Leviathan 10 - Inferweb.net

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Leviathan 10
Gli errori della filosofia: riguardano in particolare la convinzione che esistano essenze
separati dai corpi, ma:
“L’universo (l’intera massa delle cose che sono) è corporeo, cioè è un corpo ha le dimensioni
della grandezza, cioè lunghezza, larghezza e profondità; anche ogni parte di un corpo è,
similmente, un corpo ed ha dimensioni simili a quello; di conseguenza, ogni parte dell’universo
è corpo e ciò che non è corpo non è parte dell’universo; inoltre, poiché l’universo è tutto, ciò
che non è parte di esso è niente e di conseguenza in nessun luogo. Da ciò non consegue che gli
spiriti non sono niente, perché hanno dimensioni e, quindi, sono realmente dei corpi, anche se
nel linguaggio corrente questo nome viene attribuito soltanto a quei corpi che sono visibili o
palpabili, cioè che hanno un certo grado di opacità, mentre gli spiriti vengono chiamati
incorporei”(Lev.XLVI,15)
Queste credenze circa il dualismo materia - spirito alimenta equivoci ed è all’origine
dell’assurda distinzione tra potere temporale (che si esercita sui corpi) e quello spirituale
(che si esercita sulle anime).
“Infatti, chi si sforzerà di obbedire alle leggi se si aspetta che l’obbedienza gli venga infusa o
soffiata dentro?”(XLVI, 19).
Come è possibile affermare che l’eternità sia un nunc stans (un presente eterno) e non una
successione infinita di momenti? Che ci siano anime che bruciano, spiriti che occupano
spazio, che un corpo sia in molti luoghi e che molti corpi siano in un luogo? Com’è possibile
che Dio possa far sì che ciò che è stato non sia stato? H. critica le convinzioni di Aristotele e
delle scuole riguardo alla fisica.
Critica della concezione della libertà umana: la volontà (il poter volere qualcosa) non può
essere la causa della volizione. Che io possa fare qualcosa non è la causa per cui la faccio
(ma solo la condizione). Gli scolastici mascherano con parole la loro ignoranza Ad. Es. “la
fortuna è la causa delle cose contingenti”. Attribuiscono alle cose “qualità occulte”, come la
“simpatia” e la “antipatia”, ecc.
H. critica la posizione di Aristotele che stabilisce che il bene e il male per gli uomini coincide
con il loro impulso o appetito. In tal modo non c’è alcun criterio comune e si cade
nell’anarchia: “ognuno chiama buono o cattivo soltanto ciò che è tale ai suoi occhi, senza
avere riguardo per le leggi pubbliche”(XLVI 33).
Perché i sacerdoti cattolici non si sposano? Perché vogliono fare di se stessi il “clero”
(l’eredità del regno del Signore), perché nel regno di Dio non ci si sposerà, ma gli uomini
saranno “come gli angeli del cielo”.
Altro errore di Aristotele è che il sovrano possa “offendere il popolo”, perché non compiace le
opinioni della moltitudine, Questo è all’origine delle guerre civili. E che “non siano gli
uomini a governare, ma le leggi”. Ma le leggi sono parole e pezzi di carta che non hanno
alcun potere “senza le mani e le spade degli uomini” (ivi. 36). La conformità alle leggi vale
solo per le azioni, non per i pensieri. Non si deve inquisire ciò che uno pensa dentro di sé.
La falsa filosofia ha soppresso quella vera. Si sono perseguite opinioni che ora, grazie alla
maggiore conoscenza del mondo, si rivelano essere vere. Ma la quiete pubblica è il bene
supremo e “la disobbedienza può essere punita in quelli che insegnano una filosofia
contraria alle leggi, persino se essa è vera” (ivi. 42).
La Chiesa di Roma ha preteso di essere “il regno di dio sulla terra”, di essere l’”erede di
Cristo” e di avere perciò la sovranità su tutta la cristianità. Dopo gli scismi il problema si è
riproposto con i cleri nazionali, che hanno preteso di ricevere direttamente la loro investitura
di Dio (in Inghilterra i presbiteriani).
“Gli autori di tutte queste tenebre spirituali sono il Papa, il clero romano e tutti quegli altri che si
sforzano di inculcare nella mente degli uomini questa dottrina erronea, che la Chiesa ora sulla
terra è quel regno di Dio menzionato nell’antico e nel nuovo Testamento” (XLVII 17)
“Quando il Vescovo di Roma è stato riconosciuto come vescovo universale, con la pretesa della
successione a S. Pietro, la loro intera gerarchia o regno delle tenebre potrebbe essere
efficacemente paragonata al regno delle fate, cioè delle fiabe delle vecchie comari inglesi sugli
spettri e sugli spiriti e sulle loro imprese notturne (…) Il papato non è altro che lo spettro del
defunto impero romano” (ivi, 21).
AlbertoMadricardo–IlLeviatano‐20151di2
Conclusioni
Per il pensiero politico moderno la rilevanza di Hobbes è stata enorme. Soprattutto per la sua
concezione indivisibile della sovranità e della sua natura contrattuale:
“Tra i due estremi dell’interpretazione che fa di Hobbes il precursore dello stato totalitario e
quella che vi riconosce l’anticipatore dello stato liberale, la mia non accetta né l’una né l’altra: il
tema centrale del pensiero di Hobbes è l’unità dello stato, non è la libertà del cittadino e neppure
lo stato totale” 1 ).
L’idea di fondo di Hobbes è che la condizione naturale è insufficiente per gli uomini e che
essi debbono perfezionarla artificialmente. In ciò riporta l’ispirazione di Francis Bacon
(Francesco Bacone), il filosofo che aveva esaltato la scienza e la capacità dell’uomo di
riprodurre la natura.
Per Hobbes esistono due tipi di leggi di natura: quelle fisiche e quelle morali. Le prime
sono costrittive, ma le seconde no: sono solo degli impulsi che possono essere seguiti o no.
Lo stato è creazione della ragione. Il contratto non è un atto storicamente avvenuto, ma è
la teoria che consente di legittimare ex post la sovranità senza dover ricorrere ad una
autorità dall’alto. E’ opposta e simmetrica alla teoria del diritto divino: in questa è Dio
(“persona eterna”) che concede il potere assoluto al sovrano, in quella è il popolo, che si
costituisce come “persona istantanea” 2 solo nel momento della decisione sincronica di
ciascuno che lo compone di rinunciare al suo “diritto su tutto” . Il potere non può essere
revocato perché i contraenti si sono accordati per conferire ad un altro, che non è obbligato
verso di loro, il loro potere naturale. Ciò che rende assoluto e non reversibile l’atto è il suo
carattere sincronico: per revocarlo ci vorrebbe l’unanimità del popolo e l’accordo del
sovrano nel medesimo momento (ovvero “l’onnipotenza” in atto). Il contratto è tra i
sudditi e non tra i sudditi e il sovrano, che si limita a ricevere ed assumere quel potere che
nessuno ha più la facoltà di togliergli, se non con il suo consenso.
Il contratto che pone fine allo stato di natura è dunque atto unico ed incondizionato.
Appartiene perciò alla metafisica, ma modulata esplicitamente su esigenze pratiche. Si
rovescia la posizione tradizionale: ora il bisogno pratico sottomette a sé la verità teoretica.
Come dice Leo Strauss: “non si può definire il bene della società, il bene comune, in
termini di virtù, ma si deve definire la virtù in termini di bene comune” 3 .
Il fine di Hobbes è di creare le condizioni artificiali per cui l’uomo, protetto dallo stato e
relativamente liberato dalla paura, possa prosperare esprimendo le sue migliori energie,
perché - come dice - egli: “non è adatto ad associarsi per natura, ma lo diventa per
educazione” (De cive I, 2). Al contrario, una lunga tradizione che parte da Aristotele aveva
detto che l’uomo è zoon politikon (“animale politico”). E’ il contratto ad istituzionalizzare
la relazione sociale che fa dell’uomo qualcosa di diverso da ciò che era nello stato di
natura. C’è per Hobbes una rilevanza della natura in questo stato artificiale? Sì, egli ritiene
che ci siano leggi morali di natura nell’animo umano, ma che sono leggi solo per modo di
dire, perché non obbligano affatto, ma sono propensioni, impulsi che possono essere
contraddetti. L’unico vero istinto naturale che non può essere contraddetto - se non da
pochi - è quello della paura, che spinge gli uomini ad unirsi (pactum unionis) e a
sottomettersi. Ma il pericolo che per Hobbes ciascun individuo sente nei suoi simili verrà a
profilarsi anche dalla parte del potere – che Hobbes considera invece “il bene in sé”. Da
qui si creerà la differenza tra il pensiero totalitario, che considera il potere come il bene, e
il pensiero liberale, che lo considera un male da limitare. Il Leviatano di Hobbes ha ancora
un cuore soggettivo (quello del sovrano legibus solutus), il potere oggi invece appare
neutralizzato in una pluralità di poteri che si contrappongono. E’ equilibro oggettivo,
asettico, sistemico, in cui ogni soggettività è mediata attraverso altre. Ma si tratta forse di
una maschera? Leviathan che si complica e si mimetizza, interiorizzando Behemot per
offrire ai sudditi un’immagine labirintica di sé e rendersi imprendibile da parte di essi? Il
dilemma è forse destinato a rimanere aperto. Essendo forse il potere nella sua essenza
tanto creatore di ordine quanto generatore di caos. Tanto Leviathan quanto Behemot.
N. Bobbio “Hobbes” Einaudi 2004, Torino, Premessa p. XI.
“Il popolo è l’assolutamente presente che, in quanto tale, non può mai essere presente e può, perciò,
solo essere rappresentato” G. Agamben, “Stasis” cit. p.59. 3
In “Che cos’è la filosofia politica” Ed. Il Melangolo, Genova 2011 p.49. 1
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