle cose in cui Hobbes non era disposto a credere.
57. Nonostante la persistenza e la reviviscenza dell’immagine di un Hobbes ideologo della nascente borghesia,
Hobbes fu un conservatore, perché, tra l’altro, non si sentì affatto legato né materialmente né sentimentalmente né
ideologicamente alla classe in ascesa. Condusse la vita del
dotto al servizio di una grande famiglia dell’aristocrazia
inglese, senza lasciarsi mai tentare dall’attrattiva di attività
economiche diverse; e del resto, a differenza di Locke, non
ebbe mai un reale interesse per lo studio dei problemi economici (la cui trattazione è nelle sue opere politiche quasi
assente). Ammirò una virtù aristocratica come il coraggio,
esaltò le rare «nature generose» che, sole, non rispettano le
leggi mosse unicamente dalla paura (Lev., 195). Tra le cause
principali di conflitto annoverò, oltre la competizione per
il guadagno, anche la diffidenza e la vanagloria che spinge
gli uomini gli uni contro gli altri per la difesa della reputazione. Insistette più volte sull’importanza che assumono le
questioni di prestigio o d’onore nel provocare l’inimicizia e
N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989, pp. 30-71
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