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CAPITOLO
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VERSIONE UFFICIALE
I RESOCONTI FIRMATI WALTER AUDISIO
I DUE RESOCONTI FIRMATI DA AUDISIO
3. Terza versione dell’Unità del 25 marzo 1947
firmata: Walter Audisio “Valerio”.
In pochi giorni, nel marzo del 1947, si hanno una serie di colpi di scena:
ai primi di marzo, nella sede romana dell’”Unità”, il ragionier Walter Audisio di Alessandria,
dirigente del Partito Comunista Italiano sembra che dichiarò, in una strana e mai appurata
intervista (di cui però si venne a sapere solo alcuni anni dopo perchè, pare per motivi politici,
quella intervista non venne pubblicata o trasmessa) al giornalista John Pasetti corrispondente
da Roma di Radio Losanna:
“Si, io, il ragionier Walter Audisio, sono il colonnello Valerio.
Sono io che ho fucilato personalmente Mussolini”.
Dal 6 al 16 marzo, quindi, sotto il titolo “Il mistero di Dongo è crollato. Il colonnello Valerio
è Walter Audisio” il quotidiano romano “Il Tempo” pubblicò un servizio in otto puntate del
giornalista Alberto Rossi.
Il 22 marzo 1945 con un comunicato, la segreteria del PCI confermò che Valerio e Audisio
erano la stessa persona chiedendo per lui la più alta onorificenza militare.
Il giorno dopo, 23 marzo, l’Unità di Roma pubblicò la biografia di Walter Audisio con il
titolo: “Colui che fece giustizia per tutti. L’uomo Valerio”.
Lo stesso Audisio poi iniziò, dal 25 marzo, una serie di sei articoli, da lui firmati, sotto forma
di memoriale dal titolo “Il colonnello Valerio racconta” – “Missione a Dongo”.
Ed ancora, a completare il quadro, nella speranza risultata poi vana di aver messo fine a tutte
le illazioni e le dicerie fino ad allora sorte sui fatti di Dongo e l’uccisione del Duce, il 31
marzo Audisio, presentato da Pietro Secchia, fu fatto apparire pubblicamente ad un comizio
alla Basilica di Massenzio a Roma. Si presentò con basco nero ed impermeabile chiaro
(chissà, forse voleva adeguarsi ai resoconti che parlavano spesso dell’uccisore del Duce come
un uomo con impermeabile chiaro, abbigliamento che, forse, quel giorno portava Aldo
Lampredi) e qualche foglietto di appunti.
Ovviamente seguirono successivamente le fotografie di rito con tanto di divisa partigiana
nuova fiammante e fazzoletto al collo, che consentirono all’Unità di tramandare l’agiografia
di questo giustiziere del popolo.
Con questa terza versione l’Unità, dietro il nome del colonnello Valerio/ Audisio e a
quasi due anni dagli eventi e dai tanti dubbi sollevati, cercò di correggere la mira
presentando una volta ancora alcune correzioni ed aggiustamenti, rispetto ai testi precedenti.
Quest’ultima versione venne, comunque, sostanzialmente tenuta presente nella stesura del
libro postumo di Audisio “In nome del popolo italiano” del 1975, come vedremo in questo
stesso capitolo, anche perchè erano le sole due versioni firmate direttamente da Audsio.
Diamo qui solo un riassunto di questa terza versione, in quanto più avanti riporteremo la
relativa parte, certamente meglio precisata, del libro di Valerio che sostanzialmente la ricalca.
In questi sei articoli di Audisio, per cominciare, la casetta dei De Maria resta sempre definita
una casetta, cosa alquanto strana vista l’imponenza della costruzione, e la scala veniva ora
indicata come “tagliata nel sasso vivo” mentre in precedenza, nelle fantasiose ricostruzioni
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dei suoi racconti tratte dal suo presunto e fantomatico rapporto, era stata anche
clamorosamente indicata in legno!
Audisio precisa che il trucco della liberazione, propinato a Mussolini, “rientrò
nell’organizzazione della missione… così era più facile portarlo via” e rendendosi conto
della esagerazione e del ridicolo costituito dalla frase “Ti offrirò un impero” messa in bocca a
Mussolini, non potendo rimangiarsela e per renderla credibile rincara la dose, asserendo:
“eppure l’ha detta, con decisione anzi, con il suo ben noto piglio volitivo dell’uomo che non
manca alle promesse” (cosa potesse ancora promettere Mussolini, ridotto in quelle
condizioni, solo Valerio lo sa!).
Il tutto viene anche arricchito da una filippica di Valerio “sull’uomo del balcone”, ed inoltre,
senza accorgersi di strafare, vi introduce un altro aneddoto, tutto nuovo, atto a squalificare il
Duce: si dice infatti che al momento di rendersi conto di venir fucilato, Mussolini balbettando
avrebbe profferito un “ Ma… Ma…signor colonnello”, frase questa escogitata dall’estensore
dell’articolo senza troppo riflettere in quanto non si capisce come Mussolini possa aver intuito
che Valerio era un colonnello (e poi quale colonnello, della RSI o di altre formazioni ?), visto
che costui gli si era presentato solo come un liberatore e non è ben chiaro se ostentava gradi
ben individuabili sulla giacca!
Inoltre, con una disinvolta e sfacciata correzione, viene tolto il vice al commissario della 52a,,
che in tal modo diverrà il commissario¸ ovvero Pietro alias Michele Moretti 1 e tale da ora
in poi resterà sempre presente all’evento storico e nella versione ufficiale.
Lasciati andare i due partigiani di guardia, il gruppo con i prigionieri si avvia verso la
macchina.
“Sull’auto, (racconta Audisio) lo feci sedere a destra, la Petacci si mise a
sinistra. Io presi posto sul parafango in faccia a lui. Non volevo perderlo di vista un
solo istante. La macchina iniziò la discesa lentamente. Io solo conoscevo il luogo
prescelto e non appena arrivammo presso il cancello ordinai l’alt”.. “ Mandai il
commissario della Brigata e l’autista nelle due direzioni, di guardia, a circa
cento metri di distanza”
(con tale distanza ed anche ammesso che Valerio voglia intendere l’intera distanza tra i due,
non si capisce come poi costoro potessero aver ben visto e ben ascoltato qualcosa. n.d.r.).
Con Valerio resterebbe Guido, definito però “freddo e distante” ed i due prigionieri sarebbero
stati posti tra il pilastro ed il cancello, e quindi:
…. “Improvvisamente cominciai a leggere il testo della condanna a morte del
criminale di guerra Mussolini Benito: <<Per ordine del Comando Generale del Corpo
volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano>>”.
Ci sarebbe da ridere se tutta la faccenda non fosse tragica: a parte il fatto che quelle poche
parole non erano certo il testo di una sentenza, è difficile pensare che il giustiziere abbia avuto
la necessità di doversi scrivere una frase di appena 18 parole. 2
1
Di Michele Moretti, morto nel 1995, comunista, commissario della 52a Brigata Garibaldi Luigi Clerici,
parleremo succintamente più avanti (nel Capitolo sulle Relazioni e testimonianze di Lampredi e Moretti), ora
basti sapere che fu uno di coloro che, dopo aver avuto un ruolo determinante nei fatti di Dongo e nel fermo di
Mussolini a Musso, aveva accompagnato Mussolini e la Petacci la notte precedente a casa De Maria, quindi era
conosciuto dai carcerieri ed aveva un minimo di pratica di quei luoghi.
2
Su questo particolare, in seguito, sia Lampredi che Moretti, forse rendendosi conto dell’assurdità della cosa,
affermarono che non ricordavano bene e che forse Valerio aveva al massimo farfugliato qualche parola.
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Perché adesso, Audisio, sentiva la necessità di dire che questa frase se l’era scritta, ha una
sola spiegazione: come acutamente osservò Paolo Monelli già nel 1950, “il particolare della
lettura di una sentenza serve a dar veste legale all’assassinio”.
Arriviamo quindi al momento delle esecuzioni.
E’ evidente che l’implicito assassinio della Petacci, di cui nessuno aveva emesso una sentenza
di morte, deducibile dalla prima versione (“Poi fu la volta della Petacci”), pesava
enormemente verso l’opinione pubblica tanto che, già nella seconda versione, l’uccisione
venne invece descritta come praticamente inevitabile, visto che la donna stava al fianco di
Mussolini impietrita e nonostante l’invito a scansarsi ed il ‘salto’, aveva nel frattempo perso
ogni nozione di sé.
Adesso in questa terza versione viene ancor più precisata come un incidente.
Infatti, la donna figura quasi gettatasi essa stessa nel raggio dei colpi:
“La Petacci, fuori di sé, stordita , si mosse confusamente, fu colpita e cadde di quarto a
terra”.
Praticamente durante le tre versioni si passa da un sottointeso omicidio intenzionale, ad
un evento colposo per poi divenire un mezzo suicidio!, rimanendo sempre però
inspiegabile il perché la Petacci non sia stata tenuta lontano dal luogo dell’esecuzione. 3
Particolare non secondario, adesso non si parla più dell’erba umida davanti al cancello: ci si
era accorti che in quel punto l’erba non c’era ?!
In questa terza versione, sempre contraddittorio, resta comunque il racconto dell’uccisione del
Duce, anche se viene modificata la dinamica e cambiano i personaggi (Pietro al posto di Bill)
che gli sono attorno e che Valerio chiama o gli passano le armi:
•
infatti, nella prima versione, ricordate?, Mussolini è ucciso con 5 colpi sparati
dall’esecutore (senza nome) e da una distanza di tre passi;
•
nella seconda versione i colpi di Valerio, dopo gli inceppamenti, invece di 5 diventarono
10 (5 + 4 + 1 di grazia), l’ultimo dei quali stranamente al petto invece che alla testa è
definito, testualmente, “tirai un sesto colpo”;
•
ora in questa terza versione i colpi, pur rimanendo 10 hanno una diversa dinamica che
viene descritta in modo più asciutto forse per non destare perplessità come nella versione
precedente:
“ Faccio scattare il grilletto, ma i colpi non partono. Il mitra si era inceppato.
Manovro l’otturatore, ritento il tiro, ma l’arma non spara.
Passo il mitra a Guido, impugno la pistola: anche la pistola si inceppa.
Passo a Guido la rivoltella, afferro il mitra per la canna, chiamo a voce il
commissario della 52ma, che viene di corsa a portarmi il suo MAS ….
Scarico 5 colpi. Il criminale si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la
testa reclinata sul petto. Non era ancora morto. Gli tirai una sesta raffica di 4
3
Anni dopo Albero il prof. Cavalloti, ebbe a raccontare al professor Guderso questo sconclusionato discorso che
Valerio ebbe a fargli, a proposito dell’uccisione della Petacci, forse di ritorno dalla spedizione, a viale Romagna:
“Valerio mi disse: - Perchè in quel momento bisognava farlo, cosa facevamo, cosa fare, dove la portavamo, che
cosa dicevamo, che cosa facciamo insomma. - Evidentemente è stato un momento di non presenza di spirito
forte. Che poi abbiamo fatto più bene che male non lo so. Ma così, eticamente, forse si poteva anche non
giustiziarla sul momento. Però sono considerazioni successive perchè non si sapeva come era in realtà e si
credeva tutto il contrario, che la Petacci fosse depositaria di segreti di Mussolini, mentre non ne sapeva nulla o
ben poco”.
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colpi. Mussolini respirava ancora e gli diressi sempre con il MAS un ultimo
colpo al cuore. L’autopsia constatò più tardi che l’ultima pallottola gli aveva
reciso netto l’aorta”.
Quindi viene anche data l’ora:
“Erano le 16,10 del 28 aprile 1945”.
***
In tutto questo guazzabuglio di correzioni e aggiustamenti vari, circa le modalità di
una esecuzione, stranamente eseguita davanti e non alla schiena come avvenne poco dopo
per i fucilati di Dongo e come sarebbe stato ancor più logico trattandosi del Duce, 4 non
possiamo fare a meno di non riportare quanto ebbe a sottolineare negli anni ’50 Bruno
Spampanato nel suo Contromemoriale (Ed. C.E.N. 1974):
<<La prima volta (prima versione) tutto procede regolarmente ed il
colonnello, a tre passi, con i suoi bravi 5 colpi liquida il bersaglio.
La seconda volta una vera sequenza da western: il colonnello vuole sparare,
non spara, lascia il mitra, prende la pistola, lascia la pistola, prende il MAS, tira
5 colpi e poi 4 colpi e poi un ultimo colpo che sarebbe il decimo e lui dice che
è il sesto;
e chi gli ha portato il MAS che funziona è il vicecommissario, che poi è il
commissario e si chiama Bill e invece si chiama Pietro Gatti, cioè Moretti;
e quel Guido, il più importante di tutti, che resta ‘freddo… impassibile,,,’ e che
sta a raccattare le armi che non vanno come il ragazzo che regge le mazze
da golf… 5
La terza volta, Valerio ha chiamato che gli si portasse il MAS ‘a voce alta’:
troppo poco a 100 metri di distanza; nel secondo racconto aveva chiamato a
‘gran voce’ >>.
L’assurdità di tutta questa pantomima, tra l’altro male ed in fretta architettata, che
Spampanato mise bene in burletta, è ormai chiaro che venne elaborata e continuamente
adeguata per occultare una modalità ed una dinamica dell’esecuzione profondamente diversa.
Ma terminiamo con l’analisi succinta di questa terza versione accennando al fatto che Villa
Belmonte (segnata con il N. 14 a via XXIV Maggio), luogo scelto per
l’esecuzione, veniva data come “palesemente deserta” quando invece, ed è accertato, che vi
erano sia alcune persone, che poi testimoniarono alcuni particolari osservati (anche se
nessuno assistette alla uccisione dei prigionieri, tranne una testimonianza incontrollata a cui
4
Non si capisce perché anche Mussolini non sia stato fucilato alla schiena e davanti a testimoni.. Non si
dimentichi che, poche ore dopo, in pubblico, alla richiesta disperata dei condannati a morte a Dongo, di non
essere tirati alla schiena, Valerio si opporrà con rabbia e veemenza!
5
Oltretutto non si capisce perché Valerio deve chiamare il commissario della 52ma spedito di osservazione a
distanza, quando può chiedere un arma a Guido, se non invitarlo direttamente a sparare con la pistola, visto che
Guido, a cui passa le armi, deve trovarsi vicino a lui.
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parve di veder sparare su dei cadaveri) e sia il fatto che, sembra, gli stessi partigiani
intimarono a questi di ritirarsi (avvenimenti questi che Audisio non poteva ignorare).
Ma oltretutto sorge sempre il legittimo dubbio del perché si volle fare una esecuzione
esemplare del Duce di nascosto, quando a Dongo per ministri e gerarchi venne invece
ostentata volutamente sulla pubblica piazza e contro il parere di chi non voleva sottoporre la
popolazione alla vista di una simile mattanza.
E venne eseguita a Dongo, nonostante la reazione dei condannati, spietatamente alla schiena
così come si fa con i traditori, mentre invece per il capo, per il responsabile massimo di questi
traditori la si esegue alla svelta e frontalmente!
Che davanti a villa Belmonte si volle invece eseguire una fucilazione lontano da occhi
indiscreti, 6 come vedremo in seguito, è anche confermato dal fatto, molto importante, venuto
fuori però da testimonianze successive, che quel pomeriggio si erano prefissati dei posti di
blocco dove alcuni partigiani vietavano l’accesso da quelle parti a gente del posto ed ancor
più la popolazione del luogo era stata invitata (invogliata) a recarsi al bivio di Azzano,
sfollando così il borgo, dove si diceva sarebbe passato, sulla via Regina, Mussolini
prigioniero.
Poco dopo le ore 16, invece, con tanta gente in attesa per strada si venne a sapere che davanti
a Villa Belmonte c’erano dei cadaveri.
Ma le contraddizioni non finiscono qui perchè, infatti, pur volendo
eseguire l’atto della fucilazione di nascosto (si cacciarono anche via, con
intimazioni tipo: “via, via, aria!” i pochi abitanti della villa che si
avvicinarono) non venne però scelto un luogo più appropriato del cancello di
villa Belmonte, come per esempio sarebbe stato molto più discreto e comodo
uno dei tanti punti sotto casa De Maria. Ed inoltre per una missione del
genere ci si portò appresso un autista sconosciuto, quando Valerio, nel suo
plotone dell’Oltrepò, ne aveva almeno due. Ed infine si preferì fare la famosa
passeggiatina con i prigionieri usciti da casa De Maria e fino alla macchina
nella piazzetta del Lavatoio e da qui fino al cancello della villa si procedette
poi al massimo per altri cinque minuti di percorrenza in auto.
Perché tutti questi controsensi e tutta questa pantomima?
Cosa si voleva nascondere per il momento della fucilazione?
Che cosa si voleva invece mostrare nel breve corteo a piedi
precedente ?
6
Villa Belmonte era allora di proprietà dell’ingegner Naldo Bellini, e nei suoi dintorni non è che non ci fosse
nessuno. Lo storico Franco Bandini cita, per esempio, un testimone oculare, nella persona del signor Maximilian
Mertz (qualcuno dice Hertz), svizzero, proprietario di una villa vicina a villa Belmonte, il quale insospettito dal
colpo sparato nella piazzetta di Bonzanigo da Valerio andò a vedere che succedeva e, dopo poco, vide alcuni
uomini che stavano sparando raffiche di mitra in aria o su dei corpi che egli ha definito “cadaveri morti da un
pezzo”.
In una sua relazione Valerio notò, secondo Franco Bandini, il Mertz, ma lo scambiò per una vecchietta perché lo
svizzero alquanto distante si trovava in vestaglia, pantofole e fazzoletto in testa.
Anche il figlio del giardiniere di Mertz, aggiunge il Bandini, casualmente intento a cogliere ciliegie a circa 20
metri dal cancello di Villa Belmonte, in un triangolo erboso posto sotto il livello stradale, dall’alto delle fronde
potè notare una quindicina di uomini intenti a fare non si sa bene cosa e dopo poco sentì due scariche di mitra.
Quanto riportato da Bandini fu utilizzato soprattutto per avallare la sua tesi della doppia fucilazione del Duce
oramai già morto dal mattino; occorre però prendere con le molle tutte queste testimonianze, mai pienamente
accertate.
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4. Definitiva versione di Walter Audisio
(“In nome del Popolo italiano”, Ed. Teti 1975)
Nel 1975 per le edizioni Teti di Milano uscì postumo e finito di essere curato dalla
moglie Ernestina Ceriana, il libro di Walter Audisio alias colonnello Valerio, nel frattempo
deceduto, “In nome del popolo italiano” ovviamente ben ponderato e valutato visto che,
oramai erano trascorsi quasi una trentina d’anni tra dubbi e polemiche e si erano potuti
studiare meglio tutti i luoghi e le incongruenze di quegli avvenimenti.
Audisio, oltretutto, vantava di avere interi quaderni di appunti e quindi non avrebbero dovuto
esserci errori o contestazioni e, per quel che ne sappiamo, ben si diede da fare per cercare di
concordare, in particolare con Lampredi, una versione comune o almeno non contraddittoria.
Circa un paio di anni prima, nel 1972 infatti, al PCI era stata messa agli atti la relazione
Lampredi (al tempo fatta conoscere solo in parte), e quindi i curatori del libro, uscito nel
1975 e che certamente dovevano esserne al corrente, avranno cercato di non divergere troppo
almeno da quanto di quella relazione era stato reso pubblico, ma nonostante questo le
divergenze con quella relazione rimasero.
A ben vedere questo libro andrebbe preso così com’è e buttato via, solo per il semplice fatto
che presenta troppe difformità sostanziali rispetto alle due prime versioni del 1945, dando in
tal modo chiaramente a vedere che venne scritto proprio per correggere e superare (senza
riuscirvi) contraddizioni e incongruenze di quelle versioni. Essendo però le due versioni del
‘45 attribuite, ma non firmate da Valerio, mentre questo libro è direttamente firmato da
Audisio, occorre chiudersi il naso e prenderlo in considerazione, anzi è questa la versione che
deve essere considerata definitiva da parte di questo tristemente famoso giustiziere.
Il libro, pur nella sua infantile prosa, è un capolavoro di sforzo letterario tutto teso a denigrare
definitivamente la figura di Mussolini.
In pochi passaggi, incredibilmente, con frasi messe in bocca al Duce o con considerazioni ed
osservazioni di Audisio stesso, viene concentrato tutto lo scibile denigratorio a disposizione
dell’autore: la paura, il terrore, l’indifferenza a tutto il resto, alla sua donna, al pensiero dei
suoi familiari, le implorazioni, l’incapacità a reagire e persino una certa demenza mentale.
Audisio, tutto teso nel suo intento oltraggioso e denigratorio, perde ogni misura ed ogni
decenza, e non si rende conto di essere assurdo e poco credibile, ma oramai la traccia era già
stata segnata fin dal tempo della sua prima relazione e l’unica maniera per non sconfessarsi in
pieno era solo quello di continuare a percorrerla, ma qui certamente si esagera oltre ogni
misura.
Come detto Valerio e chi a suo tempo lo aveva assistito a compilare il libro, sicuramente
ebbero modo di soppesare bene quanto doveva essere precisato e corretto, rispetto alle
precedenti relazioni, al fine di chiudere la faccenda una volta per tutte. Ma anche questa volta
le cose non andarono così, anzi.
Nel suo libro, Audisio, partito da Dongo con la 1100 nera requisita sulla piazza
(accompagnato dall’autista Geninazza, 7 Moretti e Lampredi) individua durante il percorso il
luogo dell’esecuzione (di fronte al cancello di Villa Belmonte che presenta un certo slargo).
7
La figura ed il ruolo dell’autista Giovanbattista Geninazza, di Tremezzo, poco più che ventenne, rimane
alquanto confusa e problematica, nonostante alcune sue successive testimonianze non pienamente attendibili e
lascia pensare che nei momenti decisivi di quel pomeriggio fu tenuto alquanto in disparte. Da lui nel dopoguerra
trasparì anche un evidente timore nell’esporsi troppo rispetto al canovaccio della versione ufficiale.
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Raggiunta Bonzanigo, i tre si dirigono verso casa De Maria a piedi. Strada facendo Audisio
prova anche, sparando un colpo, il mitra che porta con sé.
L’autista Geninazza rimane accanto alla macchina.
Audisio si precipita nella stanza 8 dove si trovano Mussolini e la Petacci ai quali racconta di
essere venuto a liberarli.
Stranamente il libro sorvola la storia delle mutandine della Petacci, che pur aveva sollevato
molti dubbi e polemiche, ed è questa una mancanza che lascia a pensare.
I due, con un Mussolini baldanzoso, tanto da esclamare, frasi come:
“Lo sapevo che non mi avrebbero abbandonato”, “Ti offro un impero!”, vengono portati
fuori e fatti salire sul sedile posteriore della macchina: l’autista e Lampredi davanti, Audisio
sul parafango posteriore, spalle alla strada e rivolto verso Mussolini, e Moretti sul predellino
davanti; seguono a piedi Lino e Sandrino che però si attardano. 9 In poco più di un minuto
arrivano a Villa Belmonte (la distanza si aggira su circa 350 metri) dove possono procedere
alla fucilazione.
Resta incomprensibile capire il perché, visto che oltretutto si cercava un minimo di
discrezione, mentre nei pressi di Villa Belmonte poteva esserci gente, non si fosse scelto un
punto più vicino alla casa.
Giunti sul posto comunque, Audisio, prima di compiere una breve perlustrazione, avrebbe
sussurrato a Mussolini “Ho sentito dei rumori sospetti, vado a vedere”. Anche qui non si
comprende questo ennesimo inganno perpretato ad un prigioniero oramai inerme ed alla
completa mercé dei giustizieri: siamo praticamente alla farsa più completa. 10
Audisio, constatato che il cancelletto che conduceva al praticello sottostante il piano stradale
era chiuso, fece addossare Mussolini al muretto vicino al cancello di Villa Belmonte. Moretti
e l’autista furono inviati a circa 50 – 60 metri l’uno dall’altro, mentre la Petacci scese
dall’auto per andare a mettersi a fianco di Mussolini.
Qui, rispetto alla precedente versione c’è una razionale precisazione della distanza (100 metri
diventano 50/60 metri l’uno dall’altro) che consentirà poi di chiamarli a voce, ma poco dopo
si introduce un altro geniale cambiamento:
Guido sempre descritto come freddo e distante, diventa ora improvvisamente attento e
partecipe (chissà, forse gli screzi tra Audisio e Lampredi avevano indotto Audisio a questa
correzione).
Audisio quindi legge la sentenza di condanna a Morte ad un Mussolini completamente
inebetito e terrorizzato, mentre la Petacci tendeva ad agitarsi abbracciando il dittatore e fu
invitata a togliersi per non morire assieme al Duce (si rimarca quindi la volontà di non
8
Moretti negherà questo particolare affermando, in questo caso con più logica, che fu lui ad irrompere nella
stanza per primo, visto che oltretutto vi era già stato la notte precedente.
9
Per giustificare l’attardarsi di Lino e Sandrino venne da qualche parte addomesticata dal PCI la storiella che i
due si erano tolti le scarpe senza slacciarle e quindi persero tempo a rimettersele. Per due carcerieri, in quei
pericolosi momenti ed in quella situazione, questa storiella è ben difficile da digerire. Non è escluso però che,
questo fatto, nasconda forse un altro retroscena: quello che, venuti a sapere che la storia delle scarpe di Lino e
Sandrino, era venuta comunque fuori, si cercò di adattarla al ritardato arrivo dei due partigiani, mentre invece è
probabile che, essendo Mussolini e la Petacci già stati uccisi al mattino e quindi i cadaveri nascosti da qualche
parte, i due guardiani, stanchissimi (non dormivano quasi da due giorni), rimasti a casa De Maria, si erano tolti le
scarpe per riposare in attesa dell’arrivo al pomeriggio di Valerio.
10
Lo stesso Lampredi comunque mise anche in dubbio, anni dopo, questa necessità di Valerio di ingannare i
fucilandi e riferì invece una sua frase detta a Mussolini: ”Chi avrebbe detto che tu, tanto hai perseguitato i
comunisti, avresti dovuto regolare i conti con loro? Vedi il Capitolo 4 e la Relazione di Lampredi.
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ucciderla in contrasto con una prassi che invece la espone a questo rischio e sorvolando o
meglio ignorando quelle testimonianze che asserivano evidenti frasi di condanna a morte per
la Petacci, pronunciate proprio da Valerio in quel di Dongo prima di recarsi a Bonzanigo).
La donna momentaneamente ubbidì.
Arriviamo così alla solita storia degli inceppamenti delle armi che però qui nel libro, molto
più opportunamente, viene alquanto stringata, compreso anche il particolare dei colpi sparati.
E’ evidente l’intento di non offrire il fianco ad ulteriori contraddizioni, lasciando la possibilità
ai critici di giustificare in qualche modo quella dinamica, soprattutto per l’uccisione della
Petacci.
Il mitra di Audisio non riesce a sparare, 11 allora ci prova Lampredi con la sua pistola (guarda
caso, ora la pistola è assegnata a Guido¸ ed anche questo è gia più logico rispetto alle
precedenti versioni).
Allora Audisio chiama Moretti che giunge di corsa e a dieci passi dai condannati cambia la
sua arma con quella inceppata e ritorna al suo posto. Audisio si dilunga
in una filippica contro il Duce (la Storia ha le sue esigenze!), tremante e paralizzato dalla
paura.
Dal mitra del colonnello partono infine 5 colpi, che uccidono Mussolini e la Petacci la quale.
“… fuori di sé, stordita, si era mossa confusamente, fu colpita anche lei, e cadde di quarto a
terra” (definitivamente, non c’è più il particolare dell’erba umida, ma ancora una volta non
si spiega con quali e quanti colpi fu uccisa questa donna, inducendo chi legge a presupporre
un trapasso degli stessi colpi sparati a Mussolini che attinsero anche la Petacci).
Il racconto. pur abbondando della solita retorica atta a denigrare Mussolini, nella dinamica
dell’esecuzione è furbescamente sintetizzato (sorvolando anche su la storia dei colpi di grazia)
nella speranza di non prestare più il fianco a incongruenze e contraddizioni. 12
Il libro confermerà anche l’indicazione dell’arma un MAS mod. 1938 - F.20830, cal. 7,65 L,
ma si guarderà bene dal darne le indicazioni per il recupero (da quel che si saprà in seguito,
questo mitra che si era deciso di far passare alla storia e non è detto che fosse proprio quello
utilizzato per uccidere il Duce! era stato inviato da Audisio segretamente in Albania).
Dopo il film di Lizzani (1974) e questo libro postumo di Audisio, si può dire che le
fonti resistenziali, e quelle del PCI in particolare, ritennero chiuso l’argomento e non si
ebbero più ulteriori versioni.
Questo almeno fino agli anni ’90 quando prese piede, negli epigoni di quegli stessi ambienti e
molto in sordina, un certo “revisionismo”, palese, ma non dichiarato, di quella storica
versione.
11
Cavallotti (Albero) ebbe a riferire che fu lui a dare il mitra a Valerio; un mitra nuovo, appena prelevato da un
aviolancio a cui, però, non erano stati tolti quattro dita di grasso. Sorge allora la domanda di come Valerio
abbia potuto provarlo poco prima, sparando un colpo!
12
L’autopsia accertò che Mussolini aveva ricevuto in vita nove colpi (o anche otto se si ammette che uno, quello
al braccio, era poi penetrato al fianco o al torace). Si lascia quindi la possibilità di dedurre anche l’eventualità
che la Petacci venne uccisa da proiettili che avevano attraversato il corpo di Mussolini. Altre ricostruzioni,
invece, affermeranno che i colpi avevano colpito Mussolini attraversando il corpo della Petacci: una incertezza
totale, certamente voluta, per non incorrere in altre gravissime contraddizioni.
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Ed ecco ora alcuni stralci, tratti direttamente dal libro
di Walter Audisio Ed. Teti 1975
“In nome del Popolo italiano”:
“Partimmo dunque in macchina da Dongo alle 15,10 precise.
Con l’autista eravamo in quattro a bordo (Geninazza, Audisio, Lampredi e Moretti,
n.d.r.) […..]
Il tempo era minaccioso, ma non pioveva. Lasciata la strada del lungolago, dopo
Mezzegra, la strada vicinale per la quale la macchina si inerpicava a fatica, stretta e
deserta, ci conduceva a Bonzanigo. Lungo questo percorso scelsi il luogo
dell’esecuzione: una curva un cancello chiuso un frutteto, la casa sul fondo
palesemente deserta..
La località, a circa un chilometro da Bonzanigo, si chiamava Giulino di Mezzegra.
Ma questo particolare lo appresi da “Pietro” dopo eseguita la sentenza, perchè in
quel momento quella scelta l’avevo compiuta mentalmente, senza farne parola a
Guido, nè agli altri due. Poco più avanti feci fermare la macchina e, sceso a terra,
tolsi la sicura al mitra facendo partire un colpo per provare l’arma. Funzionava.
Andammo avanti a piedi, prima Pietro seguito da me e da Guido; all’autista avevo
dato ordine di non muoversi fino al nostro ritorno.
Durante la breve camminata mi voltai e dissi a Guido: ‘Sai cosa mi è venuto in mente?
Gli dirò che siamo venuti a liberarlo’. ‘Non è un imbecille, osservò Guido, come vuoi
che se la beva ?’. ‘Vedrai che berrà, insistei’. […..] 13
La casetta dei contadini De Maria era a mezza costa, incastonata nella montagna.
I due partigiani di guardia (Lino e Sandrino, ndr.) erano in piedi sul pianerottolo
presso la porta in cima alla scaletta tagliata nel sasso vivo. 14
Il commissario Pietro parlò brevemente ai due partigiani e poi rivoltò a me, esclamò:
“viene avanti”. Uno degli uomini di guardia tirò il paletto, la porta si aprì ed io
entrai nella stanza, solo fermandomi appena al di là della soglia. Tutti gli altri erano
silenziosi e fermi sul pianerottolo. Mussolini era in piedi nella stanza alla destra del
letto (guardando) in divisa e con un soprabito color nocciola.
La Petacci era a letto, sotto le coperte vestita.
Lui mi guardò spaurito e bisbigliò: ‘che c’è’?
Io lo guardavo diritto in faccia: il suo labbro inferiore tremava. […..]
Adesso eravamo invece a tu per tu. Credevo fosse quella per lui un’occasione preziosa
per dimostrare a un nemico d’essere un uomo. […..]
13
Questo scambio di “consultazioni” con Guido, sembrano aggiunte proprio per giustificare, in qualche modo, la
poca credibilità dei precedenti racconti. Lo stesso Lampredi, in proposito, pur non ricordando bene, si dichiarerà
scettico.
14
Anche qui con un altro cambiamento, viene aggiustato un poco il punto in cui si dovettero trovare Lino e
Sandrino: “in piedi sul pianerottolo presso la porta”, intendendo in casa.
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...No: quell’uomo tremava di paura.
Stando fermo presso la porta esclamai: ‘Sono venuto a liberarti’ 15 e continuai a
guardarlo. Alle mie parole l’espressione del suo viso cambiò: ‘Davvero?’ bofonchiò
subito. ‘Presto occorre far presto, non c’è tempo da perdere’ aggiunsi. Intanto egli
riprendeva la sua baldanza. […..]
... ‘Dove si va?’ chiese già sicuro del fatto suo. Invece di rispondergli gli chiesi: ‘Sei
armato?’ ‘No, non ho armi’ rispolse. E adesso all’improvviso non c’era più né
terrore né spavalderia in lui, ma era sopraggiunta la fretta. […..] ...
‘Andiamo disse’. Aveva dimenticato completamente la donna nel letto e glielo
rammentai io.
‘Prima lei, la donna’ dissi. E rivolgendomi alla Petacci, la sollecitai con lo sguardo.
Essa non riusciva a rendersi esatto conto di quello che stesse accadendo […..]
... si affrettò affannosamente a radunare i suoi oggetti personali.
A questo punto, Mussolini fece di nuovo l’atto di uscire e io lasciai che mi passasse
avanti prima della Petacci. In quell’istante trasfigurato in volto , volgendo la testa
verso di me, disse, con il riconquistato tono di primo maresciallo:
“Ti offro un impero!”.
So che molta gente non ha creduto che quella frase sia stata veramente pronunciata:
ed è realmente incredibile in apparenza. Eppure l’ha detta con decisione, anzi con il
ben noto piglio volitivo dell’uomo che non sarebbe mancato alla promessa. Bisogna
tener conto che, per lui, io ero il liberatore e quindi uno dei suoi fanatici o prezzolati
che fossero. […..]
... Era lo stesso uomo quello di Bonzanigo che offriva un impero a me e quello delle
storiche promesse dal balcone di palazzo Venezia. Eravamo ancora sulla soglia di
casa, invece di rispondere a lui, sollecitai la Petacci: ‘Avanti, avanti!” mormorai e La
Petacci si affiancò così a Mussolini.
I due erano seguiti da me e da Guido, Pietro ci precedeva tutti. Ci avviammo per la
mulattiera che scendeva dalla mezza costa fino al punto in cui era rimasta ferma la
nostra 1100 nera.
La Petacci saltellava incerta per la via scoscesa, impacciata dai tacchi alti delle
scarpette di camoscio nero.
Lui, più Duce che mai, camminava spedito, sicuro, con un’aria tra il soldato che
marcia e l’uomo che ha fretta. […..] 16
... Giunti alla macchina Mussolini sembrava convinto di essere un uomo libero. Fece
il gesto di dare la precedenza alla Petacci, ma io gli dissi: ‘Vai tu, là, sei più coperto,
ma quel berretto da fascista è un pò una grana, levatelo’.
E se lo tolse infatti, ma poi si passò una mano sulla testa pelata.
‘E questa ?’ domandò.‘
15
E’ incredibile la leggerezza e la sprovvedutezza di chi ha inventato questi dialoghi, in cui a Mussolini viene
dato spontaneamente del tu, quando era evidente che nessun fascista o milite della RSI si sarebbe mai rivolto in
questa maniera verso il Duce.
16
Negli anni ’70 non era ancora noto il particolare che la rottura dello stivale dipendeva dalla cerniera rotta
(slabbrata), cosa questa che avrebbe assolutamente impedito a Mussolini di camminare spedito, altrimenti
Valerio lo avrebbe certamente modificato e non avrebbe accennato poi ad un semplice stivale sdrucito.
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Allora rimettiti il berretto e calcati molto la visiera sugli occhi’. […..]
Si partì. Sul sedile posteriore dell’auto stavano seduti Mussolini e la Petacci; davanti
l’autista e Guido. Pietro si era messo in piedi sul predellino dalla parte della donna.
Io mi ero seduto sul parafango posteriore di destra, con le spalle alla strada ed il viso
rivolto verso Mussolini.
Così non lo perdevo di vista un solo istante.
La macchina iniziò la discesa lentamente. Io solo conoscevo il luogo prescelto e, non
appena arrivammo presso il cancello, ordinai l'alt, facendo segno a Mussolini di non
parlare. E, sottovoce, accostandomi allo sportello, gli sussurrai: "Ho sentito dei
rumori sospetti, vado a vedere”.
E mi mossi a guardare lungo la strada per accertarmi che nessuno venisse verso di
noi. Quando tornai sui miei passi, la faccia di Mussolini era cambiata: portava i segni
della paura.
Guido mi riferì di avergli già detto che "la cuccagna era finita".
Ero certo, tuttavia, guardandolo attentamente, che per Mussolini si trattasse ancora di
un sospetto.
Mandai il commissario Pietro e l'autista nelle due direzioni della strada, di guardia a
circa 50-60 metri di distanza l'uno dall'altro.
Poi feci scendere Mussolini dalla macchina e gli dissi di portarsi tra il muro e il
pilastro del cancello.
Obbedì docile come un agnello. Non credeva ancora di dover morire, non si rendeva
conto della realtà. Gli uomini come lui temono sempre la realtà. Preferiscono
ignorarla, a loro basta fino all'ultimo un inganno per sè stessi. Adesso era ridiventato
stanco, vecchio, esitante.
Camminava pesantemente, strascinandosi un po' la gamba destra.
Era visibile la sdrucitura di uno stivale.
Poi la Petacci scese anch'essa dalla macchina e si portò di sua iniziativa, svelta al
fianco di lui che, ubbidiente, raggiunse il punto indicato con la schiena volta al
muretto.
Fu un attimo: improvvisamente cominciai a leggere il testo della sentenza di
condanna a morte del criminale di guerra Mussolini Benito:
"Per ordine del comando generale del Corpo volontari della libertà sono incaricato di
rendere giustizia al popolo italiano."
Credo che Mussolini non abbia nemmeno capito quelle parole: guardava,
esterrefatto, con gli occhi sbarrati il mitra che puntavo su di lui.
La Petacci gli buttò le braccia sulle spalle.
E io: "Togliti di lì se non vuoi morire anche tu".
La donna capì subito il significato di quell' ’anche’ e si staccò dal condannato.
Quanto a lui, non disse una sola parola umana: non il nome di un figlio, non quello
della madre, della moglie, non un grido, nulla.
Tremava, livido di terrore e balbettava con quelle grosse labbra in convulsione:
"Ma, ma, ma... signor colonnello... ma, ma, ma... signor colonnello!"
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Nemmeno a quella donna che gli saltellava vicino, che si muoveva di qua e di là,
palesando con lo sguardo uno smarrimento infinito, disse una sola parola. No, si
raccomandava, nel modo più vile, per quel suo grosso corpo tremante; solo a quello
pensava, a quel grosso corpo che aveva appoggiato al muretto.
Ho detto che, per precauzione, avevo provato il mio mitra pochi minuti prima di
entrare nella casa dei De Maria; ebbene, feci scattare il grilletto, ma i colpi non
partirono. Il mitra si era inceppato.
Manovrai l'otturatore, ritentai il tiro, ma l'arma non sparò.
Guidò impugnò la pistola puntò per il tiro, ma sembrava una fatalità, la pistola era
inceppata. 17
Mussolini non sembrava essersene accorto. Non si accorgeva, ormai, più di niente.
Ripresi il mitra, afferrandolo per la canna, pronto a servirmene come una clava,
aspettandomi - malgrado tutto - una qualunque reazione.
Ogni uomo normale avrebbe pensato a difendersi, ma Mussolini era al di sotto di ogni
uomo normale e continuava a balbettare, a tremare, immobile, con la bocca sempre
semiaperta e le braccia penzoloni.
Chiamai a voce alta il commissario della 52a Brigata, che venne di corsa a portarmi
il suo mitra. Pietro scambiò la sua arma con la mia, a dieci passi da Mussolini, e di
corsa risalì al suo posto di guardia.
Erano intanto trascorsi alcuni minuti che qualunque condannato a morte avrebbe
sfruttato per tentare una fuga disperata, o comunque, una reazione di lotta. Invece,
colui che doveva vivere come un "leone" era un povero cencio tremolante e disfatto,
incapace di muoversi.
Nel breve spazio di tempo che Pietro aveva impiegato a portarmi il suo mitra, avevo
avuto la sensazione di essere veramente solo con Mussolini.
C'era Guido, attento e partecipe.
C'era la Petacci al fianco di "lui", che quasi lo toccava con il gomito, ma non contava.
C'eravamo "lui" e io.
Nell'aria umida il silenzio era greve. Si avvertiva nettamente l'ansito breve del
condannato. Di là dal cancello, tra la massa verde del frutteto, appariva in uno
squarcio la facciata bianca della casa.
Nello sfondo, la montagna.
Se fosse stato in condizione di guardare e vedere, Mussolini avrebbe visto, di scorcio,
il lago. 18 Ma non guardava, tremava.
Non c'era in lui più niente di umano. L'umanità si era soltanto rivelata in quell'uomo
nella burbanzosa iattanza del trionfo, nel freddo disprezzo verso i deboli e i vinti.
17
Nelle precedenti versioni, particolare di non poco conto, la pistola l’aveva invece estratta lui Valerio! In ogni
caso, anche se poi la fase finale dell’esecuzione resta alquanto indeterminata, si dovrebbe dedurre che questa
pistola non sparò, in contraddizione però con future affermazioni in merito degli altri partecipanti e con la sua
pomposa destinazione al Museo storico di Voghera.
18
Ora a differenza delle precedenti versioni si cerca di abbondare di particolari del luogo, evidentemente
assodati dopo tutti quegli anni, con la chiara intenzione di voler dimostrare una effettiva partecipazione, da molti
messa in dubbio, a quegli avvenimenti.
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Ora non c'erano più le squadracce, non c'era più la corte dei gerarchi e dei
marescialli, non c'erano più i moschettieri.
Dal suo viso sconvolto appariva soltanto la paura, la paura animale davanti
all'ineluttabile.
L'inceppamento del mitra non aveva dato certamente nessun barlume di speranza a
Mussolini, egli sentiva ormai che avrebbe dovuto morire.
E in questo sentimento stava rinchiuso come in un velo d'incoscienza che lo
proteggeva dal dolore.
Non avvertiva nemmeno la presenza di quella che era stata la sua donna. 19
In me non c'era più neanche l'odio: c'era il senso della giustizia inesorabile di mille e
mille morti, dei milioni di affamati e traditi.
Non avevo l'impressione di dover uccidere un uomo.
Quando mi fui di nuovo piantato di fronte a lui, con il mitra in mano, scaricai cinque
colpi su quel corpo tremante.
Il criminale di guerra si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa
reclinata sul petto.
La Petacci, fuori di sè, stordita, si era mossa confusamente, fu colpita anche lei e
cadde di quarto a terra. Erano le 16.10 del 28 aprile 1945.
L'arma portava i seguenti contrassegni:
cal. 7,65 L. MAS mod. 1938 - F.20830 e aveva un nastrino rosso legato all'estremità
della canna." 20
***
Come si vede, le contraddizioni e le incongruenze, oramai non si contano più: ogni
versione, rispetto all’altra, toglie o aggiunge o modifica qualcosa, trasformando tutta la
vicenda in una confusione indescrivibile.
Gli stessi colpi sparati dal mitra di Valerio, per prudenza, ora sono sintetizzati e dai 10,
esplicitati nella versione precedente, ridiventano di nuovo solo 5: o forse si è voluto lasciare
intendere che poi ci furono altri colpi, magari di pistola onde totalizzare tutti i colpi riscontrati
dall’autopsia di Cattabeni?
Vai a sapere cosa hanno pensato gli estensori del libro.
Al colmo della presa in giro poi, quel Guido che nelle precedenti versioni “era freddo e
distante, quasi non fosse un uomo, ma un testimonio impassibile”,
diventa ora: “c'era Guido, attento e partecipe”. Roba da matti!!
19
In poche righe l’estensore, con poco o niente senso della misura, compie il capolavoro della denigrazione
totale dell’uomo: il terrore che lo rende inebetito, il tremore che lo pervade, l’indifferenza per le sorti della sua
donna, ecc., ecc.
20
Gli estremi dell’arma erano stati ufficializzati la prima volta nel settembre del ‘45¸ con una lettera all’Unità
datata 18 settembre 1945 e firmata colonnello Valerio quando,. a quel tempo, questo nome di battaglia era già
stato sussurrato, ma nè il partito, nè l’Unità lo avevano ancora ufficializzato (lo fecero con gli articoli del
Novembre successivo).
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Viene anche il fondato sospetto che sono state raccattate e messe insieme notizie e particolari
solo in parte verosimili, ma non veritieri, e soprattutto sembra come se Valerio, non si fosse
mai recato a casa De Maria, ma tutto al più, lui o altri non meglio identificati, sono passati in
quei luoghi, chi nel pomeriggio e chi al mattino, con motivazioni, disbrighi e dinamiche del
tutto diverse dalla versione ufficiale.
Appare chiaro infatti che queste strampalate versioni, che vanno poi a formare, bene o male,
la versione ufficiale, sono state scritte a più mani ed aggiustando tutto, mano a mano e a
posteriori, per occultare quanto effettivamente accadde e giustificare così la versione di
comodo.
Non è neppure possibile spiegare con fondatezza il perchè delle versioni fornite a più riprese
e dalle quali ne è addirittura venuta fuori una descrizione dei luoghi e delle percorrenze
assolutamente non corretta.
Sia, infatti, presupponendo assurdamente che la versione ufficiale fosse veritiera e sia invece
considerando molto più realisticamente, come vedremo in seguito, che Mussolini fu ucciso in
luoghi, orari e circostanze del tutto diverse da quelle raccontate e quindi i cadaveri vennero
tenuti nascosti fino al momento della sceneggiata pomeridiana di villa Belmonte, i misteriosi
esecutori del mattino o questo Valerio del pomeriggio o chi per lui, saranno pur dovuti
passare in quei luoghi, al mattino o al pomeriggio appunto, per eseguire o recitare la
parte che gli era stata affidata.
Perché allora tutte queste inesattezze ?
Chi effettivamente è pur stato in quei luoghi, possibile che non li ha poi descritti, all’estensore
delle relazioni, in modo appropriato ?
Si tratta solo di superficialità e pressappochismo o cattiva memoria ?
Dobbiamo quindi pensare che furono fornite solo alcune generiche indicazioni, più il
canovaccio della vicenda e si lasciò poi, con superficialità, libero l’estensore delle relazioni di
mettere in piedi tutta la storiella?
Oppure ci sono altre circostanze e situazioni al momento inimmaginabili?
Sembra quasi, per tutte le dinamiche che sono state descritte e soprattutto per la percorrenza
del tragitto di arrivo e ritorno da casa De Maria, che ne escono fuori almeno due Valerio.
Giustamente G. Pisano (“Gli ultimi cinque secondi di Mussolini” opr. cit.), molti anni dopo
ebbe a scrivere:
<<Fu proprio confrontando i due racconti con la cosiddetta versione
ufficiale dei fatti 21 che realizzai una prima, sbalorditiva constatazione:
il colonnello Valerio, quando era arrivato a Mezzegra ed era sceso
dall’automobile per raggiungere a piedi casa De Maria, doveva
essersi sdoppiato perché aveva percorso due itinerari diversi nel medesimo
tempo.
Una contraddizione che dimostrava come i resoconti attribuiti a Valerio, circa
la meccanica dei fatti che l’avevano portato a prelevare Mussolini e la Petacci
per fucilarli davanti a Villa Belmonte, fossero stati completamente inventati e
scritti in aperta contraddizione gli uni con gli altri […] …
21
L’autore intende la prima e la seconda relazione di Valerio in rapporto alla versione ufficiale complessiva, così
come riportata nel nostro Capitolo 1.
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In poche parole: chi si reca in quella casa muovendo dalla piazzetta del
Lavatoio, deve per forza percorrere via del Riale scendendo. E chi compie
invece il percorso contrario deve inevitabilmente salire>>.
Valerio invece, spiega Pisanò <<con descrizioni molto chiare racconta di avere
affrontato una salita…, mentre per quanto riguarda l’uscita dall’edificio
descriveva un percorso in netta discesa.... Esattamente il contrario di quanto
avrebbe dovuto fare arrivando dal Lavatoio dove, secondo la versione ufficiale,
aveva lasciato l’automobile….
…I due Valerio (uno che lascia l’automobile al lavatoio e scende in via del Riale
a casa De Maria, l’altro che sale dopo essere uscito dalla macchina posteggiata
a valle dell’edificio) non erano mai esistiti.
E la versione ufficiale, nonché i resoconti attribuiti a Valerio, erano stati
costruiti per occultare con un falso storico… >>.
Ma non basta…emergeva anche un altro particolare che confermava la totale
inattendibilità di tutta la leggenda del Valerio-giustiziere… Il particolare
riguardava la casa De Maria così descritta: ’una casetta di contadini a mezza
costa...’, ed in una terza versione, …’ a mezza costa incastonata nella
montagna’.
Tutte descrizioni queste, spiegò Pisanò, assolutamente non corrispondenti al vero. E
più avanti Pisanò ebbe a ricordare le frasi scritte da Valerio sull’Unità nelle sue tre versioni:
- 30 aprile ‘45: (uscita dalla casa) “la Petacci si affiancò a Mussolini seguiti da me, fecero la
mulattiera che scende alla mezza costa fino al punto in cui era ferma la macchina”.
- 9 dicembre ’45: (arrivo in auto) “la strada vicinale per la quale l’automobile si inerpicava
a fatica era stretta e deserta … La casetta era a mezza costa… l’automobile non può arrivare
fin lassù….”
Ed infine: (uscita dalla casa) “ci avviammo per la mulattiera che scende dalla mezza costa
fino al punto in cui era ferma l’automobile”.
- Nel libro del ’75, In nome del popolo italiano: (arrivo in auto) “Lasciata la strada del
lungolago, dopo Mezzegra, la strada vicinale per la quale la macchina si inerpicava a fatica,
stretta e deserta, ci conduceva a Bonzanigo… Lungo questo percorso scelsi il luogo
dell’esecuzione: una curva, un cancello chiuso su un frutteto, la casa sul fondo palesemente
deserta ... La casa dei De Maria era a mezza costa incastonata nella montagna …”
E poi: (uscita dalla casa) “E la Petacci si affiancò così a Mussolini … Ci avviammo per la
mulattiera che scendeva dalla mezza costa fino al punto in cui era rimasta ferma la nostra
1100 nera”.”
In base a tutto questo, concludeva Pisanò, ma c’è da dire che queste incongruenze
topografiche erano già state rilevate a suo tempo da Franco Bandini:
“In queste poche righe, scritte tra l’altro da qualcuno che a Mezzegra e specialmente a
Bonzanigo e Giulino, non era mai stato (impossibile raggiungere Giulino e villa Belmonte
salendo verso Bonzanigo), c’era il resoconto, sia pure malamente riportato e distorto, di un
‘Valerio giustiziere’ che a Bonzanigo era arrivato davvero per uccidere Mussolini e che
aveva voluto descrivere il percorso effettuato per raggiungere casa De Maria.
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Era esatto infatti il riferimento: ‘lasciata la strada del lungolago, dopo Mezzegra, la strada
vicinale per la quale la macchina si inerpicava a fatica, stretta e deserta, ci conduceva a
Bonzanigo’.
Aiutiamoci ancora con un ingrandimento della cartina precedentemente riportata e ripresa dal
libro di G. Pisanò “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini” Il Saggiatore 1996.
Infatti, dopo il bivio di Azzano (punto 6 cartina qui sotto), chi arriva da Milano sulla via Regina
deve percorrere nemmeno duecento metri e, sulla sinistra, trova la via Albana che si inerpica
stretta e deserta verso Bonzanigo (a destra nella cartina).
← Milano
→
Dongo
Una strada che terminava all’altezza della casa della famiglia Mazzola (punto 9 cartina
precedente), là dove inizia, con uno slargo, oggi asfaltato, ma allora erboso (punto 10 cartina),
la via del Riale che conduce alla casa De Maria (punto 1 cartina).
E in quello slargo le automobili provenienti da via Albana o dal parallelo viale delle
Rimembranze, dovevano necessariamente fermarsi perché via del Riale, cinquanta anni
addietro, era una mulattiera che saliva tra i prati verso Bonzanigo.
Lì, in quello slargo, accanto a casa Mazzola, il vero ‘Valerio giustiziere’ chiunque fosse,
aveva dovuto lasciare l’automobile e salire alla casa De Maria, per poi ridiscendere verso lo
stesso slargo”.
E’ molto probabile quindi, aggiungiamo noi, che il Valerio Audisio, o chi per lui,
dovendo almanaccare il 30 aprile ’45 su due piedi una versione, comprensiva della fucilazione
a villa Belmonte ed il passaggio dei prigionieri vivi dal lavatoio (punto 3 cartina precedente) o
qualcosa di simile, ecc. e dovendosi anche basare sulle poche indicazioni del vero ‘Valerio
giustiziere’ o dei suoi accoliti, o di chi sa chi, incorse in queste evidenti discrasie
topografiche che poi non fu più possibile, né necessario correggere, anche perché per molti
anni nessuno se ne era accorto in modo evidente.
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Abbiamo fin qui potuto leggere le incongruenti versioni primogenite di Valerio, che
all’epoca furono ovviamente trasferite sui testi sacri della resistenza come quello di Roberto
Battaglia e vennero anche recepite, con molta superficialità e subordinazione alla vulgata
imposta a tutta la nazione, anche nei libri di scuola.
Anni dopo, come vedremo nel prossimo capitolo, questa (meglio sarebbe però dire queste)
versione di Valerio venne integrata e precisata, oltre che parzialmente corretta, attraverso la
famosa relazione di Lampredi e le successive testimonianze di Moretti. Correzioni che
volevano essere una puntualizzazione della versione, che sostanzialmente veniva confermata
pur ridimensionandone i racconti fantasiosi e denigratori dell’eroico giustiziere, ma che
volenti o nolenti introdussero anche alcuni elementi che ne incrementarono la problematicità.
E’ pur vero, come abbiamo accennato nell’Introduzione, che non è né corretto, né
sufficiente, per smontare la cosiddetta versione ufficiale, utilizzare solo le contraddizioni
e le incongruenze esposte nei vari testi.
Ma qui, e lo abbiamo appena visto, siamo in presenza di tali e tante contraddizioni e
assurdità che, messe insieme, hanno un peso enorme.
E vedremo poi come queste contraddizioni si dilatano e si moltiplicano quando
considereremo i referti autoptici ed i sia pur pochi reperti disponibili.
E’ veramente incredibile come sia stato possibile a molti storici o giornalisti, di dar
credito a questa pluriennale messa in scena dove, oltretutto, non c’è neppure una
testimonianza veramente accertabile di un teste estraneo al trio giustiziere e presente
all’esecuzione (vedremo come l’autista Geninazza portato da Valerio risulterà poi
alquanto lacunoso e inattendibile).
Per di più è stata anche fatta sparire l’arma o le armi utilizzate e, come vedremo, c‘è un
autopsia priva di riscontri precisi sulle modalità e le dinamiche della morte e del resto
neppure troppo in linea con questi pseudo resoconti di Valerio.
Ma noi vogliamo continuare a far finta di credere a questa
pagliacciata, vogliamo ancora pensare che, tutto sommato essa è frutto delle
circostanze caotiche dell’epoca; vogliamo ritenere che Audisio vi abbia
semplicemente esagerato, dilatando il suo ruolo e inserendovi sproloqui e
fanfaronate; vogliamo credere che esigenze politiche di quei tempi resero
necessario introdurre delle frasi e dei passaggi per denigrare oltre ogni
misura il Duce, ma che tutto sommato le cose sono, più o meno, andate come
si raccontano.
E quindi proseguiamo nella masochistica lettura di questa storica
versione.
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