Fumagalli_Il linguaggio economico e la crisi di oggi

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Fumagalli_Il linguaggio economico e la crisi di oggi
VIII Seminario Nazionale di
EDUCAZIONE
INTERCULTURALE
“Verso un nuovo umanesimo attraverso
la revisione dei curricoli scolastici europei”
5 / 6 / 7 Settembre 2014
SENIGALLIA
Andrea Fumagalli (Università di Pavia)
IL LINGUAGGIO ECONOMICO E LA CRISI DI OGGI
1. Le parole dell’Economia Politica
Ogni epoca economica porta con sé alcune parole guida che segnano il
senso, predeterminano il linguaggio e influenzano il pensiero economico.
a. Nel pensiero economico classico (1770-1870) le parole che predominano
sono essenzialmente le seguenti:
surplus, manifattura, lavoro (lavoro salariato e divisione del lavoro),
crisi analisi critica del nuovo paradigma di accumulazione nascita e
sviluppo del sistema capitalistico di produzione
distribuzione, rendita, profitto, salario analisi critica della
distribuzione del surplus
b. Nel pensiero economico marginalista-neoclassico (1870-1930), le parole
guida sono invece le seguenti:
scambio di mercato, utilità, individuo, benessere, equilibrio, risparmio.
c. Nel pensiero economico keynesiano e della sintesi neoclassica di Keynes
(1930-1975), le parole più ricorrenti sono:
moneta, settore pubblico, welfare, politica economico, investimento,
crescita economica, disoccupazione, domanda aggregata, Pil.
d. Nel pensiero economico neoliberista (1975-??), invece, troviamo:
individualismo, libero scambio, concorrenza, privatizzazione, politiche
anti-inflazione, austerity, merito, capitale umano, efficienza
2. I nodi teorici
Due sono i principali approcci allo studio dell’economia politica, fra loro
alternativi e non compatibili, che hanno caratterizzato il dibattito economico
contemporaneo, a partire alla nascita dell’Economia Politica con Adam
Smith.
Il primo è l’approccio definito dell’Equilibrio Economico Generale
(EEG) o individualistico , che a partire dalla fine del XIX secolo è divenuto
dominante e controlla il meccanismo di cooptazione nella ricerca e nelle
università, soprattutto anglosassoni.
A tale approccio si contrappone quello che fa riferimento all’idea di
economia politica come scienza sociale non riducibile ad un analisi
individualistica, detto anche approccio eterodosso o storico, che ha le sue
radici nel pensiero classico del XIX secolo, all’origine della stessa scienza
economica.
*****
La teoria individualista dell’EEG ricostruisce il funzionamento
dell’economia come risultato di una miriade di decisioni individuali,
decisioni che ogni attore economico prende in modo indipendente e
seguendo il proprie autonomo interesse. Essa ritiene che la società sia
composta da individui i quali, pur svolgendo funzioni economiche diverse
(esistono, imprenditori, lavoratori, consumatori, risparmiatori, e via
dicendo), hanno tutti accesso al mercato su un piano di parità. Il processo
economico che viene decritto non é altro che la risultante (tramite semplice
sommatoria) dei comportamenti individuali. Esso rappresenta la descrizione
di una società “atomistica”.
Il problema economico si riduce quindi allo studio delle condizioni di
allocazione ottimale individuale (tra fini alternativi) di risorse naturali
scarse date a priori. Questa famosa definizione di economia politica, che
risale a Leonel Robbins (1898-1984) e che oggi è diventata la “definizione”
per eccellenza della scienza economica contiene in nuce, di fatto, i principali
fundamentals dell’approccio dell’EEG. E’ di fatto una definizione che già
presuppone l’orientamento metodologico e analitico della scienza
economica: è dunque una definizione “di parte”. Ogni termine utilizzato,
infatti, è l’esito di una scelta di metodo e di un’opzione teorica. Il termine
allocazione implica che il processo economico è riducibile solo ad attività di
scambio: è lo scambio – ovvero, il consumo – che prevale sulla produzione,
sull’investimento, sul finanziamento. Siamo in presenza di un economia di
scambio. Gli attributi ottimale e individuale indicano che lo scambio è
l’esito di scelte razionali massimizzanti (teoria utilitaristica) fatte a livello
esclusivamente individuale, senza tener conto dei possibili effetti collaterali
(mutua indifferenza). La locuzione risorse naturali date ci ricorda che tutti i
beni che stanno alla base del benessere individuale derivano da risorse date
in natura, la cui quantità è indipendente all’agire discrezionale dell’uomo.
Di conseguenza, poiché la terrà (e la natura) è finita, si tratta di risorse per
definizione scarse.
Il periodo di maggiore diffusione e sviluppo dell’approccio dell’EEG è tra il
1870 e il 1930, quando lo scoppio della crisi del 1929-32 segnò la
disconferma dell’approccio in termini di equilibrio economico generale
(scambio di mercato, utilità, individuo, benessere, equilibrio,
risparmio).
Al giorno d'oggi, l'analisi individualista dell’EEG ha ripreso nuovo vigore
con le scuole dei nuovi classici e in parte con la scuola dei neokeynesiani
(questi ultimi si dichiarano seguaci del pensiero di J.M. Keynes, ma
insistono nel costruire la teoria macroeconomica partendo da fondamenti
rigorosamente microeconomici).
Nel corso del secondo dopoguerra ebbe la preminenza accademica
l’approccio definito della sintesi neoclassica di Keynes (J. Hicks, 19041989, P.A. Samuelson, nato nel 1915, e F. Modigliani, 1918-2003 ne furono
i principali interpreti), teso a costruire un sistema di equilibrio economico
generale (il modello IS-LM a prezzi costanti, di breve periodo, e il modello
AS-AD a prezzi flessibili, di medio e lungo periodo) in grado di giustificare
l’esistenza di un possibile equilibrio di sottoccupazione. La sintesi
neoclassica di Keynes ha rappresentato il pensiero economico dominante nel
periodo di egemonia del paradigma socio-economico fordista , nel quale
l’intervento keynesiano di welfare favoriva il processo di accumulazione
fondato sulla produzione e lo scambio di beni privati. (moneta, settore
pubblico, welfare, politica economico, investimento, crescita economica,
disoccupazione, domanda aggregata, Pil)
Con la crisi del fordismo, nella prima metà degli anni Settanta, ritornano in
auge le teorie dell’EEG più schierate a favore del libero mercato e contrarie
al ruolo di intervento discrezionale dello Stato. E’ a partire dagli anni ’80
sino ad oggi che l’approccio individualista ha ripreso il suo pieno vigore
grazie alle scuole monetariste (il cui capostipite è stato Milton Friedman,
1912-2006 con gli epigoni della cd. “Scuola di Chicago”) e delle aspettative
razionale (i cui maggiori esponenti sono R. Lucas, nato nel 1937 e T.
Sargent, nato nel 1943, che si sforzano di dimostrare come sia possibile
raggiungere un equilibrio ottimale grazie alle sole forze del libero scambio
di
mercato
(individualismo,
libero
scambio,
concorrenza,
privatizzazione, politiche anti-inflazione, austerity, merito, capitale
umano, efficienza).
L’attuale crisi economico-finanziaria, dopo anni di politiche di deregulation
in nome del libero e ottimale funzionamento degli scambi di mercato, ha
messo in crisi le posizioni più liberiste a vantaggio di quelle di derivazione
più keynesiana. Tuttavia, i fundamentals della teoria dell’EEG, pur
rielaborati in presenza di mercati non concorrenziali e in condizioni di
informazione incompleta e asimmetrica, non sono stati sottoposti a una
critica profonda. Ciò di cui si discute è piuttosto la necessità di introdurre
regole più o meno istituzionali.
L’impostazione alternativa (e originaria) dell’economia politica deriva dagli
economisti classici (Adam Smith, 1723-1790, David Ricardo 1772-1823,
Thomas R. Malthus, 1766-1834), nel pensiero di Marx (1818-1883), e in
una serie di autori successivi, da Knut Wicksell (1851-1926), a Joseph
Schumpeter (1883-1950) a John Maynard Keynes (1883-1946).
Tutti costoro hanno in comune l'idea che l’economia politica debba studiare
non già il comportamento del singolo individuo, ma quello dei gruppi che
compongono la società e ne determinano la struttura. Per comprendere il
funzionamento del sistema economico, dobbiamo chiederci quali sono le
condizioni necessarie affinché la sua struttura si perpetui nel tempo, senza
degenerare ed estinguersi. Una volta accertate queste condizioni di
riproduzione, possiamo dedurne il comportamento che devono tenere i
singoli (lavoratori, consumatori, imprese), affinché la struttura considerata
continui ad esistere.
L’approccio eterodosso presenta una visione della scienza economica che è
diametralmente opposta e inconciliabile con l’approccio individualistica
dell’EEG.
Secondo l’approccio eterodosso, la società è formata da gruppi distinti e
contrapposti, ciascuno dei quali occupa una posizione diversa e svolge ruoli
distinti. Il processo economico è costituito da diverse funzioni economiche,
ciascuna delle quali presuppone un ruolo sociale ben definito: la fase del
finanziamento (che consente l’avvio della produzione) viene svolta dal
sistema creditizio e dai rentier, quella della produzione è ad appannaggio
della classe degli imprenditori, l’attività di consumo è prevalentemente
svolta dalle classi lavoratrici. Nella visione degli economisti classici, i
proprietari terrieri si contrappongono agli imprenditori-capitalisti, i quali
possiedono i mezzi di produzione e sono in grado di gestire un'attività
produttiva, nonché ai lavoratori, i quali altro non possono fare che vendere il
proprio lavoro in cambio di un salario. Nella macroeconomia moderna, la
classe dei proprietari terrieri scompare e i gruppi di operatori presi in
considerazione sono banche, imprese e lavoratori. In questa teoria, l'analisi
del comportamento dei gruppi sociali prende il posto dell'analisi individuale:
soltanto dopo aver stabilito i confini tra le classi e gli obiettivi e le regole di
azione di ciascuna classe è possibile ricostruire il funzionamento dell'intero
processo economico. Tale strutturazione sociale è l’esito dell’evoluzione
storica. Occorre quindi sempre prendere in considerazione il momento
storico e le caratteristiche geografico-spaziali.
L’evoluzione storica definisce i limiti della teoria economica. La storia
dell'umanità ha conosciuto diverse strutture economiche, dall'economia
schiavistica all'economia feudale, all’economia capitalistica di mercato,
all'economia socialista. Ognuna di queste forme storiche esige una teoria
economica diversa: non esiste quindi una teoria che sia in grado di spiegare
il funzionamento di tutti i sistemi economici e che possieda validità
universale.
Il contesto economico attuale nei paesi occidentali, a seguito della
rivoluzione industriale inglese e della rivoluzione francese di fine secolo
XVIII, è caratterizzato dalla preminenza del sistema capitalistico di
produzione. Ciò significa che la teoria economica ha come ragione d’essere
lo studio e l’analisi del capitalismo. Il sistema capitalistico si svolge sulla
base di un processo economico costituito da alcune fasi sequenziali e
unidirezionali: finanziamento, accumulazione (produzione), realizzazione
(consumo). Gli imprenditori, come si è detto, sono mossi dall’intento di
accrescere la propria ricchezza. Poiché essi gestiscono le attività produttive,
questa diventa anche la finalità dell'intero processo economico.
L’imprenditore acquista lavoro allo scopo di ottenere un prodotto, venderlo
e realizzare un profitto. Lo scopo della produzione è la realizzazione del
profitto, non già il benessere dei consumatori. Il consumo ha la sola
funzione di tenere in vita il lavoratore, che per il capitalista è una risorsa
produttiva come le altre. L’attività economica si configura come un
processo circolare: dalla produzione di merci, al consumo (che serve alla
riproduzione dei lavoratori), al conseguimento di profitti, all'acquisto di
nuove risorse, produzione di nuove merci, e così via in un ciclo continuo, in
grado di sviluppare attività di accumulazione.
Infine, la teoria eterodossa parte dalla constatazione che l'economia
moderna è un'economia monetaria. Ciò comporta che tutti gli scambi
vengono regolati in moneta e pone immediatamente il problema di stabilire
come la moneta venga creata e introdotta nel sistema economico. Nelle
economie moderne la moneta viene creata dal sistema bancario e messa a
disposizione degli operatori attraverso la concessione di crediti. Poiché
soltanto chi dispone di moneta può accedere al mercato, le decisioni con cui
le banche concedono credito ad alcuni soggetti e non ad altri e la misura in
cui il credito viene concesso diventano decisive per la configurazione finale
del sistema economico. La creazione di moneta contribuisce quindi a
determinare le quantità prodotte e la distribuzione del reddito nazionale. Di
conseguenza, la moneta non può essere neutrale.
*****
Le differenza principale tra le due impostazione si può ridurre al fatto che
l’approccio dell’EEG descrive i funzionamento di un’economia di scambio:
merce-denaro-merce, ovvero di un processo economico il cui scopo è
l’allocazione di merci e servizi tramite la logica della domanda e dell’offerta
(scambio), mentre l’approccio eterodosso descrive il funzionamento di
un’economia monetaria di produzione: denaro-merce-denaro, il cui scopo e
la generazione di un sovrappiù, espresso in termini monetari (profitto
monetario) tramite un processo di accumulazione che ha origine nell’attività
di investimento e quindi di produzione.
Nel caso di un’economia di scambio, sono le condizioni di scambio a
determinare le modalità di produzione, mentre nel caso di un’economia
monetaria di produzione sono le condizione di investimento e di
accumulazione (via produzione) a definire le modalità dello scambio.
3. La crisi economica di oggi e le sue interpretazioni
L’interpretazione dell’attuale crisi economica dipende dal tipo di approccio
economico considerato.
Per i teorici dell’EEG, non esiste il concetto di “crisi”. Esiste il concetto di
“disequilibrio”, ovvero quella situazione in cui non è possibile definire nella
congiuntura di breve periodo un equilibrio tra domanda e offerta. E ciò
avviene, allora ne consegue un instabilità dei prezzi che genera incertezza,
informazioni asimmetriche e imperfette e quindi può generare
comportamenti non perfettamente razionali.
La condizione di equilibrio come uguaglianza tra domanda e offerta implica
l’esistenza di un prezzo di equilibrio stabile e se le scelte economiche in
termini di domanda e offerta degli individui sono libere e non soggette a
qualche forma di rigidità o costrizione, qualunque situazione di
disequilibrio, in presenza di piena flessibilità dei prezzi, è destinata a
perdurare poco tempo perché le forze del libero scambio ricreeranno una
nuova situazione di equilibrio in modo endogeno. Ciò vale per qualunque
scambio, dal mercato del lavoro ai conti pubblici.
Ne consegue che l’esistenza di disoccupazione dipende dal disequilibrio che
si registra sul mercato al lavoro (a prescindere da come l’attività di
produzione delle imprese – che domandano lavoro – viene organizzata). In
particolare, da un eccesso di offerta di lavoro rispetto alla domanda. Per
raggiungere l’equilibrio è così indispensabile diminuire il prezzo del lavoro
(salario) perché si possa ristabilire l’equilibrio. Da qui nasce il senso
comune che la disoccupazione è figlia di un eccesso di rigidità sul mercato
del lavoro che impedendo la riduzione dei salari non consente il
raggiungimento della piena occupazione. Non è un caso che negli ultimi
trent’anni sono stati prese più volte – anche con l’avvallo di sindacati
compiacenti – decisioni in materia di controllo delle dinamiche salariali o di
incremento della precarietà (vedi l’ultimo Job Act con la totale
liberalizzazione del CTD e dell’apprendistato) sempre con la giustificazione
di ridurre la disoccupazione.
Lo stesso approccio vale anche per l’analisi dei conti pubblici. Nell’ambito
del settore pubblico, l’esistenza di deficit annuali strutturali che si traducono
in un aumento costante del debito pubblico è a sua volta indice di un
disequilibrio. L’equilibrio macroeconomico, infatti, non è solo definito
dall’uguaglianza tra domanda e offerta ma anche dall’equilibrio contabile
relativo ai conti dello Stato e ai conti con l’Estero.
L’equilibrio di bilancio pubblico e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti
sono infatti condizioni necessarie (anche se non sufficienti) per raggiunger
un equilibrio macroeconomico e garantire stabilità ed efficienza ad un
paese.
E’ sulla base di queste premesse, che si delineano i suggerimenti di politica
economica che stanno alla base del credo liberista:
1. Eliminare tutto ciò che impedisce la piena flessibilità dei prezzi di
qualunque merce e servizio (lavoro compreso);
2. Eliminare quindi le rigidità che impediscono la piena libertà di scambio e
la piena concorrenza tra gli attori economici: strutture organizzative e
istituzionali come i sindacati nel caso del mercato del lavoro, cartelli,
alleanze oligopolistiche, rendite di posizioni nel mercato della
produzione grazie all’operato dell’Antitrust;
3. Ridurre al minimo il ruolo dello Stato se non come operatore di ultima
istanza sia nel decidere le “regole del gioco” che nell’intervenire in
condizione di “sussidiarietà” laddove l’iniziativa privata non è in grado o
non ha interesse ad intervenire.
4. Adottare politiche economiche che hanno come obiettivo, sul piano
fiscale, di mantenere l’equilibrio del bilancio pubblico (sul modello del
Fiscal Compact) sino a inserire nelle Costituzioni nazionali l’obbligo di
pareggio di bilancio, sul piano monetario, di fissare e garantire
“credibilmente e autorevolmente” l’emissione di una data quantità di
moneta tale da rendere stabili i prezzi e sul piano valutario garantire la
piena flessibilità dei tassi di cambio come uno unico strumento per
raggiungere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
I punti sopracitati rappresentano il quadro di riferimento economico adottato
dalle autorità economiche per risolvere la crisi. Inizialmente nel primo
periodo della crisi, iniziata con lo scoppio della bolla dei subprime,
l’indicazione dominante nell’oligarchia Usa è stata quella di non contrastare
i processi di selezioni degli istituti finanziari che erano maggiormente
esposti. Ma dopo il fallimento di Lehmann Brothers e il rischio che si
sviluppasse un contagio tale da far collassare l’intero mercato del credito e
dei titoli finanziari su scala se non globale sicuramente anglosassone, si è
cambiata rapidamente opinione. A fronte della crescente incertezza che
minava sempre più una delle ipotesi base della teoria dell’EEG, vale adire la
presunta razionalità strumentale dell’homo oeconomicus, e con la scusa del
“too big to fail” (“troppo grande per fallire”), si è provveduto a iniettare
tanta liquidità monetaria (tramite un intervento concertato della Federal
Reserve, Baca Centrale del Giappone, della Gran Bretagna, e dell’Australia,
con il beneplacito della BCE) quanta era stata distrutta dal crollo dei titoli
subprime. Tale intervento ha avuto come effetto quello di tamponare
l’emorragia della crisi ma ha aperto il destro a ciò che il giornalismo
economico mainstream ha chiamato il rischio (e poi emergenza) “default” di
alcuni paesi, soprattutto euro-mediterranei. Da qui la necessità di instaurare
politiche di austerity e di controllo dei bilanci pubblici soprattutto in Europa
per allontanare tale spettro e tranquillizzare, secondo le parole degli stessi
sostenitori, i mercati finanziari (intesi come entità oggettiva, quasi
metafisica).
Scarsa è stata al riguardo l’analisi dei mercati finanziari, il più delle volte
rappresentati come perfettamente concorrenziali come dimostrato
dall’elevata volatilità dei prezzi dei titoli, segnale che nessuna posizione
dominante, secondo la teoria dell’EEG, poteva operare ma solo la legge
della domanda e dell’offerta.
I risultati sono stati una profonda recessione economica, che ha colpito
particolarmente l’Italia, già affetta da problemi strutturali derivanti dagli
anni passati.
*****
L’interpretazione della crisi attuale da parte dell’approccio in termini di
economia monetaria di produzione è molto diverso, se non opposto.
La crisi è stata causata dalla crisi della governance dei mercati finanziari,
che hanno assunto negli ultimi decenni un ruolo centrale e pervasivo, in
grado di condizionare tutto il processo economico, dalla fase di
finanziamento degli investimenti sino alla distribuzione del reddito e
all’erogazione di servizi di pubblica utilità e di welfare, ora del tutto
privatizzati.
In un contesto di economia finanziaria di produzione, dove poche
multinazionali della finanza sono in grado di controllare e indirizzare i trend
borsistici (altro che perfetta concorrenza!) e di creare liquidità tramite le
plusvalenze, fuori dal controllo delle Banche Centrali (anzi, in grado di
condizionare e indirizzare le scelte di quest’ultime), l’instabilità diventa
strutturale.
Due sono i motivi fondamentali:
1. Gli effetti distributivi dei mercati finanziari e la stagnazione dei redditi da
lavoro accentua la polarizzazione dei redditi e ha effetti recessivi sui
consumi e sulla domanda aggregata. Fintanto che l’effetto ricchezza
(generato dalle plusvalenze finanziarie) sui redditi più alti è in grado di
compensare la riduzione del potere d’acquisto dei redditi più bassi, la
governance economica imposta ad uso e consumo degli interessi dei
mercati e della speculazione finanziaria regge. Ma ciò non può
continuare all’infinito e quindi con intervalli di tempo sempre più brevi le
crisi tendono a susseguirsi sempre più velocemente e si possono superare
solo con la definizione di una nuova convenzione finanziaria: negli anni
’90 era la internet economy, negli anni 2000, era l’effetto traino sul
commercio internazionale della Cina dopo l’ingresso nel Wto e il boom
del real estate e della casa negli Usa, oggi potrebbe essere la green
economy o chissa!
2. In un’economia monetaria di produzione, l’accumulazione si realizza
grazie all’attività di investimento, che necessita di essere finanziata. Ciò
significa che è tramite un atto di indebitamento che si realizza la
produzione. Senza debito non c’è creazione di ricchezza, né produzione,
né crescita economica. Nel capitalismo contemporaneo, in cui la finanzia
ha sostituito il credito (parliamo infatti di economia finanziaria di
produzione), l’attività di investimento finanziata solo dalle plusvalenze è
investimento di tipo speculativo, di breve periodo, che non ha effetti
rilevanti sull’economia reale. E’ necessario quindi creare un secondo
canale di finanziamento (ovvero di debito) in grado di sostenere la
domanda e compensare l’iniqua distribuzione del reddito, al fine di
rendere sostenibile il sistema economico. E tale secondo canale di
finanziamento dovrebbe essere rivolta a favorire lo sfruttamento di quelle
economie di apprendimento e di rete (learning and network economies)
che oggi sono alla base della crescita della produttività e quindi della
crescita economica. In ultima analisi si tratta di investire anche in welfare
e nella qualificazione della forza lavoro, nonché nell’attività di ricerca &
sviluppo.
Partendo da queste presupposti, l’approccio eterodosso è fortemente critico
contro i vincoli posti al bilancio pubblico nel nome del pareggio di bilancio.
Anzi, condizione perché i rapporto debito/pil possa ridursi non è la
riduzione del debito in valore assoluto (il numeratore) ma l’aumento del PIl
(il denominatore).
Non solo le politiche di austerity sono la prima causa della recessione
economica (con tutti gli effetti sociali che ne conseguono) ma, anzi
impediscono la riduzione del rapporto debito/pil.
4. I confronti con le crisi passate: 1929, 1975
Posizioni altrettanto divergenti all’interno del pensiero economico erano
presenti soprattutto riguardo l’interpretazione della crisi degli anni ’30. A
quel tempo, l’interpretazione che andava per la maggiore spiegava la
persistenza della disoccupazione come l’esito di uno squilibrio del mercato
del lavoro in seguito a salari troppo elevati. Tali salari eccessivi erano il
risultato della conflittualità operaia che aveva preso piede a cavallo degli
anni Venti del secolo scorso, quando le forze sindacali erano riuscite a
ottenere il massimo potere contrattuale possibile a quel tempo. Non è un
caso infatti che a partire dal 1922 e per gli anni seguenti, anche grazie alla
neocostituita FBI di Hoover, si scatenò una pesante ondata repressiva che
mise fuorilegge i sindacati e anniento lo sviluppo del primo sindacato
dell’industria moderna, IWW (Industrial Workers of the World). Ciò portò a
una drastica perdita di potere d’acquisto dei salari già a partire dalla metà
degli anni Venti, ben prima quindi della crisi degli anni Trenta, al punto che,
come racconta la “leggenda”, l’industria Ford aveva proposto un forte
aumento dei salari per far fronte alla carenza di manodopera.
A tale interpretazione della crisi si era opposto J.M.Keynes che invece
imputava la crisi a ragioni diametralmente opposte, ovvero il livello troppo
basso dei salari, che, impedendo un adeguato livello di consumo, impediva
che la domanda aggregata fosse tale da consentire la vendita dei prodotti
delle imprese e favorire la realizzazione di profitti. Il consumo, infatti,
secondo Keynes, rappresentava (e rappresenta tuttora) la componente
principale della domanda: inoltre i salari sono la fonte di reddito per la
maggior parte delle famiglie meno ricche, che hanno perciò una propensione
marginale al consumo più elevato (ovvero spendono quasi tutto il reddito
percepito in misura relativamente superiore alle famiglie più ricche1). Ne
consegue, secondo Keynes, che un aumento dei salari ha un effetto
moltiplicatore della domanda molto più elevato e ciò favorisce, appunto, la
vendita dei prodotti ed evita situazione di sovrapproduzione. Inoltre, nel
caso di una domanda insufficiente, è sempre possibile un intervento della
domanda pubblica, in grado di aumentare l’occupazione.
L’interpretazione della crisi degli anni ’30 fornita da Keynes si è poi rivelata
corretta. E’ infatti con il New Deal di Roosevelt e il programma di opere
pubbliche (pensiamo ad esempio al Golden Gate Bridge sulla baia di San
Francisco) che gli Stati Uniti cominciano a uscire dalla depressione. Sarà
poi la II guerra Mondiale a stimolare ulteriormente la domanda pubblica e la
domanda aggregata e a imbastire le politiche pubbliche europee a sostegno
del welfare come motore della crescita occupazionale e del Pil.
La crisi degli anni Settanta ha invece origine assai diverse e una differente
natura. Se la crisi degli anni ’30 poteva essere considerata una crisi di
crescita del nuovo modello di accumulazione che oggi chiamiamo Fordista
che si fondava sull’automazione di fabbrica, la standardizzazione della
produzione e il consumo di massa, la crisi degli anni Settanta può essere
letta come la crisi del paradigma fordista. E quindi crisi di saturazione e
non crisi di crescita.
1
Ciò non significa, ovviamente, che le famigliepiù povere consumano in termini assoluti
più delle famiglie ricche ma solo che risparmiano di meno.