Picchio OLTRE KEYNES

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Picchio OLTRE KEYNES
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Articolo-intervista pubblicato su Fine Secolo, n 2/3 anno IV, 1998
“
Oltre keynes?
Antonella Picchio
Universitá di Modena e Reggio Emilia
Keynes, come tutti i grandi autori, costituisce un punto di riferimento usato, sia in
negativo che in positivo, per precisare visioni del sistema economico e per proporre
politiche di intervento pubblico. Come spesso succede in questo gioco di
contrapposizioni o affidamenti, il punto di riferimento risulta spesso semplificato fino al
punto da non essere piu’ riconoscibile. Da questa semplificazione deriva anche un forte
rischio di riduttivismo delle nuove prospettive.
Attualmente Keynes rischia di essere usato come puntello per riuscire a proporre
politiche economiche che hanno perso di legittimità nel dibattito politico e teorico
contemporaneo: da un lato, per un forte deterioramento dei rapporti di forza tra classi e,
dall’altro, per l’emergere di modificazioni strutturali che Keynes aveva esplicitamente
escluso dal suo quadro analitico. Se non si affrontano esplicitamente tutti e due questi
aspetti - il mutamento dei rapporti di forza ed i cambiamenti strutturali - le nuove
proposte di politica economica sono destinate ad essere inefficaci.
Per essere piu’ esplicita: se non si affronta il problema della crescita di potere delle
imprese e degli operatori finanziari nello stabilire i margini e la struttura dell’intervento
pubblico, si continuerà a porre come condizioni oggettive quelle che sono in realtà
condizioni politiche (nel senso ampio di rapporti di forza tra classi e gruppi sociali).
Per domanda effettiva si intende la capacità di pagare e non i bisogni ed i desideri di
consumo. Il suo livello e struttura dipendono quindi dalla distribuzione del reddito.
Keynes adotta una teoria della distribuzione di tipo neoclassico in cui le quote
distributive sono determinabili oggettivamente. Altre teorie (Smith, Ricardo, Marx,
Sraffa) sostengono invece che le quote distributive sono date dalle regole sociali che
riflettono lo stato e la dinamica dei rapporti di forza e i filtri di accesso al reddito.
Storicamente alcune sezioni della popolazione accedono al prodotto sociale attraverso
titoli di proprietà, su beni reali e finanziari; altre, attraverso il lavoro salariato; altre
ancora, attraverso trasferimenti pubblici o familiari. In tutti e tre casi, come Smith ed
altri economisti classici insegnano, la quota di prodotto sociale ricevuta non dipende dalla
quantità di lavoro erogato dalle singole sezioni, ma dalle regole e dalle convenzioni in
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base alle quali viene spartito il prodotto sociale netto una volta che siano stati pagati i
costi di produzione. Il profitto sul capitale anticipato costituisce, in queste teorie, un titolo
distributivo ma non un contributo produttivo autonomo, lo stesso vale per la rendita,
agraria o finanziaria.
La teoria della distribuzione presa come riferimento non è neutrale rispetto all’analisi
della domanda aggregata e delle politiche di occupazione. Per teoria della distribuzione
non si intende l’analisi dello stato delle diseguaglianze dei redditi personali, delle quali
tenere conto (talvolta) per questioni di equità, ma anche, e soprattutto, l’analisi delle
cause delle diseguaglianze persistenti e funzionali tra gruppi sociali; queste appartengono
alla questione dell’ efficienza del sistema economico.
Inoltre, le politiche di sostegno all’occupazione, attivate da interventi sulla spesa,
non possono prescindere dai profondi mutamenti avvenuti negli ultimi decenni nella
struttura dei mercati e del mercato del lavoro in particolare. Non si tratta più di analizzare
l’inpatto di variazioni dei livelli di attività economica su di una forza lavoro più o meno
definita in termini di quantità e caratteristiche: ad esempio, maschi adulti età 15-65 che
contrattano collettivamente, attraverso i loro rappresentanti sindacali, un rapporto di
lavoro standard in termini di ore, salario diretto e sicurezza sociale. L’offerta e la
domanda di lavoro attualmente si giocano sull’intera popolazione lavoratrice – attiva e
non attiva – e su contratti che sempre più spesso sfuggono a regole collettive e si giocano
su rapporti di forza individuali, forti o deboli che siano. La contrattazione si è riaperta a
tutto campo: su tempi e condizioni di lavoro, salari, diritti e sicurezze; si cumulano
posizioni lavorative, si lavora in età che superano i limiti delle età “legali”. Si stanno in
realtà modificando le relazioni tra chi sta fuori e chi sta dentro al mercato del lavoro.
Nella teoria keynesiana, e neoclassica in generale, la flessibilita’ dell’offerta di lavoro
rispetto alle variazioni del salario riguardava esclusivamente chi era considerato dentro al
mercato del lavoro e non ci si poneva il problema della popolazione lavoratrice nel suo
complesso.1 La piena occupazione veniva definita in base a fattori demografici ed era
considerata un dato.
Le attuali modificazioni dell’offerta di lavoro femminile, delle età di entrata ed uscita
nel mercato del lavoro, del sistema delle regole e della distribuzione del reddito tra classi,
si collocano quindi al di fuori dell’analisi keynesiana.
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Sulla consapevolezza di Keynes sulla “extreme vagueness” con cui vengono trattati salari e offerta di lavoro negli
economisti che lo precedono a Cambridge – ad esempio, Pigou – si veda la lettera a Hawtrey del 28 maggio ’36 in
Moggridge, ed. John Maynard keynes: the General Theory and After. Part II, Defence and Development, Macmillan,
1987, pp. 35-37.
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Le imprese usano la nuova flessibilità per ridurre i costi del lavoro giocando non solo
sui salari ( non necessariamente bassi ), ma sulla riduzione –legale od illegale - degli
oneri sociali. I lavoratori e le lavoratrici, invece, usano la flessibilità a sostegno degli
standards di vita: sia nel caso di livelli bassi di sussistenza che nel caso di aspirazioni
crescenti a livelli alti di consumi di “lusso”. I livelli di vita vengono difesi con un
aumento della quantità di lavoro, pagato e non pagato. I rapporti di lavoro sono
improntati ad una crescente insicurezza poiché la flessibilità del mercato del lavoro si
traduce in una crescente precarietà. In realtà, flessibilità e precarietà non sono
necessariamente legate, ma attualmente sono entrambe segnate dal deterioramento dei
rapporti di forza e sono le imprese ed i rischi (e gli appetiti) finanziari che definiscono la
flessibilità in termini di riduzioni dei costi e deresponsabilizzazione rispetto ai rischi
sociali. La precarietà porta ad un immiserimento del “capitale sociale” ed, in alcuni casi,
anche a rigidità, per esempio nella mobilità geografica. La famiglia come nucleo di
erogazione di servizi essenziali, la mancanza di alloggi disponibili ad affitti bassi, il costo
e l’inadeguatezza dei trasporti, rendono difficili gli spostamenti geografici.
Tutto ciò significa che attualmente le politiche pubbliche di sostegno all'occupazione
per essere efficaci devono porsi in modo esplicito anche il problema della distribuzione
del reddito, delle regole contrattuali, delle infrastrutture, dei servizi pubblici e, in
generale, delle condizioni effettive di vita. Si tratta, quindi, non di “tornare a Keynes” ma
di superarlo.
E’ tuttavia
utile riprendere alcuni punti di forza della spinta progressista del
liberale, e talvolta conservatore, Keynes. Innanzitutto e’ necessario recuperare, seguendo
il suo metodo scientifico, il senso sociale della riflessione analitica e il pragmatismo delle
politiche economiche. Le soluzioni precostituite non funzionano. I problemi devono
essere esplicitati, le possibili soluzioni calibrate rispetto ai problemi e le responsabilita’
devono essere chiare in termini di obiettivi e di risultati. Questo ultimo aspetto assume
una particolare importanza nel caso dell’adozione di politiche keynesiane in Italia. Le
differenze nell’idea di stato e delle responsabilita’ dei cittadini rispetto alle regole della
convivenza civile tra l’Inghilterra degli anni 30 e l’Italia degli anni 90 sono tali da
rendere le ricette keynesiane di difficile attuazione per la difficoltà di reperire alcuni
ingredienti di base. Da un lato, abbiamo un eccesso di delega allo stato ed un apparato
statale che ha brillato per capacità di appropriazione privata delle risorse pubbliche;
dall’altro, abbiamo una privatizzazione familista delle responsabilità verso la convivenza.
Per fare un esempio, si buttano le carte per terra per strada e si richiedono pavimenti
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lucidi nelle case. Le responsabilità finali rispetto alla qualità del vivere – materiale e
relazionale - sono scaricate nella sfera domestica e ricadono pesantemente soprattutto
sulle donne che erogano una massa di lavoro non pagato che, come le statistiche ormai
mostrano, supera il totale del lavoro pagato di uomini e donne.
Polemiche provinciali e domestiche a parte, è importante ricordare che l’opera di
Keynes si colloca in un momento storico di grande scetticismo rispetto alle virtu’
salvifiche del “mercato” e di sperimentazione rispetto alla capacita’ dello stato di
assumere responsabilita’ importanti in materia di una sempre più evidente “questione
sociale”. Negli ultimi decenni dell’800 e nei primi anni del 900
lo stato veniva visto,
anche da alcuni conservatori, come uno strumento possibile di razionalizzazione e di
ingegneria sociale. In seguito, le due guerre mondiali se da un lato hanno affossato ogni
ottimismo, dall’altro hanno contribuito a diffondere una certa consapevolezza della
dimensione dei “fallimenti del mercato” e a rafforzare l’apparato statale. Il nascere
dell’economia sovietica, infine, ha posto il sistema liberale di fronte ad un sistema di
pianificazione socialista concorrente e tanto potente da attivare una produzione bellica in
grado di dare un contributo decisivo alla vittoria contro la Germania nazista ed i suoi
alleati.
Keynes quindi non era isolato. A livello di politiche del lavoro la questione della
necessita’ di una responsabilizzazione dello stato rispetto alle condizioni di vita della
popolazione lavoratrice e alla ricorrente disoccupazione di sezioni forti di lavoratori
salariati era stata posta nel Rapporto di Minoranza della Commissione sulle Poor Laws
del 1905-1909 e nella campagna di intervento pubblico che Beatrice e Sydney Webb,
Shaw ed altri fabiani avevano lanciato nel 1910. Nel Rapporto e nella campagna di
sensibilizzazione si affrontavano in una nuova prospettiva alcuni problemi strutturali del
mercato del lavoro (disoccupazione, bassi salari, insicurezza sociale, condizioni di vita
tali da creare trappole di povertà ed emarginazione). Inoltre si proponevano un intervento
dello stato in direzione di un sostegno “normale” ai lavoratori salariati (maschi adulti) ed
una ristrutturazione del sistema assistenziale (dove si lasciavano le donne adulte
casalinghe). La Commissione del 1905 si era spaccata proprio sulla questione di sottrarre
i lavoratori salariati (maschi) alle politiche di assistenza ai poveri e sulla costruzione di
un apparato pubblico nazionale in grado di indicare regole e prassi di intervento pubblico
in sostituzione dell’intervento locale delle Organizzazioni Caritatevoli. All’inizio del
secolo, quindi, si indicava una direzione opposta a quella seguita dalle politiche sociali di
fine secolo.
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Nel proporrre un ritorno a Keynes ci si dovrebbe quindi porre il problema di mutare
la direzione della corrente. Non si può da un lato lanciare qualche sassolino di spesa
pubblica a sostegno dell’occupazione e dall’altra aprire dighe, a monte, in materia di
distribuzione del reddito, assetti sociali e norme, ed in generale di sicurezza sociale.
La questione della spesa pubblica appartiene al campo delle responsabilita’ civili
verso il benessere collettivo e delle mediazioni politiche. Come tale era vista da Keynes
anche quando, negli anni ‘30, concentrava lo sforzo analitico nell’individuare, nella
“cittadella” della teoria economica dominante, uno spazio teorico in grado di legittimare
l’intervento pubblico; in diretta contrapposizione con il determinismo e l’individualismo
metodologico dell’analisi dei mercati neoclassica. Secondo Keynes, i mercati della
moneta, degli investimenti e del lavoro non si aggiustano automaticamente a livelli di
piena occupazione delle risorse. La disoccupazione di massa, e la “poverta’
nell’abbondanza” sono i segni evidenti di una tensione tra interessi individuali e
benessere collettivo. La sua proposta di soluzione non è quella di invitare a sacrifici in
nome della solidarietà sociale, ma è quella di svelare agli agenti economici (imprenditori
compresi) gli effetti macroeconomici delle loro azioni, legittime ma contradditorie. Per
far questo ricorre ad una visione circolare della determinazione del reddito e all’uso di
alcuni paradossi: l’individuo che aumenta la sua propensione al risparmio diventa più
ricco, ma il sistema in generale non aumenta il livello di risparmio perché non aumenta la
ricchezza collettiva. Il risparmio non dipende da aspetti monetari (il tasso di interesse) ma
da decisioni di spesa effettiva e dal livello del reddito. In un sistema basato sulla
produzione di merci, gli interventi monetari hanno effetti reali solo se si trasformano alla
fine in aumento della spesa effettiva. In questo contesto i titoli finanziari sono puramente
titoli di accesso ad una redistribuzione del reddito, ma non sono in se stessi strumenti di
crescita del reddito. Anzi, se spiazzano consumi ed investimenti reali sono strumenti di
riduzione del reddito.
In un periodo, come quello attuale, di trionfalismo e dogmatismo sulla capacita’ dei
mercati di massimizzare il benessere sociale e di “illusioni monetarie” e’ senz’altro utile
tornare a Keynes ed al suo sano scetticismo, quanto meno per battere l’idea dominante di
un individualismo autistico ed irresponsabile. La teoria per Keynes non e’ separata dalle
politiche e neppure dall’etica. I tre piani sono metodologicamente indissolubili e su
questo un ritorno a Keynes sarebbe davvero “rivoluzionario”. Sotto questo aspetto egli si
colloca nel mondo culturale e scientifico di Cambridge e mantiene una affinita’ di intenti
con Marshall, pur essendo lontano dal suo moralismo vittoriano.
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L’analisi del mercato della moneta e degli investimenti e’ per Keynes strumentale
all’analisi della piena occupazione, come ribadisce con enfasi in una lettera a Hawtrey:
“But, heavens, my doctrine of full employment is what the whole of my book is about!
Everything else is a side issue to that.” 2L’obiettivo della Teoria Generale e’quindi quello
di attuare uno spostamento teorico in materia di teoria dell’occupazione in grado di
individuare lo spazio per
politiche di intervento pubblico finalizzate alla piena
occupazione. Questo obiettivo deve essere ora recuperato alla luce di una analisi del
mercato del lavoro più ampia per quanto riguarda la struttura dell’offerta e della domanda
di lavoro e più approfondita per quanto riguarda la distribuzione esogena del reddito ed il
ruolo che gli standards di vita hanno nella determinazione delle condizioni di scambio del
lavoro.
Keynes, in effetti, riconosce l’importanza degli standards di vita. In un articolo
pubblicato sulla Eugenics Review, nel 1937,3 motivato dalle preoccupazioni legate alla
diminuzione del tasso di crescita demografica, afferma che la quantità della popolazione e
gli standards di vita sono una delle componenti essenziali della domanda di capitale. Le
sue considerazioni si mantengono, tuttavia, nell’ambito dell’analisi della circolazione
delle merci e non entrano nella questione della tensione tra standards di vita della
popolazione lavoratrice e profitti o nelle ragioni dello “sciopero dei figli” – come lo
definivano i coniugi Titmuss - in corso in Inghilterra.
E’ importante notare che il concetto di standard di vita è più ampio di quello di
salario; cosi’ come il concetto di popolazione lavoratrice è più ampio di quello di piena
occupazione. Il concetto di standard di vita è un concetto per sua natura
multidimensionale perché riflette la complessità del processo sociale di riproduzione
umana.
L’attenzione alle condizioni e ad il senso del vivere costituisce una delle
fondazioni del pensiero occidentale, ancora molto vivo nel pensiero dei teorici sociali che
hanno portato alla nascita della scienza economica nel ‘700. Gli economisti attuali lo
riducono a un pacchetto di beni di consumo e lo vedono come processo finale degli altri
processi economici, come un risultato dipendente dalle decisioni di produzione e dalle
pratiche distributive e di scambio dei beni. Le tensioni tra produzione di merci e
riproduzione sociale delle persone, sia in termini quantitativi che qualitativi, si assume
che si ‘aggiustino’, attraverso un processo di adattamento e mortificazione delle
aspirazioni, che ha luogo soprattutto nella sfera familiare privata. Solo al livello di
emarginazione sociale e di analisi della povertà, quando i rapporti di forza sociale sono
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Op. cit., p. 24.
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per definizione deboli, si è disposti (talvolta) a scoprire la complessità delle condizioni di
vita e delle motivazioni umane e a cercare degli indicatori sociali più adeguati. In realtà,
la multidimensionalità del concetto di standard di vita e del processo di riproduzione
sociale è tale da fare esplodere, se adeguatamente inserita nell’analisi generale del
sistema economico, il riduttivismo economicista.
Keynes ha un forte senso del limite e circoscrive con determinatezza i confini della
sua intrapresa teorica. Il processo di cui si occupa e’ la circolazione delle merci, il
fenomeno e’ quello della domanda aggregata ed il tempo e’ il breve periodo. L’analisi
della produzione e dei livelli di attivita’ e’ prudentemente chiusa in questa prospettiva. Il
terreno dello standard di vita ed, in particolare, delle condizioni di riproduzione sociale
della popolazione lavoratrice costituisce, a mio avviso, la linea di superamento
dell’analisi keynesiana. Proprio le politiche espansive keynesiane del dopoguerra hanno
contribuito a sedimentare livelli di vita ed aspettative che hanno modificato le relazioni
sociale tra classi, generi e generazioni.
Non sono cambiati solo
i parametri delle
relazioni funzionali tra salari ed occupazione, reddito ed occupazione ma le relazioni
stesse. Sono mutate la struttura della popolazione lavoratrice, le abitudini, i gusti e le
convenzioni sociali sulle quali si basano le relazioni interpersonali e collettive che
sostengono il processo di riproduzione sociale e, quindi, dell’offerta di lavoro.
La crescita di potere rischia di trasformarsi in una trappola se non si raggiunge un
grado sufficiente di consapevolezza delle reazioni che gli spostamenti del terreno
profondo delle condizioni di vita dei lavoratori storicamente hanno sempre scatenato
nelle classi dominanti. Gli anni ‘60 e ’70 sono serviti a mostrare che il livello delle
tensioni sociali si era spostato al di la delle mediazioni keynesiane. Si erano messi in
moto mutamenti negli assetti distributivi, nei modi di vita e nei rapporti di forza politici.
A livello internaziole, il terreno dell’azione politica si era aperto a nuovi soggetti e
movimenti. Tuttavia, prima in nome di pretese scarsità naturali (il petrolio, nel 1975), poi
con una reazione visibilmente vendicativa, i gruppi dominanti nazionali e multinazionali,
appoggiati da governi conservatori, sono riusciti, negli anni ’80, ad attuare un radicale
cambiamento di rotta e a mortificare le aspirazioni verso un continuo miglioramento delle
condizioni di vita.
La battuta d’arresto veniva resa possibile anche dalle crescenti difficoltà delle
economie dei paesi socialisti che, tra l’altro, si mostravano anche sulla loro incapacità di
trasformare la crescita economica in un miglioramento degli standards di vita della
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Op. cit., pp. 124-33
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popolazione lavoratrice. Sul piano economico: la mancanza di case, l’impossibilità di
viaggiare, la monotonia e la scarsità dei beni di beni di consumo con la conseguente
accumulazione di risparmio indesiderato; sul piano politico: le frustrazioni di una
rappresentanza politica incapace di aprire ad
una diversa relazione tra individuo e
società, e la rimozione della questione della differenza di genere, data per risolta
dall’emancipazione, hanno facilitato un’implosione dei sistemi socialisti. 4
Negli anni ‘80 il pretesto per l’abbandono delle politiche keynesiane è stata la crisi
fiscale degli stati, la crescita del debito pubblico e gli alti tassi di inflazione. Problemi
reali, direttamente legati ai movimenti distributivi delle quote di profitti e salari, non
tuttavia evidenziati come tali, per il ricorso ad una teoria dei mercati, diventata sempre
più dogmatica e dominante, che si limita alle condizioni di concorrenza a scapito
dell’analisi della dinamica strutturale e che assume una determinazione “oggettiva” delle
quote distributive.
Il dibattito si è quindi chiuso in una dimensione contabile dalla quale fatica ad
uscire. Per usare una metafora domestica: i bilanci familiari richiedono senz’altro
oculatezza ed un pareggio dei conti, ma la gestione familiare sarebbe del tutto
fallimentare se non si ponesse il problema di creare le condizioni di crescita e
sostenibilità fisica e psicologica dei membri della famiglia e se sistematicamente
mortificasse le loro identità ed aspirazioni nel riduzionismo dei conti della spesa
quotidiani. Ancora più disastroso sarebbe far finta di non vedere che il capofamiglia si
gioca il reddito familiare nel gioco d’azzardo.
La storia del pensiero economico ci offre momenti molto più alti di dibattito sulle
questioni del debito, dei prezzi e della relazione tra sviluppo delle capacità umane e
produzione di risorse (es: Steuart, Smith, Marx), di quanto non faccia la teoria
attualmente dominante che, come dice Heilbroner, è più preoccupata a costruire
monumenti formali che ad indagare sui fondamenti dei sistemi economici e ad inseguire
le ultime mode piuttosto che a cercare riflessioni utili nella storia del pensiero economico.
Standards di vita, struttura della popolazione e rapporti di forza tra classi (e,
attualizzando, tra generi) sono categorie necessarie per cogliere la dimensione
dell’adeguatezza dei salari e la dinamica del mercato del lavoro. I salari sono il filtro di
accesso alla sussistenza da parte della popolazione lavoratrice che costituisce, a sua volta,
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Per altro, la situazione attuale di terra di conquista senza regole sta nuovamente mostrando in Russia
l’insostenibilità di un sistema economico irresponsabile rispetto alle condizioni di vita della popolazione
lavoratrice.
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il capitale sociale. Le condizioni di vita e le condizioni di lavoro si intrecciano in modo
indissolubile dando luogo ad una produttività che è data dalle relazioni sociali e non solo
da quelle tecniche alle quali generalmente si limita il dibattito degli economisti. E’
l’adeguatezza dei salari alle aspettative e al senso di giustizia e di convenzioni sociali ad
attivare il consenso dei lavoratori, elemento essenziale della loro produttività. Questo
aspetto del mercato del lavoro, che costituisce il fondamento degli economisti classici
(intesi come teorici del profitto come sovrappiù), si è perso nell’analisi del mercato del
lavoro neoclassico o viene mantenuto solo come pallido riflesso in analisi ad hoc, che, in
quanto tali, non modificano la teoria generale della distribuzione e dell’occupazione.5
Keynes analizza i salari in una visione circolare del reddito. I consumi dei lavoratori
sono la componente maggiore della domanda effettiva: gli imprenditori guadagnano ciò
che i salariati spendono. Per questo in periodi di recessione le politiche di flessibilità del
salario verso il basso, oltre a non essere facilmente attuabili e politicamente opportune,
risultano controproducenti.
Nel caso degli standards di vita dell’intera popolazione lavoratrice una prospettiva
che si limita al problema della vendita delle merci prodotte risulta riduttiva. Le condizioni
di vita delle varie sezioni della popolazione – disaggregate per sesso ed età - si
intrecciano in un unico processo che determina non solo l’offerta di lavoro ma anche la
sostenibilità sociale. Puntare ad un controllo sul lavoro fondato su di un’insicurezza
generale e sull’esclusione e alla persistente frustrazione di molti, porta a rotture laceranti
nelle relazioni sociali che alla fine si ripercuotono sull’ efficienza del sistema economico.
Conflitti, depressioni, atteggiamenti autodistruttivi, tensioni sociali, non riescono ad
essere a lungo mantenuti al di fuori dei luoghi del lavoro salariato. Per altro, al di là di
ogni miopia individualistica, gli standards di vita, in termini quantitativi e qualitativi,
possono essere un mercato potenzialmente inesauribile; non solo in termini di beni e
servizi di lusso per alcune sezioni privilegiate, ma in termini di un miglioramento
generale. Essi sono certo uno sbocco più positivo delle guerre che, da un lato, dimostrano
l’applicabilità delle politiche keynesiane e, dall’altro, l’insensatezza del sistema
produttivo.
Avendo preparato il terreno, tenterò ora di rispondere in modo più diretto alle ultime
tre domande, modificandone tuttavia l’ordine.
Per quanto riguarda Amartya Sen, a mio avviso, egli rappresenta attualmente un
punto di riferimento importante. Innanzitutto, rifonda la visione del sistema economico
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E’ questo, ad esempio, il caso dei salari di efficienza.
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sulle sue radici filosofiche e non separa la teoria dall’etica, pur muovendosi anche sul
piano della logica formale. Sotto questo aspetto raccoglie la tradizione di Cambridge
dove ha studiato e dove è tornato recentemente come Master del Trinity College.
Inoltre, oltre alla critica delle fondazioni utilitaristiche della teoria del benessere,
Sen concentra il sforzo analitico sul ritorno ad una prospettiva umanistica profondamente
radicata nella filosofia classica e nella domanda “come dobbiamo vivere?”. Ciò che lo
interessa è lo studio dell’uomo e la sua relazione con le merci. Nel suo approccio le merci
sono viste come strumentali rispetto all’uomo e non viceversa; recupera, quindi, una
prospettiva analitica focalizzata sugli standards di vita e non solo solo sull’allocazione
delle merci. In questo contesto, la sua teoria delle capacità e delle funzioni umane
espande l’analisi dei consumi e del reddito: l’uso delle merci e del reddito, come
aggregato monetario, viene esteso agli effetti sull’uomo e sulle sue relazioni con il
contesto sociale dal quale ricava non solo “vincoli” ma anche la propria identità – definita
in relazione e confronto con altri - ed un sistema di responsabilità, regole e di titoli di
accesso alle risorse, storicamente dati.
L’analisi delle diseguaglianze, della povertà e dell’esclusione sociale, alla quale Sen
ha dedicato molte energie, risulta arricchita da una prospettiva multidimensionale che
segna anche la sua ricerca di strumenti di misurazione empirica adeguati. Nell’analisi
empirica, fondamentale nella scienza economica, mantiene
una prudenza classica e
mostra una consapevolezza – attualmente rara – della necessità di distinguere tra ciò che
si può misurare quantitativamente e ciò che richiede una gamma di sfumature qualitative.
A differenza di tanti altri economisti, quindi, non riduce lo scopo della sua analisi,
rimuovendo aspetti importanti della realtà, per l’inadeguatezza degli strumenti
quantitativi disponibili. Cerca, invece, come tutti i buoni artigiani e filosofi, di costruire
nuovi strumenti in grado di affrontarla.
Last but not least, Sen, è uno dei pochi economisti che riconosce e valorizza
l’esistenza di un soggetto intellettuale femminile forte ed un approccio di genere in grado
di modificare le prospettive analitiche. In una corporazione accademica, a livello
internazionale, particolarmente sciovinista e incapace di autoriflessione rispetto alle
trasformazioni storiche in
corso, il suo esplicito appoggio alle scienziate sociali
femministe e la sua permeabilità intellettuale, costituiscono aiuti preziosi, oltre che segni
di sicurezza. Tra l’altro, Sen è nel comitato di redazione della rivista “Feminist
Economics” (Routledge) e difende uno spazio alle questioni di genere nei “Rapporti
sullo sviluppo umano”, pubblicati anualmente dal United Nations Development Program
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(UNDP).
Detto questo, a mio avviso, il suo approccio rimane microeconomico e non vede - o
quanto meno non dice - il profondo conflitto che segna, a livello sociale, le relazioni di
classe e di genere proprio sul tereno delle condizioni di vita, materiali e simboliche. Gli
standards di vita sono il centro di una conflitto profondo inerente alla natura del lavoro
salariato che pone nell’insicurezza la fonte del comando sul lavoro e nell’accumulazione
del profitto il senso del processo produttivo. A questo riguardo Sen riattraversa Aristotele
e Smith, ma non Marx.
Recuperare il terreno analitico degli standards di vita significa anche recuperare un
terreno politico ed individuare nuovi soggetti. Il nuovo sviluppo può derivare solo da una
pratica di effettivo spostamento rispetto al senso dell’azione economica e di
legittimazione dei nuovi soggetti che pongono le condizioni di vita, materiali e
simboliche, come obiettivo prioritario, non solo a livello individuale ex-post, ma come
azione sociale, ex-ante.
Rispetto al dibattito in corso, ciò significa porre la questione della verifica degli
effetti finali degli interventi pubblici in termini di condizioni di vita effettive e non solo
di occupazione e produzione. Significa anche attivare iniziativa economica e politica
direttamente motivata dal miglioramento delle relazioni sociali e della qualità della vita
individuale e collettiva. Il problema dei filtri di accesso al reddito e di distribuzione della
ricchezza sociale non riguarda solo i disoccupati, ma l’intera popolazione lavoratrice e
non riguarda solo il lavoro produttivo di merci e servizi per il mercato, ma anche il lavoro
sociale impiegato nel difendere e potenziare, rispondendo ad una crescita di aspirazioni,
le condizioni della convivenza civile. In questa luce, ad esempio, la questione dei lavori
“socialmente utili”, attualmente posta all’interno di tradizionali politiche di sostegno ai
disoccupati, dovrebbe essere posta in una prospettiva esplicita, ragionata, normale - non
emergenziale e marginale - di sostegno al processo di riproduzione sociale in grado di
attivare gli “animal spirits” e la creatività di molti soggetti sociali e di ripercorrere le reti
di relazioni proprie di questo processo. Si tratta di attivare uno “sviluppo umano
sostenibile” per le economie avanzate, operando non solo in un’ottica di solidarietà
all’esclusione sociale, ma anche in una prospettiva pragmatica di ricerca di senso e di una
relazione meno tesa e distruttiva tra produzione di merci e riproduzione sociale della
popolazione. Si tratta, ovviamente, di un terreno nuovo da esplorare e da dissodare, ma è
probabilmente sulla capacità di compiere questo spostamento che si gioca un possibile
nuovo stadio dello sviluppo umano. Per altro, come Smith insegna, i grandi stadi dello
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sviluppo –caccia, pastorizia, agricoltura, mercato – sono definiti proprio dalle
trasformazioni, storicamente date, della relazione tra produzione e riproduzione sociale
della popolazione.
Rispondendo alla domanda numero 4, mi rimane solo da aggiungere che, a mio
avviso, il concetto di piena occupazione è troppo riduttivo e “keynesiano’, vale a dire
inadeguato a cogliere le trasformazioni strutturali dell’offerta di lavoro, intesa come
risultato di una processo di riproduzione sociale della popolazione lavoratrice attualmente
attraversato da movimenti profondi. Non si tratta di mischiare in proporzioni
più
egualitarie uomini e donne nel mercato del lavoro, ma di svelare la natura e le insicurezze
profonde del mercato del lavoro anche alla luce dell’esperienza e delle tensioni delle
relazioni tra uomini e donne. Non si tratta, quindi, solo di una operazione di immissione
delle donne nel lavoro maschile, né di trasformare il processo di riproduzione in un
nuovo mercato dei servizi alla persona, fondato sullo sfruttamento di chi ci lavora –
magari donne immigrate - e sull’esclusione di chi non può accedervi per mancanza di
capacità di pagare, ma di trovare un nuovo terreno di intreccio tra famiglia, stato e
mercato. L’intreccio tra tempi di vita e tempi di lavoro non è una questione femminile ma
appartiene alle questioni non risolte, e generalmente non poste, del sistema capitalistico;
in ogni caso la questione dei tempi non può prescindere da un problema più profondo di
distribuzione del reddito e di finalità della produzione.
Infine, le nuove prospettive sullo sviluppo umano non possono prescindere, se non a
prezzo di una grottesca arroganza e cecità, dall’esperienza delle donne, nella realtà dei
processi economici e nella loro elaborazione analitica. La piena legittimazione di un
nuovo soggetto sulla scena politica e teorica non può che coincidere con uno spostamento
del terreno del possibile e del dicibile; a patto che il nuovo soggetto porti la ricchezza
della propria esperienza e non pretenda una omologazione riduttiva ed insostenibile.
Come sempre nelle trasformazioni dei processi umani, i processi non possono essere che
reali, pragmatici ed elaborati a livello simbolico. Le trasformazioni in atto sono sempre
difficili da svelare, si può tuttavia affermare che tutte le istituzioni fondamentali
dell’attuale sistema - famiglia, stato e mercato – ne sono toccate. La qualità delle
trasformazioni dipende dal livello delle mediazioni sociali che a loro volta dipendono
dalla visibilità e dall’apertura dei conflitti, non dalla loro rimozione. Si tratta di conflitti
agiti non solo sul terreno delle quantità di risorse prodotte, distribuite, e scambiate, ma
anche su quello delle relazioni tra individuo – connotato per genere – e società, del
senso dei processi economici, della divisione del lavoro e delle responsabilità e della
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rappresentanza politica.