Letteratura italiana: dalle Origini alla morte di
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Letteratura italiana: dalle Origini alla morte di
Letteratura italiana: dalle Origini alla morte di Boccaccio Premessa [Il Basso Medioevo: dal latino al volgare] Il Basso Medioevo – ossia il periodo, che qui consideriamo, compreso tra i secoli XI e XIV – è caratterizzato da un grande fermento negli àmbiti più diversi della vita culturale: dalle arti alle scienze, dalla filosofia alla letteratura. In quest’ultimo settore, il fermento è legato soprattutto a un evento, o piuttosto a un processo, davvero epocale: il passaggio dal latino ai volgari nazionali, o meglio l’affiancarsi dei volgari nazionali al latino come lingue della scrittura. Se fino all’incirca al secolo XI gli intellettuali e i poeti si esprimevano per iscritto usando soltanto il latino, di qui in poi essi hanno facoltà di scelta, e la scelta più naturale sarà per molti, per molto tempo ancora, quella di usare entrambi gli idiomi a seconda del pubblico che hanno di fronte e a seconda del ‘genere letterario’ cui appartiene l’opera: si pensi al bilinguismo non solo di Dante, Petrarca, Boccaccio, ma anche degli umanisti più tardi come Alberti o Poliziano. Benché, dunque, la tradizione latina resti vitale, e addirittura predominante (o esclusiva, nelle cancellerie, nella Chiesa, nelle università), l’evento o processo di cui va sottolineata l’importanza è la nascita delle letterature nazionali in volgare. [Il pubblico della letteratura volgare] Se si guarda alla cronologia, la prima fioritura della letteratura in volgare si registra in Francia. Qui, nell’ambiente ricco e raffinato delle corti, andò formandosi un pubblico interessato alla letteratura non più come mezzo di edificazione e d’istruzione ma come libera forma d’intrattenimento, assimilabile ad altri generi di spettacolo come il canto o la danza: un pubblico laico, spesso ignaro di latino, e – per la prima volta nella tradizione occidentale – composto anche e soprattutto da donne. Tra i laici, in effetti, sono soprattutto loro ad avere il tempo e il gusto necessari per apprezzare le opere letterarie; e sono loro le committenti che amano circondarsi di romanzieri e poeti: alla corte di Maria di Champagne (ultimo quarto del sec. XII), per esempio, Andrea Cappellano scrive il libro in cui viene codificata l’etica dell’amore cortese, il De amore (in latino), e Chrétien de Troyes il suo romanzo Il cavaliere della carretta (Le chevalier de la charrette). Anche in Italia la nascita della letteratura volgare è strettamente legata alla civiltà cortese. La prima scuola poetica della nostra tradizione si riunisce infatti, nella prima metà del Duecento, attorno all’imperatore e re di Sicilia Federico II. Ma il fenomeno sociale più significativo di questo lungo periodo storico – lo sviluppo dei comuni – ha riflessi importantissimi anche sul piano della produzione culturale. Nella Toscana e nella Emilia tardo-duecentesche cambia infatti la composizione sociale sia dei produttori sia dei consumatori di letteratura. Gli uni e gli altri sono ora i ‘nuovi’ professionisti che reggono le sorti del comune: i notai, i giuristi, i medici, e presto anche i mercanti – un’élite economica e intellettuale diversa da quella nobiliare che dominava nel mondo cortese. [I caratteri della poesia e della prosa] Con la scuola siciliana inizia una tradizione di poesia lirica che per ampiezza e qualità dei risultati non avrà rivali in Europa sino al Rinascimento. Alla fine del Duecento, in Toscana, un gruppo di giovani intellettuali recupera le forme e i contenuti che erano stati propri dei poeti provenzali (i trovatori), ma dà alla lirica un’impronta più marcatamente personale e autobiografica: sono i cosiddetti stilnovisti, e tra loro c’è anche il giovane Dante, il quale di lì a poco, nei primi anni del Trecento, inizierà a scrivere la Commedia. All’esempio degli stilnovisti, e soprattutto alla Vita nova di Dante, guarderà il massimo lirico del Trecento, Francesco Petrarca, che col suo Canzoniere offrirà all’Europa un modello di confessione in versi la cui influenza, profondissima nei due secoli successivi, perdurerà almeno sino alla rivoluzione romantica. Il quadro per ciò che riguarda le forme del narrare è meno trionfale. La novella e il romanzo sono generi soprattutto francesi: e alla tradizione francese e a quella mediolatina dovrà guardare infatti il massimo narratore del Medioevo, Giovanni Boccaccio, quando alla metà del Trecento lavorerà alle novelle del Decameron. Prima di quell’opera, è raro che chi scrive in prosa lo faccia per il puro gusto del narrare: quasi sempre vi è alla base un interesse educativo o moralistico 1 – interessi che, piuttosto che attraverso le ‘libere’ forme del racconto, vengono soddisfatti attraverso i sermoni, le leggende, gli aneddoti esemplari. [La società bassomedievale] A questa prodigiosa vitalità culturale fa riscontro un quadro socio-politico altrettanto movimentato. Tra il X e il XIV secolo la popolazione italiana raddoppia. È questo il segno più importante e vistoso di un progresso sociale che ha molteplici aspetti, i quali si possono interpretare ora come effetti ora come cause dell’esplosione demografica. Da un lato, migliorano le condizioni alimentari e quelle igieniche: fino alla metà del Trecento non si registrano epidemie tanto gravi quanto quelle che avevano afflitto periodicamente l’Europa nell’Alto Medioevo. Dall’altro lato, migliorano le condizioni economiche medie, e ciò soprattutto in conseguenza di due fatti. In primo luogo, l’ampliamento della rete dei commerci. I mercanti italiani non si muovono più soltanto in un àmbito locale o nazionale ma viaggiano in tutta Europa acquistando ben presto sulla concorrenza straniera un primato commerciale e finanziario: ricche famiglie toscane e lombarde aprono crediti alle maggiori dinastie regnanti europee facendo nascere così le prime banche. Insieme, allo scopo di tutelare l’attività mercantile, nascono le prime compagnie assicurative. Tutto ciò, a sua volta, è conseguenza del fiorire dell’industria manifatturiera: le merci italiane (i tessuti pregiati in modo particolare) hanno grande successo nelle fiere che periodicamente si tengono per esempio nella regione francese della Champagne. [Il nuovo rapporto tra città e campagna] Ma all’origine dell’espansione economica c’è soprattutto un rapporto più dinamico tra le città e la campagna. Il modello feudale, fatto di microunità economicamente indipendenti in cui il contado è al servizio esclusivo del vassallo e della sua corte, cessa di essere l’unico modello possibile. Nel corso dell’XII e del XIII secolo i nuovi soggetti politici, i comuni, conquistano il contado riducendo il potere dell’aristocrazia feudale: la produzione agricola entra così a far parte di un più aperto sistema economico fondato non sull’esazione (quella imposta dal proprietario terriero al servo o al mezzadro) ma sulla compravendita. Frattanto, si affinano le tecniche agricole – cioè quel complesso di pratiche legate, per esempio, all’aratura, alla ferratura dei cavalli, alla macina – e si amplia la superficie coltivabile, onde numerose opere di bonifica, dissodamento, colonizzazione: nel giro di pochi secoli, questa umanizzazione della natura, specialmente in aree ricche come la Toscana, cambia profondamente l’aspetto del paesaggio italiano. 1. Il periodo storico e i movimenti culturali 1.1 Il quadro storico-politico [L’Italia alle soglie del secondo millennio] II quadro politico italiano dopo l’anno Mille appare diviso in quattro grandi aree di influenza. Al centro-nord, il cosiddetto Regno italico è soggetto all’autorità dell’imperatore tedesco, e uno dei fili conduttori della storia politica sino alla fine del Medioevo sarà appunto il conflitto tra questa lontana autorità (la sede imperiale era a Aquisgrana, nella Germania settentrionale) e i comuni italiani del nord desiderosi di indipendenza. Il Mezzogiorno d’Italia è in parte sotto il controllo dell’Impero bizantino, in parte (la Sicilia) in mano agli arabi. Il dominio longobardo, un tempo esteso a larga parte della penisola, persiste soltanto nell’attuale Campania. Questa frammentazione implica che non si possa parlare, per questo periodo, di una anche solo idealmente unitaria storia italiana. Se la mappa dei poteri ‘di diritto’ è quella appena delineata, il potere effettivo è nelle mani di grandi proprietari terrieri che organizzano i loro possedimenti come piccoli sistemi autosufficienti scarsamente comunicanti l’uno con l’altro: il castello domina sul contado sfruttandone i prodotti e assicurando in cambio protezione contro gli attacchi provenienti dall’esterno. [Il conflitto tra papato e impero nell’XI e nel XII secolo] Nel corso del secolo XI si verificano due eventi politici fondamentali. Al centro-nord si acuisce il conflitto tra l’Impero germanico e il Papato, che, pur senza detenere ancora un grande stato territoriale, dalla sua sede romana influenza profondamente la vita e le idee dei popoli cristiani. Da un lato, secondo il modello 2 cesaropapista per cui l’autorità religiosa dev’essere sottomessa all’autorità politica, l’imperatore pretende di avere voce in capitolo nella elezione del papa. Dall’altro, l’imperatore intende avocare a sé la nomina dei vescovi: carica importantissima, in quanto ai vescovi era attribuita non soltanto un’autorità di guida spirituale ma anche un concreto potere politico-amministrativo. È la cosiddetta lotta per le investiture, che si prolungherà per più di un secolo. Alle pretese imperiali risponderà infatti nel 1073 papa Gregorio VII emanando il Dictatus Papae, che annulla le investiture imperiali e codifica l’ideologia della teocrazia (ovvero la superiorità del potere religioso su quello politico). Seguiranno quasi cinquant’anni di conflitti tra i papi e gli imperatori. Nel 1076 l’imperatore Enrico IV è a Canossa, a implorare dal papa il ritiro della scomunica che gli era stata inflitta (e ben a ragione il provvedimento era temuto, dato che implicava per i sudditi cristiani l’obbligo di non obbedire all’imperatore che ne fosse stato colpito). Ma nel 1086 lo stesso Enrico occupa Roma ed elegge un anti-papa. Solo con il concordato di Worms, nel 1122, la vertenza potrà dirsi conclusa con un compromesso sostanzialmente favorevole alla Chiesa: la nomina dei vescovi viene dichiarata pertinenza dell’autorità ecclesiastica ma – limitatamente al territorio tedesco – previo ‘gradimento’ da parte dell’imperatore. [I normanni] Al sud, le lotte fra gli ultimi prìncipi di stirpe longobarda e i bizantini vennero arbitrate e spente, all’inizio del secolo XI, dai cavalieri normanni giunti dal nord della Francia e insediatisi nelle contee di Melfi e Aversa. Ma, da pacificatori che erano, costoro si trasformarono presto in conquistatori e, col benestare del papa, nel corso di un secolo estesero il loro dominio a tutta l’Italia meridionale, giungendo anche a liberare la Sicilia dall’occupazione araba. Alla fine del secolo XII la corona normanna passò a Costanza, figlia del re Ruggero II; il matrimonio tra Costanza e l’imperatore Enrico VI portò il regno di Sicilia (comprendente l’isola e buona parte dell’Italia del sud) nelle mani della casa di Svevia. Di qui in poi, l’Italia intera sarà il teatro del conflitto tra l’Impero - titolare di questo amplissimo territorio, dalla Germania alla Sicilia – e il Papato. [La nascita dei comuni] Il fenomeno socio-politico cruciale dei secoli XI e XII è la nascita e lo sviluppo dei Comuni nell’Italia centro-settentrionale: fenomeno originale di quest’area, perché nulla di simile accade, a quest’altezza cronologica, in altre zone d’Europa. Dopo la dissoluzione dell’impero carolingio, il potere politico reale era andato concentrandosi, come si è accennato, nelle mani dell’aristocrazia terriera e, soprattutto, dei vescovi (e le due categorie solitamente coincidevano, nel senso che i possidenti occupavano anche i ranghi più alti della gerarchia ecclesiastica). Ma la crescita demografica, l’intensificarsi dei commerci, la nascita di nuove professioni legate alla manifattura e allo scambio – tutto ciò fece sì che, progressivamente, le città si ingrandissero e prendessero il sopravvento sul contado, dotandosi anche di istituzioni di governo laiche: i consules, nominati dal popolo del comune, subentrano ai vescovi nell’amministrazione pubblica. Una nuova e dinamica classe, la borghesia dei commerci, delle manifatture e delle banche, conquista, oltre al potere economico, quello politico, e si insedia nelle magistrature comunali. Nel corso del Duecento, soprattutto in Toscana e in Emilia, questo nuovo sistema di governo evolverà in maniera autenticamente democratica da un lato con la moltiplicazione degli organi amministrativi (così che una percentuale sempre più alta di cittadini sarà coinvolta nel governo della cosa pubblica), dall’altro con l’estensione del diritto di voto e di rappresentanza ai membri del ceto popolare. Tale tendenza alla ‘democratizzazione’ finirà anzi per portare talvolta ad una specie di sovvertimento del principio del censo: come quando alla fine del Duecento, nella Firenze di Dante, le leggi antimagnatizie decreteranno l’ineleggibilità dei cittadini più ricchi (i magnati, come l’amico di Dante Guido Cavalcanti) alle cariche pubbliche. [Le lotte tra i comuni e l’impero] Il conflitto tra i nuovi soggetti politici, i comuni, e l’imperatore, scoppia alla metà del secolo XII. Federico I Barbarossa scende in Italia, chiamato dal papa a da alcuni comuni lombardi preoccupati dall’espansionismo di Milano. Ma presto la situazione si ribalta, e Milano riesce a trovare alleati che, coalizzati nella Lega Lombarda (1167), sconfiggono l’imperatore a Legnano nel 1176. Nel 1183, la pace di Costanza segna un progresso 3 significativo sulla strada dell’autonomia comunale: la tutela imperiale sarà d’ora in poi quasi solo un fatto formale. [Papato e impero nel Duecento] Il figlio del Barbarossa, Enrico VI, avendo sposato la normanna Costanza d’Altavilla è incoronato re di Sicilia nel 1194. Muore però pochi anni dopo, e gli succede il giovanissimo Federico II, il quale, raggiunta la maggiore età, assumerà su di sé le due dignità di re di Sicilia (comprendente, ripetiamo, anche il Mezzogiorno d’Italia) e di Imperatore. È lui, senza dubbio, la figura di maggior rilievo politico del Duecento. Un lungo conflitto, spesso cruento, lo opporrà al papa e ai comuni centro-settentrionali. Quanto al papa, il Duecento è il secolo in cui si consolida lo stato pontificio: le mire di Innocenzo III (1198-1216) e dei suoi successori di estendere il dominio papale a tutto il centro Italia urtano contro la volontà di Federico II di controllare, sia pure indirettamente, l’intero territorio della penisola. Quanto ai comuni, la lotta si acuisce e si allarga a tal punto che i comuni italiani finiscono per dover prendere partito: chi risolutamente a favore dell’imperatore (i cosiddetti ghibellini, dal casato tedesco dei Wibelin) e chi risolutamente contro di lui e favorevole invece al papa (i cosiddetti guelfi, dal casato tedesco, a quello contrario, dei Welf: altro nome della stirpe Bavarese). Sicché nella storia italiana duetrecentesca sarà costante da un lato la speranza nella discesa degli imperatori, che pacifichino e guidino la penisola (è questo, per esempio, l’auspicio di Dante); dall’altro la fedeltà al papa e l’orgogliosa rivendicazione dell’autonomia comunale (ed è il caso per esempio di Firenze, sempre fierissima nemica degli imperatori). [La crisi dell’impero] Il dominio svevo in Italia non va molto oltre la morte di Federico II (1250). I tentativi dei suoi eredi, Corradino e Manfredi, di conservare agli Svevi il regno di Sicilia falliscono per l’alleanza tra il papa e il regno di Francia, protettore ‘storico’, da allora in poi, dello stato pontificio. Il cugino del re di Francia, Carlo I d’Angiò, sconfigge l’esercito imperiale capeggiato da Manfredi a Benevento (1266), e a lui il papa consegna il regno di Sicilia. [Il nuovo assetto italiano nel Trecento] L’unità del Regno di Sicilia sotto il governo di Carlo d’Angiò durò soltanto pochi anni. Nel 1282 si scatenò in Sicilia una rivolta di popolo contro l’occupante francese, rivolta entrata nella storia col nome di Vespri siciliani. Nel ventennio successivo, i rivoltosi ricevettero l’aiuto della casa d’Aragona, che si insediò nell’isola. La pace di Caltabellotta, nel 1302, sancì questa spartizione: la Sicilia agli Aragonesi, l’Italia del sud agli Angiò. Dopo che si era conclusa la lotta tra angioini e aragonesi nel sud, l’imperatore tedesco Enrico VII riprese l’iniziativa al nord, proponendosi di riaffermare il potere imperiale sui comuni e di contrastare l’alleanza tra il Papato e gli Angiò. Enrico riuscì a superare le resistenze oppostegli da alcune città italiane – soprattutto da Firenze, che capeggiava la Lega guelfa – e rivolse il suo esercito verso sud, ma morì improvvisamente in Toscana nel 1313. Benché non completata, la missione dell’imperatore in Italia ebbe conseguenze politicamente importanti. I casati che si erano schierati dalla sua parte acquistarono prestigio e potere: in città come Verona, Mantova, Milano, si profilò quel passaggio dal comune alla signoria (rispettivamente gli Scaligeri, i Gonzaga, i Visconti) che in tempi diversi sarà il destino comune a buona parte delle medie e grandi città centrosettentrionali: d’ora in poi, il conflitto non sarà più tanto quello tra guelfi e ghibellini quanto quello tra le grandi dinastie italiane in lotta per la supremazia territoriale. [I conflitti tra le grandi città: Milano, Firenze e Venezia nel Trecento] Le città che nel corso del secolo s’imposero nel panorama politico-militare nazionale furono Milano, che mantenne forti legami con l’impero tedesco (i Visconti chiesero e ottennero la nomina a ‘vicari imperiali’); Venezia, che non cadde mai nelle mani di una sola grande famiglia ma si affidò ad una sorta di oligarchia fondata sul diritto di nascita: il Maggior Consiglio; e Firenze, che restò più a lungo delle altre città un comune ‘libero’, cioè non soggetto a ristretti gruppi aristocratici: sino a quando la cosiddetta ‘rivolta dei ciompi’ (1378) - i ciompi erano gli operai dell’industria tessile, che chiedevano salari più alti e condizioni di lavoro più umane – non innescò, dopo essere stata repressa, una reazione di segno opposto da parte delle grandi famiglie fiorentine: che allontanarono il popolo dal governo consegnando la città a un’oligarchia entro la quale doveva prevalere, di lì a poco, la famiglia dei Medici. La storia politica del Trecento nell’Italia centro-settentrionale è 4 segnata dal conflitto fra queste tre città, ciascuna al centro di una a volte amplissima zona di influenza. Alla fine del secolo, con la signoria di Gian Galeazzo Visconti (1385-1402), Milano arrivò a conquistare Padova e Verona, e ad esercitare un dominio indiretto su vaste zone del centro Italia. Ma, alla morte di Gian Galeazzo, Venezia e Firenze ripresero l’iniziativa, la prima estendendo il suo potere sulla terraferma sino a comprendere l’intero Veneto attuale, la seconda sottomettendo Arezzo e, nel 1406, la nemica storica, Pisa. [Il Mezzogiorno d’Italia nel Trecento] La storia dell’Italia meridionale nel Trecento è caratterizzata da un fenomeno analogo a quello ora descritto: l’indebolimento delle grandi dinastie regnanti e il frazionamento del potere. Nel Regno di Sicilia, gli Aragonesi dovettero governare scendendo a patti con i baroni dell’isola, che ripristinarono una sorta di potere feudale su larga parte del territorio. Nel Regno di Napoli, il debole Roberto d’Angiò (1309-1343) fu costretto a fare ampie concessioni alla nobiltà locale, delegando parte della sua autorità a ‘parlamenti’ cittadini egemonizzati dai grandi proprietari terrieri. La disunione del regno e la crisi finanziaria – che portò al ritiro del credito da parte dei banchieri fiorentini – furono il preludio del conflitto politico che alla fine del secolo oppose Luigi d’Angiò a Carlo di Durazzo (e i rispettivi casati e satelliti: Angioini e Durazzeschi) per la successione al trono. La crisi si concluderà, nel 1442, con la conquista di Napoli da parte degli Aragonesi, che riuniranno dopo un secolo e mezzo il Mezzogiorno d’Italia sotto un’unica corona. 1.2 Il ruolo della Chiesa nella storia italiana due-trecentesca [La crisi morale della Chiesa e i tentativi di riforma: movimenti pauperistici ed eresie] Il difficile equilibrio tra il potere politico e il potere religioso è, come si è accennato, una delle questioni fondamentali nella storia italiana dopo il Mille. Come anche si è detto, la Chiesa tese sempre più ad unire i due poteri estendendo la sua giurisdizione sulle cose terrene. Ma la compromissione col mondo portò con sé la corruzione dei costumi del clero: nulla di più lontano dalla norma di una vita cristiana, così come era stata illustrata dal Vangelo e dai Padri della Chiesa, della condotta di quei religiosi che vivevano nel lusso e nel vizio facendo pubblico commercio delle cariche ecclesiastiche. Questa crisi sollecitò reazioni diverse. La prima fu quella dei movimenti pauperistici come la cosiddetta Pataria, che nel secolo XI, a Milano, lottò contro la corruzione del clero locale. La seconda fu quella degli ‘eretici’, che alla volontà moralizzatrice univano più pericolose – perché potenzialmente rivoluzionarie – istanze di revisione in materia dottrinale: non solo una riforma del clero ma una riforma della fede. La Chiesa di Roma agì contro questi gruppi di eretici con estrema violenza: nel giro di alcuni decenni, i catari (cioè i ‘puri’), la più cospicua di queste sette ereticali, furono sterminati nel nord Italia e nel sud della Francia, e lo stesso accadde a gruppuscoli minori riuniti intorno a figure carismatiche, come i seguaci di Gerardo Segalelli (gli ‘apostolici’), finito sul rogo nel 1300, o di fra Dolcino (‘dolciniani’), fatti massacrare da papa Clemente V. [I nuovi ordini religiosi nel Duecento] La terza reazione alla corruzione della Chiesa, la più importante e gravida di futuro, si mantenne entro i confini dell’ortodossia. Si tratta dei nuovi ordini religiosi che nascono in Italia all’inizio del Duecento. Il castigliano Domenico di Guzmàn (11751221), dopo aver combattuto gli eretici nel sud della Francia organizzò una comunità di sacerdoti che nel 1216 ricevette l’approvazione di papa Onorio III: nasceva l’ordine domenicano. I suoi membri vennero detti ‘frati predicatori’, perché questo fu il loro primo compito: viaggiare di città in città predicando la fede cristiana; e anche ‘frati mendicanti’, poiché, in linea col precetto evangelico della povertà, potevano sostentarsi soltanto con ciò che ricevevano in elemosina. Gli ideali dell’umiltà e della povertà sono anche caratteristici dell’ordine francescano, sorto all’incirca negli stessi anni. Nato ad Assisi nel 1182 da una famiglia di mercanti, ancora giovane Francesco raccolse attorno a sé un piccolo gruppo di confratelli, chiamati minores. Ben presto, questa comunità si allargò e fece proseliti in tutta Europa. Nel 1223, la cosiddetta Regula bullata dei francescani venne approvata da papa Onorio III; poco dopo (1226), Francesco moriva. 5 [La ‘rivoluzione’ domenicana e francescana] Domenicani e francescani modificarono profondamente l’assetto della Chiesa nel Duecento e nei secoli successivi. Mentre i monaci benedettini e degli altri ordini sorti durante il Medioevo risiedevano nelle campagne e avevano una scarsa influenza sull’esistenza dei laici, domenicani e francescani furono protagonisti della vita cittadina: ebbero un ruolo di primo piano nella risoluzione dei conflitti sociali, spesso parteggiando per i ceti popolari; imposero un modello nuovo, più partecipe e aggressivo di predicazione, non indugiando – come faceva il clero secolare – sulle sottigliezze della dottrina ma concentrandosi sui rapporti tra questa e la vita concreta dei fedeli (accade spesso di leggere, nelle fonti contemporanee, che i predicatori più abili richiamavano ascoltatori anche da luoghi molto lontani); grazie a una profonda conoscenza della dottrina, occuparono molte delle cattedre universitarie di teologia: i più grandi intellettuali cattolici appartengono alle loro fila: Tommaso d’Aquino è un domenicano, Bonaventura da Bagnoregio è un francescano. [Le crociate] Nella storia della Chiesa tra l’XI e il XII secolo devono essere ricordati altri due fenomeni di grande rilievo. Le cosiddette crociate furono spedizioni che a più riprese tentarono – talvolta con successo – di strappare ai musulmani i luoghi santi della cristianità. Nel 1099 il capo della missione cristiana, Goffredo di Buglione, conquistò Gerusalemme e ne fece la capitale di un Regno cattolico che avrà, tuttavia, vita breve per la pronta reazione dei Turchi. Le sette successive spedizioni, promosse ora dal papa ora autonomamente da prìncipi cattolici, ebbero, accanto alle motivazioni religiose, più concrete ragioni economiche e strategiche: e per esempio la ricca città di Venezia finanziò la crociata allo scopo di conquistare i mercati orientali, fondamentali per la sua espansione economica. Al principio del Duecento, l’arma della crociata verrà adoperata da papa Innocenzo III non per la riconquista dei luoghi sacri ma per estirpare l’eresia: cristiani contro cristiani. La ‘crociata’ contro i catari di Albi e Tolosa si concluse dopo un ventennio col massacro della popolazione locale e con la fine dell’autonomia politica delle contee meridionali in cui era fiorita la poesia dei trovatori, che vengono annesse al regno di Francia. [I pellegrinaggi] Alla ‘liberazione’ dei luoghi sacri – ed è questo il secondo fatto caratteristico nella storia della cristianità tardo-medievale – seguirono i pellegrinaggi: per penitenza, o per guadagnare suffragi, molti fedeli intrapresero il lungo e pericoloso viaggio per la Terrasanta o per altri luoghi di culto. Tra questi ebbe particolare importanza, richiamando un altissimo numero di pellegrini, la città di Santiago di Compostella, nella Spagna nordoccidentale, un’area da poco ‘riconquistata’ dai cristiani alla dominazione araba. Qui, nel secolo IX, era stata ritrovata una tomba che si ritenne appartenesse a San Giacomo, fratello di san Giovanni Evangelista: la devozione per il santo si diffuse in tutta Europa, e da tutta Europa, attraverso l’Italia, la Francia, la Spagna, migliaia di pellegrini presero, nei secoli successivi, la ‘via di Santiago’. [La Chiesa nel Trecento: la ‘cattività avignonese’] Dopo il sogno dell’impero teocratico universale di Gregorio VII, alla fine del 1100, e di Innocenzo III, all’inizio del 1200, la Chiesa vive durante il Trecento la sua crisi più grave. Il secolo si apre con due iniziative dirette a riaffermare con forza l’autorità ecclesiastica: il giubileo dell’anno 1300, con cui si prometteva un’indulgenza plenaria ai pellegrini che avessero visitato Roma; e la bolla di Bonifacio VIII Unam sanctam (1303), che rivendicava la superiorità dell’autorità papale su quella dell’imperatore e di ogni altro principe regnante. Ma Bonifacio VIII morì proprio nello stesso anno. Indebolitosi, il Papato cadde in balia dell suo tradizionale alleato e protettore politico, il regno di Francia. Il re francese Filippo il Bello riuscì a far eleggere papa il vescovo di Bordeaux, che prese il nome di Clemente V (1305-14), e far trasferire la sede pontificia da Roma ad Avignone. Questa ‘cattività avignonese’ - che scandalizzò i contemporanei, primo fra tutti Petrarca, il quale non cessò mai di lottare per il ritorno del papa a Roma – durò quasi settant’anni, dal 1309 al 1377. Roma, in questo periodo, fu teatro dei conflitti anche armati tra le potenti famiglie locali come i Colonna e gli Orsini, e del breve e fallimentare tentativo di ‘governo popolare’ promosso da Cola di Rienzo, che nel 1347 si autonominò tribuno del popolo ma, attiratosi gli odi dell’aristocrazia cittadina, venne ucciso nel 1354. 6 [Lo ‘scisma d’occidente’] Il ritorno del papato a Roma non avvenne senza proteste e divisioni. Già nel 1378 una parte del collegio dei cardinali tentò di riportare la sede ad Avignone. Ne nacque una frattura – detta scisma d’Occidente – che oppose all’interno della Chiesa due fazioni, una romana e l’altra francese e, per trent’anni, un papa eletto dalla prima ad un ‘antipapa’ eletto dalla seconda. Lo scisma si ricomporrà soltanto nel 1417 con il concilio di Costanza e la nomina a pontefice – con sede a Roma – di Martino V. 1.3 Le scienze e la tecnica [L’unità di teoria e prassi] A partire dall’XI secolo si assiste in Europa a uno straordinario progresso nelle scienze e nelle arti applicate. Ciò è dovuto sia alle mutate condizioni sociali – l’incremento della popolazione, le nuove esigenze imposte dall’intensificarsi dei commerci e dell’attività manifatturiera – sia alla progressiva acquisizione del pensiero scientifico greco e arabo. Il dato più caratteristico di questo periodo è l’unità fra scienza e tecnica: vale a dire che gli scienziati elaborano teorie ma non perdono mai di vista le loro possibili applicazioni concrete, e lavorano alla risoluzione di problemi pratici. [La matematica] Si prenda per esempio il caso della più pura delle scienze, la matematica. Il Liber embadorum (‘Libro delle aree’) del Savasorda, un ebreo vissuto tra Spagna e Provenza nella prima metà del sec. XII, affronta e risolve problemi relativi alla pratica mercantile e nautica. E il primo grande matematico italiano, il pisano Leonardo Fibonacci (inizio del sec. XIII) è lui stesso un mercante, che applica il suo ingegno a questioni relative al commercio. Nel Liber Abbaci (1202) introduce forse per primo in Europa le cifre arabe al posto di quelle romane; nella Practica Geometriae (1220), ispirata in parte all’opera del Savasorda, in parte a testi greci e arabi conosciuti durante i suoi viaggi d’affari nel Mediterraneo, Leonardo getta le fondamenta della trigonometria e applica per primo l’algebra alla risoluzione di problemi geometrici. Il genio matematico del Fibonacci non avrà rivali sino al Rinascimento. Sulla sua scia si muoveranno, ormai nell’età di Dante, l’inglese Giovanni di Sacrobosco (autore del De arte numerandi e del De sphaera mundi) e soprattutto, in pieno Trecento, il francese Nicola Oresme, il quale nel Tractatus de latitudinis formarum (1361) elaborerà una rappresentazione grafica delle funzioni matematiche attraverso assi perpendicolari che precorre la geometria cartesiana. [La produzione di energia] In altri settori della scienza, l’aspetto pratico prende decisamente il sopravvento su quello teorico. Non si scrivono trattati di chimica o di meccanica o di idraulica, ma ogni artigiano conosce, per averle apprese dal maestro, le tecniche necessarie alla produzione dei manufatti: è un sapere che si comunica attraverso la pratica, non attraverso un insegnamento formale simile a quello cui siamo abituati oggi. Di qui, per lo storico, una certa difficoltà nel ricostruire con esattezza la mappa e la cronologia delle scoperte e delle invenzioni, per le quali occorre fidarsi della testimonianza, spesso imprecisa e lacunosa, dei cronachisti del tempo. Nel settore, allora come oggi cruciale, della produzione di energia due sono le innovazioni più notevoli che hanno luogo a partire dal sec. XII: la progressiva introduzione in Europa dei mulini a vento e l’impiego dell’energia idraulica non solo, come in passato, per la macina, ma anche per la conciatura, la filatura e le altre attività legate alla lavorazione dei tessuti. Nel secolo XIII, poi, l’energia idraulica inizierà ad essere usata anche nella metallurgia: negli altoforni, alimentati da grossi mantici, sarà possibile aumentare la temperatura di fusione e ottenere metalli più puri e più resistenti, e ciò avrà importanti ricadute sulla vita civile (perché il legno comincerà ad essere sostituito dal ferro, sino ad allora costosissimo, negli attrezzi agricoli) e su quella militare (perché le nuove tecniche rivoluzioneranno l’industria delle armi). [L’agricoltura: i prodotti e le tecniche] In un mondo ancora per grandissima parte contadino, è chiaro che le innovazioni più importanti siano quelle relative alle tecniche agricole. Per quanto riguarda i prodotti, mentre restano vive le colture tradizionali della vite e dell’olivo, gli arabi introducono in Italia, fra XIII e XIV secolo, la coltura degli agrumi e della canna da zucchero. Una vera e propria rivoluzione avviene però nel settore dei filati, che alimenteranno quella che durante 7 tutto il Medioevo sarà l’industria italiana più vitale e redditizia. I bachi da seta erano stati introdotti in Occidente già nel VI secolo dall’Arabia; ma a partire dal XII secolo la tecnica della lavorazione della seta si affina – dal semplice sistema della rocca e del fuso si passa alla ruota a mano che attraverso una cinghia di trasmissione mette in moto il fuso, quindi alla gualchiera mossa da energia idraulica – e gli artigiani di Lucca e Venezia detengono, in questo settore, un primato assoluto per la qualità e la quantità del prodotto. A Bologna, nel 1273, il lucchese Francesco Borghesano installa il primo filatoio meccanico, e ciò garantirà per secoli alla città una posizione d’avanguardia nella filatura della seta. Nei secc. XI e XII, poi, viene introdotta la coltura del cotone, anch’essa alla base di una industria fiorentissima e di un commercio che farà la fortuna di molte famiglie e città dell’Italia centro-settentrionale. Gli artigiani toscani importano tessuti grezzi di lana, cotone, seta, li lavorano e li esportano sui mercati francesi e orientali; e attorno a loro si sviluppa un embrionale sistema capitalistico di finanzieri (che concedono in usufrutto il telaio agli artigiani), assicuratori, banchieri. Per quanto riguarda invece le tecniche di produzione agricola, il discorso è più complesso perché le innovazioni, in quest’àmbito, sono molto più difficili da situare nel tempo e nello spazio. Ma tra il XIII e il XIV secolo vengono definitivamente acquisite alcune tecniche che muteranno in profondità i modi di produzione e la vita stessa delle campagne: 1) si perfezionano i sistemi di irrigazione attraverso lo scavo di pozzi artesiani e l’apertura di canali (o la riapertura di quelli romani o etruschi); 2) si realizza l’aratro a ruote nella forma che esso conserverà, senza grosse variazioni, sino all’età moderna; 3) si introduce la ferratura dei cavalli e dei buoi, che possono così essere adoperati meglio e più a lungo anche su terreni accidentati; 4) cambia la tecnica di bardatura degli animali da soma e da traino: viene abbandonato il collare ‘di gola’ che strozzava l’animale e abbassava la potenza di traino, e si diffonde la moderna bardatura ‘di spalle’, che poggia sulle scapole dell’animale e ne convoglia tutta la forza. [Un trattato medievale de re rustica] Anche in questo caso, si tratta di un sapere diffuso attraverso la pratica e l’esempio piuttosto che attraverso la lettura di trattati; tuttavia, merita di essere citata l’opera dedicata all’agricoltura (Opus ruralium commodorum) da Piero de’ Crescenzi (1233-1320), che per due secoli rappresenterà una sorta di manuale per gli studiosi delle tecniche agricole. [La nautica] Così come alla produzione agricola e industriale, l’innovazione tecnica è legata anche all’incremento dei traffici. Il trasporto su terra è ancora lento, difficoltoso e pericoloso: i commerci sfruttano soprattutto le vie d’acqua. Nuove tecniche di fasciatura degli scafi e di velatura consentono di costruire navi da trasporto molto più grandi che in passato, e l’introduzione del moderno timone di dritto (XII-XIII secc.) rende la navigazione più sicura: saranno le scoperte e i progressi tecnici di questi secoli a rendere possibili, di lì a non molti anni, le grandi scoperte geografiche. [Chimica e medicina] Quanto infine alle scienze applicate, novità rilevanti si registrano nel settore della chimica: nel sec. XIII si scoprono l’acido solforico e altri acidi minerali che avranno grande importanza nella metallurgia, nell’industria tessile, nella tintoria. Un più lungo discorso richiederebbe la medicina. Qui basti dire che, per ciò che concerne la teoria, i medievali conoscono le opere dei grandi medici dell’antichità, Ippocrate e Galeno, e dei loro commentatori; inoltre, a partire dal sec. XI, grazie alle traduzioni di Costantino Africano, possono leggere gli scritti medici di Avicenna e di Averroè. Nella prassi, domina ancora un empirismo che oggi chiameremmo senz’altro pre- o a-scientifico, anche perché fondato su nozioni di fisiologia molto incerte. Ufficio del medico è quello di mantenere il giusto equilibrio tra gli elementi che formano il corpo umano (il caldo, il freddo, il secco, l’umido) e tra gli spiriti che mettono in relazione gli organi e le membra. La farmacologia fa ancora tutt’uno con credenze tradizionali prive di fondamento scientifico. Soltanto con l’ingresso della medicina nel canone delle discipline universitarie – soprattutto a Salerno, Bologna e Padova, tra XII e XIII secolo – inizierà quel lungo processo di raffinamento che porterà alle scoperte rinascimentali e alla moderna scienza anatomica e chirurgica. 8 1.4 La filosofia [Il sistema scolastico] La dissoluzione dell’Impero romano aveva portato con sé la crisi del sistema scolastico. Nell’Alto Medioevo, l’istruzione è legata per lo più alle scuole cattedrali e alle scuole dei monasteri, dove il clero e i monaci venivano educati alla lettura della Bibbia, dei testi liturgici e dei Padri della Chiesa. Soltanto con Carlo Magno e Alcuino, e con la scuola palatina da loro organizzata, lo stato riprende l’iniziativa formulando un progetto educativo coerente: attraverso la formazione di maestri poi inviati nei vari centri episcopali e monastici, la scrittura - da parte di Alcuino – di veri e propri ‘manuali’ per gli studenti dedicati all’ortografia, alla grammatica, alla retorica, la codificazione dell’esegesi biblica. È però soltanto a partire dalla fine dell’XI secolo che iniziano a formarsi quelle scuole cittadine che prenderanno il nome di Università. Si tratta di scuole specialistiche consacrate allo studio e al perfezionamento di discipline come la giurisprudenza, la medicina, la teologia. E si tratta di scuole in cui, per la prima volta, la componente laica è importante tanto quanto quella ecclesiastica: per esempio, molti degli insegnanti di diritto bolognesi sono laici che, costituitisi in libere associazioni, decidono la natura e il calendario dei corsi. I nuovi modi di organizzazione e trasmissione del sapere influenzano anche la tecnica della ricerca scientifica. Nasce un nuovo metodo scolastico articolato in due fasi: il maestro propone la quaestio, cioè un interrogativo che viene esaminato in ogni suo aspetto attraverso l’analisi degli argomenti favorevoli o contrari ad una data soluzione. E gli allievi si esercitano nelle disputationes, cercando di affermare il proprio punto di vista nella discussione di un problema proposto dal maestro. [La Scolastica] È all’interno di questo nuovo sistema del sapere, le università, che vivono e operano i maggiori intellettuali del periodo qui considerato: e il nome di scolastica deriva appunto dallo stretto legame che unisce la produzione scientifica del tempo alla scuola: se prima gli uomini di pensiero, i maestri, scrivevano per esortare e persuadere rivolgendosi ai confratelli, o al pubblico incolto dei fedeli, ora essi hanno di fronte – proprio come i docenti odierni – degli allievi che debbono essere istruiti. Ne deriva una forte sistematizzazione del sapere: cioè la scrittura di summae, commenti, raccolte di sentenze (celebri quelle di Pietro Lombardo, una sorta di enciclopedia teologica) che forniscono allo studente tutte le informazioni necessarie circa lo stato di una determinata questione attinente la teologia, il diritto, la medicina, la retorica e le altre discipline professate all’università. [La traduzione e il commento delle opere di Aristotele] Due sono i problemi cruciali per i filosofi medievali: quello del rapporto col pensiero pagano e quello del rapporto tra ragione e fede. Quanto al primo, nel corso dell’XI e del XII secolo si avvia in Europa la traduzione delle opere di Aristotele in latino e il loro commento da parte degli intellettuali cristiani: inizia così, con quello che viene definito il philosophus per eccellenza, un dialogo che influirà profondamente sia sul metodo sia sulla sostanza del pensiero tardo-medievale. Tale dialogo venne ostacolato dal fatto che Aristotele giunge all’Occidente non per via diretta bensì filtrato dalle traduzioni e dall’esegesi dei filosofi arabi: Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198), i quali valorizzano la componente razionalistica del sistema aristotelico, svalutando invece quella meditazione sulla metafisica e su Dio che poteva accordarsi con le verità cristiane. Nella sua interpretazione di Aristotele, Averroè nega l’immortalità dell’anima individuale e afferma l’eternità del mondo, cioè esclude la creazione: due tesi inaccettabili per un cristiano. La storia della ricezione di Aristotele nei secoli XIII e XIV è perciò una storia molto accidentata, fatta di ammirazione e devozione, e tentativi di inquadrare la sua filosofia pagana nell’ambito della fede, ma anche di divieti e censure: più volte, l’autorità ecclesiastica proibì lo studio di alcuni o di tutti gli scritti aristotelici nelle università in quanto contrari alla dottrina cristiana. [La traduzione e il commento delle opere di Platone] Più vicina alla metafisica cristiana è la dottrina delle idee di Platone, il filosofo che con Aristotele ha più influito sullo svolgimento del pensiero occidentale. Di fatto, elementi platonici sono ben presenti nelle opere del maggiore dei padri della Chiesa, Agostino, nel cui solco procederà tutta la speculazione cristiana fino alla 9 Scolastica. Durante il secolo XII, mentre cresce il numero delle traduzioni (particolare importanza riveste il Timeo, il testo-chiave della metafisica platonica, che viene accostato al libro biblico della Genesi), lo studio di Platone si affianca a quello di Aristotele. Particolarmente vivace, in questo senso, è la scuola di Chartres, nella quale viene elaborata, soprattutto da parte di Guglielmo di Conches e Gilberto Porrettano, la nuova metafisica platonico-cristiana. [Il problema del rapporto tra filosofia e fede: Anselmo d’Aosta] Il secondo problema, quello dell’equilibrio tra ragione e fede, è parte, naturalmente, di quello appena toccato: avvicinarsi ai filosofi classici significa allontanarsi dalla fede, perché essi non conobbero il vero Dio; tuttavia il cristiano non è costretto al sacrificio dell’intelletto: ciò che occorre è invece definire i rispettivi domini e ruoli, e proprio in quest’opera s’impegnano gli scolastici. La figura più importante del sec. XI è quella di Anselmo d’Aosta, monaco benedettino vissuto in Normandia e in Inghilterra, a Canterbury. In una lunga serie di opere, tra cui si ricordino almeno il Monologion e il Proslogion, egli si propone di indagare razionalmente il problema dell’esistenza di Dio: fides quaerens intellectum (‘la fede che cerca, e sollecita, l’intelletto’) e credo ut intelligam (‘credo al fine di comprendere’) sono i due motti che illustrano il programma anselmiano di spiegare per mezzo della ragione ciò che il cristiano sa già per fede. [Pietro Abelardo] Nel secolo successivo, l’importanza di Pietro Abelardo risiede, piuttosto che nell’originalità del pensiero, nell’elaborazione di quello che modernamente si definisce ‘metodo scolastico’: il Sic et non offre infatti al lettore gli strumenti per l’esegesi di qualsiasi testo attraverso l’uso accorto della filologia (comprensione letterale del testo) e della logica (esame incrociato degli argomenti favorevoli o contrari ad una determinata tesi: a ciò fa riferimento il titolo del Sic et non: dove si mettono a confronto le opinioni dei padri della Chiesa su una serie di questioni teologiche con ciò che dice la Bibbia). Oltre a un’imponente opera teorica sui tre grandi domini in cui si divide la filosofia medievale (la teologia, la logica e l’etica), Abelardo ci ha lasciato anche una delle prime autobiografie della tradizione occidentale, l’Historia calamitatum (‘Storia delle mie disgrazie’). È un’autobiografia scritta per dare conto di un singolare e tragico destino. Nato nel 1079 vicino a Nantes, in Francia, Abelardo dimostrò sin da giovanissimo un talento e una cultura eccezionali; prima insegnò all’Università di Parigi, poi come ‘libero maestro’ in una scuola da lui stesso fondata. A Parigi conobbe Eloisa, figlia del canonico Fulberto, se ne innamorò ed ebbe con lei una relazione: scoperto dal padre della ragazza, fu evirato. La storia d’amore tra Abelardo ed Eloisa, ricostruibile anche grazie ad un carteggio fra i due (anche Eloisa era un’intellettuale, dotta di latino, in un’epoca in cui una simile competenza, per una donna, era molto rara) divenne leggendaria. [Pietro Lombardo] Emblematica di quest’epoca dedita ai sistemi e all’organizzazione del sapere è l’opera di un contemporaneo di Abelardo, Pietro Lombardo: i suoi quattro libri di Sentenze (1150-52) ebbero uno straordinario successo durante il Medioevo, e furono ripetutamente commentati perché mettevano a disposizione degli studiosi tutte le nozioni necessarie relative alla dottrina cattolica. Pietro non compone un’opera originale ma allinea in modo chiaro e ordinato, come in un manuale, le affermazioni (Sentenze, appunto) della Bibbia e dei padri della Chiesa (Agostino su tutti) in materia di fede: dal mistero della Trinità a quello dell’incarnazione, dal problema del peccato al significato dei sacramenti, alla genealogia dei vizi e delle virtù. [La Scolastica nel Duecento: Alberto Magno] Il Duecento è il secolo di maggiore splendore per la filosofia scolastica. Si completa, in questo periodo, la traduzione delle opere aristoteliche, si perfeziona il sistema universitario, la vita culturale si arricchisce grazie all’apporto degli ordini mendicanti, che prestano all’università i loro migliori maestri: di fatto, i più insigni filosofi del secolo sono domenicani e francescani. Quasi tutti insegnano per un periodo della loro vita a Parigi, che rimane il centro più importante per gli studi teologici. Il problema cui si accennava in precedenza, quello dell’assorbimento di Aristotele nel pensiero cristiano, è affrontato dal tedesco Alberto Magno (1193-1280). Egli può distinguere rigidamente la filosofia dalla fede perché, seguendo la lezione di sant’Agostino, ha prima distinto i domini dell’una e dell’altra attribuendo alla prima la ratio inferior e alla seconda la ratio superior, cioè la parte superiore dell’anima che si occupa dell’essenza delle cose e non dei semplici fenomeni. Ma, quanto a questi, le speculazioni di 10 Aristotele debbono essere meditate anche dagli intellettuali cristiani, e il ruolo di Alberto Magno fu proprio quello di ‘tradurre’, attraverso i suoi commenti all’Etica, alla Fisica e alla Politica, il sistema filosofico e scientifico aristotelico - la sua interpretazione del mondo terreno, della natura, non dell’oltremondo - in un linguaggio che potesse essere accetto all’ortodossia cattolica. [Tommaso d’Aquino] Ad ascoltare Alberto Magno a Colonia c’era tra gli altri, negli anni 1248-1252, Tommaso d’Aquino (1221-74), certamente il maggiore filosofo del secolo e, con Agostino, il più importante di ogni tempo per la codificazione della dottrina cristiana. Come Alberto, anch’egli insegnò a Parigi e – secondo la consuetudine propria dei frati mendicanti di non soggiornare mai a lungo in una stessa città – nelle principali università europee: Colonia, Bologna, Napoli. E come in Alberto, anche nella concezione di Tommaso la fede non soppianta la filosofia bensì la completa, illuminando tutto ciò che i filosofi pagani avevano dovuto ignorare. Da questa contaminazione nasce la nuova ‘sistemazione’ della metafisica cristiana che Tommaso offre nella Summa theologica, un’opera immensa nella quale, in forma di quaestiones, vengono vagliati tutti i problemi che possono sorgere nell’interpretazione della dottrina cattolica. Nonostante la resistenza da parte della Chiesa di Roma a recepire alcune delle tesi tomiste – sentite come troppo vicine ad Aristotele e ai suoi seguaci averroisti, molto attivi a Parigi alla metà del Duecento -, la Summa sarà, nei tre secoli successivi, il punto di riferimento fondamentale per tutto il pensiero cristiano (una corrente ‘neotomista’ si è potuta individuare anche nell’ambito della filosofia novecentesca). [I francescani: Bonaventura] Se Alberto e Tommaso sono i massimi filosofi domenicani del Duecento, Bonaventura da Bagnoregio fu il più insigne tra i francescani, ed ebbe un ruolo di grande rilievo nella vita dell’Ordine: scrisse quella che sarebbe diventata la biografia ufficiale di san Francesco, fu generale dell’Ordine e ne redasse le costituzioni; inoltre, nonostante gli impegni legati all’insegnamento, svolse per tutta la vita una assidua attività di predicatore, che fece di lui l’oratore più apprezzato del suo tempo. Le sue due opere maggiori sono l’una un commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, in cui difende l’interpretazione tradizionale della dottrina cristiana contro le concessioni ad Aristotele che andavano facendo i maestri domenicani; l’altra un caposaldo della mistica medievale: l’Itinerarium mentis in Deum (‘Itinerario della mente verso Dio’ - 1259), che illustra i sei gradi dell’ascesa al divino attraverso l’amore di Dio e la preghiera e, insieme, attraverso la rinuncia agli strumenti della ragione: una via che lo allontana, per esempio, dal rigoroso intellettualismo di Tommaso. [Il crepuscolo della Scolastica nel Trecento: Occam] Dopo l’età dei grandi sistemi filosofici elaborati dagli scolastici, la filosofia cristiana vive, nel corso del Trecento, una crisi profonda. Nelle università si acuisce il conflitto tra la gerarchia cattolica che sorveglia sull’ortodossia e il pensiero dei maestri più liberi e spregiudicati, che hanno ormai assorbito completamente la lezione di Aristotele e degli altri filosofi antichi. La vita del maggiore pensatore del secolo, il francescano inglese Guglielmo da Occam, è, sotto questo profilo, emblematica. Perché, colpevole di aver difeso tesi ritenute eretiche, venne scomunicato e dovette rifugiarsi a Monaco e mettersi sotto la protezione dell’imperatore Ludovico il Bavaro, cui prestò la propria opera di polemista nella sua lotta antiecclesiastica e antiteocratica. La filosofia di Occam porta alle estreme conseguenze, e con ciò dissolve, il razionalismo che era stato caratteristico dei filosofi scolastici. Ragione e fede – egli sostiene – debbono essere distinte perché le verità di fede non possono essere conquistate, e tantomeno spiegate, per via razionale. Se ciò da un lato garantisce alla teologia una sfera autonoma, fondata sulla Rivelazione e indipendente dalle speculazioni dei filosofi antichi e moderni, dall’altro libera la ragione dai vincoli della fede. Di qui l’abbandono dei concetti fondamentali della metafisica e della logica tradizionali a vantaggio di un approccio più empirico e – se non suonasse anacronistico – ‘laico’ ai problemi della conoscenza: l’interesse per l’individuo e non per gli universali, per il sapere sperimentale piuttosto che per la speculazione astratta, per la fisica piuttosto che per la metafisica. Questo nuovo orientamento logico-scientifico avrà grande influenza nei secoli successivi: e mentre esso confina ai margini del discorso filosofico le istanze ‘umanistiche’ legate alla metafisica e all’etica (ciò che provocherà la protesta di un intellettuale come Petrarca contro i 11 logici e gli scienziati imperversanti nelle università), prelude a quel rigore e a quella concretezza di metodo che saranno propri della scienza di Galileo. 1.5 Le arti [Le nuove creazioni dell’architettura: la cattedrale e il palazzo pubblico] Nel lungo arco di tempo compreso tra l’anno Mille e l’inizio dell’Umanesimo, alla fine del XIV secolo, il paesaggio artistico italiano muta in maniera radicale. Lo sviluppo delle città porta infatti con sé la realizzazione di due nuove grandi strutture architettoniche, l’una religiosa, l’altra civile. Si tratta della chiesa cattedrale, sede del vescovo, e del palazzo in cui ha sede il governo cittadino. A questi due generi di costruzioni, simbolo dell’unità e dell’identità popolare, non lavora un solo architetto ma un’ampia schiera di ingegneri, artigiani e operai; e vi è coinvolta anzi l’intera città, e non per lo spazio di pochi anni ma per generazioni: sicché questi monumenti non rispecchiano un unico momento dell’arte ma documentano, nella loro composita fisionomia, l’evoluzione secolare delle tecniche e degli stili. La mappa dei più significativi edifici religiosi e laici corrisponde in sostanza a quella delle città che tra l’XI e il XIV secolo furono al centro della storia politica italiana: le più grandi, le più importanti dal punto di vista strategico, le più vivaci nel commercio, dunque quelle che avevano più risorse da impiegare nella realizzazione di opere così dispendiose – Milano (Sant’Ambrogio, secc. IX-XII; il celeberrimo Duomo, massimo esempio italiano del cosiddetto gotico internazionale, iniziato alla fine del Trecento); Modena (la cattedrale, edificata all’inizio del sec. XII da Lanfranco); Venezia (San Marco, iniziata nel 1063; il Palazzo Ducale, terminato nel 1400); Firenze (il battistero di San Giovanni, sec. XI; San Miniato al Monte, secc. XI-XII; il Duomo; il Palazzo della Signoria, sec. XIV), e poi Pisa, Siena, e molti altri comuni soprattutto centro-italiani. [Romanico e gotico] Legate strettamente alla cattedrale e al palazzo pubblico – quindi raramente autonome – sono le arti plastiche e visive: la scultura è per lo più decorazione, nei portali e nelle facciate delle chiese, o negli elementi architettonici interni (pulpiti, fonti battesimali); la pittura illustra o racconta, negli affreschi a parete, soggetti sacri, a beneficio del pubblico dei fedeli. Questa sinergia delle arti resta costante nei due periodi nei quali si è soliti suddividere l’epoca qui considerata: il romanico, in cui gli edifici sono caratterizzati da forme semplici e compatte, povere di decorazioni, che si svolgono in orizzontale piuttosto che in verticale (secoli XI-XII); e il gotico, in cui gli edifici, anche grazie al perfezionamento delle tecniche costruttive, tendono invece a sviluppi verticali, con altissimi piloni e archi a sesto acuto, fittissime decorazioni e guglie (secoli XIII-XIV). [Scultura e pittura] Gran parte delle sculture e delle pitture medievali ci è giunta anonima: non si trattava del resto di opere autonome bensì, generalmente, di parti dell’apparato decorativo del palazzo o della chiesa. Tra gli scultori di cui resta traccia nella documentazione meritano di essere ricordati Wiligelmo, che fu attivo a Modena all’inizio del secolo XII, e può essere considerato il caposcuola della scultura romanica emiliana (rilievi con le Storie della Genesi e dei Profeti sulla facciata del Duomo di Modena), e soprattutto Nicola Pisano e il figlio Giovanni. Nicola (attivo tra il 1248 e il 1284), probabilmente di origini pugliesi, è l’artista che introduce il nuovo gusto gotico nel centro Italia: opera soprattutto a Pisa, dove scolpisce i pulpiti del Battistero e del Duomo, e a Perugia (Fontana maggiore). Giovanni (circa 1245-1314) collabora prima col padre a Pisa e Perugia, poi realizza in proprio il pulpito di Sant’Andrea a Pistoia, quindi lavora come capomastro alla fabbrica del Duomo di Siena, una delle grandi imprese scultoree architettoniche del secondo Duecento. Per quanto riguarda la pittura, l’età pre-giottesca vede all’opera, in Toscana, due grandi maestri. Il primo è Cimabue (attivo nella seconda metà del sec. XIII), che opera tra Firenze (Maestà oggi al Louvre, Crocifisso di Santa Croce), Roma (dove esegue varie opere – tutte perdute – su commissione di papa Niccolò III), Assisi (decorazione con scene tratte dalla storia sacra della Basilica superiore) e Pisa (mosaico di San Giovanni Evangelista in Duomo). Il secondo è il senese 12 Duccio di Buoninsegna, che collabora col maestro Cimabue a Firenze (Maestà Rucellai) e ad Assisi, ma opera soprattutto nella città natale (Maestà per l’altare maggiore del Duomo). [Artisti polivalenti. Giotto e gli inizi della pittura laica] I maggiori artisti riuniscono insieme, per altro, competenze diverse: di costruttori, scultori, pittori. È il caso di Bonanno (tra l’XI e il XII sec.), che progetta la torre di Pisa e lavora ai portali bronzei della cattedrale; di Benedetto Antelami (tra il XII e il XIII sec.), architetto e scultore nel duomo di Fidenza, nella chiesa di Sant’Andrea a Vercelli e soprattutto in uno dei capolavori del gotico italiano, il battistero di Parma; di Arnolfo di Cambio (morto nel 1302), cui si attribuiscono i progetti di Santa Croce e Santa Maria del Fiore a Firenze (1295-96) e a cui si debbono alcuni tra i primi e più alti esempi di scultura profana: la statua di Carlo d’Angiò ora in Campidoglio e quella di Bonifacio VIII per il Duomo fiorentino; e infine e soprattutto di Giotto (1266-1337), il quale, oltre a progettare e avviare i lavori per il campanile di Santa Maria del Fiore, rivoluzionò la pittura italiana ed europea con il grande ciclo di affreschi per la Basilica di San Francesco ad Assisi e con quello altrettanto grandioso per la cappella degli Scrovegni a Padova (1303-5). Con Giotto e i suoi successori, la pittura passa da uno stadio primitivo, influenzato dai modelli bizantini (le tavole di questo periodo sono i cosiddetti fondi oro, perché le figure sacre, fortemente stilizzate, galleggiano su una superficie dorata che non dà alcuna impressione di realismo), ad una fase più matura: le vicende e i personaggi che troviamo negli affreschi assisiati e padovani ci appaiono reali, sentimentalmente veri, colti nella loro qualità individuali e non rappresi in tipi, così come accadeva nella tradizione precedente. Questo sforzo di realismo avrà tra i suoi effetti quello di aprire la strada ad un’arte non più legata soltanto ai temi biblici o all’agiografia ma aperta alla cronaca ‘laica’. Simone Martini (Siena 1284 – Avignone 1344), allievo di Duccio, affianca alle pitture di soggetto tradizionalmente religioso (affresco della Maestà nel Palazzo Pubblico di Siena, 1315), opere su soggetto ‘civile’ (San Ludovico da Tolosa incorona Roberto d’Angiò re di Napoli, 1317; il ritratto equestre di Guidoriccio da Fogliano, 1328). E alla fine degli anni Trenta del Trecento, Ambrogio Lorenzetti ci offre, nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, il primo grande esempio di pittura politica della tradizione italiana: gli affreschi con le Allegorie del buono e del cattivo governo. 2. Le letterature straniere [L’epica in Francia] In Francia, già a partire dal X secolo si registra una larga produzione di poesia in volgare di materia agiografica (in cui cioè si narrano e si esaltano le vite dei santi), spesso legata alla liturgia (come il Saint-Alexis, scritto nell’XI secolo in area normanna), o di materia epico-cavalleresca. Dal mito che avvolge la corte di Carlo Magno nascono attorno al Mille quelle leggende che danno lo spunto alle cosiddette chansons de geste (‘canzoni di gesta’). Si tratta di lunghe narrazioni in versi in cui si magnificano le imprese di Carlo e dei suoi Paladini (i cavalieri della sua corte) nella lotta contro i Saraceni, i quali penetrando da sud attraverso la Spagna rappresentarono una costante minaccia per la cristianità. Il fondamento storico di questi racconti è dunque solido: i protagonisti sono spesso identificabili con personaggi della corte carolingia e gli episodi narrati, per quanto siano trasfigurati dall’invenzione poetica, s’ispirano in genere a fatti realmente avvenuti. Il connubio tra storia nazionale e invenzione dovette garantire a queste opere un largo successo: è probabile che le chansons – a differenza di generi quasi esclusivamente ‘cortesi’ come la lirica e i romans – venissero lette sia nelle corti signorili sia nelle piazze delle città, destando l’interesse di un pubblico per così dire ‘trasversale’. Questa ampia circolazione rende anche ragione di una caratteristica peculiare di questi testi, cioè dell’abbondanza di varianti di forma e di contenuto, dunque di vere e proprie versioni di una stessa chanson: segno del fatto che si trattava di opere per lo più recitate, e dunque più o meno ampiamente ritoccate a seconda della cultura dei giullari (gli anonimi cantori che eseguivano le chansons presso le corti e nelle città) e delle circostanze in cui avveniva la recita (durata della performance, composizione del pubblico, ecc.). 13 [La Chanson de Roland] La più famosa delle chansons de geste antico-francesi è la Chanson de Roland, la cui prima redazione attestata risale alla fine del sec. XI. In una lunga serie di lasse di decasillabi, essa narra della spedizione effettuata dall’esercito francese in Spagna nel 778, e dello sterminio, da parte dei Saraceni, della retroguardia dell’esercito cristiano all’interno della quale si trova l’eroe Orlando. Alla semplicità della trama corrisponde un’altrettanto schematica visione del mondo: i Saraceni rappresentano il male, i cristiani rappresentano il bene, e i feudatari e i cavalieri francesi sono i paladini di una fede che dev’essere difesa con la spada. Anche i protagonisti sono, piuttosto che esseri umani in carne ed ossa, simboli della virtù o del vizio: il prototipo dell’eroe prode e generoso (Orlando) contro il prototipo del traditore (il conte Gano, che consegna l’esercito francese al nemico). Dal punto di vista formale, va notata la caratteristica tecnica narrativa che l’opera condivide con le altre chansons: l’uso di espressioni-clichés frequentemente ripetute o di motivi ricorrenti che potevano essere agevolmente memorizzati dal giullare e dal suo pubblico. È il cosiddetto ‘stile formulare’, caratteristico di ogni scrittura epica. Quanto infine alla fortuna delle chansons, va ricordato che da questa ‘materia carolingia’ cucita insieme in sempre nuove variazioni dai giullari trarranno ispirazione generazioni di poeti anche italiani, ben oltre il Medioevo (si pensi a Boiardo e ad Ariosto). [Il romanzo in Francia] Affine, ma distinta, è la tradizione, sempre francese, dei romanzi cortesi. Mentre le chansons de geste originano dalla storia nazionale, e sia pure una storia trasfigurata in mito (di solito, come si è detto, il mito delle battaglie sostenute dai soldati cristiani per la ‘riconquista’ delle terre occupate dai musulmani), i romanzi in versi dei secoli XII e XIII o (1) s’ispirano alla storia antica o (2) sono narrazioni per lo più o del tutto fantastiche. (1) I romanzi ‘storici’ traducono o rielaborano materiali relativi ad antichi eventi ed eroi, rendendoli accessibili ad un’aristocrazia che spesso non era in grado di leggere il latino. La leggenda di Alessandro Magno è così raccontata da Albéric de Pisançon nel Roman d’Alexandre (circa 1110), quella della guerra di Troia da Benoît de Sainte-Maure nel Roman de Troie (circa 1165). (2) Nella seconda metà del sec. XII, i romanzi storici veri e propri lasciano il posto alle epopee dei cavalieri, che non attingono alle leggende greco-latine bensì alla tradizione popolare, o nascono dalla libera fantasia degli autori. La cosiddetta materia bretone, in cui si narrano le avventure di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, ispira per primo il poeta Robert Wace, che nel Roman de Brut (1155) mette in versi l’Historia regum Britanniae scritta circa un ventennio prima dall’inglese Goffredo di Monmouth. Notevole – e caratteristico di questo genere letterario – è il fatto che la leggenda arturiana venga usata per celebrare i re anglo-normanni, alla cui corte Wace compone la propria opera: il passato mitico serve spesso, nell’epica e nel romanzo cavalleresco, a legittimare il potere presente. Alla materia bretone appartiene anche il più grande romanzo d’amore medievale, la storia di Tristano e Isotta (storia del ‘folle amore’ fra Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, e la promessa sposa del re, Isotta: folle amore che porterà i due adulteri alla morte), che ci è giunta – come molte delle opere narrative di questo periodo – in differenti versioni: e si ricordino almeno quella anglo-normanna di Thomas (circa 1170) e quella, quasi contemporanea, di Béroul, nonché il Tristan in prosa, scritto probabilmente agli inizi del sec. XIII. [Chrétien de Troyes] Maestro indiscusso del genere ‘romanzo’ fondato non sulla storia ma sull’invenzione è però Chrétien de Troyes, vissuto nella seconda metà del XII secolo in Inghilterra, in Francia e nelle Fiandre, e autore di Erec et Enide, Cligès, Yvain, Lancelot. Come risulta evidente sin dal titolo, questi romanzi sono epopee personali in cui l’eroe è chiamato a superare «una serie successiva di ostacoli, che implicano valore e lealtà (la sconfitta di uno o più prepotenti), ovvero sagace capacità di sconfiggere magie e incantesimi (la liberazione di un singolo personaggio o di una comunità da un sortilegio, ma anche la conquista di qualche talismano prezioso), o infine perfetto dominio di sé: sono queste ultime, di solito, le situazioni che coinvolgono i rapporti con l’altro sesso» (Meneghetti). Si tratta cioè, in certo senso, degli antenati del moderno Bildungsroman (‘romanzo di formazione’): la costruzione della personalità attraverso l’avventura. 14 [Altri generi narrativi: i lais e i romanzi in prosa] Epica e romanzo cavalleresco non esauriscono il repertorio dei generi narrativi antico-francesi. Molto più brevi dei romanzi (poche centinaia, a volte poche decine di versi) sono i lais, che tramandano leggende di origine celtica e bretone. La maggior parte dei lais a noi pervenuti è opera non di uno scrittore ma – caso rarissimo nel Medioevo - di una scrittrice, Maria di Francia, vissuta nella seconda metà del sec. XII (dunque negli stessi anni di Chrétien de Troyes) alla corte di Enrico Plantageneto. Così come l’epica delle chansons e i romanzi, anche i lais sono narrazioni in versi. La prosa, in latino e nelle lingue romanze, era adoperata di solito per le scritture sacre, per i documenti ufficiali, per la storiografia. Perché essa venga usata anche nella letteratura d’invenzione in volgare occorre attendere il Duecento, quando il materiale leggendario cantato dai poeti troverà spazio in grandi cicli prosastici destinati non più alla recitazione ma alla lettura ‘privata’: e nasceranno la saga del Lancelot-Graal (1215-1235), quella già citata del Tristan (1230-1235), e quella di Guiron le Courtois (1235 circa). [I romanzi allegorici: il Roman de la Rose] Se l’epica delle chansons de geste ‘ricrea’ una leggenda a partire da dati storici oggettivi, e se il romanzo cavalleresco inventa i suoi personaggi facendoli muovere in un mondo immaginario di corti meravigliose, tornei, incantamenti, i romanzi allegorici, le cosiddette ‘visioni’ rinunciano ad ogni legame con la realtà e mettono al centro della narrazione non degli esseri umani ma delle astrazioni, dei simboli. Prototipo e modello di queste allegorie è la Psicomachia del poeta latino Prudenzio (secc. IV-V d.C.), che mette in scena una guerra tra i vizi e le virtù cristiane dalla quale queste ultime riescono vittoriose. Tra i ‘romanzi’ che direttamente o indirettamente s’ispirano all’opera prudenziana merita di essere ricordato, anche per la diffusione che esso a sua volta ebbe in tutta Europa, il Roman de la Rose (‘Romanzo della rosa’, ma si cita sempre con il titolo originale), iniziato da Guillaume de Lorris attorno al 1240 e terminato da Jean de Meung verso la fine del Duecento. In sogno, l’autore-protagonista aspira a conquistare la Rosa, simbolo del sesso femminile, ma in questa impresa è ostacolato da una serie di forze ostili raffigurate come simboli: la Vergogna, il Pericolo, la Gelosia, Malabocca, ecc. A tali ‘nemici’ si oppongono altrettante virtù ‘positive’: la Pietà, la Bella Accoglienza, Venere, ecc. Il romanzo è la storia di questa lunga ma infine vittoriosa battaglia. [I prodromi del teatro] Il teatro delle origini è legato alla liturgia e alla vita religiosa della comunità. Durante le funzioni sacre, o in occasione delle festività religiose, gruppi di fedeli mettevano in scena episodi tratti dalle vite dei santi o dalla Bibbia (soprattutto la storia di Adamo ed Eva, o della Passione): ed è questa, del resto, una pratica di devozione ancor oggi vitale. Il processo di ‘laicizzazione’ del teatro si avvia proprio in Francia nel corso del XII e del XIII secolo, quando le recite (jeux, nella tradizione francese, autos, in quella spagnola) iniziano ad aver luogo non più all’interno delle chiese ma all’aperto, e nuovi temi profani trovano spazio accanto a quelli sacri. Tale processo potrà dirsi compiuto con le opere di Adam de la Halle (1240-1288): il Jeu de la Feullié, che mette in scena la comica storia di un paesano che si reca nella grande città per studiare, e il Jeu de Robin et Marion, commedia a due voci in cui un cavaliere tenta di sedurre una pastorella. [La lirica in Francia: trovieri e trovatori] Anche la lirica in volgare nasce e si sviluppa, prima che altrove, sul territorio dell’attuale Francia. Nel nord, in una vasta regione che ha al suo centro Parigi, il volgare è il dialetto oitanico (la lingua d’oïl), e i lirici che a partire dagli anni Settanta del secolo XII compongono in questa lingua sono detti trovieri. Si tratta di borghesi, di cavalieri come il Chastelain de Coucy, e di nobili come Goffredo di Bretagna o Thibaut di Navarra. Nel sud, nelle regioni della Provenza e della Linguadoca, il volgare è il dialetto occitanico (la lingua d’oc). È in quest’area e in questo idioma che - a partire dalla metà del sec. XI e per circa due secoli, in netto anticipo dunque rispetto a quella dei trovieri - viene composta la poesia dei trovatori. [La poesia trobadorica: i temi] I temi della poesia trobadorica sono molteplici: (1) la cronaca e la vita politica contemporanea commentate con forte spirito partigiano da poeti che spesso risiedevano nelle corti di prìncipi che in quella cronaca e in quella politica erano direttamente coinvolti; (2) la satira, poiché spesso i poeti intrattengono il loro pubblico con scherzi e invettive all’indirizzo dei loro avversari (tipica è la forma poetica della tenzone, un dialogo in versi nel quale due poeti si affrontano ciascuno argomentando, stanza dopo stanza, il proprio punto di vista); (3) la 15 morale e la religione (il genere poetico in cui vengono trattati questi temi si definisce serventese). Ma il tema principale della lirica trobadorica è l’amore, e un particolare tipo di amore, idealizzato e immateriale (l’amore detto appunto cortese), che influenzerà profondamente non solo la lirica successiva ma l’immaginario stesso degli autori e dei lettori europei, la concezione che essi avranno (e che noi moderni avremo) dell’amore. L’amore dei trovatori non raggiunge mai il suo scopo: il desiderio del poeta-amante non viene mai soddisfatto. Egli ama, e perciò loda, corteggia, implora una donna che è già sposata – talvolta è l’irraggiungibile signora della corte presso la quale il poeta si trova – e si offre a lei non come un amante all’amata ma come il vassallo al suo signore. In modi e con termini simili a quelli che si usano nel patto feudale, il poeta si raccomanda a lei, le si dà in omaggio, la chiama midons (‘mio signore’), svolge il proprio servizio d’amore a suo vantaggio, ma senza aspirare a una ricompensa: in questo che è stato definito come ‘paradosso cortese’ – cioè la devozione per una donna destinata a rimanere per sempre inaccessibile – risiede buona parte del fascino della lirica provenzale. [La poesia trobadorica: la ricezione] Dal punto di vista della ricezione dei testi, vanno sottolineati soprattutto due elementi. Il primo è che quella trobadorica è per lo più poesia originalmente pensata per essere recitata davanti ad una corte. È probabile che essa corrispondesse ad una sorta di pratica sociale, uno spettacolo pubblico: qualcosa di simile al teatro attuale e, invece, di ben diverso rispetto alla nostra attuale esperienza della poesia: che è un’esperienza solitaria, fatta quasi esclusivamente attraverso la lettura. I trovatori erano spesso anche gli esecutori dei loro testi; altrimenti, essi erano recitati da giullari che viaggiavano di corte in corte ed erano in possesso di un congruo repertorio di poesie altrui. Il secondo elemento è la musica. Nella poesia trobadorica, parole e musica vanno insieme, analogamente a ciò che avviene nelle moderne canzoni: il poeta mette in musica i propri testi oppure, una volta compostili, si rivolge a musici professionisti. Comunque sia, la recitazione dei testi presupponeva quasi sempre l’accompagnamento musicale. [I principali trovatori] Dato questo stretto legame con le corti, non sorprende il fatto che molti trovatori appartengano all’aristocrazia: è il caso di quello che convenzionalmente è considerato il primo trovatore, Guglielmo IX, duca d’Aquitania (1071-1126), o di Raimbaut d’Aurenga (1144-1173). L’estrazione sociale è importante, perché soltanto i ceti più elevati potevano aspirare a quella preparazione culturale che la poesia trobadorica richiede. Pur appropriandosi talvolta di motivi definibili come ‘popolari’, essa è infatti una forma letteraria dotta sia sotto il profilo dei contenuti sia sotto il profilo dello stile. Quanto ai contenuti, i trovatori si ispirano spesso alla poesia erotica latina: per esempio, del motivo dell’amor de lonh e ses vezer, cioè dell’innamoramento per una donna lontana e mai vista, motivo caratteristico del trovatore Jaufre Rudel (metà del sec. XII), si sono potute indicare le fonti nelle Heroides di Ovidio. Quanto allo stile, la poesia trobadorica si distingue per una raffinatissima elaborazione formale, che implica la perfetta padronanza delle risorse linguistiche, metriche, retoriche. Poeti come il suddetto Raimbaut d’Aurenga, o come Peire d’Alvernhe, Marcabruno (di poco successivo al primo trovatore Guglielmo IX), Arnaut Daniel (fine sec. XII: il trovatore più amato da Dante, che lo elogia nella Commedia), ricorrono anzi intenzionalmente ad uno stile difficile, oscuro, detto trobar clus, col proposito di selezionare il loro pubblico impedendo agli incolti l’accesso alla poesia. A questi fautori di uno stile difficile si oppongono idealmente quei trovatori che pur senza rinunciare ad una forma raffinata, non permettono che questa si frapponga come un ostacolo alla comprensione del pensiero. Tra i seguaci di questo trobar leu (‘poesia di stile leggero, facile’) va segnalato almeno il nome di quello che nella tradizione successiva verrà considerato come un poeta ‘classico’, cioè un vero e proprio modello per lo stile e per i contenuti: Bernart de Ventadorn, la cui opera si colloca tra il 1150 e il 1170. Come si è accennato, la poesia dei trovatori parla soprattutto ma non soltanto d’amore. Autori come il già citato Marcabruno, o come Peire Cardenal, si servono della poesia non per dilettare o per commuovere il loro pubblico ma per correggerne i costumi: e i loro serventesi sono, di fatto, prediche in versi che si richiamano, piuttosto che alla tradizione della lirica laica, alle Sacre Scritture e ai padri della Chiesa. Al polo opposto – non l’ascesi ma il totale coinvolgimento nelle 16 vicende umane – sta il trovatore Bertran de Born. Signore del castello di Altaforte, vissuto nella seconda metà del secolo XII – cioè in quello che può essere considerato il periodo di massimo sviluppo e splendore della poesia trobadorica -, di lui ci resta una quarantina di testi, buona parte dei quali dedicata a descrivere e a celebrare la guerra. Fu apprezzato da Dante, che lo cita come modello da imitare nel De vulgari eloquentia, insieme a Arnaut Daniel e a Giraut de Borneil; ma il ‘poeta guerriero’ ebbe anche parte attiva nelle lotte che opposero i feudatari francesi e inglesi, e ciò gli vale un posto nel canto XXVIII dell’Inferno, tra i seminatori di discordia. Al principio del secolo XIII, papa Innocenzo III indice una crociata contro alcune città e corti del sud della Francia, accusate di essere altrettanti focolai di eresia (cfr. § 1.2): per il principale alleato del papa, il re di Francia, è l’occasione per ridurre sotto il proprio dominio i feudi meridionali. Una delle conseguenze di questi eventi politico-militari sarà l’emigrazione di alcuni trovatori verso l’Italia, in cerca di nuovi mecenati. Già prima della crociata antialbigese, in realtà, alcuni trovatori avevano trovato ospitalità nelle corti del nord Italia: Raimbaut de Vaqueiras (1155-1205), per esempio, era stato a Genova (e infatti usa il dialetto genovese in una delle sue poesie, alternandolo al provenzale) e nel Monferrato, alla corte di Bonifacio. Ma nei primi decenni del Duecento la migrazione si fa più intensa. Poeti come Aimeric de Peguilhan o Uc de Saint-Circ (noto anche per aver realizzato, ad uso del suo pubblico di corte, le prime antologie dei trovatori e per aver raccolto le biografie dei suoi predecessori, le cosiddette vidas) si stabiliscono nelle corti del Veneto (a Este, Treviso, Padova). Non solo: col tempo, la lingua provenzale viene adoperata come lingua della poesia anche da autori nati e vissuti sempre in Italia: il bolognese Rambertino Buvalelli (morto nel 1221), il genovese Lanfranco Cigala (morto nel 1257), e soprattutto il maggiore di questi ‘trovatori italiani’, Sordello da Goito (circa 1200-1269): il mantovano che Dante e Virgilio incontreranno nel sesto canto del Purgatorio. [La letteratura nelle altre aree europee] Benché sia la Francia, in questi primi secoli, a detenere il primato tanto nella narrativa quanto nella lirica, entrambi i generi sono frequentati anche in altri paesi europei, spesso previa traduzione o imitazione dei modelli francesi. Quanto all’epica, la letteratura spagnola vanta un capolavoro nel Poema de mio Cid, storia del mitico eroe che liberò Valencia dai Mori e diede origine alle nobili dinastie degli Aragona e dei Navarra. Quanto alla lirica, la poesia dei trovatori provenzali venne presto esportata nelle regioni limitrofe: in Italia, in Germania e nella stessa Spagna. In Germania, si registra una vivace tradizione di lirica in anticotedesco: sono i cosiddetti Minnesänger, il più importante dei quali fu Walther von der Vogelweide. Nelle regioni della Castiglia e dell’attuale Portogallo, nel XIII e nel XIV secolo, prese corpo una tradizione di lirica in lingua galego-portoghese che ebbe tra i suoi esponenti anche grandi aristocratici come il re Alfonso X el Sabio – epiteto da tradursi piuttosto come ‘il Sapiente’ che come ‘il Saggio’: 1221-1284 - e suo nipote Dom Denis (in generale, è da osservare che gli esordi della lirica volgare, tanto in Francia quanto in Spagna quanto in Italia, sono spesso legati all’iniziativa personale di un principe o di una corte signorile). Infine, facendo un grosso salto nello spazio e nel tempo, merita almeno un cenno la figura del maggiore scrittore inglese del Medioevo: Geoffrey Chaucer, vissuto tra il 1340 e il 1400 in Inghilterra e autore tra l’altro dei celebri Racconti di Canterbury, i quali – attraverso l’artificio narrativo della cornice, che Chaucer riprende dalle novelle dell’italiano Giovanni Sercambi – si fingono narrati da un colorito gruppo di pellegrini in viaggio da Southwark a Canterbury. 3. Le tendenze della letteratura italiana 3.1 Il quadro d’insieme [Il contesto politico e culturale] La storia della letteratura italiana del Medioevo non è una storia unitaria. Alcune regioni, come la Toscana e l’Emilia, conquistano sùbito, sin dagli albori del Duecento, un primato culturale che conserveranno stabilmente nei secoli successivi. Altre, come la 17 Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia in generale, conoscono una breve fioritura poetica, coincidente a grandi linee col regno di Federico II (1196-1250), alla quale tiene dietro un lunghissimo silenzio artistico. Al costituirsi di una letteratura italiana in volgare che superi le barriere regionali sono d’ostacolo sia la frammentazione politica, dal momento che nella penisola si affrontano almeno tre grandi potenze (il papa, l’imperatore tedesco, la monarchia francese), ciascuna dotata di una sua propria area di influenza, soggetta ad ampliamenti o a riduzioni a seconda delle vicende politicomilitari; sia, soprattutto, la frammentazione linguistica. Mentre perdurava ovunque, e ad ogni livello della comunicazione scritta, l’uso del latino, nessuno dei dialetti parlati e scritti nelle varie regioni italiane godeva di prestigio tale da poter imporsi a scriventi (poeti e prosatori) originari di altre aree della penisola. Farsi da lingua regionale lingua nazionale sarà il destino del toscano, ma perché questa lenta conquista abbia luogo occorreranno l’esempio e l’opera dei tre massimi scrittori del nostro Medioevo: Dante, Petrarca e Boccaccio. [La questione della lingua] Sino ad allora, la storia della letteratura italiana altro non è se non la storia delle sue varietà regionali: manca un idioma comune; manca - e mancherà sino alle soglie dell’età moderna - un pubblico nazionale che ne favorisca e solleciti la creazione. Al di sopra di questa vita multiforme dei dialetti sta, come si è detto, la lingua della comunicazione colta, il latino. Nelle pagine che seguono ci limiteremo a dar conto degli autori e dei testi più significativi della letteratura in volgare: daremo in tal modo alla lingua un valore discriminante che essa in verità non meriterebbe di avere, nel senso che la prosa e la poesia in latino hanno pieno titolo per partecipare alla storia nella letteratura italiana del Medioevo (ben oltre, quindi, il Duecento) dal momento che lungo tutto quest’arco cronologico due furono di fatto le lingue di cultura (tre se aggiungiamo, per certe epoche e per certe aree, il francese), e delle due fu anzi il latino a poter vantare per lungo tempo la diffusione e il prestigio della lingua ‘ufficiale’. 3.2 La poesia [Il ‘ritardo’ italiano] La poesia italiana nasce in ritardo rispetto a quella di altre regioni europee. Già prima del Mille, in area francese, germanica e anglo-sassone vengono prodotti testi in versi d’argomento leggendario o devoto, scritti nei volgari locali; col nuovo millennio, poi, si afferma nelle città e nelle corti francesi la nuova letteratura delle chansons de geste, le leggende legate alla corte di Carlo Magno e alle gesta mitiche dei suoi paladini, mentre a sud, nelle corti provenzali, ha inizio la tradizione poetica dei trovatori (cfr. § 2). I primi documenti di poesia italiana in volgare si collocano invece tra la fine del Cento e l’inizio del Duecento. Recentissima è la scoperta di una canzone d’amore (Quando eu stava) databile appunto agli ultimi anni del dodicesimo secolo o ai primi del tredicesimo, e localizzabile con ogni probabilità in area padanoorientale: si tratta, per quanto sappiamo, del più antico componimento d’argomento amoroso scritto in un volgare italiano. [La poesia morale e religiosa] Per il resto, le poesie di quest’epoca sono tutte d’argomento morale e religioso. Come era accaduto anche nelle altre letterature romanze, il distacco dal latino è infatti spesso motivato dall’esigenza di far intendere un messaggio edificante a un pubblico di incolti. Si tratta dunque - come nel caso del Ritmo cassinese (così definito perché prodotto probabilmente nell’abbazia di Montecassino) o del Ritmo su Sant’Alessio (uno dei molti testi relativi alla leggenda del santo, diffusissima nel Medioevo) - di componimenti elementari sia per la struttura metrica e retorica, sia per i concetti adoperati (nessuna complicazione teologica ma semplici inviti alla virtù e aneddoti esemplari). Più tardi, a partire dagli anni Venti e Trenta del Duecento, la poesia religiosa in volgare conoscerà un’espansione più organica, concentrata nelle regioni centro-settentrionali della penisola. Al Centro, soprattutto in seguito all’opera di due tra le massime figure della spiritualità cristiana del tempo, San Francesco d’Assisi e Iacopone da Todi non per caso membro dell’Ordine di San Francesco - al cui nome è legata l’espansione del genere poetico di materia sacra, la lauda. A Nord, ormai nella seconda metà del Duecento, altri poeti certamente o probabilmente legati alla Chiesa compongono a loro volta lunghi testi di argomento 18 morale a sfondo cristiano, ciascuno nel suo volgare nativo: i più importanti sono il veronese Giacomino, il milanese Bonvesin da la Riva e il cosiddetto Anonimo Genovese. [La poesia della ‘scuola siciliana’. La lingua dei poeti ‘federiciani’] Un consistente gruppo di poeti in volgare si raccoglie attorno alla corte dell’imperatore Federico II, probabilmente nel terzo decennio del XIII secolo. Sono per lo più siciliani ma, dato che si tratta di una corte itinerante, anche pugliesi, calabresi, campani, laziali; sono notai, cancellieri, funzionari di vario rango. La lingua in cui la maggior parte di loro scrive dev’essere un siciliano ‘illustre’ depurato dei tratti dialettali più marcati e ricco di latinismi e provenzalismi: diversa, quindi, più raffinata e colta rispetto al siciliano «quod prodit a terrigenis mediocribus» (‘come suona in bocca ai nativi di media estrazione’) condannato da Dante nel De vulgari eloquentia (I xii 6) come idioma rozzo e inadatto alla letteratura. Lo stesso selezionatissimo repertorio lessicale adoperato dai lirici siciliani, e lo stretto legame con i modelli trovabadorici, allontanava del resto questa poesia dal registro quotidiano e realistico, che avrebbe richiesto un’aderenza maggiore al dialetto, e spingeva invece gli autori a confrontarsi con le lingue della tradizione colta, quelle che erano state usate nei testi letterari cui si ispiravano i loro propri esperimenti di poesia: il latino e il provenzale, appunto. [Una poesia monotematica: l’amore] La poesia dei siciliani (termine che va inteso, si badi bene, in senso culturale e non geografico: ‘siciliani’ si dicono per convenzione tutti gli autori che mostrano di essere in contatto con la corte di Federico II) è quasi esclusivamente poesia d’amore. I rari testi d’argomento morale sono opera degli autori più tardi della ‘scuola’, quelli che probabilmente vennero a contatto con la poesia toscana; e sono testi di scarso impegno e di ridotta estensione: sonetti, mai canzoni. Il tema politico, già vivissimo fra i trovatori, è del tutto assente dal canone. Tale scelta tematica ha probabilmente motivazioni di ordine linguistico e stilistico: sia che il volgare, lingua della comunicazione privata, non ufficiale, venisse ritenuto inadatto ad esprimere contenuti di rilievo pubblico; sia che il tema squisito ed eterno dell’amore avesse agli occhi dei funzionari-poeti della cerchia di Federico un prestigio particolare, analogamente a ciò che avverrà mezzo secolo dopo con i cosiddetti stilnovisti. [Caratteri della poesia siciliana] Anche parlando d’amore, tuttavia, i poeti siciliani manifestano una volontà di chiusura e isolamento rispetto al contesto storico-sociale. Nelle loro canzoni manca regolarmente la tornata, cioè quella stanza di congedo che nelle canzoni provenzali e poi in quelle toscane serve a indirizzare il testo all’amata, o a un destinatario individuato, o al pubblico dei lettori. Rarissime sono le tenzoni, cioè quegli scambi di sonetti o canzoni che formeranno invece il tessuto connettivo della società letteraria italiana nel secondo Duecento e nel Trecento. Quanto al contenuto dei testi, in essi vi è una quasi totale assenza di eventi, siano essi traumatici o liberatori, ciò che fa sì che il poeta-amante ci appaia prigioniero di un eterno presente di dolore e di aspettazione (occorrerà attendere Dante perché la dimensione della memoria venga finalmente rivendicata alla poesia). Infine, il poeta-amante osserva scrupolosamente il precetto trobadorico del celar (‘nascondere’, in provenzale) della salvaguardia del proprio amore e del buon nome della donna attraverso il silenzio per timore dei ‘malparlieri’: il lettore ignora in pratica tutti i dettagli della ‘storia’. Queste caratteristiche fanno della poesia dei siciliani un’esperienza puramente privata che non sembra aver bisogno né di un pubblico (la corte, il ceto nobiliare o alto-borghese che pure dovette essere il primo consumatore di queste liriche) né, almeno in apparenza, di un confronto con gli altri rimatori. [La metrica] Nel settore della metrica, il modello trobadorico è accolto in maniera selettiva. Non vengono recepite né le forme della poesia colloquiale o invettiva come il partimen e la cobla esparsa, che godranno di una pur limitata fortuna tra i toscani, né le forme della poesia per musica come la dansa (i siciliani non conoscono la ballata, che è invenzione di poeti centro-italiani), né infine - lasciando l’àmbito strettamente metrico - i cosiddetti generi tematici come la pastorella, l’enueg o il plazer. Prende corpo invece un canone tripartito nel quale la canzone occupa di gran lunga il posto più importante e fanno qualche rara apparizione il discordo (sorta di lunga canzone in versicoli fittamente rimati e schema metrico irregolare) e il sonetto. Mentre il discordo, frequentato 19 dal maggiore dei poeti siciliani, Giacomo da Lentini, oltre che da Giacomino Pugliese e Re Giovanni, non avrà che un minimo successo in Toscana e verrà presto abbandonato a vantaggio di forme meno irregolari, il nuovo genere metrico del sonetto (inventato forse dallo stesso Giacomo, certamente da un poeta della cerchia federiciana) andrà incontro invece a un’enorme fortuna, e sarà insomma il lascito più significativo della scuola poetica siciliana alla tradizione letteraria europea. [I motivi] Così come la gamma dei generi metrici, altrettanto povera e ristretta è quella dei motivi e del lessico poetico. All’interno del tema amoroso è infatti possibile isolare un numero di motivi ricorrenti tutto sommato piuttosto ridotto: quello del dolore del poeta per la ritrosia dell’amata (motivo che a sua volta dà origine ad una costellazione di topoi: il pianto senza consolazione, la gelosia, il fuoco d’amore, eccetera); quello dei maldicenti che seminano discordia tra l’amante e l’amata; quello dell’effetto beatifico che ha per il poeta la visione della donna; quello della lontananza o del servizio amoroso, equiparato - come nei trovatori - al rapporto di fedeltà che lega il vassallo al suo sovrano. [Le metafore e il lessico] Scendendo ancora dal generale al particolare troviamo che anche il repertorio delle metafore e delle parole contempla un ristretto numero di elementi che si ripetono di testo in testo con minime variazioni. Dalla contaminazione tra la retorica cortese e la retorica sacra nasce così l’immagine dell’amata come nuovo miracolo, ‘bella come e più del sole e delle stelle’, ‘profumata come rosa’, ‘lucente più delle pietre preziose’. In modo simmetrico, il poeta è identificato volta per volta come pittore che dipinge in cuore l’immagine della donna per sostenerne l’assenza, oppure come naufrago o nave in balia dei flutti, o ancora come salamandra che vive «in foco amoroso». L’impressione che si ricava da una lettura del non amplissimo corpus della poesia siciliana (poco più di venti autori, per un totale di circa 150 testi) è dunque quella di trovarsi di fronte ad un’attività di laboratorio condotta a partire da pochi elementi-base da parte di un nucleo di intellettuali compatto per estrazione sociale e per fisionomia culturale e artistica: a questo terreno comune di linguaggio e di immagini, che può dare luogo a contatti intertestuali ma che si traduce principalmente in una forte ed estesa ‘aria di famiglia’, si affida l’identità di una ‘scuola poetica siciliana’. [Lo sviluppo storico della ‘scuola’: il ruolo di Federico II] Una storia della lirica siciliana non si può scrivere perché le informazioni che si riescono a ricavare dai testi sono troppo scarse e, soprattutto, perché sono troppi i vuoti nella documentazione relativa agli autori. Si propone generalmente una scansione in due tempi: una prima e una seconda generazione siciliana. Tale scansione è plausibile, a patto che non venga applicata rigorosamente. Alla generazione dei ‘fondatori’, fioriti nella prima metà del secolo appartiene ovviamente Federico II di Svevia (11941250), cui i manoscritti attribuiscono un sonetto e tre canzoni. Giovanissimo re di Sicilia sotto la tutela di papa Innocenzo III, quindi imperatore (1220), Federico fu per quasi mezzo secolo promotore di un’attività culturale d’eccezionale intensità sia nel campo delle arti (oltre alla produzione letteraria in volgare, latino e greco vanno ricordate le grandi realizzazioni monumentali e architettoniche, prima tra tutte l’edificazione di Castel del Monte, presso Andria, nei primi anni Quaranta) sia in quello della filosofia (alla sua corte, tra l’altro, Michele Scoto prosegue la traduzione in latino del corpus aristotelico e delle opere di Avicenna e di Averroè; e lo stesso corrisponde con i più rinomati filosofi arabi del tempo). Culmine di tale attività è la fondazione a Napoli, nel 1224, di quella che a lungo resterà l’unica Università del Mezzogiorno d’Italia. [Pier delle Vigne] Alla figura dell’imperatore è strettamente legata quella di Pier delle Vigne (1190-1249). Capuano di origine, fu il più influente consigliere di Federico. Morì suicida nel 1249 in seguito a false accuse di cospirazione, come vuole una tradizione alla quale attinge tra gli altri anche Dante nel canto XIII dell’Inferno. Retore e epistolografo insigne, Piero fu però anche poeta: egli è l’unico esponente della Magna Curia per il quale sia documentato l’impiego dei due idiomi in poesia, il volgare materno e il latino. [Giacomo da Lenitini: l’invenzione del sonetto e la tenzone] Né l’imperatore né il suo braccio destro Pier delle Vigne, tuttavia, hanno la statura dei capiscuola. Tale ruolo compete, per la critica moderna come per gli antichi lettori di poesia, a Giacomo da Lentini. Il Notaro, com’è 20 chiamato nei manoscritti antichi e da Dante nella Commedia, spicca tra gli altri membri della corte federiciana per maturità di stile e forza inventiva. Al suo nome sono legate tutte le conquiste formali che la poesia siciliana consegna alla nostra letteratura. Se non l’inventore, egli è certo uno dei primi frequentatori del sonetto, genere metrico che nel suo canzoniere ha un peso percentuale paragonabile solo a quello che gli verrà concesso dai rimatori toscani una o due generazioni più tardi. All’invenzione del sonetto si lega quella del genere che di quel metro sfrutta al meglio la duttilità: la tenzone. In due delle poche tenzoni siciliane che ci sono pervenute Giacomo occupa una posizione di rilievo: nell’una è chiamato a «determinare» (tale quale la determinatio della quaestio scolastica) un quesito proposto, a lui e a Pier delle Vigne, in un sonetto di Jacopo Mostacci sulla natura d’amore: se esso sia sostanza o accidente. Nell’altra sostiene un doppio botta e risposta con l’Abate di Tivoli - un rimatore della cerchia federiciana attestato solo in questa tenzone - con reciproche accuse di simulazione in fatto di sentimenti e di ingenuità e rozzezza nella teoria d’amore. [Temi, motivi, stile] Nel canzoniere di Giacomo da Lentini troviamo riuniti tutti i temi, i motivi, le soluzioni formali che ebbero corso tra i poeti siciliani. Il paradosso dell’incomunicabilità, per cui il poeta non può manifestare il suo amore se non svilendo sé e la donna, trova in lui la formulazione più esplicita: «Amor non vole ch’io clami | merzede c’onn’omo clama, | né che io m’avanti c’ami, | c’ogn’omo s’avanta c’ama» (‘Amore non vuole che chieda pietà, come fanno tutti gli altri, né che mi vanti del mio amore, dato che tutti quanti se ne vantano’). E lo stesso può dirsi per il motivo poi stilnovista dell’ineffabilità del sentimento: «Lo meo ’namoramento | non pò parire in detto» (‘Il mio amore non può essere espresso con parole’); o per quello della lontananza: «Non vo’ più soferenza, | né dimorare oimai | senza madonna, di cui moro stando» (‘Non voglio più soffrire, né stare lontano dalla mia donna, perché ne muoio’). Il Notaro è inoltre l’iniziatore di una tradizione di poesia formalmente complessa e ‘chiusa’ (trobar clus, come si definisce in provenzale) che avrà il suo culmine in Guittone d’Arezzo: i 176 versi del discordo sono una buona palestra per questo genere di esercizi, e più ancora lo è la fitta rete di rime interne sulla quale vengono impostati certi sonetti (per es. quello sul viso dell’amata: «Eo viso e son diviso da lo viso» ‘Guardo ma sono lontano dal viso [dell’amata]’). [Guido delle Colonne: la poesia in volgare] Così come Giacomo da Lentini, anche Guido delle Colonne - giudice messinese e funzionario imperiale attestato tra il 1243 e il 1280 - viene citato da Dante nel De vulgari eloquentia come poeta insigne della scuola federiciana. Di lui ci restano cinque canzoni che sperimentano i due registri topici della poesia siciliana, quello euforico per l’amore raggiunto e la ‘merzede’ concessa dalla donna e quello simmetrico del ‘servizio’ non ripagato (si pensi all’analogia tra amante e vassallo cui s’è accennato in precedenza). Giustamente celebre è la canzone Ancor che l’aigua per lo foco lassi. Per quanto riguarda il contenuto, è una delle tante preghiere rivolte alla donna perché accolga finalmente il corteggiatore «che languisce e non può morire»; per quanto riguarda la forma dell’espressione, invece, è una sequenza di metafore naturalistiche (il ghiaccio, la neve, gli spiriti, la calamita) che, non usuali nel repertorio siciliano, preannunciano quelle canzoni tosco-emiliane in cui verrà dato ampio spazio alle metafore ricavate dalla scienza: su tutte, per importanza, il manifesto dello stilnuovo Al cor gentil, di Guinizzelli, e la canzone-trattato sulla natura d’amore di Cavalcanti, Donna me prega. [Guido delle Colonne: l’opera in latino] Rimatore in volgare e prosatore in latino (un doppio binario che in altro modo abbiamo già visto essere proprio di Pier delle Vigne), a Guido delle Colonne è attribuita la Historia destructionis Troiae: una traduzione, o meglio un libero rifacimento in latino del Roman de Troie, cronaca delle mitiche vicende troiane composta in francese, a metà del XII sec., da Benoît de Sainte-More. Caso più unico che raro di traduzione in latino di un modello volgare, l’Historia di Guido, che conobbe un’enorme fortuna durante tutto il Medioevo, agì in profondità, anche attraverso i suoi volgarizzamenti trecenteschi, sulla formazione della nostra prosa romanzesca e storiografica. [Gli altri poeti della ‘scuola’ federiciana] Non più di una rapida menzione occorre infine per quelle che anche a causa di una tradizione manoscritta particolarmente avara ci appaiono come 21 semplici figure di contorno. L’Abate di Tivoli, laziale, Jacopo Mostacci, forse pisano, Rinaldo d’Aquino, anch’egli laziale, testimoniano di quanto composita fosse la geografia degli intellettuali di corte. Dopo la metà del secolo, altri poeti originariamente legati a Federico II risaliranno la penisola e agiranno da tramiti con le regioni centro-settentrionali favorendo l’esportazione della poesia siciliana dal Regno e dando così un potente contributo alla fondazione della tradizione lirica toscana. Sono: Re Enzo, figlio di Federico e re di Sardegna che, catturato dai bolognesi durante la battaglia di Fossalta (1249), fu loro prigioniero sino alla morte: in prigionia, probabilmente, e a contatto con i più antichi rimatori bolognesi, compose le due canzoni e il sonetto morale tramandatici dagli antichi codici; Percivalle Doria, nobile genovese, podestà in varie città italiane e vicario imperiale in centro Italia, autore di due canzoni amorose in volgare siciliano e di una tenzone e un serventese politico in provenzale; Mazzeo di Ricco, notaio messinese attestato in Toscana tra il 1252 e il 1260, di cui restano quattro canzoni e un sonetto di materia morale. [Elementi ‘popolari’ nella lirica dotta] Infine, non saranno estranei all’ambiente della corte alcuni componimenti di tono popolareggiante i quali denunciano tuttavia, nella lingua e nella versificazione, una mediazione dotta. I generi ‘popolari’ frequentati da Giacomino Pugliese, per esempio (il discordo, la canzonetta in settenari, il contrasto tra amante e amata, il canto di lontananza), sono in realtà perfettamente in linea con la produzione aulica del Notaro o dello stesso Federico II. Per altro verso, neppure il famoso contrasto di Cielo d’Alcamo (Rosa fresca aulentissima), dialogo burlesco tra un pretendente sfacciato e una contadina ritrosa (ma non troppo) può considerarsi ‘poesia di popolo’. Al contrario, la coscienza linguistica, la capacità di intrecciare «modi curiali e modi realistici» (Contini), e insieme la probabile conoscenza di generi della poesia dialogata galloromanza (la pastorella), fanno pensare ad una parodia dotta di quelli che nella considerazione comune passavano per atteggiamenti e costumi ‘popolari’. [La poesia della prima generazione tosco-emiliana. Dalla corte di Federico II ai comuni cenro-italiani] L’approdo della poesia siciliana in Toscana e in Emilia verso la metà del secolo fu favorito sia dalla personale mediazione dei personaggi appena menzionati sia più in generale dal carattere itinerante della corte federiciana. I testi del Notaro e dei suoi compagni d’arte, concepiti, come si è detto, in un siciliano ‘illustre’, vengono toscanizzati. Quest’opera di traduzione dall’uno all’altro dialetto non avvenne senza resti. Termini di fonetica siciliana come vui o come aviri, presi a sé, possono facilmente essere tradotti nel corrispondente toscano: voi, avere. I problemi insorgono quando dalla parola isolata si passa alla coppia di parole in rima. Nel sistema fonetico siciliano erano perfette rime come cruci : luci, altrui : vui, oppure come aviri : serviri. Tradotte in toscano, tali rime diventano imperfette: croce : luce, altrui : voi, avere : servire. Sulla scorta di questo modello, i poeti dell’Italia centrale si sentirono autorizzati a far rimare nei loro componimenti e chiusa con i e o chiusa con u. Si tratta della cosiddetta rima siciliana: che è in realtà non una particolarità prosodica della poesia federiciana bensì un riflesso dell’adattamento linguistico che verso la metà del secolo favorì la sua diffusione in Toscana. [I riflessi del nuovo contesto sociale sulla poesia] Non diversamente, le forme e i motivi ereditati dai poeti siciliani si rimodellano sulla diversa situazione storico-sociale e si arricchiscono anche grazie a nuovi e più estesi contatti con la tradizione trobadorica. Il primo aspetto che occorre mettere in rilievo è la ritrovata unità tra l’attività artistica individuale e il ruolo pubblico dei poeti: si ricompone quella frattura che nel regno federiciano separava l’esperienza del funzionario dall’esperienza del poeta. Nella nuova realtà comunale, quest’ultimo è chiamato spesso a partecipare direttamente al governo della città: nella vita di intellettuali come Brunetto Latini o Guittone, come poi per certi versi in quella dello stesso Dante, l’arte è, si può ben dire, il proseguimento con altri mezzi dell’impegno civile. Si ampliano, in tal modo, i margini di manovra per chi, prosatore o poeta, intenda affermare valori o difendere posizioni politiche. L’equazione tra poesia e poesia amorosa, che era legge presso i federiciani, cade: i poeti della prima generazione tosco-emiliana trattano anche, nei loro versi, contenuti politici ed etico-religiosi. Questa apertura verso l’esterno ha una conseguenza importante sui generi letterari. Forme di poesia dialogata 22 appena sfiorate dai siciliani, come la tenzone in sonetti o in canzoni, dilagano, diventando per molti rimatori dilettanti il solo modo di accesso alla poesia: sono numerosi, nei canzonieri, i ‘poeti’ che hanno composto soltanto un sonetto o due, quasi sempre per la pratica ‘sociale’ delle corrispondenze in verso. Insieme, prende piede l’uso, che sarà anche dantesco, di inviare le proprie canzoni a destinatari esplicitamente nominati (patroni, amici, colleghi d’arte) che s’intende commuovere o convincere. Da strumento di svago fine a se stesso quale era nella Magna Curia, la poesia si fa così, nei comuni centro-italiani del secondo Duecento, mezzo di comunicazione alternativo alla prosa. [Due tradizioni opposte: i ‘cortesi’ e i ‘moralisti’] Infine – per indicare un ultimo carattere generale del periodo - la transizione da sud a nord dà luogo non a una bensì a più esperienze poetiche concomitanti e tra loro variate. Vi è un gruppo di poeti che amplia e rielabora il modello siciliano tenendone però ferme alcune acquisizioni essenziali (fedeltà al codice dell’amore cortese, visto ancora come valore e non come peccato, riluttanza a trasferire nella poesia i temi dell’attualità, ecc.); e vi è un gruppo di ‘rivoluzionari’ che rovescia quel modello non solo concedendo largo spazio a motivi politici, etici e religiosi, ma soprattutto smascherando l’ideologia cortese nelle sue implicazioni anticristiane: la fin’amor che costituiva per i provenzali e i federiciani, e costituirà poi per buona parte dei lirici italiani dopo lo stilnuovo, la ragione prima del far poesia, diventa in costoro un idolo da combattere in nome dei superiori valori della moralità e della fede. Il lucchese Bonagiunta Orbicciani e il bolognese Guido Guinizzelli sono i rappresentanti più insigni della prima maniera, quella che ripropone i valori laico-cortesi dei lirici siciliani; Guittone d’Arezzo è il caposcuola indiscusso di questa seconda scuola di poeti-moralisti. [Guittone d’Arezzo. La vita] Nato ad Arezzo probabilmente negli anni Trenta del Duecento e morto prima della fine del secolo, Guittone è senza dubbio la personalità di maggiore spicco tra quante ce ne presenta la poesia italiana anteriore a Dante. Ad Arezzo fu probabilmente in contatto con l’ambiente dell’università: la sua poesia e più ancora le sue lettere presuppongono una cultura ampia sebbene non profonda, e una notevole conoscenza delle regole del dictamen (‘l’arte del comporre’) poetico e prosastico. Di estrazione medio-alta (il padre era tesoriere del comune, lui stesso entrerà a far parte di un ordine, i Frati Godenti, al quale si accedeva anche sulla base del censo), Guittone dovette avere un ruolo di rilievo nella vita civile e politica del suo tempo. La celebre canzone Ahi lasso, or è stagion de doler tanto, ce lo mostra impegnato in un planh (prov. ‘lamento’) sulla sconfitta dei guelfi fiorentini a Montaperti (1260), sconfitta che ebbe negative conseguenze anche sui guelfi aretini e su Guittone stesso, il quale trascorse alcuni anni in esilio. [I due momenti della carriera poetica] Si è soliti dividere la carriera poetica di Guittone in due parti. La prima va dagli esordi ai primissimi anni Sessanta; la seconda inizia di qui e prosegue probabilmente sino alla morte. La consuetudine cortese legava indissolubilmente l’amore alla gioventù (tanto che l’‘amore in tarda età’, ben noto ai moderni, si può dire quasi sconosciuto alla tradizione medievale), e il primo Guittone non si sottrae al cliché, ma dà dell’amore una lettura un po’ diversa rispetto a quella che ne era stata data dai siciliani e che ne stavano dando i suoi contemporanei. Quale che sia la natura della loro esperienza amorosa e quale che ne fosse l’esito (appagamento o frustrazione), costoro accettano l’equazione già trobadorica tra amore e valore, vale a dire il dogma sul quale si reggeva l’edificio dell’ideologia cortese: nella vita d’un uomo, amare e cantare il proprio amore sono comunque esperienze nobilitanti, e la partecipazione a queste esperienze distingue l’uomo nobile, saggio e di alto sentire dall’uomo vile. [La nuova e disincantata visione dell’amore] In molti dei suoi componimenti Guittone, pur restando poeta d’amore, corregge questa tradizione cortese in due modi. Da un lato offre una visione totalmente negativa dell’esperienza sentimentale, considerata come una malattia dalla quale occorre guarire: l’amore, scrive Guittone, è una tortura, una passione infausta che annulla la ragione e distrugge il corpo. Dall’altro lato - e ciò particolarmente nei sonetti, e più precisamente in quegli 86 sonetti che per essere conservati insieme in uno stesso manoscritto e per la presenza di un pur debole filo narrativo che li collega l’uno all’altro sono stati definiti ‘canzoniere’ - accade che 23 Guittone demistifichi la finzione cortese dimostrando come essa sia soltanto un tenue velo che cela il desiderio del possesso fisico. Nel ‘canzoniere’ suddetto, il lessico e lo stile della cortesia sono contraddetti dai toni spicci dell’autore-personaggio, che nel suo corteggiamento mira ad una cosa sola: «Ca, per averti a tutto meo desire, / non t’ameria un giorno per amore; / ma chesta t’ò volendoti covrire» (‘Non ti amerei neanche un giorno di vero amore, anche a patto che poi potessi disporre di te a mio piacimento: volevo solo portarti a letto’). [Il ‘manuale del libertino’] In un più breve ciclo di sonetti guittoniano cade anche l’ultima finzione, e l’ideologia cortese (il paradosso della lontananza, del desiderio necessariamente insoddisfatto, ecc.) viene capovolta in quella che è stata definita un’ars amandi radicalmente antiidealista, ovvero un ‘manuale del libertino’. In 24 sonetti, Guittone percorre l’intera trafila del corteggiamento: si cominci col guadagnare la fiducia della donna attraverso un conoscente comune («faccia che conto de la donna sia | o vero d’omo alcun di suo legnaggio»); le si scriva lodandola per la bellezza del suo corpo e del suo animo; si sfruttino abilmente le assenze del marito e dei familiari; si arriverà finalmente, attraverso menzogne, simulazioni e lusinghe, allo scopo che ogni amante si prefigge: il possesso dell’oggetto amato, la soddisfazione sessuale. [Le rime morali e religiose] Dopo i primi anni Sessanta, resta ferma la polemica anticortese ma cambiano le motivazioni. Nel 1265 Guittone entra nell’Ordine dei Cavalieri di Santa Maria, detti Frati Godenti: un ordine ‘mondano’ al quale era possibile accedere anche se maritati, e senza abbracciare la vita claustrale. Una simile scelta di vita sarà stata preceduta dalla ‘conversione’ a un cristianesimo più rigido e più meditato, perciò anche, presumibilmente, dalla rinuncia alla poesia d’amore. Ma mentre per molti intellettuali del tempo - per esempio per molti trovatori ‘convertiti’ alla fine della giovinezza - l’entrata in convento significava la morte all’arte, il silenzio poetico, Guittone continua a scrivere cambiando maniera. Con la canzone su Montaperti egli aveva fondato, qualche tempo prima, una tradizione poetica civile che rappresenterà a lungo, per i nostri autori, un valido modello alternativo al ‘canto per amore’. La ‘seconda maniera’, quella successiva alla conversione, è connotata in senso cristiano: le forme metriche della lirica laica (sonetto e canzone) vengono usate come veicoli per contenuti etico-religiosi. Nascono così le grandi canzoni ascetiche (Onne vogliosa d’omo infermitate, che esorta a vincere le tentazioni della carne; O cari frati miei, con malamente, ai confratelli sul peccato e la grazia) e militanti (Altra fiata aggio già, donne, parlato - lunga esortazione alle donne perché si conservino caste e virtuose); e nascono testi dall’ancora più forte coloritura cristiana: le laudi. [Lo stile e la metrica] Si deve soprattutto a Guittone, al suo esempio, la vena sperimentale che percorre, nel settore dello stile e in quello della metrica, la poesia toscana della seconda metà del Duecento. Nel dettaglio: la grande varietà delle forme assunte dalla canzone e dal sonetto (la canzone allungata sino a raggiungere le dimensioni di un piccolo trattato in versi, e complicata nello schema metrico e nel tracciato delle rime; il sonetto spesso modificato rispetto al suo schema originario con l’aggiunta di farciture o code); la proliferazione di forme metriche ibride o eccentriche che verranno abbandonate già dagli autori della generazione successiva; l’adozione di un linguaggio volutamente complesso, allusivo e - il riferimento è al trobar clus provenzale ‘chiuso’, che ci appare tanto più inaspettato in quanto si associa a contenuti, per così dire, di interesse pubblico come la politica e la morale, e dunque si rivolge, almeno in teoria, ad un più ampio bacino di lettori. [‘Macrotesti’] Alla complessità del discorso morale occorrono spazi dilatati. Oltre ad ampliare le dimensioni delle canzoni e dei sonetti, Guittone inventa così il ‘macrotesto’ composto da sonetti. Se bisogna portare in poesia temi come la morale e la fede, allora conviene imitare, almeno nella struttura, il trattato in prosa, e fare di ogni sonetto un paragrafo del discorso: è quanto avviene nelle corone di sonetti sui vizi e le virtù, o nel cosiddetto Trattato d’Amore, nel quale il mito dell’amore cortese è aspramente condannato alla luce dell’etica cristiana [Il ruolo di Guittone nel panorama poetico contemporaneo] Il canzoniere di Guittone è il più vasto tra quelli dei poeti del Duecento: sonetti, canzoni, ballate-laude per un totale di più di duecento componimenti. Ciò è indice sia di una notevole prolificità sia di un successo fulmineo che 24 garantì la trasmissione e la conservazione dei suoi testi. Oggi noi misuriamo quel successo soprattutto col metro delle rime di corrispondenza. Guittone ci appare come una figura centrale nella società letteraria del secondo Duecento: i rimatori che si rivolgono a lui per consiglio o per elogio ne riconoscono apertamente il magistero poetico e morale. La sua poesia viene letta e cercata, le sue innovazioni formali hanno fortuna, la sua proposta di estendere il ‘poetabile’ ai campi dell’etica e della religione trova conferma immediata nella prassi dei suoi allievi. E vuoi dunque per ragioni di forma (il trobar clus, la ricercata complessità dello stile) vuoi per motivazioni ideologiche (la metamorfosi subìta dalla lirica per eccellenza laica una volta giunta tra le mani di poeti ormai estranei alla realtà cortese, e più vicini a certa moralità cristiana incompatibile con la cortesia), sembra legittimo parlare di una scuola guittoniana diffusa in tutto il comprensorio toscano. [Gli altri poeti pre-danteschi. Chiaro Davanzati e Monte Andrea] Mentre però molti rimatori minori ripetono senza grosse variazioni la lezione del maestro, alcuni altri si distinguono per una personalità più originale. Insieme al fiorentino Chiaro Davanzati, il più prolifico dei rimatori duecenteschi dopo Guittone (circa sessanta canzoni, più di cento sonetti) merita di essere ricordato almeno un altro poeta della generazione di Chiaro, Monte Andrea. Anch’egli fiorentino, Monte eredita da Guittone soprattutto i suoi vezzi formali: ripete le strutture ‘espanse’ coniate dall’aretino (canzoni lunghe, sonetti ‘caudati’, ecc.) e, soprattutto, porta all’estremo la tecnica degli artifici metrico-retorici giungendo a risultati di quasi totale oscurità. Oltre che per la qualità espressiva del tutto peculiare, il suo canzoniere (un centinaio di sonetti, undici canzoni) si segnala per almeno altre due particolarità. In primo luogo le sue sono, per buona parte, rime di corrispondenza. Segno che si contrae, rispetto ai siciliani ma anche rispetto a Guittone, l’esperienza del ‘lirico’ e la poesia si fa sempre più spesso veicolo di comunicazione: ma una comunicazione artificiosa, visto che i testi di tenzone sono anche quelli in cui l’oscurità e il preziosismo sono portati a un punto estremo: la poesia è qui occasione di esercizio retorico e di gioco, piuttosto che di autentico dialogo con i corrispondenti. In secondo luogo, Monte Andrea introduce nella poesia un tema inedito per l’Italia. Anch’egli conosce il registro amoroso e quello morale; ma ad essi aggiunge, nel suo canzoniere, un lirismo personale che trae ispirazione dalla comune esperienza della vita; questo lamento sulla miseria anticipa per esempio - benché in forme drammatiche, non burlesche - le confessioni in versi di Cecco Angiolieri: Di ssotto son confitto ne le rote, polificato son d’ongne tesoro, ignudo tuto son d’argento e d’oro, e ancor d’amici, ch’è maggiore s-coppio. (‘Sono nel punto più basso della ruota della fortuna, non ho un soldo, né argento né oro né - ed è la cosa peggiore – amici’) Infine, così come nella poesia di Guittone, vi è in quella di Monte una componente politica. Tuttavia, a causa di quella vocazione sociale e non lirica di cui si diceva, per le sue dichiarazioni politiche Monte non si serve più della forma ‘soggettiva’ della canzone ma cerca invece il dialogo, il contraddittorio con altri poeti: e resta uno dei ‘macrotesti’ più interessanti e atipici della letteratura italiana del Medioevo la tenzone composta da diciassette sonetti che oppone il guelfo Monte ad altri rimatori fiorentini di parte ghibellina sul tema della prossima discesa di Carlo I d’Angiò in Italia. [Bonagiunta Orbicciani] L’‘altra’ tradizione lirica, quella che resta fedele, pur innovando, alla lezione dei siciliani, ha in Bonagiunta Orbicciani e in Guido Guinizzelli i suoi massimi esponenti. Coetaneo, se non più vecchio di Guittone, Bonagiunta è stato definito «l’autentico trapiantatore dei modi siciliani in Toscana» (Contini). Egli è piuttosto refrattario alle innovazioni formali e tematiche che vengono proposte, alla metà del Duecento, da Guittone e dai suoi allievi. Scrive, sì, alcuni sonetti moraleggianti sul tema della fortuna o della modestia o della cautela nei 25 giudizi: ma si tratta di una morale in tono minore, molto lontana da quella aggressiva e risentita di Guittone. Quanto alle canzoni, nel congedo di Similemente onore c’è l’eco di conflitti cittadini nei quali Bonagiunta doveva essere implicato (se la prende con quei «falsi cavalieri» che tradiscono il loro blasone comportandosi in maniera disonorevole); ma l’accenno è lasciato in coda, dopo un’erudita e astratta disquisizione sull’onore e la virtù. Insomma, a differenza di quanto accade in Guittone, l’indignazione non si converte in discorso, e men che meno in manifesto politico. Per il resto, che è la gran parte, Bonagiunta si conferma poeta d’amore nella tradizione siciliana. Più precisamente, egli sembra fare sua la componente euforica di quella poesia (in tal senso il poeta più vicino a Bonagiunta non è il Notaro né Guido delle Colonne ma il positivo e solare Rinaldo d’Aquino): la benedizione dell’amore, il ringraziamento per la gioia raggiunta, ecc. Un’ulteriore prova di sicilianità la troviamo nel metro: Bonagiunta compone canzoni di estensione ‘canonica’, non aggiunge code o farciture alla formula classica del sonetto, ed è l’unico rimatore non federiciano a comporre discordi. Ma fedeltà non esclude innovazione: e spetta probabilmente a lui l’invenzione della ballata ‘laica’ d’argomento amoroso. [Guido Guinizzelli] Sull’altro versante degli Appennini, in Emilia, Guido Guinizzelli compie un’operazione analoga: compone secondo i modi dei siciliani, poco concedendo alla nuova maniera di Guittone, e agisce così da precursore nei confronti dello stilnuovo fiorentino, che non a caso lo riconoscerà come ‘padre’ (così lo chiama Dante nel canto XXVI del Purgatorio, incontrandolo tra i lussuriosi). Del suo esiguo canzoniere (ci restano non più di cinque canzoni e una quindicina di sonetti) due testi sono soprattutto importanti. Il primo è il botta e risposta in sonetti con Bonagiunta, che l’aveva accusato di «aver mutato la maniera», cioè di essersi dato ad uno stile poetico oscuro e sottile (con probabile riferimento alla canzone Al cor gentil, di cui sùbito sotto); la replica di Guido, nel sonetto Omo ch’è saggio, è un sarcastico invito alla prudenza e alla riservatezza. Entrambi i sonetti, testimonianza di una controversia di grande interesse storicoletterario, saranno tra i testi lirici più fortunati e più letti del nostro Medioevo. Il secondo testo guinizzelliano di grande rilievo è la citata canzone Al cor gentil. L’equiparazione tra amore e cuore gentile (cioè ‘nobile’, ‘virtuoso’), proposta nella prima stanza, resterà un punto fermo nella teoria d’amore dei lirici italiani del Duecento: Al cor gentil rempaira sempre amore come l’ausello in selva a la verdura; né fe’ amor anti che gentil core, né gentil core anti ch’amor, natura. (‘Amore torna sempre al cuore nobile come a casa sua: allo stesso modo che l’uccello torna nel bosco; e l’amore e il cuore nobile vennero creati insieme, nello stesso istante, dalla natura’) Nelle stanze successive, questo pensiero centrale viene sviluppato e arricchito grazie a metafore tratte dalla fisica e dall’astronomia: il cuore gentile è una pietra preziosa nella quale s’annida la virtù magica (= amore), il cuore gentile è ferro nel quale si cela il diamante (= amore); al contrario, il cuore non nobile è fango sul quale il sole splende invano. La quarta stanza precisa i termini dell’opposizione tra nobiltà e non-nobiltà: la gentilezza – afferma Guinizzelli - risiede nella virtù, non nel denaro o in natali illustri. La sesta e ultima stanza compie quell’assimilazione tra donna amata e angelo che - al pari dell’appena descritta ‘teoria della nobiltà’ - avrà importanza cruciale nello sviluppo dell’ideale stilnovista. Guinizzelli s’immagina al cospetto di Dio, il quale lo biasima per avere stornato su un «vano amor» terrestre le lodi e la devozione che solo a Lui convengono. Ma agli occhi del peccatore - è la risposta - la donna era un’immagine del divino. [Lo stilnuovo. Significato e limiti della ‘scuola’ stilonovista] La critica raccoglie generalmente sotto il nome di poeti ‘stilnovisti’, insieme al giovane Dante (quello della Vita nova e delle altre liriche per Beatrice), Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi. In realtà, questa etichetta è convenzionale così come quella di ‘scuola guittoniana’ adoperata in 26 precedenza. È vero che i poeti appena menzionati - tutti fiorentini o pistoiesi, tutti vissuti tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento - ebbero rapporti anche amichevoli tra di loro (proprio a Cavalcanti Dante dedica la Vita nova, e con Cino Dante scambia lettere e sonetti); ed è vero che tra le loro poesie esistono analogie notevoli sia dal punto di vista ideologico sia dal punto di vista formale. Ma il nome di stilnuovo, e l’unità della cosiddetta ‘scuola’ sono dedotti dai critici da ciò che Dante dice nel De vulgari eloquentia, nella Vita nova e nella Commedia. Con Cino, con Cavalcanti, con Lapo Gianni - scrive Dante - egli ha dato vita a un modo di far poesia del tutto nuovo (e migliore) rispetto alla ‘maniera antica’ di Guittone e degli altri toscani. L’esempio di costoro è rifiutato in blocco, senza le distinzioni che pure si potrebbero fare tra l’uno e l’altro autore: tra tutti, l’unico poeta italiano della precedente generazione che si salva, a giudizio di Dante, è Guido Guinizzelli: è lui l’autore che merita il titolo di iniziatore e padre del nuovo corso poetico. [Il ‘battesimo’ della scuola nel canto XXIV del Purgatorio] Con gli altri tre massimi poeti del Duecento, Giacomo da Lentini, Guittone e Bonagiunta, Dante fa i conti in un passo famoso della Commedia che è anche quello in cui si afferma a chiare lettere l’assoluta superiorità del «dolce stil novo». Tra i golosi del sesto girone Dante incontra Bonagiunta, il quale riconosce in lui l’autore della canzone Donne ch’avete; perciò lo apostrofa: «Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore | trasse le nove rime, cominciando | Donne ch’avete intelletto d’amore» (‘Ma dimmi se io vedo qui colui che inaugurò un nuovo modo di far poesia con la lirica Donne ch’avete...’). La replica di Dante e la controreplica di Bonagiunta fanno due metà della poesia italiana del Duecento - prima e dopo Dante, prima e dopo lo stilnuovo (Pg. XXIV 52-57): ... «I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando». «O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo che ’l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’odo!». [La semplificazione dello stile] Dal punto di vista della forma, lo stilnuovo porta con sé una semplificazione dello stile: lo sperimentalismo di Guittone e dei suoi seguaci cede il passo a una maniera più ‘regolare’, una maniera che in sostanza resterà dominante per buona parte della tradizione letteraria italiana. Il trobar clus caro a Guittone e a Monte Andrea non trova che pochi ed episodici continuatori: Dante e i poeti della sua cerchia scelgono una maniera leu (= lieve, facile, comprensibile) contro l’oscurità dei predecessori. Una semplificazione analoga investe anche la metrica dei testi: i poeti guittoniani avevano lunghissime canzoni-trattato, e avevano modificato la struttura del sonetto così come era stata codificata dai siciliani, aggiungendo dei versi nel corpo del testo o in coda: questa metrica ‘abnorme’ non trova eco tra gli stilnovisti. [La nuova ideologia amorosa] Dal punto di vista dei contenuti, la frattura rispetto alla generazione passata è ancora più netta. Non per caso Bonagiunta, nel citato passo del Purgatorio, identifica in Donne ch’avete, una canzone d’amore, il testo emblematico dello stilnuovo. Guittone e i suoi contemporanei avevano usato la poesia in volgare anche e soprattutto per parlare di morale e di religione. Con lo stilnuovo, l’amore torna a essere il tema principale della poesia: per un certo periodo, probabilmente, e per certi autori, l’unico tema possibile. Ciò implica un atteggiamento del tutto diverso, rispetto a quello dei predecessori, di fronte al problema dell’amore tra uomo e donna. I moralisti come Guittone avevano descritto l’amore terreno come un male. Gli stilnovisti, al contrario, vedono nella donna un’immagine di Dio, un angelo inviato sulla terra per la salvezza degli uomini. Chi è innamorato entra nella cerchia degli eletti e gode di questa beatitudine semplicemente contemplando la bellezza della donna amata. Da questa prevalenza del visto sul vissuto e sullo sperimentato deriva, nei testi, il primato della descrizione - ossia della lode delle virtù fisiche e morali dell’amata - sul ‘narrato’; nel famoso sonetto dantesco Tanto gentil e tanto onesta pare, come in tante altre poesie contemporanee, l’amante limita il suo ruolo a quello di semplice spettatore del miracolo. 27 [Il legame tra siciliani e stilnovisti] La critica ha parlato, per gli stilnovisti, di un ‘ritorno ai siciliani’. In effetti, la nuova centralità del tema amoroso, e l’elaborazione, soprattutto da parte di Dante e Cavalcanti, di una complessa ‘teoria dell’amore’, rimanda – in un ambito che è ormai quello della civiltà comunale – a quell’antico modello ‘cortese’. Simile è anche il rifiuto da parte dei poeti delle due ‘scuole’ di parlare della realtà extra-soggettiva. Non solo gli stilnovisti evitano di affrontare temi politici, etici e religiosi, ma sembrano anche rinunciare a quel dialogo con interlocutori estranei all’arte, non poeti, che era stato tenuto vivo da Guittone. La loro è una poesia indifferente alla quotidianità, una poesia che richiede spesso conoscenze di tipo filosofico e teologico e parla dunque ad una ristretta élite di letterati. [Gli autori. Guido Cavalcanti: la vita] Il «primo degli amici» di Dante, com’è chiamato nella Vita nova, fu uno degli intellettuali più reputati della sua generazione. Nato da una ricca e potente famiglia fiorentina, Guido Cavalcanti dovette compiere in gioventù studi filosofici approfonditi, ed entrò certamente in contatto con ambienti averroisti: per questo motivo, probabilmente, ebbe fama di eretico. In seguito agli scontri che opponevano tra loro le maggiori famiglie fiorentine, Guido fu esiliato nell’anno 1300 insieme ad altri capiparte, e morì a Sarzana pochi mesi dopo forse per febbri malariche. [La poetica cavalcantiana] Il suo canzoniere ha molte facce. Vi troviamo rime di corrispondenza, rime di tono burlesco e, soprattutto, liriche in cui trova sfogo un’esperienza d’amore dolorosa e devastante. Per Guido l’amore non è infatti, come sarà per il Dante della Vita nova e per Cino da Pistoia, un’avventura positiva anche nei suoi risvolti dolorosi - l’incolmabile distanza dalla donna, il tormento interiore, la speranza frustrata - bensì un’esperienza tragica, che confina con la morte. Ecco l’effetto che ha sul poeta-amante lo sguardo dell’amata: «Allor m’aparve di sicur la Morte, | acompagnata di quelli martiri | che soglion consumare altrui piangendo» (XXI 12-14). I critici hanno parlato di tragedia, ma sarebbe più giusto parlare genericamente di dramma, dal momento che la poesia di Cavalcanti è per sua natura poesia ‘dialogica’, nella quale i vari attori della rappresentazione amorosa (i sospiri, la donna, il cuore, il dio dell’Amore, gli spiriti - cioè quelli che nella concezione medievale erano i vapori o pneumi prodotti dal cuore e preposti alle varie funzioni del corpo umano, ecc.) vengono personificati e dotati di parola, così da sviluppare, all’interno del testo, complessi discorsi a più voci. Una delle due sole canzoni di Cavalcanti rimasteci, Io non pensava che lo cor giammai, fa di questa tendenza all’intreccio di voci un principio strutturale: ognuna delle quattro stanze ospita, insieme al discorso dell’io poetico, ‘parole d’altri’: del dio Amore nella prima stanza, di uno spettatore nella seconda, del cuore nella terza, della canzone stessa personificata nella quarta. [La canzone Donna me prega] L’altra più celebre canzone cavalcantiana, la ‘dottrinale’ Donna me prega, merita di essere ricordata per un’altra ragione. Essa è infatti un prodigio di difficoltà formale e concettuale. Gran parte dei suoi versi sono spezzati da una rima interna, alcuni addirittura da due. Il tema è l’amore – o meglio, una serie di domande sull’amore che una «donna» avrebbe posto a Cavalcanti: dove risiede Amore? Chi lo crea? Qual è la sua potenza? Quale la sua essenza? Come si muove? Perché ingenera piacere? Può essere veduto corporalmente? La costrizione del metro e delle rime porta a spiegazioni di questo tenore: L’essere è quando - lo voler è tanto ch’oltra misura è di natura - torna, poi non s’adorna - di riposo mai. Move, cangiando - color, riso in pianto, e la figura - con paura - storna. (‘La sua essenza è desiderio che eccede il limite naturale, e non trova mai requie; àltera chi gli è soggetto facendogli mutare colore e convertendo il riso in pianto, stravolge con la paura le fattezze dell’amante’). 28 La difficoltà concettuale sta soprattutto in questo, che Cavalcanti risponde alla sua (immaginaria?) interlocutrice servendosi della filosofia aristotelica e del suo interprete Averroè: e la canzone, come si è potuto vedere dal breve brano citato, è tutto un fiorire di tecnicismi e astratte definizioni. [Il significato di Donna me prega nella poesia delle origini] Donna me prega segna un’importante novità nella storia della lirica italiana delle origini. Alla canzone d’amore si sostituisce la canzone sull’amore: il sentimento diventa materia di riflessione filosofica. Lo era già stato in parte con Guido delle Colonne e con Guinizzelli, ma nessuno dei due poeti si era spinto a questo livello di complessità e di impegno: non stupisce che Donna me prega sia stata, sin dal Trecento, studiata e commentata (privilegio che in genere i testi volgari non hanno, e men che meno quelli lirici) da generazioni di lettori. [La ballata Perch’i’ no spero] La ballata Perch’i’ no spero di tornar giammai è, insieme a Donna me prega, il testo più celebre di Cavalcanti, soprattutto in ragione della sua originalità tematica. Si tratta infatti non di una normale lirica amorosa ma di una sorta di testamento. Lontano da Firenze, il poeta si rivolge alla ballata stessa e la prega di recarsi dalla donna amata facendosi messaggera delle sue ultime parole: egli è infatti convinto che la sua morte sia prossima. Perch’i’ no spero di tornar giammai, ballatetta, in Toscana, va tu, leggera e piana, dritt’a la donna mia, che per sua cortesia ti farà molto onore. È possibile – come ritenevano i critici ottocenteschi, da Foscolo a De Sanctis – che questa poesia sia davvero una sorta di congedo dall’esilio da parte del poeta morente; ma è anche possibile che si tratti soltanto di una finzione retorica: cioè di una situazione puramente letteraria priva di un concreto fondamento biografico. Quale che sia l’interpretazione corretta, il testo si distingue per una originalità e una verità sentimentale che raramente si trovano nei testi pre-petrarcheschi, e che sembrano invece – e ciò spiega il favore di cui il testo gode presso i lettori odierni - il prodotto di una sensibilità moderna. [Cino da Pistoia. La vita] Con Dante e Cavalcanti, il terzo grande poeta stilnovista è il pistoiese Cino. Egli riassume in sé quelli che sono i caratteri distintivi della ‘scuola’: uno stile dolce e piano, una misura ‘classica’ nei metri e nella lingua, l’amore come tema quasi esclusivo. Nato negli anni Settanta del Duecento, morto nel 1337, Cino fu, oltre che poeta, uno dei massimi giuristi del suo tempo: insegnò a Siena, Perugia, Napoli, e scrisse opere importanti in materia di teoria del diritto (si ricordi almeno la sua Lectura in Codicem). Guelfo, esule forse a Firenze nei primi anni del Trecento, egli fu, come Dante, fautore dell’imperatore Arrigo VII, e partecipò attivamente alla vita civile e politica della sua città esercitando l’avvocatura e assumendo incarichi di consigliere del comune e di ambasciatore. [L’amore per Selvaggia] Tra gli stilnovisti, Cino è l’autore più prolifico. Buona parte dei suoi circa centocinquanta testi sono dedicati a una donna di nome Selvaggia. Con gli stilnovisti, infatti, i poeti tornano a dare un nome alle donne cantate nei loro versi: in ideale continuità con quella che era stata la norma nella lirica classica (Catullo, Properzio, Ovidio). Tale nome può caricarsi di significati simbolici grazie a più o meno sottili interpretazioni (così, chiaramente, la Beatrice beatifica della Vita nova), ma rappresenta comunque qualcosa di più reale e vero dell’epiteto generico di donna. [La poetica] Poeta leu nelle sue rime d’amore, Cino è più sperimentale nei sonetti di corrispondenza, ‘genere’ che egli pratica con grande assiduità soprattutto negli anni trascorsi presso lo Studium di Bologna. Qui la dolcezza del poeta d’amore lascia spazio a un registro ‘medio’ che di volta in volta è al servizio della satira, dell’invettiva, della burla. I suoi corrispondenti bolognesi sono gli eredi del primo e maggiore poeta emiliano, Guinizzelli. Certo nessuno di loro è all’altezza 29 di Cino: ma è aperta con lui e con loro quella comunicazione tra la Toscana e le regioni del centro e del nord-est d’Italia che presto verrà tenuta viva e potenziata dall’esule Dante Alighieri. [La poesia comico-realistica. La tradizione della poesia burlesca] Nella tradizione mediolatina e franco-provenzale, accanto alla poesia ‘seria’, d’argomento erotico o moralereligioso, ebbe un ruolo di grande rilievo la poesia burlesca, composta dai giullari e recitata spesso di fronte al pubblico delle città (laddove i poeti d’amore si rivolgevano solitamente a quello più colto delle corti). I suoi temi sono ricavati da una vita quotidiana tutt’altro che rosea, intristita com’è dalla povertà, dalla malattia, dalla senescenza, dalla fame. Ma non mancano, a parziale risarcimento, piccole gioie anch’esse materiali e anch’esse adoperate come tema per la poesia: il vino, il sesso, il gioco. Testi di questo genere si trovano soprattutto nella raccolta dei Carmina Burana, un’ampia antologia di testi poetici latini scritti da vari autori tra il XII e il XIII secolo e riuniti in un manoscritto proveniente dall’Abbazia di Benediktbeuren (di qui il nome della raccolta), e oggi conservato a Monaco di Baviera; ma è assai probabile che ciò che oggi ci rimane sia solo una piccola percentuale di una produzione originariamente molto più vasta sfuggita però – certo per la trivialità dei soggetti trattati – alla registrazione nei codici. Né questo tipo di poesia comicorealistica restò appannaggio dei soli giullari o dei goliardi, dal momento che ad essa si rivolsero anche poeti sicuramente colti e nobili come il più antico dei trovatori, Guglielmo IX (cfr. § 2). Di fatto, il registro comico-realistico diventò col tempo una ‘maniera’ nella quale tutti i poeti – indipendentemente dalla loro estrazione sociale e dal loro credo artistico – poterono esercitarsi: tra essi anche gli stilnovisti Guinizzelli e Cavalcanti. [Rustico Filippi e Cecco Angiolieri. I temi] In quest’epoca (seconda metà del Duecento), tuttavia, i maggiori esponenti del ‘genere’ comico-realistico sono il fiorentino Rustico Filippi e il senese Cecco Angiolieri. Di entrambi rimangono soltanto sonetti (circa venti per il primo, un centinaio per il secondo), e la cosa probabilmente non è casuale: il registro ‘basso’, il linguaggio colloquiale adoperato da questi poeti si serve della più facile e immediata delle forme metriche. Quanto ai temi, in Rustico e in Cecco l’amore è visto nei suoi aspetti più fisici e materiali: l’etica della ‘cortesia’ cui s’ispirano i lirici contemporanei come Cino o Dante viene smitizzata: la donna è una figura in carne e ossa, non un’immagine divina, e ciò che il poeta desidera da lei non è altro che il suo corpo. [La questione del realismo] Questa visione disincantata del reale porta nella poesia anche motivi che erano rimasti sino ad allora estranei alla lirica italiana, ed erano invece vivi, come si è detto, nella poesia goliardica latina dei secoli precedenti: veniamo a sapere della povertà del poeta e dei suoi cattivi rapporti coi genitori (Cecco), o dei suoi dolori di padre (Rustico); visitiamo ambienti preclusi alla lirica d’arte, come il bordello o la taverna in cui il poeta perde il suo tempo tra il vino e i dadi; ed entriamo in contatto con figure minori della realtà cittadina anch’esse ignorate dalla ferrea dialettica amante-amata dei lirici ‘cortesi’. L’intenzione realistica va dunque in due direzioni: in primo luogo, il poeta parla di sé, delle sue passioni e delle sue disgrazie con sincerità; in secondo luogo, il poeta ritrae senza abbellimenti, ma anzi al contrario col gusto della caricatura, i personaggi che popolano i rioni di Siena e Firenze: mercanti, donne di malaffare, soldataglia. L’esperienza dei poeti comico-realistici implica così la più radicale rottura nei confronti della tradizione lirica siculo-toscana e l’ingresso della realtà comunale nel mondo dell’arte. [Lo sberleffo e l’invettiva] E poiché si trattava di una realtà a fortemente conflittuale, sia per ragioni economiche, sia per ragioni di fede politica, sia per le frizioni che sempre hanno luogo tra concittadini, non stupisce che tra le forme predilette di Rustico, Cecco e gli altri minori comicorealistici ci siano quelle dello sberleffo e dell’invettiva. Dei conflitti che la gran parte dei lirici contemporanei tiene fuori dal cerchio della poesia, autolimitandosi a un ‘canto d’amore’ sempre più stilizzato, i giocosi fanno materia di sonetto. Citiamo, a titolo d’esempio, pochi versi di Rustico che miscelano tutti gli ingredienti fondamentali del burlesco - lessico basso, corposità delle immagini (tutte legate alla sfera pratico-professionale), allusione a cose o persone note a una ristretta – e solo fiorentina - cerchia di persone: 30 Ne la stia mi par esser col leone quando a Lutier son presso ad un migliaio, ch’e’ pute più che ’nfermo uom di pregione o che nessun carname o che carnaio. Li suo’ cavegli farian fin buglione e la cuffia faria ricco un oliaio (‘Mi sembra d’essere in gabbia con un leone, quando arrivo ad un miglio di distanza da Lotario, perché puzza più di un carcerato ammalato o di un mucchio di carne putrefatta, o di una fossa comune; coi suoi capelli si farebbe un bel brodo, e il cappello (una volta strizzato) farebbe ricco un mercante d’olio’). [La letteratura religiosa. La prevalenza del latino nella prosa religiosa] La prosa d’argomento religioso, che darà frutti splendidi nel Trecento con le prediche del Passavanti, gli scritti del Cavalca e, soprattutto, con l’epistolario di Santa Caterina, tutte opere in volgare, si esprime nel Duecento quasi esclusivamente in latino. Benché la predicazione avesse certamente luogo anche, e forse prevalentemente, in volgare, tutto ciò che rimane di essa sono i 22 Sermoni subalpini, composti all’inizio del Duecento e localizzabili in area piemontese: non a caso in prossimità della Francia, dove la registrazione per iscritto delle prediche volgari era da più di un secolo pratica comune. Anche la letteratura francescana - i Fioretti, le biografie del Santo - furono concepite in latino e solo in un secondo tempo, nel Trecento, volgarizzate. La poesia di contenuto religioso, al contrario, fiorì prestissimo nel Duecento in numerose regioni italiane, anche in quelle nelle quali mancava del tutto una tradizione di lirica d’arte, e fu coltivata da alcuni dei massimi poeti del secolo, come Guittone e Iacopone da Todi. [Francesco d’Assisi. La vita] Tra i testi primo-duecenteschi di carattere sacro prodotti nell’Italia centrale, il cosiddetto Cantico di frate Sole è certo il più importante per qualità letteraria e per significato storico; il suo autore, Francesco d’Assisi, rappresenta inoltre, com’è noto, una delle figure cardinali per la spiritualità cristiana medievale. Nato in una famiglia della medio-alta borghesia commerciale, dopo una giovinezza trascorsa tra gli agi e le avventure militari, Francesco adotta nel 1205 una rigida disciplina cristiana: abbandona la famiglia, rinuncia all’eredità paterna e con un piccolo gruppo di seguaci comincia a predicare il Vangelo in assoluta povertà. Dopo un lungo soggiorno in Egitto e in Terrasanta, speso nel tentativo di convertire gli infedeli, Francesco rientra in Italia nel 1220; qui l’Ordine - approvato prima solo verbalmente da papa Innocenzo III, poi ufficialmente da papa Onorio III - conta ormai adepti a migliaia; a loro uso, Francesco elabora una Regula prima in 23 capitoli quindi, nel 1223, un compendio di quella, la Regula secunda, che cerca di mediare tra le esigenze di ortodossia imposta dalla Chiesa di Roma e la vocazione francescana alla povertà. Muore nell’eremo della Porziuncola, presso Assisi, nel 1226. [Il Cantico di frate Sole] Francesco fu autore di varie opere edificanti, quasi tutte in latino. Negli ultimi anni della sua vita, secondo la tradizione, compose il Cantico di frate Sole (o Laudes creaturarum). Il breve testo (una trentina di ‘versi’) non segue un preciso schema metrico: quelli che si definiscono in genere versi di ineguale lunghezza assonanzati, e che si avvicinano a quelli delle sequenze paraliturgiche mediolatine, possono altrettanto bene essere interpretati come prosa ritmica, certo destinata a essere musicata e salmodiata. In una forma molto immediata, senza complicazioni di stile, il Cantico ripete per otto volte la lode a Dio in ragione di altrettante sue creature giudicate intimamente buone: il sole, la luna e le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la terra, gli uomini virtuosi, la stessa «morte corporale», tenuta distinta da quella «morte secunda», morte dell’anima, che non ha potere su chi rispetta le «sanctissime voluntati» di Dio. Del testo, letto di solito come documento di una religiosità spontanea, tanto più accattivante quanto più sciolta da preoccupazioni dottrinali, la critica recente ha messo in luce i possibili sottintesi anti-ereticali. L’elogio della creazione fatto da Francesco reagiva forse – si sostiene - al dualismo professato, nell’Italia di primo Duecento, da sette come quella dei catari: i quali, contro il dogma cristiano, separavano nettamente la sfera spirituale, emanazione diretta di Dio, da quella mondana e corporea, ritenuta creazione di Satana. 31 [La lauda] Si definiscono laudi gli inni dedicati soprattutto a Maria e ai santi che alcune confraternite laiche adoperavano nelle loro preghiere, in margine ai canti liturgici, già a partire dalla prima metà del Duecento. Questo tipo di devozione popolare si sviluppa soprattutto a Siena, Bologna e, in generale, in tutta l’Italia centrale. Del 1233 è il movimento degli Alleluianti (che prende il nome dal canto della messa che veniva intonato dai pellegrini), e a quell’occasione rimontano, probabilmente, i primi esempi di questi canti paraliturgici. Del 1260 è la formazione della compagnia dei Disciplinati di Perugia sotto la guida di Raniero Fasani. Da allora in poi, col fiorire delle confraternite laiche in tutta l’Italia centro-settentrionale, la lauda diventò il più comune dei mezzi di devozione, e ancor oggi biblioteche e archivi vescovili conservano circa duecento raccolte di questi componimenti, i laudari. Si tratta di testi in grandissima parte anonimi, i più scritti in forma di ballata. Agli schemi delle origini, metricamente e retoricamente piuttosto semplici, ne succedono presto altri più complessi: segno che, alla lunga, le leggi formali della lirica d’arte - una certa eleganza di stile, una maggior cura nella composizione - hanno fatto breccia in questo settore inizialmente davvero popolare e ingenuo della poesia antica. [Iacopone da Todi. La vita] Tra i pochi nomi di autori di laude conservatici dalla tradizione, quello di Iacopone da Todi (nato tra il 1230 e il 1236) è di gran lunga il più importante: importante al punto che egli può definirsi, se non l’inventore, il codificatore del ‘genere’ e il modello per tutti coloro che dopo di lui lo praticarono. Vissuto sino agli anni della maturità come laico, e (forse) precisamente come procuratore legale, Iacopone si converte attorno al 1269, diventando prima terziario poi frate minore, e aderendo all’ala ‘radicale’ del francescanesimo, gli Spirituali, i quali professavano un’assoluta povertà e un’osservanza scrupolosa della Regola del Santo. La lotta condotta da Bonifacio VIII contro gli Spirituali e i loro alleati, la potente famiglia dei Colonna, coinvolge anche Iacopone, che viene messo in carcere. Ne esce nel 1304, per intervento del nuovo papa Benedetto XI; ritiratosi nel convento delle Clarisse di San Lorenzo, nelle vicinanze di Todi, qui muore nel 1307. [Temi e carattere delle laude iacoponiche] Se li paragoniamo alle laudi che si trovano, per lo più anonime, nei manoscritti duecenteschi, i testi iacoponici presentano una gamma di registri e di temi molto più varia. C’è sì in lui, come nei suoi predecessori, una componente mistico-ascetica che in cui si esprimono i motivi più caratteristici della spiritualità cristiana: l’esortazione alla virtù e al pentimento, il timore di Dio e della morte nel peccato, lo svilimento del corpo, l’abominio delle ricchezze. Ma insieme, il canzoniere di Iacopone dà spazio a temi di natura privata: invettive (per esempio quella contro il nemico per eccellenza, il papa Bonifacio VIII contro il quale si scaglierà anche Dante nella Commedia), epistole in versi a destinatari storici (come papa Celestino V o i confratelli dell’Ordine, ai quali molte di queste laudi sono di fatto indirizzate), testi autobiografici e ‘lirici’ come quello notissimo scritto in prigionia, Que farai, fra Iacovone? (vv. 15-19): la presone che m’è data, una casa sotterrata arèscece una privata, non fa fragar de moscune. [Sono stato rinchiuso in un sotterraneo - i sotterranei del convento di San Fortunato a Todi - nel quale sbocca una latrina: l’odore non è quello del muschio]. È un modello di ‘poesia dell’io’ ben diverso da quello che ispira la contemporanea lirica toscana. Il tono brusco e diretto, la violenza delle immagini, la quotidianità del lessico e della sintassi, in una parola il realismo di Iacopone si avvicinano piuttosto all’altra ‘scuola poetica’, questa interamente laica, che andava formandosi in quegli anni tra Firenze e Siena: il filone burlesco di Rustico Filippi o di Cecco Angiolieri che abbiamo visto rappresentare una sorta di contraltare borghese e realistico al mondo della ‘cortesia’ tenuto vivo dagli stilnovisti. 32 [Linee evolutive della poesia nel Trecento. I due filoni principali: lirica e narrativa in versi] La poesia trecentesca può essere distinta in due filoni principali:quello lirico e quello allegoriconarrativo. Il primo riprende e sviluppa il modello proposto dai grandi poeti toscani dell’ultimo quarto del Duecento: Cino, Cavalcanti, Dante. Il secondo segue la strada aperta dalla Commedia: la rappresentazione oggettiva, in versi, di contenuti morali, filosofici, dottrinali. [La lirica: dalla Toscana al Veneto] La tradizione lirica si spegne quasi del tutto, in Toscana, dopo la generazione stilnovista: anticipando quella che sarà una delle tendenze dominanti del secolo, i ‘minori’ vissuti all’ombra di Petrarca e Boccaccio si orientano, piuttosto che verso la poesia d’amore, verso un tipo di lirica didattico-morale di scarso impegno formale e ideologico. Solo nella seconda metà del secolo, dopo Petrarca, poeti fiorentini come Alberto degli Albizi e Cino Rinuccini vorranno tornare all’ortodossia ‘cortese’: e comporranno esclusivamente liriche d’amore attingendo insieme al repertorio dello stilnuovo e alla nuova maniera petrarchesca. Il terreno per la poesia è più fertile in Veneto. Qui, in seguito alle faide tra guelfi e ghibellini, si trasferiscono molti intellettuali toscani: e vi soggiornano prima Dante (anni Dieci) poi Petrarca (anni Cinquanta e Sessanta), ciascuno raccogliendo attorno a sé un gruppo di ammiratori e imitatori. Il trevigiano Nicolò de’ Rossi (1290-post 1348) è il primo a riprendere in maniera consapevole la lezione stilnovista dedicando a una donna chiamata col senhal di Floruzza alcune centinaia di sonetti e quattro canzoni, una delle quali scritta a imitazione della canzone filosofica cavalcantiana Donna me prega. [Il nuovo ruolo sociale del poeta] Nel corso del secolo, la crisi delle istituzioni comunali e l’affermazione delle corti signorili ha riflessi importanti anche sull’attività artistica. Gli intellettuali che un tempo occupavano i posti più importanti nelle magistrature cittadine (si pensi a Brunetto Latini, o allo stesso Dante) ora vengono arruolati nelle corti per svolgere il ruolo di epistolografi o cancellieri, o di poeti al servizio del signore: Dante e Petrarca svolgeranno talvolta questa mansione (per esempio rispondendo a sonetti inviati ai prìncipi da altri poeti: Dante per i Malaspina, Petrarca per i Colonna), ma molti autori ‘minori’ loro contemporanei ne fecero una vera e propria professione, e passarono la loro vita viaggiando tra le corti del nord Italia: è il caso del toscano Fazio degli Uberti (nato nel 1367); del ferrarese Antonio Beccari (1315-1371); del padovano Francesco di Vannozzo (ante 1340-post 1389) – tutti ospiti, in tempi diversi, della corte milanese dei Visconti e di quella veronese degli Scaligeri. [La poesia allegorico-narrativa: Cecco d’Ascoli] Quanto ai poemi allegorico-narrativi, il Trecento produce, com’è noto, due capolavori, la Commedia e i Trionfi, e un’opera altrettanto fortunata anche se di minor valore letterario, l’Amorosa visione di Boccaccio. Ma, accanto a queste vette, è da segnalare l’esistenza di una larghissima famiglia di imitatori più o meno pedestri: al linguaggio versificato – di solito nella forma della terzina incatenata o dell’ottava – vengono affidati temi e compiti che a noi lettori post-romantici sembra possano essere espressi e soddisfatti soltanto dalla prosa. In questa vastissima produzione merita un cenno almeno l’Acerba di Cecco d’Ascoli (1269-1327), un poema incompiuto in cinque libri che passa in rassegna una buona fetta dello scibile umano spiegando le proprietà dei pianeti, la natura delle virtù e dei vizi, le proprietà degli animali e delle pietre, ecc. [Fazio degli Uberti] Mentre Cecco – caso più unico che raro nel Trecento – polemizza con Dante, opponendo il proprio enciclopedismo, il proprio interesse filosofico e scientifico alle ‘favole’ narrate nella Commedia, il Dittamondo di Fazio degli Uberti è una chiara ed esplicita imitazione del poema dantesco sia nel metro, sia nei motivi, sia nelle strategie narrative. Originale è però il tema centrale dell’opera: un viaggio immaginario attraverso tutto il mondo con la guida dell’antico geografo Solino. Il resoconto del viaggio – il poema stesso – finisce così per essere un manuale storico-geografico ricco di notizie su luoghi esotici ma ancora più ricco di leggende e mirabilia che fanno del Dittamondo una sorta di repertorio della letteratura fantastica. 3.3. La prosa 33 [Primi esempi di prosa ‘tecnica’] A paragone di questa eccezionale fioritura poetica, gli esordi della prosa letteraria italiana ci appaiono tardi ed incerti. Prosa letteraria, bisogna specificare, perché sin dal XII secolo è attestato l’uso del volgare per brevi scritti di carattere pratico, senza alcuna intenzione artistica e in genere, per dir così, di immediato consumo. Si tratta di testi per la gran parte toscani: già tra il XII e il XIII secolo questa regione è infatti quella in cui è più fiorente la vita economica e commerciale, e in cui è dunque più intensa la comunicazione e più viva l’esigenza di registrare per iscritto conti o documenti di varia natura. La tipologia dei testi per lo più rimanda, in effetti, al ceto mercantile che di lì a poco avrebbe fatto trionfare la potenza finanziaria di Firenze (ma anche di Lucca e di Pisa e di altri comuni toscani) sui mercati europei. Libri di conti (i cosiddetti libri del dare e dell’avere), portolani (cioè brevi manuali scritti a beneficio dei naviganti), testamenti, lettere di mercanti, ecc.: sino quasi alla metà del Duecento l’uso del volgare mira soltanto a questo, a una comunicazione più rapida e chiara tra soggetti che scrivono per comprendersi, senza intenzione artistica o culturale, o alla registrazione di dati (denaro, mercanzie) ad uso strettamente personale. [L’epistolografia e l’ars dictandi] Nel corso del XIII secolo le cose cambiano, prima di tutto nelle scuole e nelle università. L’arte notaria e l’arte di scrivere lettere, discipline di lunghissima tradizione e veri capisaldi dell’insegnamento scolastico, interessano un numero sempre crescente di individui, alcuni del tutto ignari di latino: si spiega così, con questo graduale ampliamento del pubblico, il proposito di Guido Faba, docente allo Studium di Bologna, di fornire al suo lettoreallievo, oltre che modelli di epistole in latino, modelli in volgare di materia - è bene sottolinearlo sia privata sia pubblica. Anche il volgarizzamento dei trattati latini di retorica - opera di Bono Giamboni, di Guidotto da Bologna e soprattutto di Brunetto Latini - rispecchiano presumibilmente una situazione analoga: la retorica, le arti del discorso, escono dalle aule universitarie e diventano strumenti d’uso comune nella vita cittadina d’ogni giorno: non è un caso che nel suo commento al De inventione di Cicerone Brunetto Latini si dedichi costantemente ad ‘attualizzare’ il trattato ciceroniano facendo osservare al lettore, in volgare fiorentino, le possibili applicazioni che quelle regole hanno nell’amministrazione del comune. [La persistenza del latino] Si tratta, in ogni caso, delle prime deboli avvisaglie del futuro trionfo del volgare, non certo di una rivoluzione linguistica. Nelle scritture d’argomento sacro, nella storiografia e nella memorialistica, nelle pratiche di cancelleria, il prestigio del latino rappresentò a lungo una remora insuperabile per il costituirsi di una tradizione prosastica in volgare. Esso restava la lingua della comunicazione colta, quella che era necessario adoperare per farsi capire al di fuori dei confini nazionali e regionali, quella inoltre che poteva contare su una grammatica già formata, cioè su una lunga tradizione di scrittura: in ambienti ‘ufficiali’ come la Chiesa o le cancellerie di corte il latino resterà per molti secoli ancora l’unica lingua possibile. Ma nella prosa morale e in quella scientifica il volgare toscano, pur minoritario, trovò nel Duecento una più larga applicazione, e qui ci occuperemo più in dettaglio dei tre maggiori prosatori toscani del secolo: Bono Giamboni, Brunetto e Ristoro d’Arezzo. [La prosa narrativa] Meno ampia e meno variegata è la prosa narrativa. Molti dei testi volgari che si possono far rientrare in questa categoria sono testi ‘di frontiera’, che stanno cioè a metà strada tra il racconto quale oggi noi lo intendiamo e il sermone morale, con qualche propensione per quest’ultimo: storie esemplari, insomma, in cui il narrare non è fine a se stesso ma sottintende una lezione morale. Una separazione più netta tra le due sfere, quella - per dir così etica e quella estetica, si avrà nel Novellino: una raccolta di cento novelle messa insieme alla fine del XIII secolo, che in pratica inaugura la narrativa italiana moderna. [Gli autori. Bono Giamboni. La vita] Bono Giamboni, attestato tra il 1261 e il 1291, fu giudice e podestà di Firenze e viene considerato, con Brunetto Latini, il massimo prosatore toscano della sua generazione. Come molti intellettuali del suo tempo, oltre a comporre opere originali, volgarizzò testi classici (la Rhetorica ad Herennium, falsamente attribuita a Cicerone) e della latinità tarda (le Storie contro i pagani da Orosio, L’arte della guerra da Vegezio). Un’ampia 34 conoscenza del Medioevo latino (Prudenzio e Claudiano, ma soprattutto il De consolatione philosophiae di Boezio) sta del resto a fondamento della sua opera maggiore, il Libro de’ vizî e delle virtudi. [Il Libro de’ vizi e delle virtudi] Nei 76 capitoli del Libro s’intrecciano due storie esemplari. La prima corrisponde al viaggio - viaggio-visione simile a quello di Dante nella Commedia - che il protagonista e autore del Libro compie per la propria salvezza spirituale. Caduto in uno stato di sconforto e di prostrazione, Bono incontra la Filosofia, che lo consola per la perdita dei beni materiali e lo esorta a intraprendere in sua compagnia il cammino verso la virtù. Una serie di incontri e di colloqui - il primo con la Fede che lo interroga circa il Credo, i sacramenti, i peccati capitali, ecc., gli altri con le varie «Virtudi» che lo esaminano a loro volta - porta Bono ad essere ammesso, nell’ultimo paragrafo, tra i fedeli delle Virtù: «E dacché m’ebbero benedetto e segnato e ricevuto per fedele, scrissero BONO GIAMBONI nella matricola loro, secondo che la Filosofia disse ch’io era chiamato». Circa alla metà del suo viaggio il protagonista assiste ad un grande spettacolo esemplare. Radunata in un’immensa pianura, «tutta la gente del mondo» combatte divisa in due fazioni contrapposte, chi per le Virtù chi per i Vizi (capitanati da Superbia). Presto la visione, da allegorica che era, diventa storica, e la cornice della battaglia fornisce al narratore il pretesto per un lungo excursus sulla storia del mondo e della cristianità, dalla creazione al peccato originale e dalla fondazione della Chiesa alla lotta contro le eresie. La lotta (e la visione) si chiude con la vittoria delle Virtù e della vera religione; ma è una vittoria parziale, dal momento che rimane aperto il conflitto tra il cattolicesimo e l’ultima e più insidiosa delle eresie ‘partorite da Satana’, l’Islam. [Le lettere di Guittone d’Arezzo] Rispetto all’opera del Giamboni, l’epistolario di Guittone d’Arezzo (cfr. § 3.2) offre un modello tutto diverso di ammaestramento morale. Lo stile irruento, la ricchezza di esclamazioni e di interrogative retoriche, tipiche della predicazione e dell’oratoria, sono lo strumento di una morale ‘militante’ perfettamente inquadrabile in quello che abbiamo visto essere il secondo tempo della carriera poetica di Guittone: l’opera del convertito. Come spesso le canzoni, le lettere si indirizzano a singoli destinatari - confratelli, amici, uomini investiti di responsabilità civili o politiche - per confermarli sulla strada del bene o per distoglierli dal vizio. Nate dunque come forma di comunicazione privata, esse vennero presto raccolte dall’autore o dai suoi discepoli a formare un epistolario organico per l’edificazione di tutti. Le 34 lettere che ci rimangono (certo una scelta da un corpus più ampio), come rispecchiano la forza polemica del Guittone poeta, così ne ripetono lo stile spesso oscuro e contorto, gonfio di latinismi, costrutti poetici e, soprattutto, di citazioni dalle ‘autorità’ (i classici latini e gli autori cristiani) tanto numerose da rendere più di una lettera una semplice collezione di sententiae a tema. E come il poeta, così il prosatore dovrà a questo gusto per gli artifici formali lo scarso successo incontrato nella tradizione italiana già a partire dal Trecento. [Brunetto Latini. La vita] Nella storia della letteratura italiana delle origini Brunetto Latini occupa una posizione di grande rilievo. È poeta lirico, didattico (col Tesoretto), traduttore dal latino e trattatista: insomma raduna in sé competenze disparate che ne fanno il primo intellettuale italiano davvero polivalente, quelle stesse competenze che ritroveremo, potenziate, nel suo discepolo e amico Dante Alighieri. E come e più di Dante, Brunetto fu coinvolto nella vita politica e civile del suo tempo. Fiorentino di nascita, è sindaco di Montevarchi nel 1260, quindi ambasciatore del comune di Firenze presso Alfonso il Saggio di Castiglia. Esule per cinque anni in Francia in seguito alla vittoria dei ghibellini, rientra nella città natale nel 1266 e qui ricopre varie cariche, da cancelliere a priore, sino alla morte, nel 1294. [Il volgarizzamento della Rhetorica ad Herennium] Benché abbia luogo negli anni dell’esilio francese, proprio al suo impegno civile dev’essere collegata l’opera del traduttore. Il volgarizzamento del De inventione (‘Sull’invenzione’) ciceroniano (la cosiddetta Rhetorica vetus [‘Vecchia retorica’], la nova essendo la cosiddetta Rhetorica ad Herennium [‘Retorica a Erennio’], falsamente attribuita a Cicerone) si accompagna infatti ad un fitto commento che reinterpreta a beneficio del ‘reggitore’, cioè di colui che porta la responsabilità politica, le norme retoriche che nell’originale latino erano prescritte all’oratore: uscita dalle aule del tribunale, la retorica viene 35 spesa «in ambasciarie e in consigli de’ signori e delle comunanze e in sapere componere una lettera bene dittata». Quella che ne deriva, nonostante il dislivello stilistico tra la lunga glossa di Brunetto e il testo tradotto, che ha l’appoggio del perfetto latino ciceroniano, è un’opera compatta, tanto più interessante e vivace quanto più si allontana, nel commento, dalla traccia del modello. Da un lato, c’è un ricco apparato didascalico che svolge e chiarifica la terminologia tecnica - dai vari genera in cui si suddivide la retorica alla classificazione delle controversie, alle partizioni della lettera e del discorso forense - attingendo soprattutto al commento di Boezio; dall’atro lato, c’è in Brunetto la capacità di rendere meno astratta l’arte retorica inserendola nel vivo della realtà contemporanea. Non solo quindi il libro mira esplicitamente a uno scopo pratico, cioè alla formazione intellettuale di chi andrà a ricoprire cariche pubbliche, ma gli stessi esempi introdotti nel commento a beneficio del lettore sono tratti in più di un’occasione dalla cronaca comunale: «Verbigrazia. Il comune di Firenze...» (e segue un episodio ‘locale’ che illustra il precetto retorico appena discusso nel trattato). [La riflessione sulla poesia] Appare dunque coerente con questa estensione della retorica ad ogni aspetto della vita cittadina l’importante paragrafo sulla poesia. Su questo argomento, naturalmente, Cicerone tace, limitandosi a fissare le regole della controversia giuridica. Ma - scrive Brunetto - che cos’è uno scambio epistolare se non un particolare tipo di controversia (una «tencione tacita») nella quale, proprio come nel discorso forense, ogni lettera è arricchita con «parole ornate e piene di sentenzia e di fermi argomenti»? E che cosa sono le canzoni d’amore se non tipi particolari di epistole, petizioni in verso alla dama «in modo di tencione o tacita o espressa»? Col che la lirica è riportata sotto l’ombrello della retorica: intuizione fondamentale che individua con chiarezza uno dei caratteri più tipici della poesia delle origini. [Il Tresor] L’altra opera maggiore di Brunetto, il Tresor [‘Tesoro’], scritta in francese durante l’esilio, merita di entrare in un sommario di letteratura italiana anzitutto perché ebbe vasta diffusione presso gli intellettuali toscani del tempo (non a caso è ad essa che Dante consegna il ricordo del maestro in Inf. XV: «Sieti raccomandato il mio Tesoro, | nel qual io vivo ancora»), e in secondo luogo perché il francese è, anche nell’Italia del Duecento, lingua raccomandata per la prosa soprattutto in ragione della sua diffusione internazionale: in francese Martin da Canal scriverà la sua storia di Venezia, e il pisano Rustichello, sulla base dei racconti del veneziano Marco Polo, Il Milione. Diviso in tre lunghi libri, il Tresor è il rappresentante più insigne, in una lingua volgare, di quella tradizione enciclopedica che sino ad allora non era uscita dai binari del latino scolastico. Il primo libro è un’ampia raccolta di nozioni in materia di teologia, storia, fisica, geografia, architettura, storia naturale, zoologia. Il secondo associa a una lunga sezione sui vizi e sulle virtù una traduzione parziale e un commento dell’Etica di Aristotele. Nel terzo libro, il Tresor raggiunge la sfera d’interessi della Retorica; paragrafi sulla retorica, appunto, e paragrafi sulla politica coronano il trattato indirizzandosi a quel lettore cui l’opera intera può dirsi idealmente dedicata: l’uomo di stato. [Ristoro d’Arezzo, La composizione del mondo: struttura] Così come la filosofia, anche la scienza, disciplina ‘internazionale’ che vive quasi esclusivamente nelle Università, parlerà latino sino a tempi relativamente recenti. Tra le rare opere scientifiche scritte nel Medioevo in un volgare romanzo, La composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo è probabilmente quella più estesa e più impegnativa. L’autore, forse un frate, certo un intellettuale che opera a stretto contatto con lo Studium aretino, non attinge a un unico modello ma contamina fonti diverse: Tolomeo, gli enciclopedisti medievali, i filosofi arabi - Averroè, Avicenna - letti nelle recenti traduzioni latine e, soprattutto, Aristotele. E da Aristotele deriva la categoria concettuale che informa tutto il libro, quella della dialettica degli opposti: categoria applicata da Ristoro con tanto rigore da risultare a volte goffa e irragionevole. Poiché - così sostiene Ristoro - ogni cosa esiste in virtù dell’esistenza del suo contrario, nulla è considerabile separatamente, senza il suo opposto che lo spiega e giustifica: perciò ciascun segno zodiacale si definisce nel suo influsso in rapporto ad un segno contrario, e lo stesso va detto per i quattro elementi naturali (aria, terra, fuoco, acqua), per la destra e la sinistra, ecc. E poiché «il mondo dea èssare composto da cose oposite», è giusto che anche questa regola patisca un’eccezione e contempli insomma il suo contrario, vale a dire che «il mondo 36 sia una cosa sola», senza opposto. Considerazione che porta ad affermare, alla fine del trattato (II.8.24), che l’uomo è solo nell’universo: «non trovamo altro mondo che questo». [Temi] La prima parte dell’opera, in 24 capitoli, è dedicata alla cosmologia e alle scienze naturali: stelle, pianeti, segni zodiacali, geografia terrestre, flora e fauna, climi e stagioni. La seconda (94 capitoli) prosegue con osservazioni analitiche sui pianeti e sullo zodiaco (senz’altro l’argomento che sta più a cuore a Ristoro, che crede ciecamente all’influenza delle stelle sulla vita umana), quindi passa in rassegna le regioni terrestri, i fenomeni naturali e atmosferici (il terremoto, le comete, l’arcobaleno, ecc.). Nel finale, l’andamento abbastanza lineare del trattato si spezza, e l’autore si pronuncia su questioni minori che hanno poco a che vedere con la trama generale del discorso: la genesi dell’amore, la ragione per cui il fiato può essere insieme freddo e caldo (ma già in precedenza le osservazioni naturalistiche erano state interrotte da digressioni sulla virtù dei saggi [I.21] o sulla bellezza dei vasi antichi [II.8.4bis]). [L’interpretazione del mondo naturale] Tipica della mentalità di Ristoro e della sua tecnica espositiva è l’interpretazione organicistica della natura: «Questo mondo rascionevelemente lo potemo asimelliare ad una casa o ad un regno». Stante questa equazione tra cosmo e regno, tutto l’universo non è che un grande codice obbediente a poche leggi fondamentali, e ciò che è nel cielo trova precisa corrispondenza nel mondo degli uomini. I pianeti sono ‘figura’ delle classi sociali (Saturno, il più distante, è l’astro dei lavoratori della terra, il Sole, il più luminoso, è l’astro dei re, e così via), e intervengono attivamente a modificare i destini umani: «E li savi s’acordano tutti che li corpi che sono de qua de sotto so’ retti e dominati da quelli de sopra». Un passo più in là, e la teoria dell’influenza dei corpi celesti fa posto a quella che negli animali e negli oggetti terrestri vede il semplice riflesso di immagini fissate per sempre nella conformazione dei pianeti e delle stelle: «e questa similitudine recevono dal cielo tutte le cose che so’ engenerate de li elementi, emperciò che la meno nobele cosa dea recevare similitudine da la più nobele»: così, per esempio, le macchie lunari «so’ desegnate a similitudine del viso umano, secondo quello che vegono e ponono li savi», e il tracciato delle costellazioni prefigura le fattezze di certi animali e cose del nostro mondo: il carro, la bilancia, l’aquila, la nave, e così via. [Guido Faba: le istruzioni su come scrivere] Come abbiamo visto accennando all’opera di Brunetto, l’istruzione nel campo della retorica ha nel Medioevo un peso difficile da sopravvalutare. La domanda su «che cosa scrivere?» passa quasi ovunque in secondo piano rispetto ad un’altra che sembra stare molto più a cuore agli intellettuali del tempo: «come scrivere?». I trattatisti insegnano a mettere insieme un’orazione, un poema, una lettera. Generalmente, questa precettistica è in latino e si rivolge a scriventi in latino. In quanto opera insieme storico-critica e prescrittiva, il De vulgari eloquentia sarà a suo modo un manuale di questo tipo, ad uso dei poeti italiani. Ma nel corso del XIII secolo il volgare prese piede in ambienti che in passato gli erano rimasti preclusi: i tribunali, le cancellerie, persino la Chiesa. Non stupisce, dunque, che Brunetto, Bono e Guidotto da Bologna volgarizzino e commentino per un pubblico più vasto di quello degli specialisti gli antichi trattati di retorica. E non stupisce che la storia della prosa ‘di scuola’ in volgare si apra con i protocolli di Guido Faba. [La Gemma purpurea e i Parlamenti et epistole] Come altri retori del suo tempo (i toscani Bene da Firenze e Boncompagno da Signa) Guido insegna all’Università di Bologna, massimo centro europeo per gli studi giuridici, e compone in latino una Summa dictaminis (che potremmo tradurre come ‘Arte dello scrivere lettere e documenti’) ad uso dei suoi studenti. Negli anni Quaranta scrive le sue opere maggiori, la Gemma purpurea, un trattato di epistolografia diviso in una sezione di precetti e in una di esempi (formule di poche righe da impiegare nelle scritture pubbliche - preghiere a un superiore, ingiunzioni a alleati o nemici - o private - lettere d’amore o d’amicizia); e i Parlamenti et epistole, brevi modelli di orazioni che illustrano gli accorgimenti retorici utili per confezionare un discorso elegante (i modelli riguardano in genere l’attività podestarile, ma ci sono anche esempi di orazioni fittizie come il contrasto tra la Quaresima e il Carnevale, uno dei luoghi comuni della letteratura mediolatina). Ebbene, all’interno dei Parlamenti Guido raccoglie anche modelli di orazioni in volgare; e nella Gemma purpurea - dopo il prologo, la 37 lista delle voci e delle locuzioni da usare nelle lettere, dopo la Doctrina che insegna analiticamente a comporle - gli esempi di exordia (‘esordi, avvii di documento’) presentati al lettore sono nelle due lingue, «litteraliter et vulgariter» (‘in latino e in volgare’). Per esempio: «Supplica la mia parvitade a la vostra segnoria devotamente, che vio, per Deo e per lo vostro onore, segundo la vostra força ch’è sufficiente in questa parte, vugliae dare overa che possa avere officio in comuno» (‘Nella mia umiltà supplico la Vostra Signoria perché vogliate, in nome di Dio e del Vostro buon nome, operare affinché io possa ricevere un incarico presso il comune’). È dunque probabile che già nella prima metà del secolo l’epistolografia e l’arte notaria dovessero venire incontro alle esigenze di un pubblico di utenti ‘non letterati’ sempre più ampio. [La storiografia] La grande storiografia in volgare nasce nel primo Trecento, con le Cronache di Dino Compagni e Giovanni Villani. Nel Duecento, la lingua delle scritture storiche è il latino, e il loro impianto è piuttosto elementare: si tratta o di cronache che mettono in fila, senza analizzarli, piccoli fatti di risonanza locale, oppure di storie universali che si riducono a una rozza elencazione degli eventi succedutisi dalla fondazione di Roma (o più indietro ancora) agli anni in cui vive lo scrivente (unica eccezione la Chronica latina del frate parmense Salimbene de Adam, che fu testimone diretto di buona parte degli episodi della storia duecentesca da lui narrati). Le due più importanti cronache duecentesche in volgare s’ispirano di fatto a questi semplici modelli. Marcatissima è l’impronta annalistica nella Cronaca pseudolatiniana (così chiamata perché un tempo falsamente attribuita a Brunetto Latini), opera di un fiorentino che anno per anno elenca gli eventi a suo parere più notevoli ravvivando la sua cronaca con aneddoti curiosi circa strani fenomeni naturali, eventi miracolosi, leggende dedotte dalla sua fonte primaria, l’opera di Martino Polono. Più critica, meno incline all’aneddoto e insomma più moderna è invece l’Istoria fiorentina di Ricordano Malaspini (proseguita dal nipote Giacotto fino al 1285) che ripercorre la storia della città dalle mitiche origini fiesolane ai Vespri siciliani (1282). Ritenuta a lungo una falsificazione a causa delle sue estese concordanze con la più tarda Cronaca del Villani, oggi è opinione comune che essa rappresenti invece una delle principali fonti di quest’ultimo. [La prosa narrativa. Premessa] Il genere che nelle altre letterature romanze ha spesso una funzione fondatrice, la prosa narrativa, diede nel Duecento italiano frutti poverissimi. Suo carattere tipico è, nei primi tempi, la fusione tra l’istanza narrativa e quella morale-religiosa. L’invenzione romanzesca ha bisogno di appoggiarsi all’autorità dei filosofi o della Chiesa: narrare è possibile, ma solo a patto che ciò serva all’edificazione del lettore. Le prime raccolte di novelle italiane (dato che per trovare qualcosa che assomigli al romanzo occorrerà attendere il Trecento) riflettono questa situazione di limitata autonomia tanto nel loro contenuto quanto nella loro struttura e genesi. Circa il contenuto esse mirano sempre ad insegnare qualcosa. Quanto alla struttura, essa ricalca quella delle collezioni di exempla (brevi racconti che illustrano un precetto morale: un esempio, appunto) o di leggende sacre: le novelle raccolte nei Conti senesi o nel Fiore di filosafi (cfr. infra) nascono già in gruppo, come un organico manuale di precetti virtuosi. La novella singola o, come si dirà, ‘spicciolata’, specchio di un gusto per la narrazione diventato premio a se stesso, sarà un’invenzione quattrocentesca. Quanto alla genesi, le nostre prime prose narrative sono in buona misura traduzioni o rimaneggiamenti di modelli francesi o latini. Quel confronto con le altre lingue di cultura che rappresentò, in poesia, la necessaria premessa allo sviluppo di una tradizione italiana originale, accompagnò per più lungo tratto l’evoluzione della narrativa italiana medievale. [I Conti senesi] Nei Conti senesi, frammentario volgarizzamento di prose devote francesi, le Vies des Peres, l’intenzione edificante e didattica è esplicitata già in righe introduttive che possono ben considerarsi come il prologo dell’intera raccolta. I 14 racconti (ma dovevano essere più numerosi in origine) vengono preannunciati come opera «di grande autorità», scritta «a utilità di coloro che lo legierano». Ne sono protagonisti non i borghesi che vedremo all’opera nel Novellino e nel Decameron né i saggi e i filosofi di altre raccolte coeve bensì anonimi personaggi legati alla chiesa - eremiti, frati, monache - i quali attraverso le loro vicende forniscono al lettore un modello 38 di virtù e di comportamento cristiano. Nelle novelle più estese, questa significazione morale viene resa esplicita per due volte dal narratore, il quale prende direttamente la parola sia in avvio di racconto, per istradare il lettore alla giusta comprensione del testo (queste righe iniziali vengono designate come «prologo» nella nov. XIV, ed assolvono dunque la funzione di micro-cornice, ossia di legante tra i vari racconti), sia in coda, per mettere in chiaro il significato esemplare della novella. [I Conti di antichi cavalieri] Databile all’ultimo trentennio del secolo e localizzabile nella Toscana orientale (forse ad Arezzo) è un’altra breve silloge di racconti messa insieme, come i Conti senesi, non per diletto bensì per utilità pratica ma, diversamente da quelli, senza implicazioni di tipo religioso. I Conti di antichi cavalieri si propongono infatti di far conoscere «detti saggi e belli e di gran sentimento a·cciò che sempre inviamento bono ne possa avere e·ppigliare ciascuno cui governa». In altri termini, gli exempla qui raccolti e romanzati rielaborando principalmente il Liber Ystoriarum Romanorum non hanno un generico intento didattico bensì una precisa funzione di ammaestramento e ‘moralizzazione’ dei reggitori dello stato: onde la scelta, come protagonisti, di cavalieri (cioè equites, nobili) dell’età greco-romana che, in quanto eterni modelli di virtù, possono affascinare e convincere uomini di ogni parte politica. In coerenza con l’intento dell’opera, che è quello di istruire i governanti del Comune, è costante in tutte le novelle di ambientazione greca o romana l’interesse per le virtù politico-militari, mentre poco spazio viene concesso ai valori della saggezza e della temperanza, preminenti invece nelle altre raccolte di novelle contemporanee. [I Fiori e vita di filosafi e d’altri savi e d’imperadori] Probabile fonte dei Conti appena citati e, forse, del Novellino, è la raccolta nota come Fiori e vita di filosafi e d’altri savi e d’imperadori, databile agli anni Settanta del Duecento. L’opera, che traduce, riducendo e rimaneggiando a sua volta, un compendio dello Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, conobbe un’eccezionale fortuna nel Medioevo per essere un comodo repertorio di aneddoti sulla vita degli antichi filosofi e degli eroi romani e, insieme, una collezione di sentenze riciclabili in ogni occasione: il titolo rispecchia appunto questa «giustapposizione di una parte aneddotica (vita) e di una antologicasentenziosa (fiori)» (D’Agostino). Le due classi di personaggi presentate come esemplari (savi e filosofi come Pitagora, Socrate, Platone, eroi romani come Valerio, Bruto, Torquato, apprezzati per le loro virtù morali e non più - come nei Conti di antichi cavalieri - per le imprese guerresche) sono considerati insieme, su un identico piano, per aver dimostrato saggezza nella loro condotta o nei loro scritti: anche personaggi noti per altri meriti (meriti letterari nel caso di Plauto o di Stazio) interessano qui solo come ‘savi’ produttori di sentenze di facile riuso. Naturale quindi che le due sezioni delle ‘novelle’ abbiano ampiezza e rilievo diseguali. Vale a dire che la parte biografica è ridotta all’osso («Epicurio fue uno filosafo, che non seppe lettera, né non seppe disputare»: seguono citazioni dalla sua opera), o si fonda su aneddoti inverificati scelti per le loro applicazioni morali, mentre tutto l’interesse si rivolge ai detti memorabili: i lunghissimi profili di Cicerone e di Seneca sono di fatto composti quasi per intero da stralci delle loro opere, sicché la biografia romanzata si trasforma in antologia. [Il «Novellino». Struttura] Il Novellino è la raccolta di brevi racconti che, composta nell’ultimo ventennio del secolo, getta le basi della nostra prosa narrativa. È dubbio se la sua struttura e la consistenza attuale (cento novelle) risalgano alla stesura originale o se siano invece il frutto di una selezione più tarda operata da chi volesse dare al Decameron boccacciano il contraltare di «Cento novelle antiche» (titolo della prima edizione cinquecentesca, che presuppone appunto il ricordo dell’opera più recente e più celebre): il più antico tra i manoscritti che ci hanno conservato il Novellino aggiunge infatti alle cento della vulgata varie altre novelle, le une tratte pari pari da raccolte contemporanee come il Fiore di filosafi, originali le altre. Come che stiano esattamente le cose, certo è che il Novellino presenta, se non una vera e propria architettura narrativa da ‘macrotesto’, un principio di strutturazione interna, o meglio una varietà di princìpi: novelle unificate da un tema comune (per esempio la saggezza, nella prima decina), o dall’ambientazione (il mondo classico, nelle novelle 66-72), o dall’identità del protagonista (le novelle ‘federiciane’ 21- 39 24). Formule di connessione debole, tutte queste, che individuano inflessioni e motivi ricorrenti ma non fanno del libro un organismo compatto. [Il pubblico] La dedica ai «cuori gentili e nobili», nel prologo al libro, e l’augurio che chi ha «intelligenzia sottile» segua i begli esempi illustrati nel libro hanno fatto parlare di un tentativo di selezione del pubblico, alla stregua di quella che nella contemporanea lirica stilnovista riserva l’accesso alla poesia alla cerchia ristretta degli intendenti d’amore, ossia ai nobili d’animo e di costume. Ma se in quest’ultima il richiamo etico ha la sua ragion d’essere nel carattere elitario dell’ideologia cortese, i contenuti del Novellino non ritagliano affatto un pubblico di intendenti in qualsivoglia disciplina, ché anzi per la piana quotidianità dei soggetti trattati e per la scioltezza della sintassi non c’è probabilmente in tutto il Duecento opera che più di questa si presti a una fruizione ‘popolare’. La novella 29, nella quale con una risposta arguta un «matto» fa giustizia della pseudoscienza di alcuni «grandissimi savi» parigini («matto e forsennato - così conclude - colui che pena e pensa di sapere il suo Principio [‘l’origine, la causa delle cose e della propria esistenza’]; e sanza veruno senno [‘del tutto privo di intelletto’] chi vuol sapere li Suo’ [di Dio] profondissimi pensieri»), dice in sintesi quali siano in effetti i valori apprezzati dall’autore e, presumibilmente, dai primi consumatori dell’opera: il buon senso e l’umorismo, non l’«intelligenzia sottile» richiesta nel prologo: nel quale l’appello ai «gentili e nobili» ha dunque tutta l’aria di una captatio benevolentiae (formula con cui si cerca di ottenere – captare – il favore, la benevolenza dell’uditorio) vòlta non già a selezionare bensì a lusingare, sulla soglia dell’opera, il pubblico dei lettori. [Lo scopo del libro] Come gran parte dei testi prosastici del tempo, il Novellino ha finalità esemplari. Ma la sua esemplarità si risolve tutta quanta nella sfera pratica. Nelle poche righe che introducono il primo dei Conti senesi, l’autore dichiara che le vite dei santi padri sono state qui trascritte «a utilità di coloro che [le] legieranno»: la narrazione - ci dice questa importante premessa - è puramente funzionale all’ammaestramento morale dei lettori. L’autore del Novellino chiarisce invece sùbito che il suo impegno è di natura laica. L’inizio sul nome di «Nostro Signore Gesù Cristo» adempie a un luogo comune della trattatistica coeva, ma prelude a un libro in cui i valori della religione hanno una parte molto esigua. Le poche novelle ‘cristiane’ sono tra le meno felici della raccolta o perché ricalcano con troppa passività la traccia dell’exemplum o perché al piano della narrazione è applicata in maniera troppo meccanica una coda moralizzatrice e parenetica (si pensi alla nov. 28, che passa bruscamente dalle gesta di Lancillotto alla lode di Dio: «Ohi mondo errante e uomini sconoscenti [...], quanto fu maggiore il Signore nostro che fece lo cielo e la terra, che non fu Lancialotto»). Invece gli spiriti antifrateschi, così diffusi nella letteratura popolare del Medioevo, danno vita ad alcuni quadretti non indegni del paragone con Boccaccio: mentre la nov. 54, ripresa infatti nel Decameron (I 4), mette in scena un «piovano Porcellino» che, accusato di concubinaggio, si discolpa dimostrando che i costumi del suo censore, il vescovo, non sono migliori dei suoi, ben tre brevi novelle sfruttano, per scatenare l’effetto comico, il momento del contatto tra laici in buona fede e chierici lussuriosi (nov. 87), avidi (91) o cialtroni (93) - la confessione. Nell’assoluto disimpegno e nella volontà di non mescolare le cose terrene e quelle divine, nel suo taglio insomma laico-razionalistico, il contenuto della raccolta non contraddice quindi le anticipazioni del prologo: «rallegrare il corpo e sovenire [‘aiutare’] e sostentare [...] a prode [‘a vantaggio’] e a piacere di coloro che non sanno e disiderano di sapere». [I temi] La scelta dei temi è in linea con quanto si è osservato finora. «Facciamo qui memoria - annuncia l’autore - d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi [‘belle risposte’] e di belle valentie, di belli donari e di belli amori». Ma alla lettura appare chiaro che è la prima voce dell’elenco (i «fiori di parlare», i «belli risposi») quella che unifica e spiega la grande maggioranza delle novelle. Ciò significa che l’indugio sui particolari, l’elaborazione dell’intreccio, insomma il piacere della narrazione ‘gratuita’ che sarà così tipico della prosa italiana dopo Boccaccio, tutto questo si cerca invano nel Novellino. Qui i fatti sono al servizio delle parole, e gli scarni elementi del plot corrono rapidamente verso il colpo di scena che chiude la novella. Il colpo di scena è una battuta arguta e spiritosa che risolve la situazione. Il silenzio dell’autore che, come si è detto, non aggiunge mai il suo commento alle parole del personaggio, si giustifica col fatto che 40 queste ultime contengono da sole una morale implicita perfettamente comprensibile. Insomma, quando si raccontano delle storie non bisogna farla troppo lunga; ecco come questo precetto ‘morale’ - che possiamo prendere a simbolo della meditata stringatezza del Novellino - è reso narrativamente nella nov. 89: Brigata di cavalieri cenavano una sera in una gran casa fiorentina, e avevavi uno uomo di corte, il quale era grandissimo favellatore. Quando ebbero cenato, cominciò una novella che non venìa meno. Uno donzello della casa che servia [...] lo chiamò per nome, e disse: «Quelli che t’insegnò cotesta novella, non la t’insegnò tutta». Ed elli rispuose: «Perché no?». Ed elli rispuose: «Perché non t’insegnò la restata [cioè ‘non ti insegnò a fermarti quando è l’ora’]». Onde quelli si vergognò, e ristette. [L’arma della parola] Centrale, nel Novellino, è dunque la dimensione della parola, non come sarà nel Decameron - quella dell’evento. Negli anni in cui volgarizzatori come Guidotto da Bologna o Bono Giamboni o Brunetto Latini traducono ad uso degli studenti e dei giuristi la Rhetorica ad Herennium e il De inventione, il Novellino offre ad un pubblico di laici e di borghesi di media cultura un modello più abbordabile e più avvincente di retorica ‘civile’: un prontuario di belle risposte trovate da ingegni brillanti, spesso subalterni dal punto di vista del rango sociale rispetto ai loro interlocutori nella fictio (nella nov. 89 appena citata chi viene sbeffeggiato è l’«uomo di corte», chi sbeffeggia un semplice «donzello», un cameriere). Nella formazione degli intellettuali duecenteschi, le arti verbali della retorica e della dialettica occupano una posizione di assoluto rilievo; in un àmbito profondamente diverso - quello della novellistica ‘popolare’ - il Novellino risente di questa congiuntura culturale. In esso, le ‘situazioni’ non interessano se non nella misura in cui possono essere risolte - e di fatto vengono risolte - con le armi della parola. [Verso il romanzo: la materia troiana, romana, bretone; l’oriente] Accanto a quest’ampia produzione novellistica, importante perché segna la strada che porterà nel giro di mezzo secolo al Decameron, fanno la loro comparsa sullo scorcio del Duecento altre forme narrative che per estensione e per struttura possiamo accostare al genere moderno del romanzo. Attraverso la letteratura francese, filtrano in Italia tre temi mitico-storici che rappresenteranno per tutto il Medioevo altrettante fonti del romanzesco. Alla materia troiana, compendiata da Benoît de SainteMore nel Roman de Troie, fanno capo la già citata Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne e l’Istorietta troiana, in volgare toscano, oltre a Brunetto Latini, nel Tresor, e ad alcuni racconti del Novellino. Un centone francese di primo Duecento, Li fait des Romains, che mette insieme informazioni desunte dagli storiografi e dai poeti latini (Sallustio, Svetonio, Lucano, ecc.), è invece alla base dei Fatti di Cesare e di altri numerosi volgarizzamenti che attestano l’ampia diffusione della materia romana in Italia. Infine si moltiplicano, tra la fine del Due e l’inizio del Trecento, le versioni del Roman de Tristan francese, la celebre storia delle imprese di Tristano, esule dalla corte di re Marco, e del suo amore per Isotta. Il Tristano riccardiano, di area toscana, è la più antica e la più ampia delle traduzioni che portano la materia bretone nei comuni toscani e nelle corti venete (abbiamo così - i nomi rinviano per convenzione alle biblioteche e alle collezioni nelle quali sono conservati i testi - un Tristano panciatichiano, un Tristano palatino, un Tristano corsiniano, ecc.). [Il Milione] Occupa infine una posizione eccezionale nella prosa delle origini il resoconto dei viaggi del mercante veneziano Marco Polo, il Milione (dal soprannome della famiglia Polo: Emilione), dettato nel 1298 da Marco a Rustichello da Pisa, uomo di lettere e suo compagno nelle carceri di Genova. L’opera, che Rustichello scrisse in francese (il titolo originale fu probabilmente Divisament dou monde), si apre con un prologo che espone l’argomento e i termini generali del suo viaggio in Asia, quindi allinea una lunga serie di paragrafi, ciascuno relativo a una delle molte regioni e città visitate, che culmina nell’incontro col monarca cinese Qubilai (o Kublai) Khan. Alle informazioni sui traffici e sulle vie di comunicazione - che si spiegano con gli scopi della missione di Marco, commerciante di preziosi e tessuti - si affiancano quelle notizie curiose e leggendarie (su uomini con la coda o con testa di cane, su personaggi del mito come il Prete Gianni, ecc.), che 41 fecero l’immensa fortuna del libro dal Medioevo a oggi attraverso traduzioni, riduzioni, rimaneggiamenti. Nato come racconto di viaggio, il Milione finì dunque per dischiudere alla cultura europea, dopo la materia greco-romana e troiana e dopo quella bretone, una terza sorgente di romanzesco, stavolta remota non nel tempo ma nello spazio: l’oriente. [Linee evolutive della prosa nel Trecento. La diffusione del volgare come lingua della prosa: la storiografia] Nel corso del Trecento la pratica della scrittura in volgare interessa un numero sempre crescente di individui, e si diversifica in un’ampia gamma di tipologie. Oltre che nella letteratura d’invenzione (novelle e ‘romanzi’), il volgare viene adoperato nella storiografia, nei libri di famiglia, nella letteratura edificante. Tra gli storiografi in volgare ha un posto di grande rilievo il fiorentino (e, come Dante, guelfo) Dino Compagni, che in una breve Cronica narra gli eventi occorsi nella sua città tra il 1280 e il 1312. L’erede ideale del Compagni è Giovanni Villani, anch’egli fiorentino, che compone una Nuova cronica pubblicata in dieci libri già nei primi anni Trenta e successivamente ampliata dall’autore fino alla sua morte, nella peste del 1348. Ma l’opera trovò nella famiglia stessa di Giovanni dei degni continuatori: la riprese il fratello Matteo, narrando la storia italiana dal 1348 al 1365 e offrendo, tra l’altro, una memorabile descrizione della peste; e vi mise mano infine, per un breve aggiornamento, il nipote Filippo. [La Cronica dell’Anonimo Romano] Se tuttavia la gran parte della prosa – anche storiografica – trecentesca ci giunge dalla Toscana, la regione culturalmente più avanzata, e nella quale il volgare aveva raggiunto un più completo sviluppo, il capolavoro della storiografia del secolo venne scritto in un’area ‘eccentrica’ come il Lazio. Si tratta della Cronica scritta da un Anonimo Romano tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta e relativa alla vicenda del tribuno Cola di Rienzo. La materia romana sollecita, in un autore che pure mostra di conoscere il latino e il volgare toscano, l’impiego del dialetto romanesco, e ciò conferisce alla narrazione una insolita vivacità e forza espressiva. Ma lo speciale realismo dell’opera si spiega anche con la circostanza che l’autore, oltre che storico scrupoloso, è anche spettatore di molti degli eventi che racconta: e per esempio il ritratto di Cola, passato in breve tempo da eroe a dissoluto traditore, è di quelli che solo un testimone oculare sarebbe stato in grado di dare. Di recente, il filologo Giuseppe Billanovich ha proposto di identificare l’Anonimo con Bartolomeo di Iacovo di Valmontone, un nobile laziale che, dopo studi di medicina, intraprese la carriera ecclesiastica: identificazione non certa, ma che darebbe ragione sia della cultura non comune che l’autore mostra di possedere sia delle informazioni di prima mano che egli detiene (Bartolomeo era in effetti, in quegli anni, a Roma). [La novellistica dopo Boccaccio] Nell’ambito della narrativa d’invenzione, ben poche opere e ben pochi autori meritano di essere segnalati prima del capolavoro del secolo, il Decameron (cfr. § 6): un libro che cercherà altrove – nella tradizione classica e mediolatina e nella letteratura francese – i suoi modelli. La produzione novellistica si intensifica, invece, e quasi dilaga, negli anni subito successivi alla pubblicazione del Decameron. Particolare importanza ha, all’interno di questa linea, la figura di Franco Sacchetti (circa 1332-1400). Nato anch’egli, come Boccaccio, in una famiglia di mercanti, ricoprì cariche importanti nelle principali magistrature fiorentine. Scrisse alcune centinaia di testi poetici – quasi tutti raccolti in un manoscritto, copiato di sua mano, oggi alla Biblioteca Laurenziana di Firenze – e, soprattutto, il libro di racconti noto come Trecentonovelle (trecento nel progetto iniziale, ma ce ne restano soltanto 223), composto a partire dal 1385 e ultimato nei primi anni Novanta. Rispetto al più vario repertorio stilistico e tematico del Decameron, Sacchetti compie un’opera di riduzione e semplificazione. Manca, a differenza che nel Decameron, una cornice che permetta all’autore di parlare in prima persona e di coordinare in un unico disegno le diverse novelle; e queste sono generalmente tanto brevi e semplici da meritare piuttosto il nome di aneddoti, o motti, o barzellette. Del realismo boccacciano è accolta insomma solo la componente aneddotica e giocosa, quella che nel Decameron trova posto soprattutto nella sesta giornata. Far ridere, o far sorridere: è questo lo scopo a cui Sacchetti sembra ridurre la pratica del ‘novellare’. E tale è infatti la cifra del libro: una raccolta di episodi divertenti tratti per lo più 42 dalla vita popolare fiorentina. Di fatto, gran parte dei personaggi sacchettiani sono presi direttamente dalla realtà, e citati per nome e cognome, così da dare luogo a una cronaca giocosa e pettegola piuttosto che a una vera e propria opera d’invenzione. Scrive infatti Sacchetti nella premessa al libro: «E perché molti [...] forse diranno, come spesso si dice: “Queste son favole”: a ciò rispondo che ce ne saranno forse alcune, ma nella verità mi sono ingegnato di comporle. Ben potrebbe essere, come spesso incontra [‘càpita’], che una novella sarà intitolata a Giovanni, e uno dirà: “ella intervenne a Piero”; questo sarebbe piccolo errore, ma non sarebbe che la novella non fosse stata». [Gli scrittori religiosi] Infine, una spinta decisiva a favore dell’uso del volgare venne dagli scrittori di religione. Non che il volgare venisse adoperato nella liturgia o nelle discussioni teologiche, dove il latino regnerà ancora incontrastato; ma nella predicazione, nella preghiera, nei trattati spirituali la volontà di farsi comprendere da un pubblico più ampio di quello dei soli ‘letterati’ porta gli autori ad adottare la lingua della comunicazione quotidiana, oppure a volgarizzare scritti religiosi sino ad allora accessibili soltanto in latino: tipico il caso delle leggende legate alla figura di san Francesco. Anche in questo caso è la Toscana il centro del rinnovamento. Qui il domenicano Giordano da Pisa (prima metà del secolo) compone e pronuncia più di settecento prediche in volgare, rivolte non ai confratelli ma alla borghesia mercantile delle città, e perciò scritte nella sua lingua e su temi che più da vicino la riguardano: il lusso, i costumi delle donne, l’usura, la corruzione. E qui Domenico Cavalca, anch’egli pisano (1270-1342), svolge un’importante opera di volgarizzamento di trattati latini relativi alla disciplina del buon cristiano e ai sacramenti: lo Specchio dei peccati, lo Specchio di croce, il Pungilingua. Qui, infine, il domenicano fiorentino Iacopo Passavanti (morto nel 1357) compone, oltre a vari sermoni latini, il trattato Specchio di vera penitenza, una (incompiuta) rassegna dei vizi e delle virtù scritta sul modello dei manuali de poenitentia ma, a differenza di questi ultimi, a beneficio del pubblico ignaro di latino: il quale pubblico – ed è questo il fatto cruciale, destinato a sviluppi d’incalcolabile importanza nell’età della Riforma e dopo – entra così in contatto direttamente, senza la mediazione dei sacerdoti, con testi di carattere religioso. 4. Dante Alighieri 4.1 La vita [La giovinezza] Dante nasce nel 1265 a Firenze. All'epoca, la città è il principale centro economico e finanziario della Toscana, ma è anche segnata dalle discordie e dalle lotte tra le fazioni: così come altrove nel centro-nord della penisola italiana, i partigiani dell'Impero (ghibellini) e i partigiani del Papato (guelfi) si contendevano la supremazia, il che significava, di volta in volta, la strage e l'esilio della parte avversa. Dante appartiene a una famiglia della piccola nobiltà. Studia certamente a Firenze, nelle «scuole de li religiosi» (Convivio, II xii 7): ossia in quegli Studia ecclesiastici cui, a quel tempo, potevano accedere anche i laici. Integra questa istruzione ‘regolare’ con la lettura dei filosofi antichi e col dialogo con gli intellettuali della sua generazione (come i poeti Cavalcanti e Cino da Pistoia) e di quella precedente: su tutti riconoscerà come maestro il poeta e retore Brunetto Latini. [Gli anni della maturità a Firenze] La superiore cultura e l'appartenenza a una famiglia non registrata tra quelle magnatizie (famiglie, queste ultime, cui per volontà del popolo minuto erano state precluse le cariche pubbliche) fanno sì che, a metà degli anni Novanta, Dante possa partecipare in prima persona al governo del Comune. Per Firenze, questo è un periodo particolarmente burrascoso a causa delle lotte tra le fazioni dei guelfi Bianchi - riuniti attorno alla famiglia dei Cerchi - e dei guelfi Neri, che fanno capo alla famiglia Donati. Coi primi, difensori del popolo minuto e delle magistrature cittadine, si schiera Dante. All’inizio è uno fra i tanti, nelle assemblee che affiancano il Capitano del Popolo e i Priori; poi, crescendo il suo prestigio, riceve incarichi più importanti. Nel 1300 è eletto priore. Nel 1301 ha un compito molto delicato. Papa 43 Bonifacio VIII conta di ridurre Firenze sotto il proprio potere grazie all’appoggio interno dei guelfi Neri, e Dante è inviato presso Bonifacio per trovare un compromesso. Ma durante la sua assenza i Neri si impadroniscono della città e bandiscono i Bianchi. Dante è condannato a morte in contumacia. Non tornerà più a Firenze. [L’esilio] L'esilio, durato vent'anni, portò Dante in molte città e corti dell'Italia centrosettentrionale. Fu dapprima in Lunigiana, poi nel Casentino, poi più lungamente a Verona presso Bartolomeo della Scala (e degli Scaligeri farà un commosso elogio nella Commedia). Dante non rivide Firenze, ma continuò, almeno per i primi anni, a tentare di rientrare in patria. Si associò, per un breve periodo, ai Bianchi fuoriusciti che tentavano di riprendere Firenze con le armi e con l'ausilio di nuovi improvvisati alleati. Ma ogni tentativo, per la mancanza di una guida e di un disegno comune, fallì. L’ultimo rifugio del poeta fu la Ravenna di Guido Novello da Polenta, dove morì nel 1321. [La vita privata] Al di là degli impegni pubblici e dei rapporti con i protagonisti della vita politica e culturale del tempo, pochissimo sappiamo della vita privata di Dante. Sposa Gemma, della famiglia dei Donati, e ha da lei almeno tre figli: Antonia, Jacopo e Pietro. Tutti condivideranno la sua condanna e il suo destino di esule. Se poco si può ricavare dai documenti (scarsi) e dalle biografie antiche (ripetitive, e spesso fantasiose), l'opera poetica stessa di Dante è una preziosa fonte di informazioni sul suo autore. Mentre è ben difficile trovare, nella poesia del Medioevo, elementi che permettano di risalire dal testo alla concreta esperienza dell'autore (nomi delle donne amate, dati, circostanze storiche), la lirica di Dante appare, per così dire, carica di realtà e perciò vicina all'esperienza e al gusto dei lettori moderni. Dal libro intitolato Vita nova apprendiamo così i dettagli sull'evento cruciale della prima parte della vita di Dante, evento che fino a prova contraria non va ritenuto immaginario o simbolico ma reale: l'incontro con Beatrice, identificabile forse con Bice, figlia del ricco mercante fiorentino Folco Portinari. L'incontro avviene quando Dante ha nove anni: segue l'innamoramento a diciotto anni e, infine, la morte della donna, in un anno che può essere il 1290. Anche in questo caso, per quanto alcuni particolari della storia possano essere amplificati, o inventati, o vadano essere letti in chiave simbolica, non c’è dubbio che il racconto ha un fondamento nella realtà: la Vita nova è, almeno in parte, un’attendibile autobiografia. [Cronologia delle opere principali] La decisione di raccogliere i testi in onore di Beatrice in un «libello» (cioè in un libro di piccole dimensioni), la Vita nova appunto, è cronologicamente collocabile nei primi anni Novanta del Duecento; al periodo successivo all'esilio appartengono invece le grandi opere teoriche in prosa: il trattato sulla lingua volgare (De vulgari eloquentia, 1304-5, incompiuto) e il progetto filosofico del Convivio (1304-6, incompiuto); qualche anno più tardi, il saggio politico della Monarchia. In margine a queste opere dottrinali, inizia il lavoro alla Commedia, lavoro concluso poco prima della morte (1321). Mentre - come vedremo - si sono conservati numerosi autografi degli altri due massimi autori del Trecento, Petrarca e Boccaccio, non ci è rimasto alcun documento che possa essere attribuito con qualche plausibilità alla mano di Dante: la sua scrittura ci è ignota. 4.2 La «Vita nova» [Contenuto e forma] Con la morte di Beatrice si chiude la prima fase della vita di Dante. La Vita nova è il diario di questa fase: o meglio, della vita interiore di Dante durante questa fase. Ma è un diario che ha speciali caratteristiche tematiche e formali. Per quanto riguarda il tema trattato, a differenza di quanto accade nelle normali autobiografie, l'io è in quest'opera, piuttosto che il protagonista dell'azione, il testimone di eventi memorabili: la vita e la morte di Beatrice. Perciò alcuni studiosi hanno potuto chiamare ‘Leggenda di Santa Beatrice’ questo libro che pure si propone, dal principio alla fine, non come un'allegoria o un mito ma come il resoconto di un'esperienza realmente vissuta. Per quanto riguarda la forma, la Vita nova è un prosimetro, ossia un testo in prosa all'interno del quale sono inserite delle poesie, analogamente a ciò che si verifica 44 in una delle opere capitali per la formazione intellettuale di Dante, e di più larga diffusione nel Medioevo, il De consolatione philosophiae (‘Sulla consolazione della filosofia’) di Severino Boezio. I capitoli in prosa sono stati composti dopo la morte di Beatrice: essi ‘situano nel tempo’, introducono e commentano le poesie che Dante, anni prima, le aveva dedicato. Il piano dell’autobiografia s'intreccia così con quello della carriera artistica: il racconto è anche l'occasione per un bilancio di quanto, in poesia, l'autore aveva saputo fare sino ai suoi trent'anni. [Il titolo e i modelli] La vita nova di cui parla Dante è la vita iniziata dopo il primo incontro con Beatrice, al suo nono anno di età: «In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova» (ovvero: ‘nel libro della mia memoria, poco dopo l’inizio, si legge un titolo che dice: qui comincia una nuova vita’). La critica ha ricordato il versetto dei Salmi in cui l’autore promette un «canticum novum» (‘nuovo canto’): ed è possibile che questo o altri luoghi biblici abbiano ispirato a Dante l’idea del rinnovamento (renovatio, nella letteratura cristiana); al di là delle fonti puntuali, ciò che conta è però l’idea di evento straordinario, miracoloso, che il poeta vuole comunicare: evento che decide della sua vita e della sua arte. Il riferimento, proprio in avvio d’opera, ai testi sacri, chiarisce subito quali siano i modelli letterari che Dante ha soprattutto presenti: il racconto della vita e della morte di Beatrice – racconto fatto da chi fu direttamente testimone di questo ‘miracolo’ – ha chiari punti di contatto con la storia di Gesù narrata dagli evangelisti e con le leggende legate alla vita dei santi (cfr. per esempio la grande raccolta chiamata Leggenda aurea, di Jacopo da Varazze). [Il Dante ‘stilnovista’] Per la gran parte, i componimenti raccolti nella Vita nova sono rappresentativi di quella fase della poesia dantesca che con più ragione si può definire ‘stilnovista’. In essi, infatti, sono ben chiare le analogie con le opere di alcuni autori contemporanei appartenenti al gruppo degli stilnovisti: Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni. In questo quadro, l’originalità delle liriche della Vita nova va cercata soprattutto nei molti nuovi motivi a cui esse si ispirano. [I nuovi motivi della lirica dantesca] La lirica romanza conosceva già l'introspezione, cioè la riflessione sull'amore presente e il ricordo dell'amore vissuto, e conosceva la preghiera alla donna perché si dimostri pietosa nei confronti dell'amante. Entrambi questi motivi sono presenti nella Vita nova. Ma a metà circa del libro noi assistiamo a un importante ‘cambio di materia’. Dal momento che Beatrice gli nega il saluto, Dante decide di rinunciare alla poesia-preghiera e di rifugiarsi in ciò che mai «può venirgli meno»: la lode di Beatrice senza tuttavia attendersi da lei alcuna ricompensa. La lode - a differenza di quanto era accaduto nella tradizione dei trovatori o dei siciliani - è diretta non tanto alla bellezza della donna quanto alle sue virtù morali. Il mito stilnovista della donnaangelo, immensamente lontana dal suo amante, trova in queste rime in lode di Beatrice la sua formulazione più chiara. Virtù, miracolo, gentilezza, intelletto, onestà, fede sono i nuovi termini che servono a esprimere la nuova materia: alcuni di questi termini, non per caso, derivano piuttosto dal linguaggio religioso che dalla tradizione della poesia laica. [Il motivo del lutto] La morte di Beatrice costringe Dante a un radicale cambiamento di materia. La seconda parte della Vita nova è occupata da ‘testi di lutto’. Era questa un'opzione tematica non del tutto sconosciuta ai poeti più antichi, ma nessuno l'aveva sfruttata nel modo in cui lo fa Dante. Egli non si limita al planh (‘compianto’), cioè al lamento e alla commemorazione dell'amata. Poiché, nel momento in cui lavora alla prosa e riordina i testi poetici, egli sa già quale sarà il destino di Beatrice, l'intero libro gravita attorno all'evento della sua morte: e vi sono così, al di qua di essa, testi nei quali la morte è presagita; al di là dell’evento funebre, testi che descrivono il rimpianto e il dolore di chi rimane vivo. Se lo ‘stile della loda’ troverà pochi imitatori, perché il linguaggio della poesia europea sarà piuttosto, di qui in poi, quello dell’analisi psicologica e dell’introspezione, il motivo della ‘morte dell’amata’, e dell’amore che sopravvive, entrerà stabilmente, già prima del Canzoniere di Petrarca, nel repertorio tematico della poesia occidentale. 4.3 Le «Rime» 45 [Una raccolta ‘disorganica’] Le poesie giovanili non accolte nella Vita nova e le poesie della maturità formano il corpus delle Rime. Questo voluminoso ‘resto’ - quasi cento testi se si contano anche i sonetti dei corrispondenti - non forma dunque un canzoniere, cioè un libro compatto che abbia continuità di svolgimento come l'avrà il Canzoniere di Petrarca. [I sonetti di corrispondenza] Buona parte dei sonetti non compresi nella Vita nova sono testi di corrispondenza: distribuiti lungo l'intero arco di vita del poeta. La maggior parte di questi testi però si crede che appartenga al periodo fiorentino precedente all'esilio. In quell'epoca infatti più frequenti erano le occasioni di dialogo e competizione con i colleghi. La quantità non ci deve stupire: la mentalità odierna fatica a comprendere come la poesia potesse, nel Medioevo, assolvere tanto spesso a una funzione pratica. In realtà accadde molto spesso, in epoca medievale, che dilettanti che oggi in nessun modo chiameremmo poeti scrivessero sonetti di corrispondenza contenenti richieste pratiche o informazioni occasionali. [Le canzoni morali] Il metro usato da Dante per affrontare i temi morali è - salvo un caso, il sonetto Due donne in cima de la mente mia - sempre e soltanto la canzone. La ragione di questa scelta è evidente: un discorso complesso come quello morale, che non può esaurirsi in poche battute, ha bisogno della forma metrica più capace, allungabile a piacere, e più libera (non libere sono invece le forme metriche concorrenti: il sonetto e la ballata). Tre di queste canzoni morali sono inserite e commentate nel Convivio. È possibile, anche se non è cosa certa, che lo stesso destino sarebbe toccato anche alle altre tre canzoni che si leggono oggi tra le Rime disperse: Poscia ch’amor del tutto m’ha lasciato, Doglia mi reca ne lo core ardire e Tre donne intorno al cor mi son venute. Certo è che queste e quelle ebbero grande fortuna durante tutto il Medioevo, venendo ripetutamente copiate nei codici e commentate. Al di là della Vita nova e della Commedia, Dante è anche e soprattutto, per i due secoli successivi, il maestro della poesia morale. [Le canzoni ‘petrose’] Non tutti i testi giovanili di argomento amoroso finiscono nella Vita nova. Ne rimangono fuori quelli occasionali, quelli scritti per donne diverse da Beatrice o quelli che male si inserivano nella trama del libro. Si tratta in tutto di una ventina di poesie d’amore: sonetti, canzoni e ballate (genere metrico, quest'ultimo, che Dante e gli stilnovisti e i poeti successivi adoperano quasi esclusivamente per il tema erotico). Né la poesia d'amore cessa del tutto dopo la Vita nova, negli anni della maturità; ma cambiano lo stile, il registro e la dedicataria del canto. Beatrice aveva suggerito atmosfere rarefatte e, come dirà Dante rimpiangendola, «dolci rime d’amore». Al contrario, una donna chiamata col senhal (‘epiteto, soprannome’) di Petra (perché aspra, spietata, crudele) ispira a Dante, poco prima dell'esilio, alcune delle sue più celebri canzoni, definite ‘petrose’. A unificare queste ‘petrose’ sono il motivo-base costituito dalla sofferenza del poeta a causa dell'ostilità della donna amata, e, soprattutto, l'estrema originalità dello stile utilizzato. L'invenzione di Dante consiste infatti nel proiettare il tema sul linguaggio, facendo corrispondere alla durezza del contenuto la durezza dell’espressione. Si osservi, per esempio, il lessico in rima dei primi versi della canzone ‘petrosa’ Così nel mio parlar: «Così nel mio parlar voglio esser aspro / com’è negli atti questa bella petra, / la quale ognora impetra / maggior durezza e più natura cruda, / e veste sua persona d’un diaspro…» (‘Voglio che le mie parole siano aspre così come è aspra questa donna nei suoi atti: lei che è sempre più dura e crudele, e copre il suo corpo con una pietra preziosa...’). Di questo sperimentalismo formale è prova anche la forma metrica di due dei testi che vengono tradizionalmente inseriti nel gruppo delle ‘petrose’: Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra e Amor tu vedi ben che questa donna. Il primo è una sestina, cioè una forma particolare di canzone coniata probabilmente dal trovatore Arnaut Daniel e composta da sei stanze ciascuna composta da sei versi, e con sei sole parole-rima che si ripetono, secondo un ordine ogni volta diverso, in tutte le stanze del testo; il secondo è una ‘sestina doppia’: genere, o meglio monstruum metrico inventato da Dante in cui si ripete lo stesso artificio, ma su una superficie doppia: le stanze hanno infatti non sei ma dodici versi. 4.4 Il «De vulgari eloquentia» 46 [Latino e volgare nell’età di Dante] Come si è già detto, nell'età di Dante, tra XIII e XIV secolo, la gran parte dei testi veniva scritta in latino. La poesia in volgare era, si può dire, appena nata, e ancor meno diffuso era l'impiego del volgare in prosa. Nelle università, nei pubblici uffici, nelle chiese, il latino era, e sarebbe stato ancora a lungo, la lingua di gran lunga più usata. Meditare su questa situazione è necessario per comprendere l'originalità e il coraggio di Dante che scrive, agli albori del Trecento, il De vulgari eloquentia, un saggio sull'eloquenza (cioè sulla lingua e sullo stile) volgare. [L’originalità del progetto dantesco] Erano stati scritti molti trattati che insegnavano le regole della grammatica e della composizione latina, ma - come osserva Dante all'inizio del De vulgari eloquentia - occuparsi scientificamente del volgare è un'impresa del tutto nuova: «non ci risulta che nessuno prima di noi abbia svolto una qualche trattazione sulla teoria dell’eloquenza volgare» (I.1). È una contraddizione soltanto apparente che, a questo scopo, Dante stesso si serva del latino. Il fatto è che, pur volendo parlare della lingua che è comune a tutti, Dante non si rivolge al popolo bensì ai dotti, cioè a quanti con il loro esempio e con i loro scritti potevano, se persuasi dalle argomentazioni svolte nell'opera, dare man forte al suo progetto. [Struttura e temi] L'opera è incompiuta. È probabile che il parallelo impegno costituito dalla stesura del Convivio, se non già della Commedia, abbia costretto Dante a interrompere la trattazione del De vulgari a metà del secondo libro. L'autore aveva in programma almeno altri due libri. Uno, probabilmente, relativo alla prosa, l'altro certamente dedicato al «volgare mediocre», cioè alla lingua e allo stile adatti al registro comico. Se l'incompletezza del trattato ci priva del punto di vista di Dante su questi aspetti, non va dimenticato che la sostanza del suo pensiero linguistico è contenuta nei due capitoli scritti. Quello che Dante cerca di definire è anzitutto un volgare «illustre», raffinato nella forma e nel lessico, che sia in grado di competere con il latino come lingua della comunicazione colta (il registro umile, per i temi meno elevati, costituirebbe quindi un aspetto secondario, dal momento che non qui potrebbe essere provata la superiore dignità del volgare) e perché le leggi della poesia, approfondite nel secondo libro, valgono anche per la prosa. Nell'estetica medievale, infatti, la distanza tra prosa e poesia è meno grande di quanto non sia oggi: entrambe obbediscono alle stesse norme retoriche e stilistiche e possono avere la stessa funzione (è per questa ragione, tra l'altro, che i medievali potevano mettere in versi temi che noi oggi consideriamo esclusivi della prosa: la morale, la scienza, la religione). [Il giudizio sulla letteratura del passato] Esauritasi, o risolta, la «questione della lingua», l'interesse del De vulgari è legato oggi soprattutto ai giudizi espressi da Dante sulla letteratura: gli esempi di cui si serve per esporre la sua teoria linguistica ci aiutano infatti a capire che cosa egli pensasse dei poeti del suo tempo e dei suoi predecessori. Quando spiega come dev'essere fatto un verso, o quali sono le parole da usare, Dante cita infatti spesso dei brani di poesie che debbono servire da modello. La cosa è importante in sé, perché sono molto rari, nel Medioevo, gli scritti in cui venga almeno abbozzata una storia della letteratura, tantomeno in volgare, o in cui si confronti criticamente l'opera di autori diversi. Ma è importante soprattutto se guardiamo alla natura degli esempi e al modo in cui essi vengono presentati e discussi. In primo luogo, Dante appare molto ben informato non solo sulla poesia delle varie regioni italiane ma anche su quella francese e provenzale: egli sente trovatori e trovieri (cfr. § 2) come parte della sua stessa tradizione. In secondo luogo, Dante non cita soltanto per elogiare - indicando l'autore citato come modello da seguire - ma anche per criticare. Tra i poeti della corte di Federico II, vissuti nel Mezzogiorno d'Italia nella prima metà del Duecento, cita e apprezza Guido delle Colonne, Giacomo da Lentini, Rinaldo d'Aquino, e li loda in quanto seppero allontanarsi dal rozzo dialetto d'origine (il siciliano così come si legge, per esempio, nel Contrasto di Cielo d'Alcamo). Quanto ai trovatori, in coincidenza con la tripartizione tematica tra salus, venus e virtus (De vulgari eloquentia, II.2), nomina Bertran de Born, come cantore delle armi (salus, nel senso di ‘salvezza’), Giraut de Bornelh come poeta per eccellenza della rettitudine (virtus) e Arnaut Daniel come poeta dell'amore (venus). Vari elementi fanno ritenere che proprio quest'ultimo fosse il trovatore più apprezzato da Dante. Arnaut infatti non solo viene citato altre volte nel trattato, ma l'omaggio che qui Dante gli rende 47 verrà ripetuto in maniera più solenne nel canto XXV del Purgatorio, quando Arnaut verrà chiamato «miglior fabbro del parlar materno», cioè massimo artefice del volgare. Inoltre, alcune rime di Dante - soprattutto le canzoni petrose e la sestina Al poco giorno - imitano in maniera evidente altrettanti testi di Arnaut. 4.5 Il «Convivio» [I temi] Il De vulgari eloquentia proclama la nobiltà del volgare e ne illustra le regole. Il Convivio (cioè il ‘banchetto’ di scienza offerto a chi, per varie ragioni, non ha potuto avvicinarsi al sapere), scritto quasi negli stessi anni (1304-1307 circa), è in certo senso la realizzazione pratica di questo programma. Dante dimostra infatti qui come il volgare possa essere impiegato non solo per la poesia d'amore (come si diceva nella Vita nova) ma anche per affrontare temi e problemi di maggiore difficoltà e impegno: temi e problemi che, sino ad allora, gli intellettuali del Medioevo avevano affrontato servendosi sempre e solo del latino, come la filosofia, la teologia, l’etica, la fisica, l’astronomia. [Struttura] Il Convivio ha la struttura di un commento. Nella Vita nova Dante aveva ripreso alcune sue poesie giovanili e le aveva inserite in una sorta di romanzo autobiografico, commentandole e situandole nelle loro particolari circostanze storiche. Nel Convivio Dante riprende alcune sue canzoni e dedica a ciascuna di esse un «trattato» che le spiega, parola per parola, e ne rivela il significato allegorico nascosto al di sotto della lettera. Il progetto iniziale era di scrivere 14 trattati, quindi di analizzare 14 canzoni «sì d’amor come di vertù materiate» (‘di argomento morale o amoroso’, Convivio, I.i.14), ma, così come il De vulgari eloquentia, l'opera rimase incompiuta. [La scelta del volgare] Dante scrisse soltanto quattro trattati: un primo che fa da proemio e illustra i princìpi generali dell'opera, e altri tre in cui vengono commentate, nell'ordine, le canzoni Voi che ’ntendendo, Amor che ne la mente e Le dolci rime. Ora, proprio la struttura dell'opera ha influenzato la scelta della lingua: poiché la prosa dei trattati è al servizio delle poesie con cui ciascuno di essi si apre, e poiché queste poesie sono scritte in volgare, ecco che anche per il commento è stato necessario servirsi dell'idioma materno e non del latino. Nel Convivio la scelta della lingua (il volgare, non il latino), imposta per così dire dalla materia ha però dietro di sé motivazioni profonde. «Ancora pronta liberalitate [‘liberalità, generosità, sollecitudine’] Convivio mi fece questo eleggere e l’altro lasciare». Il latino, osserva Dante, sarebbe stato compreso da pochi perché pochi sanno leggerlo: nel momento in cui si spiegano testi poetici ardui da decifrare, la lingua stessa del commento avrebbe rappresentato, per il lettore, una nuova difficoltà. C’è dunque, in Dante, l'intenzione democratica di ampliare il raggio d'azione della comunicazione letteraria, di guadagnare alla cultura anche coloro che non hanno potuto studiare il latino: un'iniziativa rivoluzionaria, polemica nei confronti di quanti, per vanità e superbia, continuavano a disprezzare la propria lingua materna. Ma c’è anche l'affermazione di un presupposto teorico oggettivo: per quanto giovane, per quanto sprovvisto della tradizione culturale millenaria del latino, il volgare è giunto già a un grado di elaborazione tale da poter essere impiegato anche per i concetti più difficili: «Ché per questo comento la gran bontade del volgare di sì [‘il volgare italiano’] si vedrà, però che si vedrà la sua vertù», e la sua capacità di esprimere «altissimi e novissimi concetti» (Convivio, I.x.12). 4.6 La «Monarchia» [Il contesto storico] I tre libri del trattato latino intitolato De Monarchia sono stati composti dopo il Convivio, e precedono, o accompagnano almeno per un tratto, la stesura della Commedia: sono dunque cronologicamente collocabili nel secondo decennio del Trecento. La Monarchia è un trattato di teoria politica il cui intento principale consiste nel difendere l'autorità dell’Impero contro le pretese temporalistiche (cioè di governo e controllo delle cose temporali e terrene, non solo di quelle spirituali) della Chiesa. Questa presa di posizione da parte di Dante, in un momento storico 48 particolarmente delicato, mira anche a intervenire sull'attualità. Negli anni dell'esilio di Dante, infatti, il conflitto tra Chiesa e Impero era andato aggravandosi. L'alleanza fra il Papato e Roberto d'Angiò, che regnava sull'Italia meridionale, aveva costretto sulla difensiva prima l'imperatore Arrigo VII - che era disceso in Italia nel 1312 nel tentativo, fallito, di riaffermare il suo potere sui comuni centro-settentrionali - poi i suoi successori, che il papa non aveva riconosciuto come eredi legittimi dell'Impero. Schierarsi con l'imperatore significò dunque per Dante non solo affermare un principio di dottrina politica ma esprimere un chiaro giudizio sulla realtà contemporanea. [Fortuna dell’opera] Ciò spiega la fortuna di cui l'opera godette negli anni subito successivi alla morte di Dante presso i seguaci dell'imperatore, e in generale presso i laici che si battevano per una netta distinzione tra potere spirituale (da affidare al Papato) e potere temporale (da affidare all’Impero). E ciò spiega anche, d'altra parte, l'opposta reazione da parte ecclesiastica: la Monarchia fu aspramente confutata (tra gli altri dal domenicano Guido Vernani), condannata al rogo come opera eretica dal cardinal Bertrando del Poggetto e - sino alle soglie del Novecento - iscritta nell'Indice dei libri proibiti. [Contenuto e struttura] La monarchia di cui parla Dante non è il regime monarchico nel suo significato generico e astratto bensì l'Impero. Il primo libro del De Monarchia risponde alla domanda: è necessario l'Impero per il «buon ordinamento del mondo» (I.iv.2), cioè per quella pace universale che Dante afferma essere il sommo bene per l'umanità? La risposta è affermativa: ma per argomentarla Dante deve procedere a una lunga serie di deduzioni logiche rafforzate dalle citazioni dei filosofi: Aristotele sopra tutti. Ma, prosegue Dante nel secondo libro, è giusto attribuire il potere imperiale al popolo romano, oppure hanno ragione coloro che glielo negano? La risposta è che l'Impero romano prevalse non grazie alla forza bensì grazie a un disegno provvidenziale. La ragione e la fede concordano dunque nell'assegnare a Roma il pieno diritto sulle cose terrene. Il terzo quesito, nel terzo libro, è il più delicato perché riguarda direttamente i rapporti tra il papa e l'imperatore. Dante si chiede se l'autorità del Monarca romano (ossia dell'imperatore) dipenda immediatamente da Dio oppure derivi dal vicario di Dio, il papa (III.i.5). Vale a dire: l'imperatore è sottomesso al papa, e gli deve quindi obbedienza, oppure le due autorità stanno sullo stesso piano? [Il rapporto tra l’Impero e la Chiesa] Trattandosi di una materia tanto spinosa e attuale, si comprende perché Dante cambi, rispetto ai libri precedenti, il modo della sua argomentazione. Egli deve far fronte a tutte le false ragioni elencate da coloro che vogliono sottomettere l'Impero alla Chiesa. Dante, in primo luogo, osserva come le tesi dei curialisti (i difensori, cioè della Curia romana) non trovino alcuna conferma nei testi sacri, né nell'Antico né nel Nuovo Testamento. In secondo luogo Dante affronta il problema della donazione di Costantino. Questi, sostenevano i curialisti, aveva lasciato Roma e l'Occidente nelle mani di papa Silvestro: al papa, dunque, sovrano di Roma, spettava il compito di conferire o di togliere l'autorità imperiale. Ma, obietta Dante, tale donazione va considerata nulla dal punto di vista giuridico: perché Costantino, come primo servitore dell'Impero, non aveva il potere di disporne a suo piacimento, come cosa sua; e perché il papa non aveva il potere di accettare beni terreni, per una precisa proibizione evangelica. Alla confutazione delle ragioni degli avversari segue l'esposizione delle proprie posizioni. Dante sostiene che: (1) L'Impero non può essere considerato soggetto alla Chiesa perché esso è nato prima della Chiesa stessa: dunque quest'ultima non ne è stata la causa. (2) Nulla e nessuno mai hanno dato alla Chiesa la «virtù di dare autorità al Principe romano»: né le leggi di natura né Dio tramite la Bibbia, né alcun imperatore, né il consenso delle genti. (3) Gesù ha affermato che il suo regno non è di questo mondo, intendendo dire che «egli, in quanto esempio alla Chiesa, non aveva cura del regno di quaggiù». Per queste ragioni, conclude Dante, il potere dell'imperatore discende direttamente da Dio e la sua sfera d'azione è autonoma rispetto a quella del papa: mentre a quest'ultimo spetta di guidare gli uomini verso la salvezza eterna, all'imperatore spetta di favorirli e guidarli nella conquista della felicità terrena. 49 4.7 Le lettere La lettera è, nel Medioevo, un genere letterario definito da regole e usi particolari, illustrati in appositi «manuali» (le artes dictandi, cfr. § 3.3). Dei maggiori intellettuali dell'epoca ci restano lettere scritte a uso privato (si pensi a Guittone d'Arezzo o a Petrarca) o a uso pubblico, per esempio su incarico di un comune o di un principe (si pensi a Pier delle Vigne, che era al servizio di Federico II). Dante non fa eccezione: di lui ci resta circa una dozzina di lettere, tutte scritte in latino (raramente il volgare veniva usato nell'epistolografia, e mai nelle lettere ufficiali) e tutte databili agli anni dell'esilio (dopo il 1300, quindi). La maggior parte di queste lettere si riferisce all'attualità politica e in particolare alla situazione fiorentina. In un'occasione Dante difende davanti al cardinale Niccolò da Prato, paciere inviato dal papa, la causa dei guelfi Bianchi, che erano stati banditi da Firenze. In un'altra parla a tutti i principi e ai popoli d'Italia invocando la pace; in un'altra ancora si rivolge all'imperatore Arrigo VII in occasione della sua fallimentare discesa in Italia. [La lettera a Cangrande] La lettera più importante e più controversa, perché alcuni negano che sia opera di Dante, è senz'altro la lettera a Cangrande della Scala, alla cui corte Dante soggiornò nella seconda metà degli anni Dieci. La lunga lettera accompagna un dono, il Paradiso, che Dante dedica al suo benefattore. Ben più di un «epigramma di dedica», come la definisce il suo autore, la lettera fornisce un'interpretazione generale sia del Paradiso sia dell'intera Commedia. Si comprende dunque l'importanza di questo documento: una lettura ‘d’autore’ della propria opera, se la lettera è di Dante; un saggio sulla Commedia scritto da un sottilissimo critico del suo tempo, se la lettera non è dantesca. Quale che sia la soluzione di questo dilemma, si tratta di una lettera in trentatré capitoli che presenta se stessa come accessus (‘introduzione’) alla Commedia, e che distingue nel poema – così come si faceva tradizionalmente per le Sacre Scritture – due livelli di significato: un primo significato letterale, stando al quale l’opera parla dello «stato delle anime dopo la morte»; e un secondo significato allegorico, alla luce del quale il poema parla dell’uomo, che «per i meriti e i demeriti acquisiti col libero arbitrio ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina». Restano fuori da una definizione così angusta molti degli aspetti più caratteristici e innovativi della Commedia: e ciò è un serio argomento contro la paternità dantesca della lettera. 4.8 Le egloghe [Occasione e contenuti delle due egloghe in latino] La poesia di Dante è tutta in volgare, con una piccola eccezione: due egloghe - due componimenti, cioè, di ambientazione pastorale, in esametri - che Dante invia al bolognese Giovanni del Virgilio come risposte ad altrettanti carmi latini. In questi anni (1319-21), gli ultimi della sua vita, Dante si trova a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta. Giovanni, poeta e commentatore dei classici latini all'università di Bologna, invia a Dante una lettera in esametri in cui lo invita ad abbandonare il volgare e a scrivere finalmente nella lingua dei dotti, il latino, su temi ispirati alla cronaca contemporanea: meriterebbe così gli elogi dei letterati più colti e non solo del popolo. Dante replica non con una lettera in versi ma con un'egloga in cui dialogano due pastori: Mopso (che rappresenta Giovanni del Virgilio) e Titiro (ossia Dante stesso). Titiro, ricevuta la lettera di Mopso, ne riassume il contenuto a un compagno, Melibeo (Dino Perini, amico fiorentino di Dante, come lui esule); poi ribadisce la propria fedeltà alla poesia volgare. In un'egloga responsiva, Giovanni del Virgilio ripete il proprio invito alla poesia latina, e prega Titiro-Dante di raggiungerlo a Bologna. Dal canto suo, nel quarto e ultimo testo, Dante ripete di preferire i pascoli noti (Ravenna, la poesia volgare) e di non volerli lasciare per una nuova città (Bologna, identificabile forse con la poesia latina). L'importanza dei quattro testi è legata - oltre che alle informazioni che essi ci danno circa l'accoglienza che la poesia di Dante aveva ricevuto negli ambienti umanistici bolognesi - alla storia dei generi poetici: con queste egloghe, ispirate chiaramente alle Bucoliche di Virgilio (a cominciare dai nomi dei protagonisti della prima: Titiro e Melibeo sono anche i nomi dei due pastori messi in scena nella 50 prima egloga virgiliana), rinasce in Italia il genere bucolico, che avrà grande fortuna nei due secoli successivi. 4.9 La «Commedia» [Il titolo] Può meravigliare il fatto che un'opera in cui si parla di un viaggio nell'oltretomba si intitoli Commedia. Così la chiamano non solo i primi commentatori trecenteschi, ma anche lo stesso Dante nel corso del poema e nell'epistola a Cangrande della Scala (ammesso che sia sua). Sulle ragioni di questo titolo si è molto discusso: le due spiegazioni più accreditate valorizzano l'una la forma, l'altra il contenuto dell'opera. La Commedia, secondo alcuni, si chiamerebbe così perché scritta in uno stile ‘medio’, non sostenuto ed elegante come quello usato nel registro tragico (per esempio nell'Eneide di Virgilio). Secondo altri, la scelta del titolo è legata alla trama: nella tragedia le cose vanno bene all'inizio ma si complicano a mano a mano che l'azione procede, e finiscono male; al contrario, nel genere ‘commedia’ (così come nella Commedia dantesca), la situazione iniziale è di solito svantaggiosa per i personaggi ma migliora nel corso dell'opera, sino a sfociare in un finale in cui tutti i problemi vengono risolti. L'una spiegazione non esclude l'altra, ovvero: il nome commedia è calzante sia che si guardi al ‘lieto fine’ sia che si guardi allo stile, o meglio alla varietà degli stili impiegati. [Il tema e la struttura del poema] L'inizio ‘tragico’ dell'opera coincide con lo smarrimento di Dante in una selva oscura, nell'anno giubilare 1300, quando il poeta ha 35 anni ed è giunto «nel mezzo del cammin di nostra vita» (Inf. I.1). La Commedia è il racconto del cammino che, a partire da questa selva, Dante percorre nei tre regni ultraterreni: l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. A queste regioni dell’aldilà sono dedicate tre cantiche, ognuna formata da 33 canti (la prima di 34, perché il primo canto fa da prologo all'opera intera); ciascun canto, a sua volta, è costituito da un numero variabile di versi (la gran parte tra i 130 e i 150). [Il viaggio e le guide] La durata del viaggio di Dante è di sette giorni, ed egli non è solo: nell'Inferno e nel Purgatorio, fino alle porte del Paradiso terrestre, lo guida il massimo poeta latino, Virgilio (simbolo della ragione umana): non oltre, perché non oltre può arrivare la ragione non illuminata dalla fede, e Virgilio è sì uno «spirito magno», ma è comunque un pagano. Virgilio consiglia e protegge Dante dai pericoli che questi incontra sul proprio cammino e risponde ai suoi dubbi circa la natura dei luoghi attraversati, il significato e lo scopo delle pene, l'identità dei peccatori incontrati via via. Nel Paradiso, la guida di Dante è la donna amata in gioventù: Beatrice, che già nella Vita nova era stata considerata un'anima eletta, degna di stare, dopo la morte, in «sommo cielo». Coerentemente, Beatrice - emblema della Fede o della Teologia - risolve i dubbi di Dante relativi alla dottrina cristiana. Le due guide hanno dunque diversa funzione e autorità: è Beatrice che si è mossa dal Paradiso e ha pregato Virgilio di aiutare Dante a uscire dalla selva in cui si era perduto; è lei che ha voluto riscattarlo dalla condizione di peccato in cui viveva. Quando Dante e Beatrice si incontreranno, sulla vetta del Purgatorio, Beatrice chiarirà che la visione dell'Inferno e del Purgatorio era necessaria per ottenere il pentimento e la salvezza di Dante. [Struttura dei mondi ultraterreni: l’Inferno] L'Inferno è raffigurato da Dante come un gigantesco cono sotterraneo la cui base coincide con la superficie del nostro emisfero boreale (con al centro Gerusalemme) e il cui vertice si trova al centro della Terra. A generare questa voragine fu la caduta dell'angelo che osò ribellarsi a Dio: Lucifero. Tutta l'enorme massa di terra spostata dal suo corpo ha creato, agli antipodi del nostro emisfero, la montagna del Purgatorio. Alla sommità di questa montagna si trova il Paradiso terrestre. Partendo di qui, dopo aver attraversato l'Inferno e il Purgatorio, Dante e Beatrice saliranno in volo attraverso i dieci cieli in cui, secondo i medievali, si suddivide l'universo: un viaggio dalla Terra all'Empireo, cioè al cielo che abbraccia tutti gli altri e in cui risiedono gli angeli, i beati e Dio. [La gerarchia dei peccati] I peccatori dell'Inferno sono distribuiti in gironi, in ciascuno dei quali viene punito un differente peccato. Aristotele, nell'Etica Nicomachea, aveva classificato i vizi e le colpe di cui si può macchiare l'uomo e Dante riprende in maniera fedele questo ordinamento. A 51 mano a mano che si scende verso il centro della Terra, i peccati si fanno più gravi e le pene più crudeli. Nell'Antinferno (una zona dell'oltretomba che precede la valle infernale) si trovano gli «ignavi», cioè coloro che, incapaci durante la loro vita di scegliere il bene o il male, sono «a Dio spiacenti e a’ nemici sui» (Inf. III 65), cioè respinti tanto da Dio quanto da Satana; per questo formano un gruppo a parte, ai confini dei regni ultraterreni. Il Limbo, poi, ospita i morti non battezzati e, tra loro, gli spiriti pagani che, pur avendo vissuto virtuosamente, non hanno avuto modo di conoscere Dio. Questo luogo è anche la sede abituale di Virgilio che da lì si è mosso per andare in aiuto di Dante smarrito nella selva del peccato. Seguono gli incontinenti, distribuiti in quattro cerchi: lussuriosi, golosi, avari e prodighi (il peccato di incontinenza può infatti dare origine a troppo o troppo poco amore per il denaro), iracondi e accidiosi (l'incontinenza consiste nel non aver saputo vivere una vita ispirata alla moderazione). Quindi gli eretici, i violenti, i fraudolenti e i traditori. Si trovano fra i traditori, più in basso di tutti perché più colpevoli di tutti: Lucifero (confitto al centro della terra) che tradì Dio, Giuda che tradì Gesù, Bruto e Cassio che tradirono Cesare. [Il Purgatorio] Nel Purgatorio, i peccatori sono distribuiti secondo lo stesso principio seguito nell'Inferno, ma vi sono due importanti differenze. In primo luogo, mentre l'Inferno (così come il Paradiso) è eterno, il Purgatorio è destinato a svuotarsi: le anime che espiano i peccati sulle varie balze (‘gironi’ o ‘cerchi’) verranno un giorno elette in Paradiso, o perché, in vita, si pentirono in tempo dei loro peccati o perché la loro esistenza - a differenza di quella dei dannati - non fu interamente dominata dal peccato. In secondo luogo, l'ordine è invertito: dalla colpa più grave, che si sconta alla base della montagna, si sale verso quelle meno gravi, fino a raggiungere il Paradiso terrestre. [Il Paradiso] Nel Paradiso, infine, non c’è una vera e propria gerarchia di beatitudini: tutti i beati vivono nell'Empireo e contemplano Dio in un'eterna condizione di felicità. Ma ragioni di simmetria con gli altri due regni e di strategia narrativa suggeriscono comunque a Dante una suddivisione. Egli immagina così che le anime scendano dall'Empireo e gli si facciano incontro, ciascuna nel cielo che ebbe l'influenza maggiore sulla sua vita: gli spiriti amanti scendono a incontrare Dante nel cielo di Venere; i combattenti per la fede nel cielo di Marte, ecc. Ma al di là di questa divisione funzionale alla visione, tutte le anime ricompariranno nella ‘rosa dei beati’ che, nell'Empireo, gode della luce divina. [Il contrappasso] Nell'Inferno e nel Purgatorio le pene vengono inflitte per contrappasso. Vale a dire che il peccatore è punito in modo tale che la sua pena ricordi la colpa commessa in vita o il vizio che ne determinò il destino. Così, nel canto V dell'Inferno, una bufera terribile agita e sconvolge le anime che, in vita, erano state vittime della passione amorosa; così (nel canto X) gli eretici, che non ebbero fede nella resurrezione, sono condannati a essere rinchiusi per l'eternità in un sarcofago. Ancora più trasparente è il caso del poeta provenzale Bertran de Born, che Dante incontra alla fine del canto XXVIII dell'Inferno. Durante la sua vita costui aveva istigato Enrico il Giovane a ribellarsi al padre Enrico II re d'Inghilterra; per questa ragione, per contrappasso, la sua condanna consiste nell’essere anch'egli diviso, e nel reggere sulle braccia la propria stessa testa mozzata (Inf. XXVIII 139-41): «Perch’io parti’ così giunte persone, / partito porto il mio cerebro, lasso!, / dal suo principio ch’è in questo troncone» (‘Dal momento che ho diviso persone così vicine l’una all’altra – un padre e un figlio – ecco che anch’io ora porto la mia testa separata dal resto del mio corpo’). [Le fonti: Virgilio, la Bibbia e le altre ‘visioni’] Benché la si possa definire a buon diritto un'opera ‘realistica’, la Commedia è fatta di letteratura: in essa, cioè, le creazioni dei poeti del passato vengono ampiamente sfruttate come fonti, citate, parafrasate, alluse. Sin dal Trecento uno dei compiti più gravosi per i commentatori è stato quello di dare conto di questa imponente dimensione intertestuale. La forma della visione ha, in primo luogo, numerosi precedenti nella letteratura classica e cristiana. Nel canto VI dell'Eneide, Enea scende nell'oltretomba per incontrare il padre Anchise; nella seconda lettera ai Corinzi, l'apostolo Paolo narra di essere stato «rapito in paradiso» e di aver udito «parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare» (Corinzi, II 52 12.4). Questi due modelli sono citati esplicitamente da Dante nel canto II dell'Inferno, quando chiede a Virgilio perché proprio lui è stato prescelto per il viaggio nell’oltretomba cristiano: «Io non Enëa, io non Paulo sono» (Inf. II 32). Ma sia la visione sia il viaggio attraverso mondi immaginari e soprannaturali sono strutture narrative largamente diffuse sia nell'agiografia (le ‘vite dei santi’: per esempio nel Purgatorio di San Patrizio, o nella Navigazione di San Brendano) sia nei vangeli apocrifi (quei vangeli, cioè, che pur essendo estranei al canone fissato dalla Chiesa cattolica, godevano di larga diffusione anche a livello popolare), sia in testi appartenenti a tradizioni straniere: francesi, spagnoli, arabi (particolarmente importante il Libro della Scala, in cui è rappresentato il viaggio di Maometto nell'oltretomba). [Lingua e stile: il metro] Nella Commedia, Dante adopera una forma metrica di cui non si trovano, prima di lui, altre attestazioni: la terzina (o terza rima) detta ‘incatenata’: una forma aperta, allungabile a piacere, a seconda delle esigenze del discorso. Lo schema delle rime è il seguente: ABA BCB CDC DED EFE, ecc. È possibile che tra le ragioni della scelta di questo metro vi sia un'intenzione simbolica: il ritorno del ‘numero sacro’ 3 (come le persone della Trinità, e come le cantiche della Commedia). Ma la terzina ha soprattutto un'insostituibile funzione narrativa: consente di sviluppare il discorso in maniera ordinata e omogenea ma, insieme, evita la monotonia delle rime baciate (di lunghe serie di rime baciate a due a due si erano serviti spesso i poeti che, prima di Dante, avevano tentato la strada del poemetto in volgare). [Il lessico nell’Inferno] La varietà dei temi e delle figure rappresentate nella Commedia si rispecchia nel linguaggio. Quello della Vita nova e delle Rime poteva limitarsi al riuso di un limitato numero di termini e di espressioni tradizionali: si trattava quasi sempre di testi amorosi che utilizzavano dunque un linguaggio dei sentimenti fortemente codificato. L'oggetto della Commedia è molto più ampio e complesso. La caratteristica saliente del poema è la polarità - che può significare anche compresenza a breve distanza - tra registro basso e registro altro, tra umile e sublime. Da un lato, per la raffigurazione dell'Inferno, Dante si serve di uno stile aspro, violentemente realistico, a volte triviale. Non disdegna perciò termini della lingua popolare (stregghia, scardova, buffa, ecc.); allinea nomi di luogo e di persona foneticamente rari e buffi o spaventosi: per esempio i diavoli si chiamano Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Farfarello, ecc. (Inf. XXI); soprattutto, adopera questi procedimenti stilistici in rima, facendo sì che il suono aspro delle parole si estenda a intere terzine. [Il lessico nel Purgatorio e nel Paradiso] Rispetto alla rappresentazione dell'Inferno quella del Purgatorio e del Paradiso richiede uno stile del tutto diverso. Occorre, qui, dare conto delle gerarchie angeliche, della forma e della funzione dei cieli, e occorre affrontare delicati temi teologici. Inoltre quella che Dante ha davanti agli occhi non è una realtà materiale e carnale, fatta di peccatori e di pene, ma un mondo di puri spiriti che sono o saranno beati. Di qui la scelta di un'espressione più raffinata, lontana dal linguaggio quotidiano. Dante fa larghissimo uso di latinismi (image, viro – ‘uomo’, cive - ‘cittadino’, ecc.) spesso ricavati dal linguaggio scolastico e teologico (querente, quiditate, sillogismo, ecc). Si pensi a un verso come «là ’ve s’appunta ogni ubi e ogne quando» (Par. XXIX 12). Dovendo inoltre dar conto di una realtà estranea a ogni esperienza umana (il Paradiso), Dante inventa, insieme ai dettagli della visione, le parole che servono a esprimerla: di qui i neologismi incielarsi, insusarsi, indovarsi, o versi come «s’io m’intuassi, come tu t’inmii» (Par. IX 81: ‘se io penetrassi nel tuo pensiero come tu nel mio’). [Fortuna critica. Gli scritti in prosa] Ripercorrendo, in sintesi, le tappe principali della fortuna di Dante, conviene innanzitutto distinguere tra il prosatore e il poeta. Il trattato sulla lingua e quello sulla politica ebbero, per ragioni diverse, circolazione limitata. Il De vulgari eloquentia restò incompiuto, e circolò pochissimo (ne restano solo tre manoscritti trecenteschi), tanto che, quando nel Cinquecento, venne ‘ritrovato’ e tradotto dal Trissino molti pensarono ad un falso; la prima edizione a stampa è del 1577. La Monarchia, per il suo risoluto spirito anti-teocratico, non piacque 53 alle gerarchie ecclesiastiche, e fu condannata al rogo come libro eretico dal legato papale Bertrando del Poggetto (resterà nell’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica sino al 1881); l’approvarono invece, trovandovi buoni argomenti a convalida delle proprie tesi, quanti ritenevano che la sfera politica dovesse mantenersi autonoma dalla sfera religiosa: e si spiega così il favore con cui l’opera venne letta da un rivoluzionario come Cola di Rienzo o, nel Cinquecento, dai maggiori esponenti delle chiese riformate. Fortuna più ampia ebbe il trattato filosofico del Convivio: ma rari imitatori, posto che la lingua della filosofia restò ancora per lungo tempo il latino. [La poesia lirica]. Con Petrarca, Dante fu il massimo e più influente poeta lirico del Medioevo. La struttura della Vita nova – una cornice prosastica che mette in sequenza e commenta alcuni testi poetici, facendo di questa successione la trama di un racconto – era, probabilmente, troppo ardua perché potesse trovare subito degli imitatori: e per trovare qualcosa di simile occorrerà aspettare, ormai sullo scorcio del Quattrocento, il Comento di Lorenzo de’ Medici alle proprie liriche. Ma temi, motivi, forme e strutture metriche delle sue poesie vennero largamente imitati nei due secoli successivi: e, soprattutto nella sfera della poesia morale e allegorica (la sfera di una canzone come Tre donne intorno al cor mi son venute), il suo esempio restò vivo e anche nell’età dell petrarchismo. [La Commedia] Quanto alla Commedia, basti fissare qui le coordinate essenziali di una fortuna davvero sterminata, imparagonabile a quella di qualsiasi altra opera letteraria medievale. A pubblicarla, cioè a commissionarne copie e a sovrintendere alla sua prima circolazione, furono probabilmente i figli stessi di Dante, Iacopo e Pietro, poco dopo la morte del poeta. E subito i letterati si cimentarono nel commento, in latino o in volgare, all’opera, inaugurando una tradizione esegetica ancor oggi vitale; si ricordino almeno i commenti di Graziolo de’ Bambaglioli, di Iacopo della Lana (anni Venti del Trecento), di Guido da Pisa, di Andrea Lancia detto l’Ottimo (anni Trenta), di Benvenuto da Imola, a metà secolo, e di Francesco da Buti poco più tardi. Una pietra miliare nella fortuna del poema sono poi le letture pubbliche tenute da Giovanni Boccaccio nel 1373 e nel 1374 a Firenze (Esposizioni): pur rimaste frammentarie, esse consacrarono la Commedia al rango di classico, meritevole di essere non solo letto ma studiato. Di qui in poi, la Commedia sarà sempre, per il pubblico dei lettori, l’opera letteraria più amata e familiare. L’atteggiamento degli intellettuali fu meno univoco. Gli umanisti del Quattrocento rimproverarono Dante per aver usato, in un’opera di soggetto così elevato, il volgare e non il latino. E anche circa l’uso del volgare, il Rinascimento – e in primis il massimo giudice di cose di lingua e letteratura nella prima metà del secolo XVI, Pietro Bembo – preferirà tendenzialmente il raffinatissimo Petrarca al troppo rozzo e diseguale Dante, e il primo, non il secondo, proporrà come modello degno di essere imitato. Questo pregiudizio spiega, in parte, la relativa sfortuna della Commedia nel corso del Seicento (tre sole edizioni a stampa durante tutto il secolo). Toccherà a Giambattista Vico, nella prima metà del Settecento, rifondare la critica dantesca mettendo l’accento su quei caratteri della Commedia che saranno poi particolarmente cari alla critica romantica: il rapporto con il sentimento popolare e con la naura, che apparenta Dante ad Omero; la forza quasi barbarica della rappresentazione, soprattutto nell’Inferno; la capacità di unire in sintesi perfetta fantasia e storia. Nel corso dell’Ottocento, l’amore per la Commedia non farà che aumentare, sia perché ad essa si richiameranno i maggiori poeti del secolo, da Foscolo a Leopardi (si pensi alla canzone giovanile Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze), da Monti a Pascoli, sia perché del poema si approprierà il patriottismo risorgimentale, trasformandolo in una sorta di mito di fondazione della nazione italiana: e a questa lettura ‘politica’ contribuirà anche il massimo critico italiano del secolo Francesco De Sanctis. Nel solco del Vico e della critica romantica (Hegel), lo stesso De Sanctis concentrerà l’attenzione sul problema cruciale del realismo dantesco: problema che ha sollecitato più tardi le ricerche del maggiore dantista del Novecento, Erich Auerbach. Insieme ad Auerbach andranno ricordati almeno altri tre studiosi novecenteschi che, da prospettive diverse, hanno fornito interpretazioni innovative del poema: l’americano Charles Singleton (per i rapporti della Commedia con i testi sacri e la letteratura cristiana) e gli italiani Bruno Nardi (per le conoscenze filosofiche di Dante) e Gianfranco Contini (per la lingua e lo stile). 54 5. Francesco Petrarca 5.1 La vita [La giovinezza e la prima maturità] Dante, Petrarca e Boccaccio sono stati chiamati dalla critica ottocentesca le ‘tre corone fiorentine’, ma nessuno dei tre, di fatto, trascorse per intero la sua vita a Firenze. Francesco Petrarca, si può dire, la conobbe appena, e solo negli anni della maturità. Nato ad Arezzo nel 1304 da un fiorentino, il notaio Petracco di Parenzo, esiliato dalla città natale in seguito alla vittoria dei guelfi neri, Francesco trascorse l’infanzia tra il Valdarno e Pisa. Nel 1312, si stabilisce con la famiglia nella piccola cittadina provenzale di Carpentras, vicino ad Avignone, dove il padre lavora presso la corte papale, lì da poco trasferitasi. Intelletto eccezionalmente precoce, Francesco studia prima grammatica sotto la guida del maestro Convenevole da Prato, poi diritto a Montpellier e, dal 1320 al 1326, a Bologna. Alla morte del padre, spinto soprattutto da ragioni economiche, decide di intraprendere la carriera ecclesiastica, diventando cappellano della potente famiglia romana dei Colonna. Nei primi anni Trenta si divide tra l’Italia e la Provenza (al 6 aprile 1327 rimonterebbe il fatale incontro con Laura nella chiesa di Santa Chiara a Avignone); ma, come pochi altri intellettuali italiani del suo tempo, grazie al servizio presso i Colonna ha anche l’opportunità di conoscere altre regioni d’Europa: i Pirenei, la Francia del nord, la Germania, le Fiandre. È durante uno di questi viaggi, precisamente a Liegi, che Petrarca compie la prima delle sue scoperte erudite: due sconosciute orazioni di Cicerone. [Gli anni della maturità] Per circa un ventennio, dalla fine degli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta vive a Valchiusa, a quindici miglia da Avignone: non lontano dalla corte papale, quindi, ma non così vicino da essere costretto a sopportare le miserie della vita cortigiana, secondo un ideale di otium (‘tempo libero speso nello studio o nella meditazione’, laddove il negotium è il tempo speso, e sovente mal speso, nelle pubbliche occupazioni) che darà materia, più tardi, a uno dei suoi più importanti saggi morali, il De vita solitaria. Tuttavia, in questo periodo è spesso in Italia, ospite di amici e benefattori. Nel 1341, il soggiorno a Napoli e a Roma ha una ragione speciale: restaurando una consuetudine che risaliva all’età classica, ma che era caduta in disuso, Petrarca riceve la laurea poetica – cioè una corona d’alloro, simbolo d’eccellenza nell’arte - in Campidoglio dalle mani di re Roberto d’Angiò. Negli anni 1343-45 sarà ancora a Napoli, poi nelle corti principesche del nord: a Parma, presso Azzo di Correggio; a Verona, presso gli Scaligeri: e al soggiorno veronese risale la seconda grande scoperta filologica di Petrarca, le lettere di Cicerone a Attico. [I rapporti con l’Italia e l’impegno politico] I soggiorni in Italia, frattanto, lo portano a riflettere con amarezza sulle disastrose condizioni politiche in cui versa la penisola. Nel 1336 scrive a papa Benedetto XII esortandolo a riportare la sede pontificia da Avignone a Roma. È questo un cruccio costante per il poeta, tant’è vero che trent’anni dopo rivolgerà la stessa preghiera a Urbano V. Nel 1337 è a Roma per la prima volta, ospite dei Colonna, e davanti alle rovine della città più che mai si convince della necessità di una renovatio (‘rinnovamento, rinascita’) che segni la fine del frazionamento politico della nazione e riporti la città, e l’Italia intera, all’antico lustro. Nei primi anni Quaranta segue con favore l’impresa di Cola di Rienzo, il quale tenta di imporre a Roma un governo popolare che allontani dal potere le grandi famiglie aristocratiche romane: i Crescenzi, gli Orsini, gli stessi Colonna. Petrarca approva il tentativo di Cola: gli scrive, nel 1347, una lettera con la quale lo invita a ristabilire l’antica libertas romana; e intercede personalmente presso il papa perché appoggi a sua volta Cola, difendendolo contro le fazioni nobiliari. Ma Cola fallisce: deve prima lasciare il governo della città, poi, nel 1354, viene ucciso. Cola – dirà più tardi Petrarca – non prevalse perché non seppe agire: cioè non fu abbastanza risoluto nella lotta contro le grandi dinastie romane. Maggiore decisione, e un uso più scaltro della forza, avrebbe dato migliori risultati: Cola «è senza dubbio degno di ogni supplizio – scrive Petrarca – perché quel che volle non lo volle con tutte le sue forze, come avrebbe dovuto e come richiedevano le circostanze» (Familiares, libro XIII 55 vi 11). Sempre più sfiduciato circa la possibilità che l’Italia avesse di trovare da sola un equilibrio politico, confida, come Dante (e come Dante invano), nell’azione dell’imperatore: e nel 1351 scrive a Carlo IV di Boemia invitandolo a scendere, da pacificatore, nella penisola. Già da questi brevi cenni è evidente la reputazione non soltanto artistica ma anche politica di cui Petrarca gode presso i contemporanei: ben pochi saranno, dopo di lui, gli intellettuali che potranno dialogare con papi e imperatori con la certezza di essere ascoltati. [Il conflitto interiore] La modernità di Petrarca sta, tra l’altro, nella sua complessità spirituale, e nella quantità di dubbi, ripensamenti, pentimenti che la sua opera – e i suoi epistolari in particolare – rispecchia. Vi è sempre, in lui, il sentimento di una contraddizione tra il corpo e l’anima, tra il desiderio della gloria terrena e l’ascesi, tra l’intenzione di isolarsi dal mondo e il continuo vagare da una corte all’altra e da una città all’altra. In una delle sue lettere più celebri Petrarca narra l’ascesa al monte Ventoso, vicino a Carpentras, effettuata insieme al fratello Gherardo nell’aprile del 1336. Arrivato in cima al monte, apre a caso le Confessioni di sant’Agostino, e la pagina che gli si offre recita: «E gli uomini vanno ad ammirare le altezze dei monti e l’immensità dell’oceano e il corso delle stelle, e trascurano se stessi». Reale o inventato che sia, l’episodio ha una chiara funzione simbolica: indica al poeta la necessità di una conversione, di un ritiro dal mondo. Questo proposito non farà che rafforzarsi nel corso degli anni, soprattutto dopo che Gherardo sarà diventato monaco certosino (1343): le opere ‘autobiografiche’ della maturità (il Canzoniere compreso) riflettono questa contraddizione e questa aspirazione a una vita autenticamente cristiana. [Gli ultimi anni] Il 1348 è, per l’Europa e per Petrarca, un anno fatale. La peste nera decima la popolazione del continente. Muore Giovanni Colonna e muore, secondo quanto afferma Petrarca, anche Laura. Nel 1350 incontra a Firenze, per la prima volta, Giovanni Boccaccio: ne nasce un’amicizia che durerà fino alla morte del poeta, con il più autorevole Petrarca sempre nel ruolo di guida e maestro, Boccaccio in quello di allievo. Nel 1353 lascia per sempre Valchiusa e si stabilisce in Italia. Le città e le corti del nord Italia si contendono quello che era ormai per consenso comune il maggiore intellettuale europeo. Per alcuni anni è a Milano, segretario e ambasciatore dei Visconti; quindi a Venezia, poi a Padova presso i Carraresi. Vicino a Padova, ad Arquà sui Colli Euganei, trascorre l’ultimo periodo della sua vita: e qui muore nel luglio del 1374. Buona parte della sua ricchissima biblioteca, già promessa alla Repubblica veneziana, passa invece ai Carraresi, poi ai Visconti come preda di guerra, infine a Parigi. E prestissimo inizia, da parte dei suoi discepoli e ammiratori, la copia delle opere latine e volgari, che nei secoli successivi godranno in Europa di una diffusione maggiore rispetto a quella di qualsiasi altro scrittore medievale. 5.2 La personalità e le idee [Il rapporto tra latino e volgare] Benché Petrarca sia noto al pubblico moderno soprattutto per il Canzoniere, occorre sempre ricordare che la grande maggioranza delle sue opere venne scritta in latino, e che a queste – non a quelle volgari – il poeta riteneva di dover affidare la sua fama. Così in sostanza avvenne durante la vita di Petrarca (dato che a guadagnargli la laurea poetica furono soprattutto i primi abbozzi dell’Africa e del De viris illustribus) e per quasi un secolo dopo la sua morte: fu soprattutto il poeta e il trattatista in latino ad essere amato e imitato nei circoli umanistici. Soltanto a partire dalla seconda metà del Quattrocento le liriche volgari presero ad avere quel ruolo di classico che tuttora hanno nella considerazione dei lettori, venendo copiate e imitate da generazioni di poeti europei. [Il culto dell’antichità classica] Il confronto con gli autori latini e greci fu una costante della vita di Petrarca. Della vita, non solo dell’opera. Anche Dante e i suoi contemporanei avevano amato e imitato i classici, ma il caso di Petrarca è diverso. Sin dagli anni della giovinezza, egli cerca e colleziona i manoscritti di Virgilio, Cicerone, Seneca e degli altri grandi poeti e prosatori latini. Li studia, e le tracce di quello studio le possiamo ancora vedere nei codici che gli sono appartenuti: sono le glosse, i brevi commenti che Petrarca depone ai margini del testo. Imita i classici nello stile, 56 restituendogli quella purezza e quella eleganza che – come egli afferma - si era perduta nel ‘barbarico’ latino degli scolastici. Tenta, pur senza grande successo, di imparare il greco per poter leggere Omero nell’originale (e in questo tentativo lo affiancherà Boccaccio). In prima persona, inoltre, scopre opere latine dimenticate nelle biblioteche italiane ed europee, e ne trasmette copia agli amici. E questi amici li ribattezza, nelle lettere, con nomi trovati nella tradizione classica: Angelo Tosetti diventa Lelio, il fiammingo Ludwig van Kempen diventa Socrate. Non stupisce che l’influenza della cultura greco-latina, così forte sulla vita del poeta, si faccia sentire ancora più forte sull’opera: non c’è testo petrarchesco, infatti in prosa o in verso, che non si richiami in maniera più o meno diretta all’esempio degli antichi. [La critica della cultura contemporanea] Il culto dell’antichità greco-latina implica anche un giudizio molto severo nei confronti della cultura del proprio tempo. L’idea di cultura di Petrarca si fonda su due elementi: la lezione umanistica dei classici e la dottrina cristiana così come l’aveva codificata il Padre della Chiesa che rappresenterà sempre per Petrarca un ideale di intellettuale e di uomo: Agostino. L’incontro tra la classicità e il cristianesimo ha luogo, per Petrarca, sul terreno dell’etica: ai suoi occhi, la filosofia tardo-medievale, dominata dalle sottigliezze degli scolastici e dei dialettici, non ha alcun valore. Ciò risulterà evidente in due opuscoli della maturità: le Invective contra medicum (1353), che sono una dichiarazione di superiorità delle cosiddette arti liberali su quelle che sono indirizzate al guadagno, e in particolare un elogio della poesia e della retorica insomma delle ‘discipline umanistiche’ - contro la pseudo-scienza dei medici. E il De ignorantia (1366-67), in cui Petrarca afferma la superiorità della filosofia morale sulle scienze naturali e, di conseguenza, la superiorità dei grandi moralisti classici (Platone, Cicerone) e cristiani rispetto a quella di Aristotele. Petrarca mette così in discussione il primato di quello che durante tutto il Medioevo era stato, ed era ancora, il Filosofo per eccellenza; insieme, attacca gli eredi di Aristotele: quelle scuole di logica e dialettica che ne avevano pervertito il metodo, riducendo la filosofia a semplice gioco intellettuale. 5.3 Le opere [L’Africa] Con l’Africa, iniziata a Valchiusa tra il 1338 e il 1339 e mai portata a termine, Petrarca intende rinnovare la grande tradizione dell’epica latina. Per farlo, sceglie di narrare non di eventi contemporanei bensì di un episodio glorioso della storia romana: la guerra di Scipione contro i cartaginesi, dalla prima spedizione in Africa alla battaglia di Zama al rientro trionfale a Roma. Insieme ai modelli poetici, Virgilio e Lucano, Petrarca ha presente qui soprattutto lo storico Tito Livio, i cui Ab urbe condita libri aveva del resto iniziato a studiare già negli anni Venti: come spesso in Petrarca, l’attività filologica (egli progetta, e in buona misura realizza, una sorta di edizione critica di Livio) prepara, fornendo dati ed idee, la creazione letteraria. L’Africa restò incompiuta e, vivente l’autore, non ne circolarono se non brevi brani; ciò che il pubblico arrivò a conoscere bastò, tuttavia, a garantire a Petrarca una larghissima fama: e la cosa si spiega, perché il tema del riscatto romano, per quanto remoto, poteva ben essere letto come allegoria, ossia come auspicio per l’Italia trecentesca. Così il poeta ne parlerà nella lettera ai posteri (su cui cfr. oltre): «Vagavo tra quei monti [in Provenza], il sesto giorno della settimana santa, quando mi venne il desiderio di scrivere un poema epico su Scipione l’Africano, che mi era stato caro sin dall’infanzia. Ma, per il soggetto trattato, intitolai Africa quest’opera. Fu amata da molti ancor prima di essere conosciuta; ma, iniziatala, con grande impegno, presto la interruppi, distratto da altre occupazioni». [Il De viris illustribus] Il De viris illustribus doveva essere, nel progetto originale databile alla fine degli anni Trenta, una raccolta di biografie dedicate ai grandi personaggi della storia romana, da Romolo a Tito. Come l’Africa, anche quest’opera rimase incompiuta; e, come l’Africa, anche nel De viris a Scipione l’Africano viene concesso uno spazio eccezionalmente ampio: la sua biografia è lunga quasi quanto tutte le altre messe assieme. Le due opere nascono dunque insieme e procedono per un certo tratto in parallelo. Mentre però il tentativo dell’Africa era quello, davvero grandioso, di ridare vita all’epica latina, il De viris ha radici in una tradizione che, da Svetonio in 57 poi, non si era mai veramente interrotta: la descrizione della vita e delle gesta di uomini famosi è un luogo comune della storiografia medievale. La novità di Petrarca consiste soprattutto in tre fatti: un diverso rapporto con le fonti erudite, nel senso che egli non si limita a ripetere quanto vi trova scritto ma fa opera veramente critica di storiografo, confrontandole ed emendandole dagli errori; un atteggiamento ‘laico’ di fronte ai personaggi ritratti, apprezzati e lodati, più che per la loro funzione provvidenziale, per le loro virtù umane (il coraggio, la lealtà, ecc.); una rigida selezione quanto al ‘genere’ dei biografati: «non vi si parla – scriverà Petrarca – di medici né di poeti o filosofi, ma soltanto di coloro che si distinsero per le virtù militari o per il grande amore per la patria»: è quello che oggi chiameremmo il ‘valore civile’ a interessare il biografo, non la virtù in sé. Il De viris venne ripreso da Petrarca all’inizio degli anni Cinquanta e ampliato con l’aggiunta di biografie di personaggi appartenenti alle civiltà extraromane: l’oriente, il mito greco, la Bibbia; ma anche questa seconda redazione dell’opera resterà incompiuta. [I Rerum memorandarum libri] Nel 1343, Petrarca avvia un’altra opera storiografica meno impegnativa del De viris illustribus, i Rerum memorandarum libri. Si tratta di una raccolta di aneddoti - sul modello dei Fatti e detti memorabili dello storico latino Valerio Massimo - che, secondo il progetto iniziale, dovevano servire a illustrare le quattro virtù cardinali: giustizia, prudenza, fortezza e temperanza. La materia degli aneddoti è tratta non solo, come nel De viris, dalla storia romana, ma anche da quella contemporanea: tra i detti e i fatti memorabili registrati ci sono anche quelli, per esempio, di re Roberto d’Angiò, di Matteo Visconti, di Dante. I limiti dell’opera sono chiari. Se il De viris era troppo ambizioso, e perciò venne abbandonato, questo catalogo di Res memorandae è troppo caotico e occasionale per avere un reale interesse storiografico: anch’esso rimase incompiuto e venne pubblicato soltanto dopo la morte del poeta. [La svolta autobiografica degli anni Quaranta: il Secretum] Nel corso degli anni Quaranta, lasciata l’oggettività dell’epica e della storiografia, l’opera di Petrarca si orienta verso un più forte coinvolgimento soggettivo: il poeta riflette e parla di sé, in linea con quel proposito di autoanalisi e di conversione cui si è accennato sopra. Nella prosa latina del Secretum (intitolato in effetti De secreto conflictu curarum mearum ‘Sul segreto conflitto delle mie angustie’), Petrarca si ispira per il contenuto alle Confessioni di sant’Agostino e per la forma ai dialoghi ciceroniani, e mette in scena una conversazione immaginaria tra se stesso e Agostino al cospetto della Verità. Nel primo libro, che funge da introduzione, Agostino esorta Francesco a riflettere sulla morte e a orientare la sua vita al bene: nessuno – sostiene infatti il maestro – può essere infelice contro la propria volontà. Nel secondo libro Agostino passa in rassegna i peccati capitali richiamando l’attenzione di Francesco su quelli che più lo affliggono: e mentre egli può dirsi immune dall’invidia, dalla gola o dall’avarizia, non altrettanto si può dire della lussuria, o di peccati tipici degli intellettuali come l’ambizione e l’accidia. Proprio sulle tentazioni della carne e sulla fama terrena Agostino insiste nel terzo libro: l’amore per Laura, sostiene Agostino, ha allontanato, non avvicinato Francesco a Dio: la devozione per una creatura terrena è d’ostacolo a una condotta autenticamente cristiana. Quanto alla letteratura, è tempo che Francesco abbandoni le opere ‘laiche’ che gli avevano dato la laurea poetica e passi a meditare sui testi sacri e sul destino della sua anima: la morte – e in ciò il Secretum si avvicina a quelle opere della tradizione cristiana dedicate al contemptus mundi (‘Il disprezzo delle cose mondane’) – non è lontana. [Le opere d’ispirazione cristiana] La carriera letteraria di Petrarca segue almeno in parte, di qui in poi, la direzione indicata dal Secretum. Tra il 1347 e il 1348 (ma alcuni studiosi hanno proposto una datazione più alta, al 1342-43) scrive in latino sette Salmi penitenziali: preghiere tramate di citazioni bibliche in cui il poeta confessa il proprio smarrimento, dichiara il proposito di pentirsi e confida nella misericordia divina. Anche i due ‘saggi’ De vita solitaria e De otio religioso, scritti nella seconda metà degli anni Quaranta, recano chiari i segni dell’ispirazione cristiana: l’erudizione classica delle opere del decennio precedente lascia il posto a un interesse introspettivo e parenetico. Il primo trattato (1346, con successivi rimaneggiamenti e dedica nel 1366, a Filippo di Cabassoles) è un elogio della solitudine e dell’otium intellettuale («leggere ciò che hanno scritto gli antichi – questo il progetto petrarchesco – e scrivere ciò che leggeranno i 58 posteri»). Il secondo, scritto dopo una visita al fratello Gherardo monaco a Montreux (e infatti dedicato ai frati Certosini), è un paragone tra la vita serena dei monaci, che hanno rinunciato al mondo, e le pene di chi, come Petrarca, nel mondo è ancora coinvolto. [Il Bucolicum carmen] La presenza del soggetto, l’autobiografismo che si è detto essere presente nel Petrarca saggista degli anni Quaranta lascia tracce cospicue anche nelle egloghe latine del Bucolicum carmen. Si tratta di 12 egloghe scritte tra il 1346 e il 1348 e poi – secondo un costume tipico di Petrarca - a più riprese rimaneggiate. Come già ricordato per Dante (cfr. § 4.8), l’egloga pastorale è un genere di antica tradizione classica in cui viene rappresentata la vita dei campi attraverso il dialogo tra i pastori. Petrarca imita questo modello, ma se ne serve per parlare, sotto un pesante velo allegorico, di temi che lo riguardano personalmente: l’amore per Laura, l’ambizione letteraria, i rapporti con i Colonna; oppure delle vicende politiche contemporanee: la morte di Roberto d’Angiò e la crisi del regno napoletano, le lotte tra le famiglie romane. [Il De remediis] Negli anni Cinquanta, Petrarca vive prevalentemente a Milano, presso i Visconti. Qui conclude, in breve tempo (ma come sempre vi saranno, negli anni successivi, ritocchi e aggiunte), il grande trattato morale De remediis utriusque fortunae (‘Sui rimedi per la buona e la cattiva fortuna’) una sorta di guida alla retta vita in cui si insegna a far fronte alla buona (primo libro) o alla cattiva sorte (secondo libro). La struttura dell’opera è molto semplice, e prossima a quella di molti trattati medievali: la Ragione dialoga nel primo libro con la Gioia e la Speranza (122 dialoghi), nel secondo con il Dolore e il Timore (131 dialoghi), e pacatamente corregge l’eccessiva euforia o l’eccessivo sconforto dei suoi interlocutori, spiegando come affrontare i diversi casi della vita: gli incarichi pubblici, le cure familiari, la guerra, la ricchezza, le calamità naturali, la morte dei propri cari e la propria, ecc. È, s’intende, una Ragione che s’ispira, oltre che alla Bibbia, ai grandi saggi dell’età classica: «La conoscenza dell’antichità viene umanisticamente subordinata al frutto che se ne può trarre nella vita, alle norme che ne derivano per il vivere di ogni giorno» (Branca). Grazie a questa universalità dei temi – il trattato parla in sostanza della vita umana in tutte le sue manifestazioni – e grazie alla semplicità della sua struttura ‘da manuale’, il De remediis godette di un’enorme diffusione durante tutto il Rinascimento. [I Trionfi] A Milano, Petrarca inizia anche a lavorare ad un’opera poetica in volgare che lo terrà impegnato sino alla morte (su quello che nel progetto avrebbe dovuto essere l’ultimo canto Petrarca torna anche durante il 1374) e che tuttavia resterà incompiuta: i Trionfi. Si tratta di un poema in terzine chiaramente ispirato alla Commedia dantesca: una visione nella quale Petrarca da un lato passa in rassegna i grandi spiriti del passato raccolti in ‘famiglie’, dall’altro riflette sul suo amore per Laura e sul suo destino ultraterreno. Due elementi assicurarono all’opera, nei due secoli successivi, una fortuna larghissima, paragonabile soltanto a quella del Canzoniere (insieme al quale venne più volte copiata e stampata): i dati autobiografici che vi sono disseminati, e che dovevano suscitare grande curiosità tra i cultori del poeta; e – analogamente a quanto avviene nella Commedia - l’unione di cultura classica e cristiana, cioè la rappresentazione di personaggi appartenenti al mondo greco-latino all’interno di una struttura simbolica ordinata secondo i princìpi della morale cristiana. [La trama] Articolato in sei trionfi, ciascuno diviso in uno o più canti, il poema è il resoconto di una visione. In un giorno di aprile (il sesto: e il sei aprile del 1327 Petrarca sostiene infatti di aver incontrato per la prima volta Laura), il poeta si trova – come il suo modello, Dante – ‘smarrito’. Il percorso che il poeta compie di qui in poi è scandito dall’incontro con una lunghissima schiera di defunti illustri: Petrarca contempla prima il Triumphus Cupidinis (‘trionfo d’Amore’): il carro del ‘dio’ è seguito dagli spiriti che durante la loro vita vennero vinti dall’amore. Si tratta soprattutto di ‘coppie celebri’ prelevate dal mito o dalla storia classica (si veda per esempio il lungo episodio relativo agli amori di Sofonisba e Massinissa, l’alleato di Scipione l’Africano), ma non mancano le coppie ‘moderne’, come Dante e Beatrice: né manca, alla fine del corteo, un posto per lo stesso Petrarca, vittima dell’amore per Laura. I canti successivi rappresentano una sorta di integrazione e di superamento del Trionfo dell’Amore. Mentre prosegue la rassegna dei grandi spiriti defunti (ed è questa la parte dell’opera meno vicina al nostro gusto, per l’affollarsi 59 interminabile di nomi e allusioni erudite), l’amore viene sconfitto allegoricamente dalla Pudicizia (Triumphus Pudicitiae), la Pudicizia dalla Morte (Triumphus Mortis: dove è rappresentata anche la morte di Laura, e un colloquio in sogno tra lei e Petrarca), la Morte dalla Fama postuma (Triumphus Famae). Nei due ultimi canti (Triumphus Temporis e Triumphus Eternitatis), la rassegna dei defunti lascia spazio a considerazioni di tipo parenetico (= ‘esortativo’), e Laura resta l’unico personaggio ‘terreno’. Di fatto, la visione dell’Eternità, nell’ultimo dei Trionfi si conclude non su una preghiera a Dio ma sul presagio del ricongiungimento in paradiso con la donna amata: «se fu beato chi la vide in terra, / or che fia dunque a rivederla in cielo?» (vv. 144-45). [Le raccolte di versi e di lettere] La datazione delle opere di Petrarca è sempre questione complessa, perché il poeta abbandona e poi riprende i suoi testi in momenti diversi della sua vita, pubblicandone versioni provvisorie, o non pubblicandole affatto; o perché di proposito sovrappone alla cronologia reale una cronologia ideale creata a posteriori che, per così dire, ridisegna le tappe della sua carriera letteraria. Ma vi sono anche testi ‘in movimento’, perché formati da altri testi scritti in epoche diverse: sono gli epistolari e la raccolta delle poesie volgari (su cui cfr. § 5.4). [I modelli classici] Petrarca fu uno scrittore di lettere eccezionalmente prolifico. Fu in questo modo, piuttosto che attraverso i veri e propri trattati, che si espresse il suo magistero: perché le sue sono lettere nell’accezione ciceroniana o senechiana, e poi umanistica: scritti rivolti a singoli interlocutori che hanno però un forte impegno concettuale, testi densi di ammaestramenti filosofici, di riflessioni morali, di commenti sui classici. Il fatto che si tratti di qualcosa di diverso dalle ‘lettere’ così come noi oggi le intendiamo appare chiaro da due circostanze. In primo luogo, Petrarca non solo ritocca o riscrive, all’atto della loro riunione in libro, brani di vecchie lettere, ma addirittura ne scrive alcune ex novo, retrodatandole. In secondo luogo, alcune delle sue lettere non sono scritte a corrispondenti reali bensì a grandi personaggi dell’antichità come Seneca, Livio, Sallustio: lontano dall’essere lo spazio della spontaneità e dell’immediatezza, le lettere sono il luogo per eccellenza della sapienza retorica e della consapevolezza ideologica. [Gli epistolari] In momenti diversi della sua vita, Petrarca riunì le sue lettere – tutte scritte in latino, l’unica lingua adoperata da Petrarca per la prosa - in alcune raccolte (resta un numero esiguo di Disperse, molte di dubbia attribuzione): - I 24 libri delle Familiares (Familiarum rerum libri XXIV: ’24 libri [di epistole] su cose familiari’) raccolgono la parte più consistente della produzione epistolare petrarchesca. Si tratta di 350 lettere, scritte tra il 1325 e il 1361, che illustrano, quasi giorno per giorno, la vita e l’evoluzione intellettuale del poeta. Pur senza rinunciare a parlare con i suoi corrispondenti di questioni personali e quotidiane, Petrarca adopera la lettera anche e soprattutto come strumento per la riflessione morale, in ciò avvicinandosi, come si è accennato, ai modelli classici di Cicerone e di Seneca. Proprio per quest’ampiezza di prospettiva, molte delle Familiari, pur essendo originalmente concepite come messaggi privati, conobbero già durante la vita del poeta una assai più larga circolazione nei circoli intellettuali italiani ed europei. - Le 19 lettere del libro Sine nomine (così chiamato perché Petrarca tace il nome dei suoi destinatari) vennero scritte tra il 1342 e il 1358, e raccolte insieme attorno al 1360. Sono omogenee per tema e ispirazione: vi si parla soprattutto di questioni politiche e religiose, con duri attacchi alla Curia avignonese (e ciò appunto suggerì all’autore di non rivelare l’identità dei destinatari). - le 66 lettere in versi (Epystolae metricae), risalenti agli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, vennero riunite da Petrarca in tre volumi nel corso degli anni Sessanta; vari i loro argomenti: da questioni di carattere privato e familiare a più oggettive meditazioni morali e filosofiche. - il libro delle cosiddette Seniles (‘Senili, lettere della vecchiaia’), mai portato a termine dall’autore, raccoglie 125 lettere composte tra il 1361 e l’anno della morte. Un cenno a parte merita la lettera Posteritati (‘Ai posteri’), scritta probabilmente in due tempi: cioè ideata nei primi anni Sessanta e poi ritoccata pochi anni prima della morte. Si tratta di una sorta di autobiografia nella quale il poeta giustifica la sua vita e le sue opere agli occhi di un immaginario lettore futuro. Doveva probabilmente concludere la silloge delle Seniles, ma rimase incompiuta. 60 5.4 Il «Canzoniere» [Il libro delle rime volgari] Nel corso della sua vita, Petrarca raccolse più volte le sue poesie in volgare. È verosimile che, a mano a mano che le componeva, egli le registrasse su carte sciolte; e che, una volta corrette – anche a grande distanza di tempo: Petrarca fu un inesausto revisore di se stesso – esse venissero riunite e fatte circolare tra gli amici e i corrispondenti del poeta. Di queste ‘forme’ provvisorie del Canzoniere petrarchesco restano tracce nella tradizione manoscritta, e gli studiosi le hanno intitolate convenzionalmente al nome del probabile dedicatario (così per esempio la ‘forma Correggio’ era dedicata, intorno al 1360, ad Azzo da Correggio; la ‘forma Malatesta’ era offerta, ormai nel 1373, a Pandolfo Malatesta). Quello che noi chiamiamo Canzoniere è però la raccolta definitiva: l’ultima volontà del poeta così come è consegnata al manoscritto Vaticano latino 3195, parzialmente autografo, e da Petrarca intitolato Rerum vulgarium fragmenta (‘Frammenti di cose volgari’: di qui, spesso, a definire la raccolta, il nome di Fragmenta). [Consistenza e ordinamento] Il libro consta in tutto di 366 componimenti: 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine (che già sperimentate da Dante come forma ‘speciale’ della canzone, assumono in Petrarca e nei suoi imitatori identità di genere metrico autonomo), 7 ballate, 4 madrigali. Diviso in due parti, separate nell’originale da alcune carte lasciate in bianco (263 testi in vita di Laura + 103 in morte di Laura), il Canzoniere non è però scandito in sezioni metriche così come lo erano i libri di poesia nella tradizione anteriore a Petrarca: i generi metrici vi si alternano liberamente. I princìpi che guidano l’allestimento del libro sono invece la cronologia e la continuità tematica. Certo, riunendo insieme le proprie liriche, Petrarca non arriva a comporre un vero e proprio romanzo in versi (ciò che aveva fatto Dante nella Vita nova, ma col necessario ausilio dei paragrafi in prosa); ma il Canzoniere è, altrettanto certamente, un racconto dotato di un inizio, una fine e un riconoscibile svolgimento: a rendere più visibile il quale concorrono i cosiddetti ‘testi di anniversario’, scritti di anno in anno nella ricorrenza del primo incontro tra il poeta e la donna amata. D’altro canto, nel libro si possono isolare anche brevi sequenze di componimenti che stanno tra loro non in rapporto di successione cronologica bensì piuttosto di congruità tematica: testi, cioè, che in modo di volta in volta sottilmente diverso sviluppano un identico motivo (per esempio il motivo della lode per gli occhi, o del dolore per la distanza dalla donna amata, o della morte di un amico, ecc.). [Temi] Il Canzoniere è soprattutto il diario dell’amore di Petrarca per Laura, diario che ha una svolta in corrispondenza di un evento tragico: la morte di Laura nella peste del 1348. Se perciò nei primi due terzi del libro si leggono testi che pregano, celebrano, riflettono su Laura viva, l’ultimo terzo del libro è dedicato al compianto su Laura morta, e a una più generale meditazione sulla transitorietà delle cose terrene. La celebre canzone alla Vergine chiude il Canzoniere su una nota di pentimento che richiama quella con la quale il libro si era aperto: «et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto» (I.12). Il Canzoniere è così un libro di poesie d’amore le quali vennero però raccolte e ordinate da un autore che – ormai maturo – ha allontanato da sé l’amore per le creature terrene, o meglio lo ha sublimato nell’amore di Dio. Non è questo, tuttavia, l’unico tema del Canzoniere. A parte i numerosi i testi di corrispondenza sollecitati da amici ed ammiratori, che trattano argomenti contingenti e occasionali, alcune delle poesie petrarchesche affrontano questioni politiche di grande attualità, spesso con spirito fortemente polemico. Il Canzoniere ha insomma anche una componente ‘militante’, e lo si vede con particolare chiarezza sia nei tre sonetti 136, 137 e 138, noti come sonetti ‘anti-avignonesi’ perché scritti contro la corruzione della curia papale che aveva sede ad Avignone, sia nella celebre canzone all’Italia (128: Italia mia, benché ’l parlar sia indarno), in cui Petrarca deplora l’uso delle milizie mercenarie da parte dei prìncipi italiani e invita questi ultimi, in perenne lotta tra di loro, alla pace. [La posizione storica del Canzoniere. Il contenuto] La poesia del Canzoniere riprende e rinnova la tradizione lirica dei siciliani e degli stilnovisti fondando un classicismo che s’imporrà per secoli ai poeti italiani ed europei. Questo classicismo investe prima di tutto il contenuto dei testi. 61 L’amore dei trovatori e dei poeti del Duecento era un sentimento recitato in pubblico, una sorta di rappresentazione delle convenzioni cortesi in cui i sentimenti e i pensieri dell’autore avevano poca parte. Petrarca interpreta invece la lirica d’amore nel modo che ancor oggi ci è familiare: si confessa, narra una reale esperienza d’amore in totale solitudine, senza porsi il problema del pubblico e limitando al massimo la ripetizione dei clichés cortesi. Si può dire che grazie a lui si verifichi una conversione dall’oggettività alla soggettività. L’individuo che ama e desidera viene ad occupare quello spazio che nel passato era riservato alla rappresentazione della donna, ai rituali del corteggiamento, all’analisi oggettivante dell’amore: l’io del poeta-amante è ora al centro della scena. Questa chiusura nei confronti del contesto sociale, questo ripiegamento dell’io su se stesso, «che a prima vista può sembrare un impoverimento, nei secoli si rivelerà un territorio sconfinato. È anche grazie a questa scelta che Petrarca diventerà il caposcuola della poesia moderna. Egli ha sottratto il discorso amoroso ai condizionamenti storici, alle trasformazioni dei contesti sociali e culturali e ne ha fatto una zona franca, capace di rigenerarsi con il trascorrere del tempo [... Tale scelta] definisce la moderna poesia erotica come spazio dell’io e delle sue contraddizioni» (Santagata). [La lingua] Il classicismo petrarchesco riguarda, in secondo luogo, il linguaggio della lirica. Coll’avvento del petrarchismo non ci sarà più spazio per gli sperimentalismi, le audacie formali, i giochi verbali che avevano avuto largo corso nel Duecento. La lingua di Petrarca è omogenea, compatta nei toni. Da un lato, pur essendo ricca di riferimenti colti alla tradizione non soltanto volgare (nei testi del Canzoniere sono frequenti le allusioni alla Bibbia, ai classici latini, ai padri della Chiesa), essa evita i tecnicismi che avevano adoperato i poeti-retori come Guittone d’Arezzo nel Duecento; dall’altro, pur essendo limpida, comprensibile, lontana dalle complicazioni del trobar clus, essa non fa alcuna concessione al linguaggio ‘parlato’: è su questa norma di medietas (‘medietà’) che Petrarca costruisce quello che è il modello linguistico a cui per secoli si adegueranno i poeti italiani. 5.5 La fortuna Il genio di Petrarca fu immediatamente riconosciuto dai contemporanei. Da un lato la sua grande cultura classica, dall’altro la laurea poetica, ricevuta prima dei quarant’anni, fecero di lui il letterato più noto e ammirato dei suoi tempi, non solo in Italia ma in tutta Europa. La sua prima biografia venne scritta, da Boccaccio, quando non aveva ancora compiuto il cinquant’anni: è il De vita et moribus domini Francisci Petracchi de Florentia. A contare, qui, è soprattutto lo scrittore di prosa e di poesia latina, e tale sarà la tendenza anche nel secolo successivo, quando, per i suoi ritrovamenti e i suoi studi, gli umanisti lo celebreranno come un caposcuola: il vero erede della rinata tradizione classica. Solo nel Cinquecento – quando la filologia classica avrà assimilato e superato le scoperte petrarchesche – la tendenza si invertirà e l’interesse dei lettori e degli studiosi si concentrerà sul Petrarca volgare. Pietro Bembo prima curerà la stampa del Canzoniere presso Aldo Manuzio, il migliore stampatore del tempo (1502); poi, nelle Prose della volgar lingua, indicherà nella lingua poetica di Petrarca il modello da seguire per tutti i poeti volgari. [La fortuna del Canzoniere] Di qui in poi, la fortuna del Canzoniere sarà tale da non avere paragoni in tutta la letteratura occidentale. Per secoli, anche dopo il periodo dell’imitazione più pedestre, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento (definita appunto l’età del petrarchismo), i lirici europei continueranno a trarre ispirazione dalle liriche petrarchesche sui due piani della forma e del contenuto. Per quanto riguarda la forma, Petrarca imporrà alla tradizione italiana un lessico estremamente selezionato e ‘alto’, ben lontano dalla lingua dell’uso (perciò, leggendo un poeta dell’Ottocento, la sua lingua ci appare così distante dalla nostra: da Petrarca in poi la lingua poetica è rimasta un ‘sistema’ sostanzialmente, e artificialmente, stabile, senza grosse variazioni rispetto a quella del modello). Per quanto riguarda il contenuto, diventerà un fatto normale, nei due secoli successivi, raccontare attraverso le poesie, cioè raccogliere le proprie rime in canzonieri dotati, per così dire, di una direzione e di un senso complessivo: l’uso ‘narrativo’ della 62 lirica è uno dei lasciti più duraturi di Petrarca alla tradizione occidentale. Sul piano dell’interesse critico, l’avvio della ricerca scientifica sulla biografia del poeta si deve, nel Settecento, al francese Jacques François de Sade (Mémoires pour la vie de F. Pétrarque); quanto invece al giudizio sulla poesia petrarchesca, il ruolo di iniziatore spetta a Ugo Foscolo, che nel Saggio sopra la poesia del Petrarca elaborò la prima caratterizzazione stilistica e psicologica del poeta, perfezionata poi da Francesco De Sanctis nel suo Saggio critico sul Petrarca. Dopo l’imponente lavoro filologico degli studiosi di inizio Novecento (edizione critica delle opere, approfondimenti circa la biografia, ecc.), la critica più recente si è concentrata da una parte sulla formazione e sulla cultura umanistica di Petrarca (si ricordino almeno gli studi di Giuseppe Billanovich, Michele Feo e Francisco Rico), dall’altra sui tempi e sui modi dell’elaborazione del Canzoniere (Ernest H. Wilkins, Marco Santagata). 6. Giovanni Boccaccio 6.1 La vita [La giovinezza e la prima maturità a Napoli] Figlio di un ricco mercante fiorentino, Giovanni Boccaccio nasce, è dubbio se a Firenze o a Certaldo, nel 1313. Dovrebbe seguire le orme del padre, ed esercitare anche lui la mercatura: ma un talento precoce lo rivela, piuttosto che uomo d’affari, uomo di lettere. Dal 1327 al 1340 è a Napoli, dove il padre lavora come rappresentante della famiglia dei banchieri della casa angioina, i Bardi. Qui, il il giovane Boccaccio gode dell’amicizia degli aristocratici: e nel circolo della nobiltà angioina probabilmente conosce la donna che nelle sue opere ribattezzerà Fiammetta. Oltre che per l’intensa vita mondana – che diventerà materia di racconto nel Filocolo e nel Decameron – gli anni napoletani sono importanti per alcuni incontri culturalmente significativi: con Cino da Pistoia, che dal 1331 al 1333 insegna legge nello Studio napoletano, con i giuristi Barbato da Sulmona e Pietro Barrili, con il frate agostiniano Dionigi da Borgo Sansepolcro. Da costoro, Boccaccio impara a conoscere il nome e l’opera di Francesco Petrarca, che incontrerà personalmente solo alcuni anni più tardi, a Firenze. Nella biblioteca angioina ha modo di venire in contatto con opere che nel resto della penisola avevano scarsa o nulla circolazione: un’amplissima scelta di testi classici, i romanzi francesi, i mediolatini, i trovatori e i trovieri, la poesia stilnovista, che molto presto prenderà a imitare nelle sue Rime in volgare. [Il ritorno a Firenze: il culto di Dante e Petrarca] Conclusa la collaborazione tra il padre e la famiglia Bardi, tra il 1340 e il 1341 rientra a Firenze. Il passaggio dalla vivace corte angioina ad una città nella quale Boccaccio aveva trascorso soltanto l’infanzia è doloroso. Negli anni subito successivi Boccaccio porta a termine un impressionante numero di opere e inizia un’attività pubblica che s’intensificherà negli anni Cinquanta e Sessanta: è ambasciatore del Comune in Romagna, poi a Napoli, presso l’imperatore Ludovico il Bavaro, quindi presso il papa ad Avignone e a Roma. A questo ruolo di primo piano nella vita politica, Boccaccio affianca un indiscusso primato culturale in città: già celebre per le opere in volgari (e tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta lavora al capolavoro, il Decameron), intorno al 1350 inizia la serie di opere erudite che secondo le sue intenzioni dovevano guadagnargli la fama. Insieme, è lui il custode dell’opera e delle memorie dei suoi due grandi predecessori. Scrive una biografia di Petrarca (De vita et moribus Domini Francisci Petracchi), e soprattutto studia la vita e le opere di Dante con una dedizione che nessun altro aveva dimostrato prima: gli dedica una biografia informatissima, scritta anche interrogando coloro che lo avevano conosciuto personalmente (Trattatello in laude di Dante, 1351-55); commenta la Commedia nelle incompiute Esposizioni, nate dalla lettura pubblica che Boccaccio tiene a Firenze nel 1373 nella chiesa di Santo Stefano in Badia; copia di sua mano, in un codice, la Vita nova, la Commedia e quindici canzoni dantesche anteponendovi il Trattatello. [Gli ultimi anni] Nel 1360 prende gli ordini sacri: e questa ‘conversione’ segna anche un distacco dalle opere in volgare ‘giovanili’ (tra le quali Boccaccio include anche il Decameron); e si 63 intensifica, per contro, la produzione latina di ispirazione classica e biblica. Ritiratosi a Certaldo, vi muore nel 1375, un anno dopo Petrarca. 6.2 Le opere anteriori al «Decameron» [A Napoli] A Napoli, nella seconda metà degli anni Trenta, Boccaccio lavora a tre opere narrative - il Filocolo, il Filostrato e il Teseida – che in modo diverso miscelano due ‘generi’ letterari: l’epos e l’elegia amorosa [Il Filocolo] Nel lungo romanzo intitolato Filocolo (1336-38: il titolo significa ‘fatica d’amore’, secondo l’errata etimologia dal greco immaginata dall’autore) Boccaccio narra, attingendola dalla tradizione letteraria francese, la vicenda di Florio e Biancifiore: storia dell’amore contrastato tra i due giovani; dell’allontanamento di Biancifiore da parte dei genitori di Florio, preoccupati che, lui di stirpe regale, s’innamori di una fanciulla di bassa condizione; della lunga quête (‘ricerca’) condotta da Florio per ritrovare l’amata; del ricongiungimento tra i due amanti e della scoperta che anche Biancifiore ha origini nobili; del matrimonio finale e dell’ascesa al trono di Florio. Rispetto all’esile trama del modello francese, Boccaccio opera deviazioni e digressioni che fanno del romanzo una sorta di contenitore per i più disparati generi letterari (Battaglia Ricci): dall’epistola alla novella, dalla quaestio alle dissertazioni dottrinali. Particolarmente importante è il cosiddetto episodio delle questioni d’amore, nel quarto libro. Si tratta di tredici dilemmi di casistica amorosa che gli ospiti napoletani di Filocolo dibattono affidandosi alla fine al responso della ‘regina della brigata’ Fiammetta. La loro importanza risiede da un lato nel fatto che in queste pagine è più forte il legame con la letteratura d’oltralpe (i cosiddetti jeux-partis, quesiti in forma di dilemma su argomenti relativi all’etichetta cortese) e con quelli che probabilmente erano i costumi mondani della corte angioina; dall’altro perché qui Boccaccio collauda il motivo della ‘brigata’ di giovani riuniti in un giardino a raccontare novelle e a ragionare d’amore: motivo che sarà il filo conduttore del Decameron. [Il Filostrato] Ispirato alla Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne (cfr. § 3.2), il Filostrato è un poema in ottave che narra dell’amore di Troiolo e Criseida sullo sfondo della guerra di Troia: amore tragico, perché Troiolo, tradito, si getta in un duello disperato con Achille, e ne viene ucciso. A ragione, il Filostrato è stato definito un contro-Filocolo (Surdich): se il Filocolo è il romanzo dell’amore saldo, che vince ogni ostacolo, il Filostrato è il romanzo del tradimento, ovvero dell’amore che scende a compromessi con la realtà (l’amata Criseida, prigioniera dei greci, si concede a Diomede); e se Florio è il prototipo dell’eroe che agisce, Filostrato è l’innamorato elegiaco che contempla: riflettendo sul’amore, scrivendo lettere, piangendo. [Il Teseida] Poco dopo il Filostrato, Boccaccio compone il poema Teseida. Come Petrarca, che lavora in questi anni all’Africa, egli intende rinnovare la tradizione dell’epica. Ma lo fa in volgare, e scegliendo come soggetto non un grande tema della storia romana ma un oscuro episodio della mitologia greca: le gesta di Teseo, duca di Atene, e le avventure dei due nobili tebani Arcita e Palemone, entrambi innamorati dell’amazzone Emilia. Così come nel Filostrato, il tema epico si rivela anche qui un puro pretesto, perché la gran parte dell’opera è dedicata alla storia d’amore e al duello tra Arcita e Palemone per Emilia, mentre la figura del condottiero Teseo scivola in secondo piano. In tal modo, la lezione dei grandi epici latini, Virgilio e Stazio, che Boccaccio studia approfonditamente, resta superficiale: essa non sostiene per intero il poema ma emerge in certi dettagli tecnici come la descrizione degli ambienti, o il catalogo dei personaggi; il vero modello ispiratore – dato che l’amore prevale sulla materia epica – è anche qui, come spesso altrove, il poeta latino Ovidio. [A Firenze. La Comedia delle ninfe fiorentine] Negli anni immediatamente successivi al rientro a Firenze nel 1340, Boccaccio lavora a due opere diversamente legate alla tradizione culturale e alla vita fiorentina: la Comedia delle ninfe fiorentine e l’Amorosa visione. La Comedia (chiamata anche Ameto, dal nome del protagonista) è un prosimetro, cioè un’opera mista di prosa e poesia (come la Vita nova di Dante), che narra di come il pastore Ameto, incontrate alcune ninfe nel 64 bosco, si sia fermato ad ascoltare il canto di una di loro, Lia, innamorandosene. Fattosi cantore egli stesso, Ameto si unisce alle ninfe e, dopo un bagno purificatore, vede Venere: tale visione segna il suo passaggio da «animale bruto» a «uomo». Sotto l’apparenza del giocoso romanzo pastorale, l’Ameto nasconde – come spesso accade nel Medioevo, e in Boccaccio in special modo – due possibili chiavi di lettura allegorica. Da una parte è stato osservato che la storia del rozzo pastore ingentilito da Amore prefigurerebbe quella dell’umanità, passata dalla barbarie primitiva alla civiltà grazie alla virtù e all’amore. Dall’altra parte, così come in altre sue opere, Boccaccio si compiace di dare ai personaggi del racconto fattezze e caratteri propri di altrettanti reali cittadini di Firenze: sicché la lettura dell’opera avrà dato, ai contemporanei che fossero in grado di afferrare le allusioni, il piacere del riconoscimento. [L’Amorosa visione] L’Amorosa visione è un poema in terzine di chiara ispirazione dantesca: la Commedia fornì infatti ai successori di Dante un modello di poesia narrativa, e quello di Boccaccio è uno dei primi esempi di tale imitazione. Smarritosi – come Dante all’inizio dell’Inferno – in un luogo deserto, l’autore, che è anche l’io narrante, viene soccorso da una «donna gentile» e scortato sino ad un «nobile castello». Qui, davanti a lui si aprono due porte: una stretta che porta alla virtù e una più larga che porta ai beni mondani. Il protagonista sceglie quest’ultima, e in compagnia della guida entra in un’ampia sala del castello, e qui contempla le scene affrescate alle pareti: una sorta di enciclopedia, o di storia del mondo per immagini la cui descrizione occupa buona parte del poema. Si va dai ritratti degli spiriti sapienti (i filosofi e i poeti antichi, ma anche Dante) a quelli dei condottieri e degli eroi (Dario, Cesare, Carlo Magno), a quelli degli spiriti amanti (Orfeo e Euridice, Didone e Enea). Finita la contemplazione degli affreschi, l’autoreprotagonista abbandona la sua guida e ritrova, in uno splendido giardino, la donna amata, Fiammetta: con questo ricongiungimento termina la visione. Il poeta si risveglia e apprende che lo attende ora un altro viaggio, stavolta attraverso la ‘porta stretta’ della virtù. [La fortuna del poema] Molti elementi concorrono a rendere faticosa la lettura dell’Amorosa visione: i lunghi cataloghi descrittivi, le divagazioni mitologiche, l’invadenza dell’allegoria (la Guida, per esempio, la si è potuta interpretare ora come la Fortezza, ora come la Virtù, ora come Venere), le gratuite complicazioni formali (le lettere iniziali di ogni terzina compongono un enorme acrostico: tre sonetti che Boccaccio adopera come proemio). Ma oltre a rappresentare un importante momento di collaudo per le tecniche narrative di Boccaccio – l’Amorosa visione è una sterminata rassegna di ‘storie’ e biografie raccontate ora in un solo verso ora in pagine e pagine – il poema ha importanza cruciale nella storia della poesia medievale perché insieme ai Trionfi petrarcheschi offrirà ai suoi successori un modello di allegoria laica-umanistica alternativa o complementare a quello proposto da Dante nella Commedia. [La Fiammetta] Anche l’Elegia di madonna Fiammetta è databile ai primi anni fiorentini (1343-44). Ma a differenza di quanto avviene nell’Ameto e nell’Amorosa visione, qui Boccaccio rinuncia, felicemente, all’allegoria, e attraverso il monologo della protagonista ci offre una sorta di romanzo psicologico o confessione. Abbandonata da Panfilo, che ha lasciato Napoli ed è tornato a Firenze, Fiammetta narra alle «innamorate donne» (secondo una convenzione ben diffusa nella letteratura medievale, che fa delle donne il pubblico ideale per i racconti e per le liriche d’amore), in forma di lettera, il suo dolore. Anche in questo caso non mancano le fonti letterarie: su tutti, i monologhi femminili delle Heroides (‘Eroine’) di Ovidio; ma la Fiammetta possiede, nei confronti di ogni possibile modello, un superiore realismo psicologico, una speciale verità dovuta forse anche alla componente autobiografica dell’opera (la vicenda di Panfilo e Fiammetta adombrerebbe, secondo alcuni interpreti, un episodio degli anni napoletani di Boccaccio). [Il Ninfale fiesolano] Dopo questo felice tentativo di prosa psicologica, il poema in ottave del Ninfale fiesolano ritorna alle forme e alle ambientazioni dell’Ameto. Sullo sfondo campestre di Fiesole, vicino a Firenze, il pastore Africo s’innamora della ninfa Mensola e, dopo preghiere e inseguimenti, riesce a possederla. Ma l’amore tra il pastore e la ninfa è vietato da Diana, e in conseguenza di questo divieto Africo si uccide e Mensola viene trasformata nelle acque di un fiume. Il figlio nato dai due amanti, Pruneo, sarà tra i fondatori di Fiesole e da lui trarrà origine una delle 65 più nobili schiatte fiorentine: e con un breve riepilogo della storia di Firenze si chiude il libro. Rispetto alle altre opere del periodo fiorentino, il Ninfale rivela una maggiore coscienza dei mezzi narrativi: gli giovano l’ambientazione ‘familiare’ nel contado fiorentino, la popolarità dei caratteri e la semplicità dello stile; e gli giova il fatto che il peso dell’erudizione mitologica si sia ridotto, e l’allegoria non faccia più velo a una narrazione che ha la vivacità di quella delle novelle decameroniane. 6.3 Il «Decameron» [Tempi di composizione] Boccaccio lavora al suo capolavoro, il Decameron (nome da lui stesso coniato unendo insieme due parole greche: ‘Dieci giornate’), negli anni subito successivi alla peste nera del 1348. È ben probabile che alcune delle cento novelle poi entrate a far parte del libro siano state scritte prima di quella data, cioè preesistessero al progetto della raccolta, ma di questa ipotetica ‘preistoria’ non abbiamo testimonianze precise. Certo è che parti dell’opera circolarono a Firenze prima che essa fosse conclusa: nell’introduzione alla quarta giornata, Boccaccio si difende dalle critiche che alcuni lettori gli avevano rivolto. Il libro venne ultimato nei primi anni Cinquanta, forse nel 1353; tuttavia, nel ventennio successivo, Boccaccio – nonostante la sufficienza con cui sarà solito parlare delle sue opere giovanili in volgare – non cesserà di meditarvi sopra e di ritoccarlo: la sua ultima volontà è consegnata a un manoscritto autografo (lo Hamilton 90 della Staatsbibliothek di Berlino) databile al 1370, cinque anni prima della morte. [La trama] La trama nella quale le novelle sono inserite è molto semplice. Nel 1348 la peste imperversa a Firenze: l’introduzione al libro descrive la drammatica situazione della città: i cadaveri riempiono le strade, i legami più sacri – tra moglie e marito, tra genitori e figli – si spezzano; si moltiplicano le fosse comuni. È possibile che Boccaccio abbia presente qui dei modelli letterari o figurativi (il tema della peste ricorre nella tradizione occidentale in autori tanto diversi come Tucidide, Lucrezio e Paolo Diacono, così come poi in Manzoni e in Camus); ma è certo che la sostanza della descrizione è tratta dall’osservazione diretta: Boccaccio - che nell’epidemia perse il padre, la matrigna e vari amici – fu testimone del flagello. È in questo tragico frangente che un gruppo di dieci giovani (sette donne e tre uomini) si riunisce e decide di abbandonare la città per evitare il contagio: alcune ville di loro proprietà situate nel contado saranno il loro rifugio. La ‘cornice’ del Decameron – quella in cui l’autore parla in prima persona e in cui sono incastonate le novelle – dà conto della vita della brigata durante le due settimane di questo volontario esilio. I giovani scelgono ogni giorno tra le loro fila un ‘re’ o una ‘regina’ che fissa modi e tempi delle attività quotidiane, e suonano, cantano, e soprattutto raccontano delle novelle: una ciascuno per dieci giorni (il ‘novellare’ è sospeso nei giorni di venerdì e sabato), per un totale di cento novelle: e queste cento novelle – in cui dunque ciascuno dei dieci personaggi prende la parola – rappresentano appunto il contenuto della cornice. Passate le due settimane, i giovani rientrano a Firenze. [La cornice] La cornice – l’artificio narrativo che permette di saldare insieme le novelle – non è un’invenzione di Boccaccio. Essa era già ben nota alla tradizione narrativa indiana e araba: e opere come le Mille e una notte, la Storia di Calila e Dimna, o il libro di Sendebar, o la storia di Barlaam e Josaphat, tradotte in latino nel corso dei secoli XII e XIII, poterono senz’altro venire a conoscenza dello scrittore, sia a Firenze sia, più verosimilmente, alla corte angioina di Napoli. Lo stesso si può dire di un’opera che ebbe larghissima diffusione a partire dal secolo XII, la Disciplina clericalis dell’ebreo spagnolo Pietro Alfonso: una serie di racconti esemplari che un padre raccoglie allo scopo di istruire il figlio (disciplina = istruzione). Tuttavia, la differenza tra la cornice del Decameron e quella dei testi appena citati salta agli occhi. Nelle raccolte pre-boccacciane, la cornice è un davvero un semplice artificio, un pretesto che non ha altro scopo se non quello di fare da esile filo conduttore fra gli exempla raccolti dall’antologista-scrittore; in Boccaccio, la cornice ha un ruolo molto più importante e una ben maggiore estensione: non è semplicemente uno sfondo bensì il vero motore narrativo dell’opera. 66 [I temi: amore e fortuna] Gli argomenti delle novelle sono così descritti nel Proemio (14): «... nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi». Amore e fortuna sono, in effetti, i temi dominanti del libro. Il primo era, come si è visto, già largamente presente nella narrativa di Boccaccio – ma nella sua versione elegiaca (casi sfortunati di disgrazie d’amore) piuttosto che in quella burlesca o euforica prevalente nel Decameron, dove il nome di amore è dato spesso alla semplice soddisfazione sessuale: la quarta e la quinta giornata sono quelle consacrate alle imprese d’amore così concepite (ecco per esempio la rubrica che introduce la quarta giornata: «Sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro, li cui amori ebbero infelice fine»). Il secondo tema, la fortuna, va inteso nel senso più largo di ‘caso, destino, fatalità, accidente, peripezia’: ciò che di strano e singolare, insomma, movimenta la normale vita degli uomini, Novelle ispirate a questo soggetto si trovano soprattutto nella seconda giornata («si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine») e nella terza. [Il versante ‘comico’] Ma a questi due temi almeno due altri se ne debbono aggiungere, entrambi appartenenti al registro ‘basso’ o comico della narrativa: il motto, che dà la materia alle novelle della sesta giornata (dove si racconta dei «leggiadri motti» e delle «pronte risposte» che i personaggi trovano per venire a capo di una situazione spinosa); e la beffa, che è al centro delle novelle dell’ottava giornata (dove, come recita la rubrica che la introduce, «si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo, o uomo a donna, o l’uno uomo all’altro si fanno»). Una parte considerevole delle novelle decameroniane – e tra queste alcune delle più famose – è scritta infattii col principale scopo di far ridere, e ciò avviene o per l’uso pronto ed arguto della parola da parte dei protagonisti o per il genio da essi dimostrato nel mettere nel sacco i loro interlocutori. Così - per illustrare il primo caso: l’abilità nell’uso delle parole - Guido Cavalcanti zittisce con una battuta un gruppo di buontemponi che volevano prendersi gioco di lui (nov. VI 9). Oppure, così frate Cipolla rimedia ad una beffa che due giovani avevano macchinato contro di lui: i due sostituiscono la penna che frate Cipolla spacciava per una reliquia (una piuma dell’arcangelo Gabriele) con un pugno di carbone; il frate se ne accorge tardi, durante l’omelia, ma non si perde d’animo: un nuovo miracolo – sostiene – ha trasformato la penna nei carboni coi quali «fu arrostito san Lorenzo», la cui festa, non per caso, ricorre «di qui a due dì» (nov. VI 10). E così – per illustrare il secondo caso: capacità di ingannare il prossimo – lo sfrontato ser Ciappelletto riesce a darla a bere al prete che lo confessa in punto di morte, e dopo una vita spesa nel vizio e nel crimine viene seppellito in terra consacrata e in fama di santità (nov. I 1). Oppure, così allo sciocco Calandrino viene fatto credere di essere invisibile (nov. VIII 3). [Il nuovo realismo boccacciano] Si tratta, scrive Boccaccio nel Proemio, di episodi «ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi». Una parte delle novelle s’ispira in effetti alla storia e alla letteratura antica, o situa nell’antichità – o in un mondo diverso da quello contemporaneo – la trama del racconto: è la componente erudita della poetica di Boccaccio, che già aveva fatto le sue prove nel Filocolo, e che ispirerà le opere latine della maturità. Ma l’importanza del Decameron risiede soprattutto nelle novelle sui ‘costumi contemporanei’. Attraverso di esse entra nella letteratura italiana la realtà umana nelle sue più varie manifestazioni: veri cittadini, veri borghesi, donne e uomini reali sono i protagonisti della narrazione, e le loro non sono le sublimi passioni che erano state cantate nell’epica o nei romanzi cavallereschi, ma le comuni passioni che sono proprie di ogni essere umano. Sicché, se anche spesso il tema del racconto non è originale perché Boccaccio recupera (e talvolta ripete pari pari) i modelli della novellistica classica, mediolatina o volgare, l’ambientazione – l’Italia contemporanea, e la città di Firenze in particolare – sortisce sempre effetti di notevole realismo. Ed è in questa lezione – la rappresentazione della vita così come essa è, senza le idealizzazioni che erano state caratteristiche della letteratura cortese, e senza i moralismi degli exempla cristiani – il lascito più duraturo del Decameron alla tradizione narrativa occidentale, e insieme la ragione della sterminata fortuna di cui il libro godrà nei secoli successivi. [Lo stile] Non dello stile del Decameron bisognerebbe parlare, bensì degli stili, al plurale. Il linguaggio reagisce e si adegua, infatti, alla varietà dei registri e delle situazioni messe in scena 67 nelle novelle. Il Cinquecento apprezzò, e promosse a norma per tutti i prosatori, soprattutto il puro ed elegantissimo fiorentino che Boccaccio adopera nella cornice, quando parla in prima persona: una prosa elaborata, sintatticamente complessa, incline a sigillare i periodi con particolari figure ritmiche (quello che nella prosa latina viene definito cursus). Al polo diametralmente opposto, lo stile delle novelle ‘comiche’ (per esempio quelle della sesta giornata) ebbe grande influenza sui novellieri eredi di Boccaccio. Non che la prosa narrativa anteriore a lui non conoscesse il registro ‘basso’, tutt’altro, ma nel Decameron tale registro si arricchisce di molte inedite sfumature. Per esempio, Boccaccio è consapevole delle potenzialità espressive dei dialetti, e se ne serve per la descrizione di ambienti e personaggi. Inoltre, egli è maestro nella resa del discorso diretto: mentre i narratori che lo hanno preceduto prestavano le loro parole ai personaggi del racconto, senza alcun tentativo di caratterizzazione individuale, Boccaccio dà a ciascuno una voce diversa, anticipando quella ‘polifonia’ di linguaggi e di stili che sarà tipica del romanzo moderno. Ma c’è poi, al di là di raffinatezze come queste, il comico ‘puro’, il puro e semplice divertimento verbale, e in tal caso Boccaccio non disdegna di servirsi di artifici tradizionali: giochi di parole, bisticci, doppi sensi o – come nell’esempio che segue, tratto dalla novella di frate Cipolla (VI x 17) – la figura fonica detta omeoteleuto (cioè l’identità di desinenza tra parole contigue in un testo in prosa): «egli [Guccio Imbratta, aiutante del frate] è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidiente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre teccherelle con queste, che si taccion per lo migliore». [Modelli e fonti] Così come è necessario parlare di una pluralità di stili, allo stesso modo sono molti i modelli ai quali Boccaccio può essersi ispirato per la costruzione del Decameron. Si è accennato alla tradizione arabo-orientale della cornice; ma l’idea di una ‘narrazione di gruppo’ poteva venire allo scrittore anche da testi classici come i Saturnalia di Macrobio o le Metamorfosi di Apuleio. Quanto alla peste e alla ‘brigata’ dei giovani, una possibile fonte figurativa è stata di recente segnalata (Battaglia Ricci) negli affreschi raffiguranti il Trionfo della morte nel Camposanto monumentale di Pisa. Nelle singole novelle, Boccaccio sfrutta e contamina tradizioni disparate non ultima quella per eccellenza inverificabile: la tradizione orale – ed è dunque impossibile dare un quadro sintetico dei suoi ‘prelievi’. Ma, in sintesi, si consideri l’eccezionale ampiezza delle fonti boccacciane: oltre ad attingere dalle raccolte di ‘esempi’ in latino (come la Leggenda aurea di Jacopo da Varazze) e in volgare (raccolte rivisitate, come si è accennato, secondo un’ottica laica e non moralistico-cristiana), egli conosce e riusa i testi latini (Apuleio, Ovidio), i fabliaux (‘favole’) e le poesie francesi lette alla corte napoletana degli Angiò, le commedie mediolatine oltre che, naturalmente, i ‘classici’ della giovane letteratura italiana: il Novellino, la Commedia. A queste influenze colte si affianca infine la tradizione popolare: i proverbi e gli aneddoti che circolavano a Firenze (per esempio, quello relativo alla «bella risposta» che Guido Cavalcanti dà ai suoi motteggiatori: novella VI 9) 6.4 Le opere successive al «Decameron» e la fortuna di Boccaccio [Le Genealogie] Negli anni della piena maturità, dopo la scrittura del Decameron, Boccaccio abbandona le ‘favole’ romanzesche, liquida – secondo un cliché ben diffuso nel Medioevo – come errori giovanili le proprie poesie in volgare (che a differenza di Petrarca non raccoglierà mai in un volume unitario) e s’impegna in alcuni trattati eruditi in latino. Un libro sulla mitologia classica era stato sollecitato a Boccaccio già attorno al 1350 da Ugo IV di Lusignano, re di Cipro. Ugo morì nel 1359, ma Boccaccio soddisfece lo stesso il desiderio dell’antico committente lavorando, dai primi anni Sessanta sino alla morte, alle Genealogiae deorum gentilium (‘Genealogie degli dei pagani’). L’opera si articola in quindici libri: nei primi tredici - che compendiano l’intero patrimonio della mitologia pagana, e che avranno grande influenza su letterati e pittori durante tutto il Rinascimento - Boccaccio riversa tutta la sua non comune cultura classica, ricorrendo, oltre che ai ben noti Virgilio e Ovidio, anche ad Omero: grazie alle lezioni dell’erudito Leonzio Pilato, Boccaccio possedeva infatti (quasi unico tra i suoi contemporanei) buoni rudimenti di greco, e 68 poteva così accostarsi direttamente ai testi omerici originali,, che cita infatti orgogliosamente nelle Genealogie. Negli ultimi due libri, Boccaccio svolge un’appassionata difesa della poesia: laddove, egli sostiene, gli studi ‘positivi’ come il diritto o la medicina sono indirizzati al guadagno, e non hanno come fine primario il progresso umano, la poesia dev’essere piuttosto assimilata alla filosofia e alla teologia: come queste ultime, essa non ha come fine l’arricchimento ma il progresso delle conoscenze e il miglioramento dei costumi. L’obiezione, che alla poesia viene mossa, secondo cui si tratterebbe soltanto di fabulae (‘favole, storie inventate’) è, osserva Boccaccio, legittima, ma facilmente confutabile: poiché la vera scienza consiste nel saper vedere sotto il velo della favola, dell’allegoria, il contenuto di verità che la poesia racchiude. [Le biografie] Mentre le Genealogie illustrano la forte motivazione umanistica di Boccaccio, il De casibus virorum illustrium (‘Sventure di uomini illustri’) e il De mulieribus claris (‘Le donne famose’) sono due opere di carattere più tradizionalmente moralistico-erudito. La prima, offerta al fiorentino Mainardo Cavalcanti, e ultimata attorno al 1360, è una rassegna, da Adamo ai contemporanei, di personaggi celebri caduti in disgrazia; la seconda (1361), offerta alla nobildonna Andreina Acciaioli, è una raccolta di circa cento ritratti di eroine, dalla leggendaria Elena a Giovanna regina di Napoli. Il piacere del raccontare, così caratteristico del Decameron e delle altre opere volgari, è, in questi due trattati, del tutto abbandonato: non si tratta veramente di ‘storie’, liberamente narrate, bensì di esempi che l’autore illustra moralisticamente – con apostrofi, invettive, esortazioni – ai suoi destinatari. [Il Corbaccio] La satira anti-femminile (ovvero, con termine derivato dal greco, misogina), è un tema caratteristico della letteratura medievale: ‘manuali’ che insegnano a resistere alle tentazioni delle donne, o che ne svelano gli inganni e i difetti, sono ben diffusi nel mondo romanzo, e Boccaccio paga il suo tributo a questa tradizione nel racconto intitolato Corbaccio (forse dal nome di quello che era ritenuto il più vile degli uccelli), databile probabilmente al 1365. L’autore – questa la semplice trama del libro – ama una vedova che non lo corrisponde. Fa un sogno: in una valle, incontra il defunto marito della donna amata, che lo ammonisce: l’amore – egli sostiene - non fa per lui, e la donna che ha scelto è ricolma di tutti i vizi e i difetti del suo sesso. Udito l’elenco di questi vizi e difetti, l’autore-protagonista rimane convinto e, guarito dalla sua infatuazione, esce dalla valle. Ispirato alla vasta tradizione misogina suddetta, e in particolare al De vetula (‘La vecchia’), uno scritto latino falsamente attribuito a Ovidio, il Corbaccio rappresenta - col suo disincantato realismo, con la crudezza di certe descrizioni relative alla sfera corporea e sessuale - una specie di controcanto al quasi contemporaneo trattato latino De mulieribus claris, che Boccaccio scrive invece «in eximiam muliebris sexus laudem» (‘in alta lode del sesso femminile’). [La fortuna] Nella canzone in cui piange la morte di Boccaccio, Franco Sacchetti non menziona neppure il Decameron: lo scrittore è ricordato, e dichiarato grande, soltanto in virtù delle opere latine. Questo silenzio è in contraddizione con l’amplissimo successo di cui il Decameron godette già mentre Boccaccio era in vita. Libro veramente ‘popolare’, perché narra di una realtà vicina all’esperienza di ogni potenziale lettore, esso raggiunse anche i lettori meno colti: molte delle sue novelle e dei suoi personaggi diventarono proverbiali; e ‘copisti per passione’ (cioè non scribi professionisti ma semplici amanti della letteratura) lo sottoposero a vere e proprie riscritture, ‘aggiornando’, cioè avvicinando alla propria sfera d’esperienza, i nomi dei luoghi e dei personaggi. Come nessun’altra opera del Medioevo, inoltre, il Decameron conobbe un immediato successo all’estero: lo tradussero e imitarono Chaucer in Inghilterra, Christine de Pizan in Francia, Juan de Mena in Spagna; e piacque anche a un umanista raffinato come Petrarca, che addirittura tradusse in latino la novella di Griselda (X 10). Ma il giudizio di Sacchetti prefigura quello degli umanisti quattrocenteschi, i quali si disinteressano della letteratura volgare e fermano invece la loro attenzione sulle grandi compilazioni erudite degli anni della maturità di Boccaccio: le Genealogiae deorum gentilium, il De mulieribus claris, ecc. La ripresa d’interesse per le novelle del Decameron ha luogo prima, sullo scorcio del Quattroocento, all’interno del circolo di Lorenzo il Magnifico e di Poliziano, poi con Pietro Bembo, il quale nelle Prose della volgar lingua (1525) indica nel volgare di Boccaccio il modello che ogni prosatore italiano dovrebbe sforzarsi di imitare. Questo giudizio di 69 Bembo prelude al grande successo cinquecentesco del libro, che verrà più volte stampato (settanta edizioni nel solo sec. XVI) e imitato da generazioni di narratori. Nel 1573, in pieno clima controriformistico, una commissione appositamente nominata a Firenze, e guidata dall’umanista Vincenzio Borghini, introduce alcune ‘correzioni’ nel testo dell’opera, per eliminarne i passaggi più scandalosi o blasfemi e per riportarne la lingua alla veste originaria, espungendo quegli errori che si erano infiltrati nel corso della tradizione manoscritta (è la cosiddetta ‘rassettatura’). Dopo un lungo periodo di diminuito interesse, la fortuna critica del Decameron si riapre, nell’Ottocento, grazie soprattutto a Francesco De Sanctis, che nella sua Storia della letteratura italiana ravvisa nel libro il caposaldo del realismo moderno, riconoscendo nello spirito tutto terreno e laico di Boccaccio (una sorta di anti-Dante) il vero precursore del naturalismo rinascimentale. Lo stesso De Sanctis pone la questione dell’unità dell’opera: non semplice collezione di novelle ma libro compatto, ispirato ad una ristretta gamma di motivi ricorrenti: la celebrazione dell’ingegno, il gusto umanistico per il ‘saper parlare’, l’esaltazione della sensualità, la meditazione sull’instabilità dei destini umani. Su questi due problemi – il ‘nuovo’ realismo boccacciano e gli elementi unitari del Decameron – hanno continuato a interrogarsi gli studiosi novecenteschi: ed entro una vastissima produzione critica si ricordi almeno il volume di Vittòre Branca Boccaccio medievale (1956, e successive riedizioni), nel cui solco si colloca buona parte dei contributi più recenti. 70