Lezione del 16 febbraio. La tecnica formulare

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Lezione del 16 febbraio. La tecnica formulare
Lezione del 16 febbraio 2012: la tecnica formulare
La valorizzazione critica del carattere formulare del racconto omerico – anche sul piano del
metodo di indagine – la si deve a Milman Parry. Americano di nascita (Oakland 1902), allievo alla
Sorbona di Parigi di Antoine Meillet, poi professore alla Harvard University, già a partire dalla sua
tesi di dottorato pubblicata a Parigi nel 19281 indirizzò le sue ricerche allo studio sistematico della
struttura del verso epico, raccogliendo intuizioni e conclusioni provvisorie avanzate già prima di lui,
ma imprimendo al suo lavoro un marchio di assoluta originalità che ancora oggi, a quasi ottant'anni
dalla sua morte, resta incontestabile. La sua bibliografia – purtroppo non vastissima, a causa della
sua scomparsa prematura avvenuta nel 1935 per un tragico incidente di caccia – è stata raccolta dal
figlio Adam nel volume The Making of Homeric Verse. The Collected Papers of Milman Parry
pubblicato ad Oxford nel 1971. Resta, tuttavia, il fatto che l'impostazione dichiaratamente
antropologica che Parry diede al problema omerico ha determinato la nascita di una scuola che ha
ormai al suo attivo nomi e contributi importanti.
La tesi parigina del 1928 prendeva le mosse dalla definizione del concetto di formula e, nello
specifico, dalla messa a fuoco dell'uso dell'epiteto epico. Lavori successivi a quelli di Parry hanno
sensibilmente corretto alcune rigidità dell'impostazione di partenza, ma la sostanza della tesi
parryana resta valida: costituisce formula “un'espressione regolarmente usata nelle stesse condizioni
metriche per esprimere un'idea essenziale”. Ciò significa che, per acquisire i connotati di formula,
un'espressione deve ricorrere almeno due volte nell'intero racconto epico (Iliade e Odissea messe
assieme: ma le occorrenze delle formule più usuali sono molto più numerose); che la posizione
della formula nel verso è sempre la stessa (assioma, questo, che la critica più recente ha contestato);
che tendono ad essere espressi formularmente i gesti e le situazioni più comuni della vita della
società eroica (come, ad esempio, l'atto del prendere la parola, quello del rispondere, quello del
rallegrarsi, quello del rabbrividire, del sorridere, del sedersi ecc.).
L'abbinamento nome-epiteto rappresenta un tipo particolare di formula. Come è noto, rientra
nelle convenzioni espressive dell'epica quella di dotare i nomi (siano essi i nomi propri degli eroi o
quelli comuni che designano oggetti) di attributi tipici: così, per esempio, il nome di Achille sarà
sempre determinato da un'espansione aggettivale, o generica (come “luminoso”, attribuibile anche
ad altri eroi) o sua peculiare ed esclusiva (come il patronimico “Pelide” o la qualifica di “piè
veloce”); Odisseo sarà, di volta in volta, “luminoso” o “paziente” o “divino” o “astuto”; una nave
può essere “veloce”, oppure “agile nella virata”, oppure “nera”, oppure “dalle guance rosse” (con
allusione alla consuetudine di dipingerne di rosso la prora).
Una volta ricostruito il quadro d'insieme del sistema di epiteti (un sistema molto esteso, ma
assolutamente economico), si imponevano alcune conclusioni sicure:
a) l'uso dell'epiteto non risponde necessariamente a criteri di pertinenza contestuale: le navi
possono esser dette “veloci” anche quando stanno ferme; Diomede può essere presentato come
“valido nel grido di guerra” anche quando tace. Vi sono, poi, occorrenze per così dire scandalose
(tali sono agli occhi di un lettore moderno, abituato ad un uso più realistico degli aggettivi), la cui
attendibilità, almeno sul piano della verisimiglianza, è del tutto indifendibile: è il caso della formula
“pastore di popoli”, pertinente di per sé a personaggi regali, che nell'Odissea viene talvolta
assegnata ad Eumeo, il guardiano dei porci (!); o quello dell'appellativo “irreprensibile” di cui è
gratificato Egisto in Od. I 29, in un contesto in cui vengono denunciate le sue colpe di adultero e di
assassino. Parry ne deduceva l'idea che il pubblico (e, ovviamente, anche l'aedo) fossero per
principio indifferenti alla pertinenza dell'epiteto: che esso fosse ben contestualizzato o
clamorosamente fuori posto, ciò non rientrava nelle attese dell'uditorio. Valeva come conferma di
questa ipotesi il fatto che di alcuni epiteti molto antichi (Parry li chiamava “glosse”) si fosse
completamente perduto il significato e che ciò non impedisse all'aedo di continuare ad usarli, in
1 Milman Parry L'épithète traditionnelle dans Homère Paris 1928.
ossequio ad una tradizione che li aveva consacrati a quella funzione: parole che né il cantore né il
pubblico comprendevano più e che nessuno si sarebbe azzardato, solo per questo, a rimuovere dal
repertorio formulare. La cosa importante era che l'epiteto ci fosse: rappresentava un dettaglio, tutto
sommato, poco significativo che esso fosse pertinente o, addirittura, comprensibile. Scopriremo
poco più avanti da che cosa fosse effettivamente determinata la scelta dell'epiteto nelle diverse
occasioni.
b) l'epiteto è elemento tradizionale e non lascia alcun margine alla libera creatività del
cantore: la tradizione lo ha lentamente cristallizzato in forme e combinazioni che tendenzialmente
resistono, per forza di inerzia, ad ogni logica innovativa. L'eventuale innovazione tende, a sua volta,
a diventare tradizionale ed a stabilizzarsi. Ciò determina una sostanziale uniformità di dettato tra
aedi che lavorano l'uno indipendentemente dall'altro (ma che attingono alla medesima tradizione) e
non consente, in linea generale, di distinguere su questo piano singole personalità poetiche2. La
forza coesiva di questo repertorio tradizionale è talmente forte che anche quegli epiteti –
particolarmente antichi – di cui si è oscurato il significato (le glosse) non cessano per questo di
essere usati.
L'uso degli epiteti è già un esempio molto chiaro di come la lingua epica partecipi a pieno
titolo di quella logica aggregativa che presiede all'espressione linguistica delle culture orali3: gli
elementi di base di cui si costituisce il discorso non sono parole singole, ma piccoli sistemi di
parole, organismi prefabbricati e collaudati da secoli di tradizione aedica, perfettamente funzionali
alla costruzione del verso, di cui occupano porzioni definite, pronti per essere combinati – con
minimi aggiustamenti – tra di loro. Il principio costruttivo è, appunto, di tipo combinatorio: l'abile
gestione del materiale formulare disponibile consente al cantore ben addestrato di comporre versi in
tempi assai contenuti, fino al limite della composition in performance (composizione
estemporanea). Parry mostrò sempre grande attenzione a questo particolare aspetto della
performance epica ed il rilievo che esso assunse nei suoi studi non mancò, forse, di determinare
qualche eccesso. Quando ebbe chiara l'idea che la struttura formulare del dettato omerico era in
relazione diretta e necessaria con la natura orale della tradizione aedica, orientò le sue indagini ad
una verifica sperimentale della tesi così brillantemente intuita. Il materiale narrativo raccolto (e
inciso su nastro magnetico) dalla viva voce dei guslar serbi illetterati che ancora perpetravano, in
epoca moderna, la prassi compositiva del canto epico, recò ampia testimonianza non solo dell'abilità
improvvisativa di quei cantori, ma anche delle analogie inconfutabili che intercorrevano, sul piano
della tecnica narrativa (formularità compresa, a tutti i livelli possibili), fra quelle storie ed i racconti
dell'epica arcaica greca. A dare forma più sistematica a questa modalità di indagine fu Albert B.
Lord, assistente di Parry all'epoca della campagna serba e poi suo continuatore: il volume The
Singer of Tales edito ad Oxford nel 1971 segna, a questo proposito, una pietra miliare.
Ma esiste un secondo livello formulare: quello che riguarda la rappresentazione delle azioni e
dei gesti comuni che costellano la vita quotidiana della società eroica. Quando un personaggio si
alza in assemblea per prendere la parola, o si siede dopo che ha finito di parlare, o risponde ad un
interlocutore, o sorride o piange o medita sul da farsi – tutte cose che gli capita spesso di fare: a lui,
come a tutti gli altri – questi suoi gesti non vengono ogni volta rappresentati in forma diversa: c'è
2 Da questo non deve trarsi l'impressione che le recite aediche fossero uniformi e ripetitive. Anche se il repertorio
formulare rimaneva sostanzialmente sempre lo stesso, c'erano altre variabili che garantivano, di volta in volta, il
rinnovamento dell'interesse del pubblico: il modo di costruire la storia – di cui tutti conoscevano l'intreccio di base –
lasciava margini di libertà all'estro narrativo del cantore che, d'altra parte, non riproduceva mai testualmente lo
stesso canto da un'occasione all'altra (la memorizzazione testuale parola per parola è una prassi impensabile nel
contesto dell'oralità ed è tipica, piuttosto, delle civiltà alfabetizzate). Non va, poi, dimenticata la forte empatia
emotiva che legava il pubblico al cantore: le attese dell'uditorio, i messaggi più o meno espliciti inviati all'aedo
attraverso i gesti, le espressioni, la stessa concentrazione dell'attenzione consentivano un feed back assai dinamico
che incideva sugli orientamenti e sulle forme della performance.
3 Cfr. lezione del 26 gennaio 2012.
una sorta di ritualità nei suoi comportamenti tipici che si traduce, sul piano linguistico-narrativo, in
un'analoga fissità di espressione. Ecco alcuni esempi di formule verbali:
to;n d∆ hjmeivbet∆ e[peita
aujta;r oJ mermhvrixe
aujta;r oJ bh' dia; dw'ma
aujta;r oJ pi'ne kai; h\sqe
aujta;r oJ devxato ceiriv
w{" oJ me;n e[nqa kaqeu'de
w{" favto, rJivghsen dev
w{" favto, ghvqhsen dev
w{" favto, meivdhsen dev
smerdalevon d∆ ejbovhse
quindi gli rispose
quindi rimase indeciso
quindi attraversò la sala
quindi egli beveva e mangiava
quindi egli l'accolse con la mano
così egli si sedette
così disse e rabbrividì
così disse e si rallegrò
così disse e sorrise
un grido terribile lanciò
Anche se la traduzione non può darne la giusta percezione, tutte le espressioni ora citate
hanno esattamente la stessa misura: arrivano, cioè, ad occupare la zona iniziale del verso
precisamente fino allo stesso punto. Nella parte residua è tipicamente collocato il nome del
personaggio che compie quegli atti, accompagnato dall'epiteto opportuno, ossia della misura giusta
per completare correttamente il verso. Così, per esempio:
to;n d∆ hjmeivbet∆ e[peita ⁄⁄ poluvtla" di'o" jOdusseuv"
quindi gli rispose
⁄⁄ il paziente luminoso Odisseo
Se il personaggio che risponde è un altro, non si ha che da sostituire la formula nome-epiteto
con quella corrispondente al nuovo attore:
to;n d∆ hjmeivbet∆ e[peita ⁄⁄ boh;n ajgaqo;" Diomhvdh"
quindi gli rispose
⁄⁄ Diomede forte nel grido di guerra
Esistono, d'altra parte, versi interamente formulari, come quello che rievoca il sorgere
dell'aurora:
h\mo" d∆ hjrigevneia favnh rJododavktulo" jHwv"
quando, figlia del mattino, apparve Aurora dalle dita di rosa
o quello che dipinge il tramonto:
h\mo" d∆ hjevlio" katevdu kai; ejpi; knevfa" h\lqe
quando il sole scese giù e sopraggiunse la tenebra
Ogni volta che sorge l'aurora o il sole tramonta, i versi chiamati a rappresentare l'evento sono
immancabilmente quelli.
Vi è, infine, un terzo livello di formularità che coinvolge porzioni più ampie di testo e che
riguarda la sostanza tematica del racconto epico. Lo studio di questo aspetto specifico del canto
aedico è stato condotto dagli allievi di Parry, in modo particolare da Walter Arend4: il campo
indagato è quello delle cosiddette scene tipiche. L'assemblea, il banchetto, il sacrificio, il duello, il
bagno ecc. sono situazioni che lungo l'azione si replicano spesso: per rappresentarle, il repertorio
formulare mette a disposizione blocchi di versi standard, passibili di essere ampliati o ristretti a
seconda dell'opportunità contestuale o del rango dell'eroe che via via vi è coinvolto. Nel III libro
dell'Iliade, in seguito ad un sogno (ingannatore) inviato da Zeus ad Agamennone, i capi Achei
decidono di sferrare l'ultimo attacco alla città di Troia, ormai certi che gli dei hanno preso partito di
4 Walter Arend Die typische Scenen bei Homer Berlin 1933.
appoggiare una volta per tutte la loro causa. Ma durante la manovra di avvicinamento dei due
eserciti Paride, incautamente sicuro del fatto suo e +++spaccone+++++, sfida a duello tutti i
campioni achei: salvo ritrarsi sbigottito, quando vede che la sua sfida è stata raccolta dal temibile
Menelao “caro ad Ares”, lo sposo di Elena da lui rapita. Solo de durissime parole del fratello Ettore,
che gli rinfaccia la sua vigliaccheria, lo inducono a fermarsi e ad affrontare l'avversario. Per comune
accordo tra Achei e Troiani, sancito e ratificato solennemente da giuramento e sacrificio, il duello
deciderà delle sorti della guerra. Inizia così il rito della monomachia, il cui momento iniziale è
costituito dalla vestizione dell'eroe:
Gli altri allora sedettero in file, e vicino a ciascuno
stavano i cavalli zampe irrequiete e l'armi dipinte;
ma sulle spalle vestì l'armi belle
il glorioso Alessandro5, sposo d'Elena bella chioma.
Prima intorno alle gambe si mise le gambiere
belle, munite d'argentei copricaviglia
e poi intorno al petto indossò la corazza
del suo fratello Licàone: gli andava appunto bene;
s'appese alle spalle la spada a borchie d'argento,
bronzea, e poi lo scudo grande e pesante;
sopra la testa fiera pose un elmo robusto,
con coda equina: tremendo sopra ondeggiava il pennacchio;
pigliò una lancia forte, che s'adattava alla mano.6
Nonostante la solennità dei preparativi, il duello si concluderà con un nulla di fatto: Menelao,
irritato dal favore che gli dei sembrano riserbare al bellimbusto suo avversario (il primo colpo di
lancia, che a lui spetta di diritto come parte offesa, lo ha miracolosamente mancato; e vano è anche
il terribile fendente di spada che gli vibra sul frontale dell'elmo: l'arma, infranta in tre o quattro
pezzi, gli cade di mano) lo afferra per “l'elmo chiomato” e lo trascina con violenza, mentre il
sottogola rischia di strangolarlo. Solo l'intervento di Afrodite lo sottrae a morte sicura e lo
restituisce mollemente alle braccia di Elena, riluttante questa volta – per pudore – a concedersi a lui.
Molto più avanti, nel libro XVI, sarà la volta di Patroclo, il compagno fedele di Achille.
Preoccupato per le difficoltà in cui versa l'armata achea, da tempo priva del suo guerriero più forte,
egli scongiura l'amico di lasciargli indossare le sue armi e di rientrare in combattimento al posto
suo, in modo che i Troiani, spaventati dalla sua (falsa) ricomparsa, arretrino di nuovo. Si ripete,
dunque, il rito della vestizione:
Prima intorno alle gambe si mise gli schinieri7
belli, muniti d'argentei copricaviglia;
poi intorno al petto vestì la corazza
a vivi colori, stellata, dell'Eacide8 piede rapido.
S'appese alle spalle la spada a borchie d'argento,
bronzea, e lo scudo grande e pesante;
sulla testa gagliarda pose l'elmo robusto,
con coda equina; tremendo sopra ondeggiava il pennacchio.
Prese due forti lance che s'adattavano alla sua mano;
ma non prese l'asta dell'Eacide perfetto,
grande, pesante, solida; nessuno dei Danai poteva
brandirla, solo Achille a brandirla valeva,
faggio del Pelio9, che Chirone10 aveva donato al suo padre,
5 Alessandro è altro nome di Paride.
6 Il. III 326 sgg. Trad. di Rosa Calzecchi Onesti.
7 Nonostante la traduttrice abbia usato qui una parola diversa (schinieri invece che gambiere), il verso greco è
identico a Il. III 330.
8 sc. Achille.
9 Monte della Tessaglia, la patria di Achille.
dalla cima del Pelio, per dar morte ai guerrieri.11
Come si vede, salvo pochi dettagli pertinenti alla corazza (che non è una corazza qualunque,
perché appartiene ad un guerriero di primo piano come Achille; così come nel passo precedente si
trattava di quella di Licàone) e all'asta (di cui si traccia rapidamente la storia), l'impianto della scena
è identico a quello della vestizione di Paride.
Se il rango dell'eroe è particolarmente elevato e le sue armi hanno una storia epicamente
interessante, lo schema può ulteriormente arricchirsi, mantenendo, però, inalterato lo standard di
base. Il libro XI dell'Iliade è tutto incentrato sulle gesta di Agamennone: esso rappresenta, cioè –
come si dice con termine epico – la sua aristìa. Ad ogni eroe importante ne è riserbata una: scandita,
come è facile immaginare, secondo fasi ben codificate, l'aristìa costituisce, forse, la forma più
ampia di struttura formulare e consiste nel racconto dettagliato delle gesta dell'eroe, quando i
riflettori sono puntati unicamente su di lui. Il primo atto è, naturalmente, la vestizione:
E l'Atride12 gridò, invitò a cirger l'armi
gli Argivi; ed egli stesso vestì il bronzo accecante.
Prima intorno alle gambe si mise le gambiere
belle, munite d'argentei copricaviglia;
e poi intorno a petto indossò la corazza,
quella che Cinira un giorno gli diede per dono ospitale;
gran nuova a Cipro aveva saputo: gli Achei
stavano per navigare sopra le navi a Troia;
e allora gliela offerse per esser grato al re.
V'erano dieci strisce di smalto nerastro,
e dodici d'oro e venti di stagno;
su verso il collo balzavano draghi di smalto,
tre da ogni parte, simili agli arcobaleni che il figlio di Crono
assicura a una nuvola, presagio ai mortali.
Gettò poi la spada intorno alle spalle: borchie
d'oro vi lucevano, e il fodero intorno
era d'argento, sospeso a ganci d'oro;
e sollevò lo scudo grande, adorno, robusto,
bellissimo; correvano in giro dieci cerchi di bronzo
e in mezzo v'erano venti borchie di stagno,
bianche, nel centro una di smalto nerastro;
faceva corona allo scudo la Gorgone, tremenda visione,
che torvo guarda: intorno a lei Terrore e Disfatta.
Il balteo era d'argento e sopra di esso
strisciava un serpente di smalto e aveva tre teste
tutte intrecciate, uscenti da un collo solo.
In testa l'elmo si pose a due cimieri, e quattro ali
e coda equina; terribilmente sopra ondeggiava il pennacchio.
Prese infine due aste forti, con le punte di bronzo,
acute; il bronzo da quelle mandava lampi al cielo
lontano. E Atena ed Era fecero udire un tuono
per onorare il re di Micene ricca d'oro.13
10
11
12
13
Il centauro che si sarebbe presa la cura di educare anche Achille alla vita eroica.
Il. XVI 131 sgg. Trad. di Rosa Calzecchi Onesti.
sc. Agamennone, figlio di Atreo.
Il. XI 15 sgg. Trad. di Rosa Calzecchi Onesti. Non è sicuro a che cosa si debba ascrivere tanta precisione di dettaglio
descrittivo nella rappresentazione di questi oggetti, scomparsi ormai dalla circolazione da diversi secoli al momento
in cui l'Iliade prendeva forma. Verrebbe fatto di pensare che chi li poteva descrivere così bene li avesse visti da
qualche parte: e non si può escludere che, trattandosi di oggetti preziosi, si trovassero ancora in qualche santuario o
nel tesoro di qualche famiglia aristocratica, come cimeli gelosamente custoditi a testimonianza di fasti passati. Ma il
fatto non è dimostrabile: tutto sommato, conviene supporre che alla conservazione della loro memoria avesse
Questa tendenza alla ripetizione è costitutiva del codice narrativo dell'epica e non è – come un
lettore moderno potrebbe pensare – sintomo di scarsa fantasia poetica: essa rientra piuttosto nei
canoni espressivi tipici delle culture orali14. La critica analitica dell'ottocento fraintese
clamorosamente questo aspetto del dettato omerico, identificandolo come il prodotto di
interpolazioni operate da aedi maldestri che, nel tentativo di arricchire un passo del racconto con
nuovo materiale narrativo, non avrebbero trovato di meglio che saccheggiarne altri. Nel dare questa
interpretazione delle frequenti ripetizioni i filologi analitici commettevano, evidentemente, l'errore
di applicare al testo omerico criteri estranei alla logica espressiva della poesia orale e pertinenti,
piuttosto, alle dinamiche compositive del testo scritto: e ciò nonostante il fatto che il padre
fondatore15 di quel metodo critico avesse esplicitamente richiamato l'attenzione sul carattere orale
della cultura che produsse i due poemi. Sarebbe spettato all'indagine antropologica – allora ancora
di là da venire – il merito di mettere correttamente a fuoco la reale psicodinamica dell'oralità. La
ridondanza non è, in effetti, che uno dei tanti atteggiamenti della formularità ed è raccoglibile
dovunque, anche dove il lettore moderno non se l'aspetta. Chi, nel mondo dell'epica, affida a
qualcuno un messaggio importante dà per scontato che le sue parole – ché di parole si tratta, non di
messaggio scritto – vengano fedelmente riferite al destinatario: ciò che il messaggero puntualmente
fa e, d'accordo con lui, anche il narratore. Quando Zeus – che ha preso accordi con Teti, la madre di
Achille, per assicurare all'eroe la giusta vendetta dell'affronto subito – decide di ingannare
Agamennone e indurlo ad un passo falso, convoca un “sogno cattivo”e gli affida una missione:
E gli parlò, gli disse parole fuggenti:
«Muoviti e va', Sogno cattivo, alle navi degli Achei;
entrato nella tenda d'Agamennone Atride,
tutto, con grande esattezza, annunciagli, come comando:
digli d'armare gli Achei dai lunghi capelli
in tutta fretta; ora potrà prendere l'ampia città
dei Troiani; d'essa coloro ch'hanno le sedi olimpie,
gli eterni, non discutono più; tutti ha piegato
Era pregando, e ai Troiani è seguito malanno».16
Il sogno esegue l'ordine e riferisce parola per parola il messaggio di Zeus:
Giunse rapidamente alle navi veloci degli Achei,
andò in cerca dell'Atride Agamennone e lo trovò
che nella tenda dormiva: il sonno ambrosio era diffuso intorno.
Gli stette sopra la testa, simile al figlio di Neleo,
Nestore, che tra gli anziani Agamennone onorava moltissimo;
a lui somigliando il Sogno cattivo parlò:
«Tu dormi, o figlio del saggio Atreo domatore di cavalli,
ma non bisogna che dorma per tutta la notte un eroe consigliere,
cui è confidato l'esercito, ha cura di cose sí gravi.
Ora comprendimi subito: ti son messaggero di Zeus,
il quale di te, pur lontano, molto ha pensiero e pietà:
t'ordina dunque d'armare gli Achei dai lunghi capelli
in tutta fretta; ora potrai prendere l'ampia città
dei Troiani, d'essa coloro ch'hanno le sedi olimpie,
gli eterni, non discutono più, tutti ha piegato
Era pregando, e ai Troiani è seguito malanno
da Zeus; ma tu questo conserva in cuore, oblio non ti
colga, quando ti lascerà il dolce sonno».17
provveduto la continuità della tradizione epica.
14 Cfr. lezione del 26 gennaio 2012.
15 Friedrich August Wolf Prolegomena ad Homerum Halle 1795.
16 Il. II 7 sgg. Trad. di Rosa Calzecchi Onesti.
Ad un narratore moderno sarebbe bastato informare il lettore che il messaggero riferì puntualmente
il messaggio, senza sentirsi obbligato a ripeterlo testualmente.
La struttura del verso epico.
Il meccanismo formulare è strettamente connesso (anzi, funzionale) alla struttura del verso
epico. Per chi intende addentrarsi un po' nella questione, faccio seguire qui sotto alcune
considerazioni sulle dinamiche della versificazione greca (omerica, nella fattispecie).
Il sistema vocalico greco (come, d'altra parte, quello di tutte le lingue antiche di ascendenza
indoeuropea: latino, sanscrito ecc.) è tale da assegnare grande importanza al tempo di durata
(quantità) delle vocali, distinte tra brevi (k) e lunghe (l). La distinzione è ancora operante e
funzionale in diverse lingue moderne. La parola francese maître (“maestro, padrone”), ad esempio,
richiede una pronuncia con la e radicale lunga ed aperta (pr. mētrǝ), mentre la parola mettre
(“mettere”) la richiede breve (pr. mĕtrǝ): le due voci, ben differenziate nella grafia, sono distinte
nella pronuncia solo dalla diversa durata della vocale radicale. Lo stesso vale per l'inglese: to sleep
(“dormire”: pr. sli:p con la vocale lunga) contro to slip (“scivolare”: pr. slıp con la vocale breve). Il
tedesco Heer (“esercito”) richiede la pronuncia lunga della e, contro Herr (“signore”) che la
richiede breve. Nell'italiano moderno la differenza è rimasta, almeno sul piano della meccanica
della pronuncia; ma, destituita di ogni significato fonetico o grammaticale, non è più percepita se
non con uno sforzo mirato dell'attenzione. La e del sostantivo sete è indubbiamente più lunga, nel
tempo di pronuncia, della e di secco: ma solo con un atto riflesso (non spontaneo) dell'attenzione è
possibile cogliere la differenza. Altri esempi: sale (a lunga) vs. santo (a breve); sugo (u lunga) vs.
succo (u breve); pomo (o lunga) vs. pollo (o breve). Nelle lingue greca e latina, invece,
l'opposizione della quantità vocalica ha un ruolo fondamentale, anche nelle dinamiche grammaticali
(e non solo in quelle): cfr. ad esempio le voci latine lĕgit (con la e breve: “egli raccoglie”) e lēgit
(con la e lunga: “egli raccolse”); oppure lĕvis (“lieve, leggero”) e lēvis (“liscio, levigato”: qui la
diversa quantità marca una differenziazione lessicale). Tutto questo comportava che le sillabe
componenti una data parola venissero prontamente percepite tutte quante come dotate di una loro
specifica quantità: o brevi o lunghe18. E dato che la differenza quantitativa era importante ai fini
della grammatica e del lessico, l'orecchio antico era particolarmente sensibile ad avvertirla. Così, il
nome di Odisseo ( jOdusseuv", Odysseus) dava luogo, nella percezione acustica, alla sequenza kll;
quello di Agamennone ( jAgamevmnwn, Agamemnon) alla sequenza kkll; quello di Ettore ( {Ektwr,
Hector) alla sequenza ll; la formula che qualifica spesso il “mare” (polufloivsboio qalavssh",
polyphloisboio thalassēs: “del mare fragoroso”) suonava quantitativamente klllkkll.
Anche l'andamento ritmico del verso greco era legato a questa dinamica quantitativa. Se un
orecchio moderno percepisce il passo ritmico, poniamo, di un decasillabo nella regolarità della
cadenza accentuativa:
s'ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d'ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.19
(sedi accentate: 3a, 6a e 9a sillaba)
(sedi accentate: 3a, 6a e 9a sillaba)
(sedi accentate: 3a, 6a e 9a sillaba)
(sedi accentate: 3a, 6a e 9a sillaba)
quello antico si affidava, invece, alla regolarità delle sequenze quantitative. Un esempio latino. Il
verso che apre il carme XXX di Catullo, dedicato ad Alfeno, un tempo amico del poeta, ora sordo
alle sue invocazioni disperate, suona così:
Alphene, immemor atque unanimis false sodalibus
17 Il. II 17 sgg. Trad. di Rosa Calzecchi Onesti.
18 A rigore, bisognerebbe distinguere la quantità delle vocali dalla quantità delle sillabe. Questa distinzione, tuttavia,
per quanto doverosa in sede scientifica, non è qui strettamente necessaria.
19 A. Manzoni Il conte di Carmagnola, Coro dell'atto II
(“Alfeno, immemore e falso con gli amici che dividevano con te il loro cuore”). La lettura pura e
semplice (non metricamente impostata) di quella sequenza di parole può non suggerire nulla, quanto
ad effetto ritmico, al lettore moderno: il lettore antico, invece, il cui orecchio era programmato a
questo, avvertiva subito qualcosa di regolare nella successione delle quantità sillabiche:
ll lkkl lkkl lkkl kl
ed era quella regolarità che gli faceva riconoscere quel verso (quello e non altri possibili). Allo
stesso modo, il verso:
Phaselus ille quem videtis hospites20
(“quel vascello che vedete, ospiti”) si imponeva come tale in virtù della uniformità della sequenza
quantitativa:
kl kl kl kl kl kl
Assodato questo, possiamo accostarci al verso epico. Il suo schema prosodico-ritmico21 è il
seguente:
Ay By Fy Gy Jy Ku
Si tratta di una sequenza (abbastanza lunga, rispetto ad altri modelli possibili) di sei elementi
(numerati nello schema): nella terminologia scolastica si suole chiamarli piedi. Ognuno di essi è
costituito, a sua volta, di due parti distinte: un longum (l) realizzato sempre da una sillaba lunga ed
un biceps22, che può, di volta in volta, assumere forma monosillabica (l) o bisillabica (kk)23. Nella
grafia ly sono indicate sinteticamente le due forme possibili del biceps. Nel sesto piede il biceps è
sempre monosillabico ed è indifferente alla quantità24 (può essere liberamente breve o lungo: u).
Giocando sulla pur limitata variabilità del biceps l'aedo può costruire numerose forme diverse di
esametro. A puro titolo di esempio, i primi cinque versi dell'Iliade
mh'nin a[eide, qea;, Phlhi>avdew jAcilh'o"
oujlomevnhn, h} muriv∆ jAcaioi''" a[lge∆ e[qhke,
polla;" d∆ ijfqivmou" yuca;" [Ai>di proi>vayen
hJrwvwn, aujtou;" de; eJlwvria teu'ce kuvnessin
oijwnoi'si te pa'si, Dio;" d∆ ejteleiveto boulhv
Canta, o dea, l'ira d'Achille Pelide,
rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei,
gettò in preda all'Ade molte vite gagliarde
d'eroi, ne fece il bottino di cani,
20 Catullo IV, 1.
21 Prosodia è detta quella branca della linguistica classica che attiene alla misurazione (brevi o lunghe) delle sillabe
costitutive delle parole.
22 I termini qui usati si devono a Paul Maas Griechische Metrik Leipzig-Berlin 1923. Trad. ital. Metrica greca
Firenze (Le Monnier) 1976.
23 Ciò in virtù del fatto che, dal punto di vista prosodico, due sillabe brevi sono sentite complessivamente equivalenti
ad una sillaba lunga (principio dell'isocronia). Lo stesso principio vale per la ritmica musicale moderna: due crome
sono perfettamente equivalenti ad una semiminima.
24 Nella terminologia del Maas: indifferens.
di tutti gli uccelli – consiglio di Zeus si compiva – 25
hanno questa struttura prosodica:
Akk Bkk Fl Gkk Jkk Kl
Akk Bl Fkk Gl Jkk Kk
Al Bl Fl Gkk Jkk Kl
Al Bl Fkk Gkk Jkk Kl
Al Bkk Fkk Gkk Jkk Kl
Come si può facilmente verificare, sono cinque varianti diverse dello stesso schema metricoritmico.
Tentiamo ora un'applicazione particolare del principio descritto. Nell'armamentario formulare
dell'aedo omerico ogni eroe dispone di una rosa di epiteti. Nel caso di Odisseo, quando il nome
dell'eroe rappresenti la funzione logica di soggetto (quando, cioè, Odisseo fa qualcosa) le
combinazioni possibili sono almeno quattro:
1. poluvtla" di'o" jOdusseuv"
2. poluvmhti" jOdusseuv"
3. di'o" jOdusseuv"
4. diogenh;" jOduseuv"
kGlJkkKl
kkJkkKl
JkkKl
AkkBkkF
(il paziente, luminoso Odisseo)
(l'accorto Odisseo)
(il luminoso Odisseo)
(Odisseo rampollo di Zeus)
Come tutti i suoi colleghi, nel corso dell'azione Odisseo è chiamato a fare tante cose: tra le altre, a
rispondere a chi gli abbia rivolto il discorso. I toni della risposta possono essere molto diversi, a
seconda delle situazioni: Odisseo può semplicemente rispondere, o rispondere con piglio adirato,
guardando bieco il suo interlocutore. Nel primo caso l'aedo disporrà della formula base:
a) to;n d∆ hjmeivbet∆ e[peita
(quindi gli rispose)
AlBkkFk
nel secondo, di una variante più precisa:
b) to;n de; uJpovdra ijdw;n prosevfh (gli rispose guardandolo bieco)
AkkBkkFkkG
La qualifica di Odisseo (paziente, luminoso; oppure semplicemente luminoso; o accorto; o ancora
rampollo di Zeus) nell'atto del rispondere – qualifica resa necessaria, come abbiamo visto, dalle
convenzioni del dettato epico – sarà chiamata in causa non dalla sua pertinenza alla situazione
specifica, ma in base alla sua misura metrico-prosodica, che deve incastrarsi precisamente
nell'emistichio verbale per comporre un esametro completo. Se, dunque, Odisseo risponde
semplicemente [variante a)], dovrà essere paziente e luminoso al tempo stesso [variante 1.], perché
a) + 1. danno luogo, combinati insieme, alla misura di un esametro:
to;n d∆ hjmeivbet∆ e[peita
poluvtla" di'o" jOdusseuv"
Al Bkk Fk
k Gl Jkk Kl
Se, invece, la sua risposta comporta un atteggiamento risentito, perché l'interlocutore lo ha irritato
25 Trad. di Rosa Calzecchi Onesti.
[variante b)], allora non potrà essere che accorto [variante 2.]: infatti b) + 2. = esametro
to;n de; uJpovdra ijdw;n prosevfh
poluvmhti" jOdusseuv"
Akk Bkk Fkk G
kk Jkk Kl
Bibliografia
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Eric A. Havelock Preface to Plato Cambridge (Mass.) 1963 (trad. ital.: Cultura orale e
civiltà della scrittura Bari 1973)
Adam Parry (a cura di) The Making of Homeric Verse. The Collected Papers of Milman
Parry Oxford 1971
Luigi Enrico Rossi I poemi omerici come testimonianza di poesia orale in “Storia e civiltà
dei Greci”, Milano (Bompiani) 1978, vol. I pagg. 73-147
Walter J. Ong Orality and Literacy. The Technologizing of the Word London & New York
1982 (trad. ital.: Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola Bologna 1986, cap. 2)
Albert B. Lord The Singer of Tales Oxford 1971
Walter Arend Die typische Scenen bei Homer Berlin 1933.