L`abbandono del posto di lavoro: profili disciplinari Parere
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L`abbandono del posto di lavoro: profili disciplinari Parere
Massimo Mutti - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Parere professionale Parere del legale L’abbandono del posto di lavoro: profili disciplinari Francesco Rotondi - LabLaw Studio Legale Inquadramento della fattispecie All’indomani della vicenda mediatica che ha accompagnato gli interventi della c.d. Riforma Madia alla disciplina volta a sanzionare i cosiddetti “furbetti del cartellino” nel pubblico impiego (art. 55 quater, D.Lgs. n. 165/2001, come da ultimo rivisto alla luce del D.Lgs. n. 116/2016), non può esserci momento più adatto per svolgere alcune riflessioni sui risvolti giuslavoristici (e dunque, necessariamente, sulle conseguenze sul piano disciplinare) della condotta del lavoratore che, nel settore privato, abbandona il posto di lavoro. Ciò che, anzitutto, è necessario premettere è che una simile condotta costituisce una fattispecie idonea ad integrare, entro certi limiti, un inadempimento contrattuale del lavoratore (ed è pertanto rilevante ai fini disciplinari) ed, in alcuni casi, a determinare il venir meno della fiducia da parte del datore di lavoro, con conseguente irrogazione della massima sanzione disciplinare, quella espulsiva. La premessa da cui deve necessariamente originare una riflessione sulla tematica dell’abbandono del posto di lavoro, dunque, è l’inquadramento della fattispecie in questione nell’ambito delle ipotesi di inadempimento suscettibili di rilevanza disciplinare, con tutto ciò che ne deriva in termini di disciplina (e di procedura disciplinare) applicabile. Sotto tale profilo, la valutazione della rilevanza disciplinare di una simile condotta, oltreché la riflessione su quali debbano essere i criteri al fine di valutare l’intensità del disvalore disciplinare della stessa, ha avuto un seguito particolarmente interessante nel corso degli anni in quella giurisprudenza che si è occupata dell’abbandono del posto di lavoro o semplicemente dell’allontanamento da parte dei lavoratori addetti alla vigilanza privata; l’attenzione riservata dai Giudici a tali fattispecie non è un caso, del resto, se si considera che in capo a questa categoria di lavoratori incombe la responsabilità diretta della tutela dei beni aziendali (quando non l’incolumità fisica di chi in azienda opera), con la conseguenza che l’allontanamento ingiustificato di una guardia giurata dal posto di lavoro è, con ogni evidenza, un inadempimento di particolare rilevanza perché idoneo a mettere a repentaglio la sicurezza stessa in azienda. Ebbene, in tali occasioni, la giurisprudenza ha affrontato la tematica della rilevanza disciplinare della condotta in esame da un duplice punto di vista: soggettivo e oggettivo. Da un punto di vista oggettivo, ciò che rileverebbe al fine di valutare se una determinata condotta costituisca o meno illecito disciplinare, è l’intensità dell’inadempimento, che si manifesta nella sua massima esteriorizzazione nel caso in cui l’abbandono dal posto di lavoro si identifichi nel totale distacco dal bene da proteggere; a tal fine, particolare attenzione è posta dai Giudici sull’eventuale esistenza di un previo accordo con colleghi o superiori al fine di non lasciare scoperta l’area di competenza, sull’idoneità dell’inadempimento a pregiudicare le esigenze di prevenzione nonché sulla stessa durata dalla condotta. Sotto il profilo soggettivo, invece, l’abbandono richiederebbe un elemento volontaristico consistente nella semplice coscienza e volontà della condotta di abbandono, e ciò indipendentemente dalle finalità perseguite, e salva ovviamente la sussistenza di quelle che, mutuando il linguaggio penalistico, possono considerarsi cause “scriminanti”. Codice disciplinare dei contratti collettivi Al di là delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza, un primo termine di confronto deve essere comunque rinvenuto sempre nei codici disciplinari previsti dalla contrattazione collettiva nazionale, e ciò a maggior ragione nei casi in cui l’intenzione datoriale è quella di comminare la massima sanzione del licenziamento disciplinare. Ed, infatti, se è vero che l’eventuale mancata tipizzazione, da parte del Ccnl di riferimento, della condotta in esame non esclude che la stessa integri gli estremi del licenziamento disciplinare, è altresì vero che, al contrario, l’espressa contemplazione da parte del codice disciplinare Guida alle Paghe 2/2017 105 Massimo Mutti - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Parere professionale Parere del legale di una simile fattispecie impone l’applicazione della sanzione ivi prevista, e ciò perlomeno al fine di “autodeterminare” il sistema rimediale applicabile – di tipo reintegratorio/risarcitorio o viceversa indennitario – in caso di acclarata illegittimità del licenziamento (con tutti i dovuti distinguo tra licenziamenti cui si applichi la tutela pre Jobs Act e licenziamenti relativi, invece, a lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti; cfr., sul punto, F. Rotondi, Il licenziamento disciplinare dopo il Jobs Act in Guida alle Paghe, 10, 2016). Entrando poi nel merito dei singoli contratti collettivi a livello nazionale, non può che rilevarsi come la fattispecie in esame sia spesso presente nei relativi codici disciplinari. Solo per citare alcuni esempi, l’art. 72 Ccnl Abbigliamento Industria stabilisce che è passibile di multa o sospensione il lavoratore che «abbandoni il proprio posto di lavoro non avendone ottenuta autorizzazione del diretto superiore», mentre ai sensi del successivo art. 74 il licenziamento disciplinare si applica in caso di «abbandono del proprio posto di lavoro, che implichi pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti, fatta eccezione per l’ipotesi di pericolo grave ed immediato che non possa essere evitato, salvo che lo stesso lavoratore non sia stato debitamente formato e preposto per affrontare lo stato di pericolo al fine di farlo cessare o attenuarlo»; l’art. 9, Titolo VII, Sezione IV del Ccnl Metalmeccanici Industria prevede che «incorre nei provvedimenti di ammonizione scritta, multa o sospensione il lavoratore che […] abbandoni il proprio posto di lavoro senza giustificato motivo» e il successivo art. 10 prevede che l’«abbandono del posto di lavoro da parte del personale a cui siano specificatamente affidate mansioni di sorveglianza, custodia, controllo» meriti il licenziamento con preavviso mentre il licenziamento c.d. in tronco si applicherà al caso in cui dall’abbandono «possa derivare pregiudizio alla incolumità delle persone od alla sicurezza degli impianti». Non può non citarsi infine, per le ragioni sopra esposte, anche il Ccnl Vigilanza Privata che prevede l’«abbandono del posto» quale ipotesi integrante gli estremi per un licenziamento per giusta causa. A ciò si aggiungano ovviamente – ma il tema meriterebbe una trattazione a sé – le modulazioni che a tali codici disciplinari possono essere apportate dalla contrattazione collettiva a livello aziendale. Onere della prova Ad ogni modo, al di là delle problematiche sottese alla riconducibilità delle circostanze oggetto di contestazione ad un fatto rilevante ai fini disciplinari e delle intrinseche difficoltà di gradazione delle sanzioni disciplinari (siano esse conservative o espulsive), il vero banco di prova della fattispecie del licenziamento disciplinare per abbandono del posto di lavoro è sempre stato quello relativo all’esperimento dell’onere della prova. Ed infatti la sanzione disciplinare che tragga origine dalla condotta di abbandono del posto di lavoro è conseguenza della contestazione di un fatto, il quale prima ancora di essere giuridicamente considerato quale inadempimento del lavoratore, deve essere naturalisticamente oggetto di accertamento da parte del Giudice. Di contro, è proprio la stessa sussistenza della condotta contestata che il lavoratore tenterà di aggredire, nella lettera di giustificazioni dapprima e nel ricorso introduttivo della fase giudiziale poi, e ciò in primo luogo negando la sussistenza stessa della condotta e, in secondo luogo, minimizzandone il disvalore disciplinare. A tal riguardo, punto di partenza resta la previsione di cui all’art. 5 della legge n. 604/1966 secondo cui «L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro». A ciò si aggiunge altresì il consolidato principio (c.d. della vicinanza alla prova) per cui l’onere della prova incombe sempre in capo alla parte che si trova nella posizione più prossima alla fonte di prova stessa (ossia, il più delle volte, il datore di lavoro stesso). A ben vedere, la questione si pone nel caso (invero non certo infrequente nella pratica) in cui all’esito della fase istruttoria, il quadro che si presenta al Giudice è quello di dichiarazioni testimoniali che si contraddicono l’una con l’altra proprio sull’esistenza delle circostanze di fatto oggetto di contestazione disciplinare. È quanto accaduto, solo per citare un esempio emblematico, in una vicenda recentemente oggetto di esame del Tribunale di Aosta (n. 587/2015), davanti al quale aveva presentato ricorso un lavoratore (operaio addetto alla conduzione e al controllo del confezionamento) che era stato licenziato dal proprio datore di lavoro per essersi allontanato dal posto di lavoro, uscendo dallo stabilimento durante il turno notturno, senza richiedere l’autorizzazione del proprio diretto superiore e omettendo di effettuare la richiesta timbratura in uscita. Ebbene, all’esito dell’escussione dei testi, il Giudice doveva constatare come il quadro che si presentava fosse «grossolanamente contraddittorio»: ed infatti, da un lato un teste (il compagno di lavoro del ricorrente, che quella notte era in turno e dichiarava di aver lavorato per Guida alle Paghe 106 2/2017 Massimo Mutti - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Parere professionale Parere del legale tutto l’orario di lavoro a distanza di circa 3 metri dal ricorrente stesso) negava recisamente che il ricorrente si fosse mai allontanato dal posto di lavoro; dall’altra, il teste chiamato dall’azienda (il vigilante notturno) assicurava, invece, di aver visto il ricorrente allontanarsi. Ebbene, come osservava il Tribunale di Aosta «Ci si trova, dunque, di fronte a due deposizioni inconciliabili tra loro, delle quali una è certamente falsa». A conclusione del proprio ragionamento, e prescindendo dalle (in altri contesti, doverose) considerazioni che andrebbero svolte su alcuni passaggi del percorso argomentativo del Tribunale di Aosta e sulle deduzioni che quest’ultimo ha ritenuto di dover trarre dagli ulteriori elementi indiziari a propria disposizione, il Giudice riteneva di dover dichiarare illegittimo il licenziamento e ciò sul presupposto che «Si è dunque in presenza di una prova contraddittoria, ciò che già solo, non può che condurre a ritenere non provate le allegazioni di parte resistente [ossia il datore di lavoro – n.d.r.], che – invece – ha l’onere di provare che i fatti oggetto della contestazione disciplinare, che hanno poi costituito la giustificazione dell’intimato licenziamento, sussistono». A fronte di un siffatto contesto, è chiara la predominanza che assume per il datore di lavoro il poter operare in un contesto organizzativo tale da permettere un puntuale accertamento – non rimesso esclusivamente alla prova testimoniale – dei fatti oggetto di possibili violazioni disciplinari; sotto tale profilo torna alla ribalta ancora una volta la necessità di un immediato e generalizzato allineamento con l’odierna disciplina sugli impianti tecnologici (anche strumenti aziendali) da cui possa derivare un controllo a distanza, potendo diventare questi ultimi (si pensi al badge o alle telecamere) l’elemento probatorio determinante per poter sostenere in giudizio l’effettiva sussistenza dell’illecito disciplinare contestato (nel nostro caso, la circostanza che il lavoratore si sia effettivamente allontanato dal posto di lavoro). Rimedi applicabili alla luce del Jobs Act Il quadro sopra delineato deve oggi essere calato nell’ambito delle riflessioni (e dei primi orientamenti interpretativi) relative al nuovo sistema rimediale introdotto dal Jobs Act. L’art. 3, c. 2, D.Lgs. n. 23/2015, aderendo – perlomeno all’apparenza – all’interpretazione giurisprudenziale secondo cui il “fatto contestato” sarebbe da intendersi quale “fatto materiale” (e non già quale “fatto giuridico”), ha da una parte negato che ai fini dell’applicabilità del rimedio reintegratorio/risarcitorio rilevasse il giudizio di proporzionalità tra fatto contestato e sanzione disciplinare e dall’altra espunto quella disposizione di cui al c. 4 dell’art. 18 Stat. lav. (post Riforma Fornero), tuttora in vigore per il lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, secondo cui la tutela reintegratoria/risarcitoria (seppur delimitata) è mantenuta nel caso in cui venga irrogato un licenziamento disciplinare a fronte della contestazione di un “fatto” che «rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili». Tornando alla fattispecie dell’abbandono del posto di lavoro, sembrerebbe dunque – da una mera lettura del testo di legge del Jobs Act – che la sola prova (di per sé non agevole, come visto sopra) della sussistenza della condotta del lavoratore permetterebbe di per sé di escludere l’applicazione del rimedio reintegratorio/risarcitorio relegando l’eventuale accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato ad una delle ipotesi per cui il Jobs Act prevede la sanzione del pagamento di un’indennità commisurata all’anzianità di servizio. Se la prassi giudiziaria si orienterà in questa direzione, tuttavia, sarà solo il tempo a poterlo confermare; per il momento, l’operatore non può che assistere, da terzo osservatore, ai primi (oscillanti) orientamenti interpretativi e dovrà continuare a muoversi, in via prudenziale, nel pieno rispetto dei margini concessi dalla giurisprudenza “tradizionalistica” e dagli stessi codici disciplinari. Guida alle Paghe 2/2017 107