Lezione del 9 febbraio 2012. L`aedo

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Lezione del 9 febbraio 2012. L`aedo
Lezione del 9 febbraio 2012: l'aedo
Agli occhi dello storico della letteratura greca i poemi omerici sono un punto di inizio: nulla
che abbia interesse poetico – o, più generalmente, letterario – è documentabile prima di essi; nulla,
quanto meno, che una tradizione scritta abbia raccolto e trasmesso nel tempo. Ma, date le
dimensioni monumentali della loro architettura narrativa, la ricchezza della materia che in essi
confluisce e – soprattutto – l'altissimo grado di elaborazione tecnica del loro dettato, è cosa ovvia
postulare alle loro spalle una preistoria plurisecolare di attività poetica, rispetto alla quale essi si
pongono come punti di approdo. Mettere a fuoco quella preistoria significa rintracciare le
coordinate culturali più adatte ad una reale comprensione del fenomeno omerico: a ciò possono
contribuire, con pari dignità, da un lato la testimonianza fornita direttamente dai poemi – soprattutto
là dove puntano l'attenzione sulla performance aedica: l'Odissea è, per ragioni facilmente intuibili,
connesse agli ambienti in cui si svolgono i fatti narrati, miniera più ricca dell'Iliade1 –, dall'altro la
comparazione etnologica che, negli ultimi ottant'anni, a partire dai primi saggi pionieristici di M.
Parry2, ha chiarito, più di quanto non abbia saputo fare la filologia pura, molti aspetti salienti
dell'epos arcaico greco.
Il quadro che i poemi offrono dell'attività aedica e delle relative procedure rituali ha forti
connotati di arcaicità: la recita del cantore vi appare costantemente contestualizzata in ambiente
aristocratico (il palazzo di Alcinoo a Scheria e la corte di Odisseo ad Itaca), come parte integrante
della ritualità conviviale; lo scopo non va al di là del piacevole intrattenimento del pubblico,
immancabilmente costituito dal principe, dalla sua famiglia e dalla cerchia ristretta dei suoi
cortigiani. Il profondo mutamento delle condizioni politiche, sociali ed economiche del mondo
greco che seguì, sullo scorcio del XII sec. a. C., al collasso dei palazzi micenei ne modificò
radicalmente la destinazione, orientandola in una direzione più pubblica: quella della festa religiosa.
La stessa formazione dei due poemi – cronologicamente collocabile, secondo le ipotesi più
verisimili, fra VIII e VII sec. a. C. – va presumibilmente messa in relazione con questo nuovo
contesto, che più di ogni altro offre le condizioni adatte per la fruizione di narrazioni così estese.
Parlando in termini di funzionalità, poemi come l'Iliade e l'Odissea poco si prestano ad essere
recitati, anche a pezzi, in margine ad un banchetto di corte: e non solo per ragioni che hanno a che
fare con le loro dimensioni. La vocazione chiaramente panellenica di entrambi i poemi costituisce
forse, in questo senso, l'argomento più convincente. La religione olimpica, ad esempio, cui essi
hanno di fatto dato forma, mostra di avere assorbito e unificato (con le inevitabili incongruenze)
molti culti locali di origine diversa; ed anche la lingua risulta da una complessa commistione di
elementi dialettali eterogenei che ne marca il carattere artificioso e, in un certo senso, nazionale3.
Sono caratteristiche che escludono, come ben si vede, una genesi municipalistica e si lasciano
ricondurre, invece, ad una serie di fenomeni storico-culturali – anch'essi di portata largamente
panellenica – occorsi all'incirca nello stesso periodo: fra gli altri, la nascita della polis, la fondazione
dei giochi olimpici (776 a.C.), il ruolo egemonico assunto dal santuario di Delfi4. Una serie di
1 È sorprendente, tuttavia, che l'Iliade alluda relativamente spesso a tipologie di canto più differenziate rispetto
all'Odissea: il canto di ringraziamento agli dei, il compianto funebre, la canzone che accompagna il lavoro ecc. Il
vero e proprio canto epico è rappresentato in IX 185 sgg.: i tre ambasciatori inviati ad Achille da Agamennone per
tentare la riconciliazione sorprendono l'eroe intento a cantare i kleva ajndrw'n (klea andrōn: “le imprese gloriose
degli eroi”) accompagnandosi con la cetra, di fronte a Patroclo che lo ascolta.
2 Milman Parry L'épithète traditionnelle dans Homère Paris 1928. I contributi successivi all'indagine sull'epos
arcaico, compreso lo studio autoptico dell'epica serba condotto tra il 1933 ed il 1935, vennero raccolti dal figlio
Adam nel volume: A Parry (a cura di) The Making of Homeric Verse. The Collected Papers of Milman Parry
Oxford 1971.
3 Occorre qualche cautela, quando si usa la parola “nazionale”: i Greci, come è noto, non riuscirono mai a costruire
uno stato unitario e le esperienze di aggregazione politica furono sempre circoscritte e limitate nel tempo. Ebbero,
tuttavia, un forte sentimento della loro unità culturale, orgogliosamente contrapposta alla dimensione del barbarico:
Omero rappresentò, in questo senso, un elemento di coesione.
4 L'oracolo di Delfi svolse una funzione fondamentale, non solo di segno religioso, nella vita civile dei Greci. Al
tempo della grande migrazione (VIII-VII sec. a.C.), che colonizzò il Mediterraneo ed il Mar Nero disseminando
testimonianze – non tutte univoche, ma sostanzialmente convergenti nei punti essenziali – relative
al VI sec. a.C. proiettano su uno sfondo di questo tipo la prima fissazione scritta dei due poemi5.
Sono due le figure di aedo che si incontrano nell'Odissea e – in ciò smentendo un'idea che,
come vedremo più avanti, potrebbe dedursi da altri accenni disseminati nel racconto – appaiono
entrambe stabilmente legate ad una corte principesca: Femio ad Itaca e Demodoco a Scheria6.
Femio compare già nel primo libro, intento a cantare di fronte ai proci riuniti a banchetto “degli
Achei il ritorno / luttuoso”7. Dai suoi appartamenti al piano superiore Penelope ne ode la voce:
turbata da quel canto che le rinnova il dolore per lo sposo, di cui da vent'anni non ha più notizie e
che crede disperso, scende a pregare l'aedo di interrompere quel canto: «Femio, molte altre imprese
di uomini e dei tu conosci, / che incantano gli uomini, e i cantori le celebrano: / cantane una, seduto
tra loro; ed essi in silenzio / bevano il vino; smetti però questo canto / luttuoso, che sempre in petto
mi logora / il cuore, dopoché tanto mi colpì il dolore incessante»8. Ma Telemaco, cui Atena, nelle
vesti di un vecchio ospite, ha ispirato nuova fiducia nelle sorti del padre, la redarguisce: gli dei, non
i cantori sono responsabili del triste destino degli uomini; attenda alle sue mansioni di donna e lasci
agli uomini i pensieri che a loro spettano. Lo ritroviamo più avanti, nel libro XVII, quando Odisseo,
tornato in incognito ad Itaca, si accosta al palazzo travestito da mendicante e ode da lontano gli
accordi della sua lira che preludono al canto; ed ancora nel libro XXII, nell'atto di chiedere pietà al
sovrano ormai disvelatosi e pronto alla vendetta.
Ma il locus classicus che dipinge con più larga dovizia di particolari un aedo all'opera è l'VIII
libro dell'Odissea. Per seguirne nel dettaglio l'analisi, eccone in schema la struttura narrativa:
1. Convocazione dell'assemblea. Alcinoo informa il popolo dell'arrivo dello straniero e
della sua richiesta di una scorta per il ritorno in patria. La scorta viene accordata.
2. Invito al banchetto. Terminate le operazioni di allestimento della nave che ricondurrà
lo straniero ad Itaca, Alcinoo invita i nobili ed il popolo ad un banchetto che si terrà a
palazzo.
3. Prima esibizione di Demodoco. Durante il banchetto, l'aedo canta un episodio della
saga troiana: la lite scoppiata tra Achille e Odisseo, nella quale Agamennone riconosce
i segni di un vaticinio che gli promette ormai prossima la caduta di Troia. Il canto di
Demodoco commuove Odisseo, che scoppia in lacrime. Solo Alcinoo si accorge del
suo turbamento.
4. Proposta di gare atletiche. Per riguardo all'ospite, Alcinoo interrompe la performance
di Demodoco e propone, come diversivo, lo svolgimento di gare atletiche. Tutta la
corte, compreso Demodoco, si trasferisce all'aperto.
5. Svolgimento delle gare. Anche Odisseo viene invitato a misurarsi con gli altri. Al suo
rifiuto, il giovane Eurialo, rampollo dell'aristocrazia locale, lo insulta dandogli del
“mercante” e provocandone la fiera reazione. Afferrato un pesante disco, più grande di
quello usato dai suoi concorrenti, Odisseo lo lancia di una misura molto più lunga di
quella raggiunta dagli altri; quindi sfida i presenti anche nelle altre discipline: tutte,
tranne la corsa a piedi, alla quale si sente meno pronto.
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comunità greche dall'estremo occidente fino all'oriente asiatico, il santuario indicò itinerari e fornì guide esperte,
orientando fattivamente il movimento colonizzatore.
Si tratta dei Panathēnaia ateniesi, fondati, secondo la tradizione, da Pisistrato e celebrati ogni quattro anni. Nel ricco
complesso di celebrazioni che la festa prevedeva erano compresi anche agoni poetici: diversi rapsodi, in gara tra di
loro, erano chiamati a recitare, avvicendandosi l'uno all'altro, i poemi omerici, che proprio in quell'occasione
avrebbero conosciuto, secondo le fonti, la loro prima redazione scritta ufficiale.
Quelli di Femio e di Demodoco sono nomi parlanti: il primo significa “colui che diffonde la fama”; il secondo
“onorato, bene accetto dal dēmos, dalla collettività”.
Od. I 326 sg., trad. di Aurelio Privitera. È probabile che esistesse una ricca letteratura di nostoi (“ritorni”) che
raccontava le avventure degli eroi reduci dalla guerra sulla strada del ritorno. L'Odissea, che contiene di scorcio
allusioni a più d'uno di quei racconti, è essa stessa la cronaca epica di un nostos (quello di Odisseo).
Od. I 337 sgg., trad. di Aurelio Privitera. Senza più ripeterlo, si intende che d'ora in avanti, in mancanza di altre
indicazioni, la traduzione utilizzata è quella di A. Privitera (Omero Odissea Fondazione Lorenzo Valla – A.
Mondadori editore, Milano 1982.
6. Intervento diplomatico di Alcinoo e proposta di gare di danza. Per allentare la
tensione, Alcinoo si rivolge all'ospite e gli rammenta le cose nelle quali veramente i
Feaci eccellono: la corsa, la navigazione ed il godimento delle dolcezze della vita. La
danza è una delle cose che essi più amano: e ad una gara di danza il sovrano invita i
giovani presenti.
7. Seconda esibizione di Demodoco. Mentre i giovani feaci volteggiano agilmente in
acrobatiche figure coreografiche, Demodoco canta gli amori clandestini di Ares e di
Afrodite e l'astuta vendetta dello sposo tradito, Efesto. Il suo canto viene riportato per
esteso.
8. Offerta di doni ospitali. Dopo la gara di danza Alcinoo invita i nobili dell'isola ad
offrire all'ospite i loro doni: un mantello, una tunica ed un talento d'oro ciascuno.
Anche Eurialo si riconcilia con Odisseo, offrendogli una preziosa spada di bronzo con
l'elsa d'argento ed il fodero di avorio intarsiato.
9. Banchetto serale. Prima del banchetto anche Alcinoo presenta allo straniero i suoi
doni: un mantello, una tunica ed una coppa d'oro. Il tutto verrà riposto in un prezioso
scrigno che Odisseo sigillerà con un nodo complicato.
10. Terza esibizione di Demodoco. Questa volta su richiesta di Odisseo, Demodoco canta
un altro episodio della saga troiana: quello del cavallo di Troia. Al suo racconto,
Odisseo scoppia di nuovo in lacrime.
11. Richiesta a Odisseo di svelare il suo nome. Alcinoo, che ha notato – solo lui – il
turbamento dell'ospite, gli chiede finalmente di svelare il suo nome e di raccontare la
sua storia.
Quando la performance si svolge all'interno del palazzo, l'aedo canta9 seduto in mezzo alla
sala, appoggiato ad una colonna. Ve lo conduce un araldo del re (Demodoco è cieco), che lo fa
sedere e gli appende la cetra ad un chiodo, mostrandogli come prenderla: davanti a lui viene
disposta una tavola con del cibo ed una coppa di vino, in modo che, durante i brevi intervalli che
scandiscono il racconto, egli possa bere e rifocillarsi a suo piacimento. La scelta del tema spetta
normalmente a lui, ma anche il pubblico può fare le sue richieste: ciò che avviene al momento della
terza esibizione, quando è Odisseo a proporre l'argomento del canto.
Nessuno dei tre canti di Demodoco è rintracciabile nella tradizione epica a noi nota. Il primo,
riferito di scorcio in rapida sintesi (vv. 72-82), sviluppa un episodio «la cui fama allora arrivava al
vasto cielo10»: una lite scoppiata tra Achille e Odisseo alla presenza di Agamennone, che gioisce di
quel diverbio perché vi riconosce i segni di una profezia che gli promette imminente la vittoria sulla
città di Troia. Alcuni commentatori antichi ipotizzavano che la contesa fosse sorta durante un
banchetto celebratosi dopo la morte di Ettore e che avesse come oggetto la tattica da usare per
l'attacco definitivo contro la città, ormai priva del suo difensore più formidabile: Achille avrebbe
proposto, conforme alla sua statura eroica, un atto di forza, mentre Odisseo, più prudente, avrebbe
preferito ripiegare sulle arti dell'astuzia. La spiegazione, tuttavia, destituita com'è di riferimenti
testuali, ha tutta l'aria di un'invenzione escogitata ad hoc per far quadrare i conti. Più probabile,
anche se meno preciso, il rimando ad un passo dei Canti Ciprii, un poema appartenente al Ciclo
epico11, che narrava, insieme alle cause della guerra di Troia, anche le prime fasi della spedizione:
9 In realtà non si tratta di un vero e proprio canto intonato, ma di una performance recitativa accompagnata da accordi
di cetra. Diversamente dall'Iliade, qui nell'Odissea il verbo ajeivdw (aeidō) designa sempre il canto epico.
10 Od. VIII 74.
11 Il Ciclo epico, ben noto nell'antichità, era costituito da una serie di racconti più o meno lunghi organizzati in veri e
propri poemi che, posti in sequenza, percorrevano tutto l'arco della saga epica. Il Ciclo troiano, per esempio, era
articolato in: Canti Ciprii (antefatti della guerra di Troia, rapimento di Elena, prime fasi del conflitto), Etiopide (lotta
sostenuta da Achille contro le Amazzoni e contro la loro regina Pentesilea, accorsa a sostegno dei Troiani), Piccola
Iliade (pazzia e suicidio di Aiace, morte di Paride, inganno del cavallo di legno), Distruzione di Ilio (espugnazione
della città di Troia), Ritorni (le avventure dei reduci sulla via del ritorno in patria), Telegonia (uccisione di Odisseo
per mano di Telegono, il figlio avuto da Circe). Salvo qualche breve frammento dovuto a citazioni di grammatici,
nulla di tutto questo materiale si è conservato.
ne è sopravvissuto qualche modestissimo frammento, ma ne conosciamo il contenuto generale
grazie ad un riassunto di Proclo, un tardo grammatico di età imperiale (II o V sec. d. C.). Sull'isola
di Tenedo prospiciente la pianura di Troia, prima ancora dello sbarco, Agamennone tiene un
consiglio di guerra per decidere le strategie più adatte: in quell'occasione il comandante in capo
viene a contesa con Achille (come si vede, i due litigavano spesso!). E Odisseo? Sappiamo da altra
fonte (un frammento di una tragedia perduta di Sofocle: i Syndeipnoi12) che alla discussione avrebbe
partecipato anche lui.
Poi, quando ebbero scacciata la voglia di bere e di cibo,
la Musa indusse l'aedo a cantare le glorie degli uomini,
da un tema, la cui fama allora arrivava al vasto cielo,
la lite di Odisseo e del Pelide Achille,
come una volta contesero in un lauto banchetto di dei
con parole violente: e Agamennone, signore di uomini,
nella mente gioiva che i migliori degli Achei contendessero.
Perché così Febo Apollo gli disse vaticinando
a Pito divina, quando per consultare l'oracolo varcò
la soglia di pietra: s'inarcò allora su Troiani e su Danai
la cima della sventura, secondo i piani del grande Zeus.13
Anche il terzo racconto è riportato di scorcio (vv. 499-520). Odisseo, ormai pienamente
restituito alla sua condizione regale14, può rivolgere a Demodoco la sua richiesta: quella di sentir
cantare una storia di cui è stato primo attore, l'inganno del cavallo. Come è noto, la fine della guerra
di Troia non era oggetto di narrazione né dell'Iliade né dell'Odissea: il pubblico antico conosceva
quei fatti da altri poemi appartenenti al Ciclo epico: la Piccola Iliade e la Presa di Ilio. Si può
supporre che Demodoco avesse quella storia nel suo repertorio e che, nell'occasione, si limitasse a
recitarla: non c'è bisogno di pensare (come a volte si fa) che la improvvisasse, componendola
estemporaneamente – cosa che, pure, la sua abilità tecnica gli avrebbe permesso di fare.
Riprenderemo in esame più avanti questo aspetto.
Disse così. Egli, ispirato, dal dio cominciò. Cantava
iniziando da quando, imbarcatisi sulle navi ben costruite,
gli Argivi salparono, dopo aver appiccato il fuoco
alle tende. Intanto gli altri, stretti all'insigne Odisseo,
stavano nella piazza di Troia, nascosti dentro il cavallo.
Gli stessi Troiani lo avevano tratto fin sull'acropoli.
Così il cavallo era lì: ed essi, seduti all'intorno,
dicevano molti contrastanti pareri: tre ne piacevano loro,
o spaccare il cavo animale di legno col bronzo spietato,
e trarlo fino al dirupo e gettarlo giù dalle rocce,
o lasciarlo, che fosse un gran dono propiziatorio agli dei.
E in questo modo poi doveva finire.
Perché era destino che la città rovinasse, appena accolto
il grande cavallo di legno in cui sedevano tutti gli Argivi
migliori per portare strage e rovina ai Troiani.
E cantava come distrussero i figli degli Achei la città,
12 Soph. fr. 566 Radt.
13 Od. VIII 72 sgg.
14 Odisseo è approdato naufrago sull'isola dei Feaci e nessuno conosce ancora la sua identità. Nel corso dell'VIII libro
egli verrà progressivamente reintegrato nello status che gli spetta attraverso una serie di atti rituali: partecipazione
alle gare atletiche, offerta di doni ospitali, bagno, posto d'onore riserbatogli nel banchetto serale (ove gli viene
offerta la parte migliore delle carni imbandite).
riversatisi giù dal cavallo e lasciato il cavo agguato.
Cantava che devastarono chi qua chi là la rocca scoscesa,
che Odisseo andò come il dio della guerra, come Ares,
alle case di Deifobo con Menelao pari a un dio.
Diceva che lì, sostenuta una battaglia terribile,
vinse anche allora grazie alla magnanima Atena.15
Ma la performance più interessante – non foss'altro, perché è integralmente riprodotta – è
quella centrale: una storia giocata sul registro umoristico che ha come oggetto gli amori clandestini
di Ares e di Afrodite. La scelta del soggetto è stata – immancabilmente – argomento di dibattito:
forse vi si deve riconoscere un'eco di quel clima morale edonistico e gaudente che aleggia nel
mondo dei Feaci – ove certi fatti non destano scandalo, ma solo divertimento – se non addirittura un
riferimento (trasposto nelle forme maliziose della commedia) alla situazione itacese, anch'essa
toccata da un problema – questa volta molto serio – di onorabilità familiare. Tra Ares (il dio della
guerra: bello, forte, atletico, ma un po' fatuo) ed Afrodite (la dea dell'amore e della bellezza, molto
sensibile alle avances dei corteggiatori, soprattutto quando siano attraenti) è in corso – par di capire,
da tempo – una relazione adulterina. Il marito (Efesto, un dio rozzo e deforme, fisicamente poco
prestante, ma molto ingegnoso) ne viene a conoscenza – buon ultimo, come sempre accade in questi
casi – da Helios, che si presta a fare da spia. Dopo le prime reazioni di sdegno (Efesto minaccia di
rispedire la moglie infedele da Zeus, suo padre, e di richiedere indietro tutti i doni nuziali che a suo
tempo gli ha offerto per averla in moglie, quella «faccia di cagna»16), scatta la vendetta: una rete
solidissima e invisibile distesa attorno al letto nuziale intrappolerà i due amanti che, approfittando
di una (falsa) partenza di Efesto, si sono di nuovo dati convegno in casa sua. Lo spettacolo – una
vera “piazzata” – viene offerto agli dei, che non mancano di fare i loro commenti divertiti e
ammiccanti: le dee, per pudore, sono rimaste a casa. Tutto finisce in una risata, con Posidone che,
molto imbarazzato e preoccupato delle conseguenze, fa da mediatore per rimettere a posto le cose.
Va detto, per inciso, che non tutti gli uditori erano disposti ad accogliere con leggerezza storie come
questa: prima ancora che Platone vi appuntasse contro la sua critica moralistica17, anche altri
avevano già levato voci di disapprovazione18. Ma nel contesto in cui la storia è narrata non c'è
segno di reazioni risentite: solo gioia serpeggia tra il pubblico.
Questi fatti il cantore famoso cantava: e Odisseo
nell'animo suo gioiva, ascoltando, e gioivano gli altri
Feaci dai lunghi remi, navigatori famosi19.
Ma la gioia festosa non è l'unico sentimento con cui il pubblico accoglie il canto dell'aedo:
dove motivi personali non lo facciano diventare fonte di sofferenza (come nel caso di Odisseo e di
Penelope) vi si accompagna sempre uno stato d'animo vicino alla fascinazione ipnotica. È l'atto
stesso del raccontare che sollecita immancabilmente quella reazione, anche quando la voce narrante
non è quella dell'aedo e la performance si svolge in un ambiente inconsueto, come la capanna del
15 Od. VIII 499 sgg.
16 Od. VIII 319.
17 Plat. Resp. 390 a-c: «E quando Omero fa dire all'uomo più saggio [Odisseo] che gli sembra un piacere supremo
“avere accanto tavole piene / di cibo e di carne, e un coppiere che attingendo il vino / dal cratere lo porta e lo versa
nelle coppe” [Od. IX 8 sgg.] ti sembra opportuno che un giovane ascolti versi simili per diventare temperante? O
questi: “morire di fame è la morte più triste” [Od. XII 342]. O Zeus che veglia solo mentre gli altri dèi e gli uomini
dormono, e si dimentica facilmente di ogni progetto vinto dal desiderio d'amore, e guardando Era si eccita a tal
punto da desiderare di unirsi a lei lì per terra, dichiarando di essere preso dalla passione d'amore ancor più della
prima volta che si erano uniti all'insaputa dei loro genitori [Il. XIV 296]; e Ares e Afrodite incatenati da Efesto per
altri motivi simili [Od. VIII 266 sgg.]?». Trad. di G. Lozza, in Platone La Repubblica Milano (Mondadori) 1990,
pagg. 189 sgg.
18 Per esempio Senofane (VI sec. a. C.) fr. B 11 Diels-Kranz: «Tutte le cose agli dei attribuirono Omero ed Esiodo, /
quante tra gli uomini sono oltraggio e vituperio: / rubare, fornicare, l'un l'altro ingannare». Trad. di A. Lami.
19 Od. VIII 367 sgg.
guardiano dei porci Eumeo, che – ignorandone la vera identità – ha accolto Odisseo appena sbarcato
ad Itaca e al quale l'eroe ha intenzionalmente raccontato tante sue (false) avventure. Di fronte alla
regina Penelope Eumeo si esprime in questi termini:
Ah, se gli Achei, o regina tacessero!
Fa tali racconti: affascinerebbe il tuo cuore.
L'ho avuto tre notti e tenuto tre giorni
nella capanna – venne da me appena fuggì dalla nave –
ma non finì di narrare le proprie sventure.
Come un uomo fissa un aedo che canta,
istruito dai numi, racconti graditi ai mortali,
e quando canta essi bramano sempre ascoltarlo,
così costui mi incantava, seduto nella mia casa.20
Non è cosa priva di interesse che i ruoli di eroe e di aedo appaiano qui intercambiabili:
Odisseo racconta le sue avventure con la stessa abilità di un cantore scaltrito e induce in chi lo
ascolta le stesse emozioni di una vera performance aedica21. Non diversamente accade alla corte dei
Feaci, dove Odisseo incanta il suo pubblico con il racconto delle sue avventure (questa volta reali):
Disse così: immobili erano tutti, in silenzio;
da incantesimo erano presi nella sala ombrosa.22
Si capisce subito che l'insistenza sull'effetto ammaliante del canto non è casuale. Là dove se
ne parla esplicitamente, la terminologia usata rimanda alla dimensione della magia: una dimensione
normalmente scomparsa nell'epica matura, ma che occasionalmente riaffiora, soprattutto tra le
pieghe dell'Odissea (l'Iliade, anche per altri rispetti, appare più epurata: i suoi filtri sono più
severi23). Le parole khlhqmov" (kēlēthmós: “fascinazione, ammaliamento”) e qevlgw (thélgō:
“incantare”) fanno pensare a veri e propri termini tecnici: soprattutto il secondo allude a forme di
seduzione operata attraverso la vista, la parola, filtri magici (quelli di Circe, per esempio), lusinga
erotica (il canto delle Sirene). Si tratta forse di frasi fatte, in cui il significato primitivo delle parole
si è attenuato fino a diventare innocuo (come succede a noi, quando diciamo di una cosa che è
incantevole o affascinante)? Sicuramente no. Questa idea del canto che ammalia e sottrae il
pubblico alla coscienza di sé non si è mai veramente esaurita nella storia della cultura greca ed
implica, da parte nostra, la necessità di uno sforzo di comprensione: l'impatto emotivo del fenomeno
musicale sulla sensibilità dei Greci era, evidentemente, fortissimo e informò di sé la loro ricezione
di qualunque forma d'arte ricorresse al potere del suono e della parola (quindi anche del teatro: anzi,
del teatro a maggior ragione, perché nello spettacolo teatrale era coinvolta anche la componente
visiva). D'altra parte, non dobbiamo mai dimenticare che in una cultura orale (tale, in sostanza, la
cultura greca rimase fino a tutta l'età classica, nonostante la scrittura fosse rientrata nei suoi circuiti
a partire, verisimilmente, dall'VIII secolo a. C., se non addirittura prima: se da allora la
composizione dei testi avveniva ormai in forma scritta, la loro circolazione rimase rigorosamente
orale) gli effetti della parola detta sono assai più pervasivi di quanto non lo siano per noi e molto
più acuta la sensibilità dell'orecchio che ascolta. Quattro secoli dopo Omero, in un dialogo giovanile
ispirato all'arte dei rapsodi, Platone tornava a ribadire – con intenzioni polemiche – il potere
20 Od. XVII 513 sgg.
21 Nei poemi omerici questa intercambiabilità è unidirezionale: l'eroe può assumere le vesti del cantore, non viceversa.
In altre epopee, invece, la specularità è biunivoca.
22 Od. XI 333 sg.: Odisseo ha appena narrato degli eroi e delle eroine incontrate nel regno dei morti. La stessa coppia
di versi ricorre identica al principio del libro XIII (1 sg.), a commento dei fatti raccontati nel libro precedente:
l'avventura delle Sirene, di Scilla e Cariddi, del sacrilegio compiuto dai compagni a danno dei buoi sacri di Helios,
del naufragio e dell'approdo all'isola di Calipso.
23 Su questo aspetto si possono leggere pagine assai interessanti in Gilbert Murray The Rise of the Greek Epic Oxford
19344 (trad. ital. Le origini dell'epica greca Firenze 1964).
pericolosamente ammaliante del canto epico. Ione, protagonista insieme a Socrate del dialogo, è un
rapsodo professionista, un attore specializzato nella recitazione (e nell'esegesi) del testo omerico, al
quale Socrate cerca di carpire il segreto di tanta abilità. Come fate voi rapsodi – gli chiede – ad
impadronirvi dell'anima del vostro pubblico, a trascinarlo fuori di sé e a dargli l'illusione di essere
presente agli eventi che gli raccontate? E voi, non condividete forse anche voi la stessa illusione?
SOCRATE: Su, Ione, rispondi a questa domanda e non tenere per te quello che ti chiedo: quando
tu reciti così bene i tuoi versi e impressioni (ejkplhvxh/": ekplēxēis24) così vivamente il
pubblico, oppure quando canti di Odisseo che balza sulla soglia rivelandosi ai proci e sparge a
terra, davanti ai suoi piedi, le frecce; o di Achille che muove contro Ettore; o dei casi pietosi di
Andromaca, o di Ecuba, o di Priamo: ecco, in quel momento sei padrone del tuo spirito o sei
fuori di te e la tua anima, in stato di possessione divina (ejnqousiavzousa:
enthousiazousa25), ha l'impressione di essere presente alle vicende che racconti, quelle
vicende che si svolgono ad Itaca, o a Troia, o dove che sia?
IONE: Com'è chiara, o Socrate, la testimonianza che hai appena addotta! Sì, ti risponderò senza
nulla nascondere. Quando racconto qualcosa che suscita pietà, i miei occhi si riempiono di
lacrime; quando racconto qualcosa di spaventoso o di terribile, i capelli mi si rizzano sulla
testa ed il cuore mi balza in petto per la paura.
[…]
SOCRATE: Lo sai, vero? che lo stesso effetto lo fate sulla maggior parte del pubblico?
IONE: Certo che lo so! Perché ogni volta, dall'alto della tribuna li vedo piangere, guardare torvo,
spaventarsi con me alle vicende che racconto loro.26
L'intenzione di Socrate è dimostrare che quell'abilità attoriale – così come quella del poeta –
non risale ad una base tecnica, ma è frutto di uno stato psicologico (transitorio) in cui l'anima non è
padrona di sé e, straniata da ogni facoltà di controllo razionale, vive una condizione di possessione
divina (enthousiazousa). L'aspetto che a noi interessa di quel discorso è quello che riguarda le virtù
del canto: come faceva l'aedo omerico, anche Platone ricorre all'armamentario linguistico delle
pratiche magico-seduttive, e lo fa con il preciso – anche se qui sottinteso – obiettivo di denunciarne
la pericolosità. Ben più agguerrita ed organizzata sarà nella Repubblica la sua crociata contro la
poesia.
Ma torniamo ad Omero. Nell'accogliere come tipici i tratti della figura dell'aedo che
emergono da libro VIII dell'Odissea, occorre qualche cautela: ad una sana prudenza induce il
carattere favoloso dell'ambiente che ospita il cantore e la fisionomia decisamente ideale della
società che lo circonda: una società felice, prospera, ignara di conflitti esterni ed interni, che pratica
le arti della pace ed è dedita ad una vita piacevole e lussuosa. Non si può escludere a priori che in
questo clima paradisiaco anche il cantore abbia acquisito un rilievo un po' diverso da quello che
effettivamente gli era assegnato nella realtà: gli onori che gli vengono attribuiti (anche da Odisseo
che, nel banchetto serale, oltre a rivolgergli lodi assai lusinghiere, condivide con lui la parte
migliore delle carni offerte ai convitati) appaiono un po' sopra le righe, soprattutto se si confrontano
con la condizione meno privilegiata dell'altro aedo, Femio, che lavora in un ambiente decisamente
meno riguardoso ed è costretto a cantare per i proci contro la sua volontà. Di questa costrizione si
farà forte di fronte a Odisseo quando, al momento della strage, gli chiederà di aver salva la vita; e in
quel momento avrà bisogno di Telemaco come garante.
Tuttavia alcune conclusioni generali si possono dedurre con buona attendibilità. Cominciamo
ad esaminare i caratteri che collegano l'aedo alla dimensione sovrannaturale. Il primo che si impone
24 Il verbo ekplēssō significa “sconvolgere, indurre uno stato di profondo turbamento”.
25 Il verbo enthousiazō significa letteralmente “sentire il dio dentro di sé” e definisce uno stato relativamente vicino
alla possessione (trance).
26 Platone, Ione 535 b-e.
all'attenzione è il suo rapporto privilegiato con le Muse. Rivolgersi alla Musa nell'atto di iniziare il
canto è un gesto talmente comune nella tradizione epica da apparire scontato e non bisognoso di
ulteriori chiarimenti: ciò è senz'altro vero là dove esso è diventato prassi letteraria, luogo comune
sconfinante nella pura e semplice finzione. Quando Dante dice: «O Muse, o alto ingegno, or
m'aiutate; / o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate»27, nessuno crederà
che egli si sentisse davvero in debito con le divinità ispiratrici. Ma in una cultura orale, come era
quella di Omero, le cose stanno diversamente. Nella mitologia greca arcaica le Muse sono divinità
connesse con la dimensione della memoria. Figlie di Zeus, la loro madre è Mnēmosýnē: un nome
che significa “memoria”. Là dove non esiste la scrittura né, di conseguenza, la possibilità di fissare
durevolmente un contenuto qualunque (obblighi o divieti religiosi, norme sociali di comportamento,
saperi tecnici, genealogie, eventi storici significativi per l'assetto politico del presente ecc.), la
memoria rappresenta una risorsa imprescindibile: e lo è al punto da essere proiettata nella sfera del
sacro. Una società senza scrittura non può sopravvivere se non garantisce attraverso la memoria la
conservazione dei suoi contenuti essenziali: per l'aedo la Musa costituisce la garanzia di veridicità
di ciò che sta narrando. Non si tratta di vaga ispirazione di segno romantico: si tratta, piuttosto, di
un marchio di autenticità che viene impresso sulla storia narrata. “Ciò che vi racconto – sembra dire
l'aedo – è vero perché a fornirmene la materia sono le Muse”. Esse sono, dunque, la proiezione
religiosa della memoria storica. La parola acquista senso e rilievo in quanto viene da loro: sarebbe
parola vana ed effimera se non avesse la loro benedizione. È chiaro che l'accesso a quella
conoscenza garantita richiede una sorta di abilitazione esclusiva che non si concede a tutti: gli aedi
sono, in un certo senso, i depositari autorizzati della memoria del passato, così come gli indovini lo
sono del futuro. In quanto tali, in quanto, cioè, esplicano delle funzioni essenziali e irrinunciabili
per la sopravvivenza della società, essi hanno contatti qualificanti con la dimensione sacrale.
Con ciò si tocca un secondo tratto della figura dell'aedo che può apparire a prima vista curioso
e bizzarro: la sua cecità. Va da sé che non tutti i cantori erano ciechi: è, tuttavia, un fatto ricorrente
che la loro rappresentazione includa la cecità – una menomazione che, non a caso, essi condividono
con l'indovino. Demodoco, l'aedo per così dire ideale, è cieco. Cieco nell'immaginario degli antichi
era anche Omero: una falsa etimologia ne interpretava il nome come “il non vedente” (oJ mh;
oJrw'n). E cieco si dichiara l'autore dell'Inno ad Apollo, un lungo testo liturgico conservato, insieme
ad altri, in un corpus noto con il nome di “Inni omerici”28. Rivolgendosi alle fanciulle che hanno
appena intonato un canto in lode del dio, l'aedo dice:
Orsù! Che Apollo, insieme ad Artemide, sia a me benigno;
e a voi tutte, salute! E di me anche in avvenire
ricordatevi, quando uno degli uomini che vivono sulla terra,
qui giungendo, straniero che molto ha sofferto, vi chiederà:
«O fanciulle, quale tra gli aedi che frequentano questo luogo
è per voi il più dolce, quello che più degli altri vi dà gioia?».
Allora voi, tutte quante, rispondete indicando me:
«È un cieco ed abita nell'aspra Chio:
tutti i suoi canti saranno per sempre i più belli»29.
Non è difficile riconoscere in questo tratto ricorrente il segno della ritualità. Si tratta di una di
quelle menomazioni fisiche che Georges Dumézil, storico delle religioni comparate, ha definito
“mutilazioni qualificanti”30: il personaggio in questione viene privato di una facoltà fisica per essere
abilitato ad una funzione superiore. L'antichità di questa matrice è garantita dall'occorrenza della
27 Dante, Inferno II 7 sgg.
28 Si tratta di una silloge di 33 testi molto diseguali nelle dimensioni, che hanno in comune la lingua, il metro ed il
contenuto (le gesta degli dei, sviluppate però solo in alcuni di essi: gli altri si riducono ad una invocazione e ad un
congedo che contiene le richieste fatte al dio).
29 Hom. Hymn. Ap. 165 sgg.
30 Georges Dumézil Mythe et epopee I Paris 1968. Trad. ital. Mito e epopea. La terra alleviata Torino (Einaudi)
1982, pag. 134.
stessa caratteristica anche in altre mitologie indoeuropee31.
A fronte di queste linee che definiscono lo statuto divino dell'aedo stanno altri tratti che
rinviano alla sua dimensione tecnico-professionale. In un passo famoso dell'Odissea (XVII 380 sgg)
l'aedo condivide con l'indovino, il medico ed il carpentiere la qualifica di dēmioergós: la parola
significa “colui che lavora per il dēmos”, per la collettività. Nessuno – obietta il porcaro Eumeo ad
Antinoo, il capo dei proci che gli rimprovera di aver condotto a palazzo un pezzente (Odisseo
travestito) – andrebbe «a chiamare un estraneo da un luogo, / un altro da un altro, se non tra coloro
che sono artigiani [dēmioergói]; / un indovino od un medico od un falegname, / o anche un cantore
ispirato, che rallegri cantando». Il cantore, dunque, non è diverso da altri professionisti che mettono
a disposizione del dēmos la loro abilità: una figura affrancata dal gruppo familiare e funzionalmente
legata alla sfera del pubblico. Anche se la rappresentazione omerica di fatto lo smentisce, se ne
potrebbe indurre la condizione itinerante, del tutto ovvia e naturale per i suoi colleghi.
L'accostamento non è casuale: l'aedo rappresenta, come l'indovino, la memoria del gruppo sociale;
risana, come fa il medico (residuo, forse, di un'antica concezione magica del canto,
sostanzialmente scomparsa dall'epica greca, per vocazione razionalizzante); costruisce, come fa il
carpentiere. Quando il cantore parla di sé (come fa Femio) o altri parlano di lui, è immancabile
l'allusione ad un apprendistato; ed anche se la figura del maestro rimane sempre fuori campo o è
mal definita, la sua esistenza è fuori discussione. L'arte dell'aedo la si impara sempre da qualcuno.
È pur vero che la materia del canto proviene da ispirazione divina: ma la scienza del costruire il
racconto è abilità tutta umana, frutto di faticoso apprendimento. Capire in che cosa consista questa
tecnica costruttiva ci porta a riesaminare più da vicino un complesso di questioni che abbiamo già
toccato di sfuggita e che hanno a che fare con la gestione di un vasto patrimonio formulare messo a
punto e collaudato dalla tradizione. Le metteremo a fuoco nella prossima lezione.
Bibliografia
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Moses I. Finley The World of Odysseus New York 19673 (trad. ital.: Il mondo di Odisseo
Bari 1978)
Eric A. Havelock Preface to Plato Cambridge (Mass.) 1963 (trad. ital.: Cultura orale e
civiltà della scrittura Bari 1973)
Gilbert Murray The Rise of the Greek Epic Oxford 19344 (trad. ital.: Le origini dell'epica
greca Firenze 1964)
Luigi Enrico Rossi I poemi omerici come testimonianza di poesia orale in “Storia e civiltà
dei Greci”, Milano (Bompiani) 1978, vol. I pagg. 73-147
Cecil M. Bowra Heroic Poetry London 1952 (trad. ital.: Poesia eroica Firenze 1979)
Charles R. Beye Ancient Greek Literature and Society New York 1975 (trad. ital.:
Letteratura e pubblico nella Grecia antica Bari 1979)
Francesco Bertolini Il palazzo: l'epica in “Lo spazio letterario della Grecia antica” Roma
1992, vol. I pagg. 109-141
31 Nella mitologia scandinava, ad esempio, il dio Odinn ha rinunciato ad uno dei suoi occhi per acquisire l'onniscienza.
Chi conosce il Ring des Nibelungen di Wagner saprà che il dio Wotan, garante dei patti, è rappresentato con un
grosso cappello che gli copre metà del viso, per essere egli orbo da un occhio.