“SONO UNA PERSONA SORDA, E ALLORA?” I pregiudizi più diffusi

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“SONO UNA PERSONA SORDA, E ALLORA?” I pregiudizi più diffusi
“SONO UNA PERSONA SORDA, E ALLORA?”
I pregiudizi più diffusi riguardo la sordità
e le strategie per il loro superamento
Venerdì 8 aprile 2016 – Lecco, Aula Magna ITC Parini
ANTONELLA CONTI, pedagogista e docente all'università Cattolica di Milano –
Buonasera a tutti, benvenuti a questa serata molto importante, una serata che vede tante
persone sorde che hanno modalità comunicative differenti, esperienze diverse, finalmente
insieme. Possiamo partire.
Il compito che mi è stato assegnato questa sera, quindi l'onere e l'onore, è quello di
coordinare la serata, di fare una parte introduttiva che introduce questo argomento. Poi ci
saranno delle testimonianze, che sono l'elemento per cui molti di voi sono qui, testimonianze
di persone sorde che si sono fatte valere nella vita e che hanno avuto modo di superare una
serie di pregiudizi nei loro confronti.
La mia riflessione è partita dal titolo: i pregiudizi nei confronti delle persone sorde e le
strategie per il loro superamento. Ho pensato di focalizzarmi su questi aspetti. Che cos'è un
pregiudizio, quali sono i pregiudizi più diffusi nei confronti delle persone sorde; ma poi mi
sono chiesta: chi sono i sordi? Proviamo a dare un po' di definizioni.
Io sono stata chiamata perché lavoro in università Cattolica, questo è il dodicesimo anno che
tengo un laboratorio sugli aspetti educativi per le persone non udenti; inevitabilmente studio
da 12 anni, e ho trovato in letteratura alcuni spunti che vi presenterò. Vediamo che cosa sono
i pregiudizi. Pregiudizio: “un atteggiamento di disprezzo o comportamento discriminatorio
verso la maggior parte o tutti i membri di uno o più out- group”; quest’ultima è una parola che
arriva dalla psicologia sociale. Ogni persona si sente parte di un gruppo, l’ "in group”; per
esempio io sono una pedagogista e mi sento parte del gruppo dei pedagogisti, l’altro che
percepisco come qualcosa di estraneo, lontano da me, fuori dal gruppo di appartenenza è il
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mio outgroup. Dalla definizione sui pregiudizi si evince dunque questo: nascono rispetto a
persone che non fanno parte della propria cerchia, del proprio contesto, altrimenti non si può
parlare di pregiudizio. Se un udente quindi ha amici sordi (io per esempio ne ho tanti), non
sviluppa pregiudizi verso le persone sorde, perché si relaziona con loro. Il pregiudizio si situa
in una situazione di lontananza dove si percepisce la persona con problemi di udito come
estranea al gruppo di appartenenza. Vanno perciò agevolate le interazioni sordi-udenti.
Quali sono i pregiudizi più diffusi degli udenti verso i sordi? Ho messo in slide quelli che mi
sembravano più comuni, nella serata magari ne emergeranno altri. Il primo universalmente
diffuso è il termine “sordomuti” anche se i sordi non sono muti. Io ho studiato che nell'antichità
si pensava che i sordi fossero muti di natura perché non avevano la possibilità di emettere dei
suoni; poi nel 1400 si è scoperto che i sordi potevano parlare, che era solo la mancata
percezione dei suoni che non attivava la voce, la parola. Ma noi non siamo nel 1400! Vi cito
una notizia di un paio di anni fa mandata in onda dal TG1 - che è quello che si vede anche
all'estero, quindi che rappresenta l'Italia - la notizia di un fatto di cronaca: a Torino una
ragazza, “sordomuta” viene aggredita da un male intenzionato, ma, “nonostante fosse muta,
è riuscita a gridare!”. Dal 1400 ad ora non è passato questo concetto nella società!
E’ presente inoltre l'idea che i sordi non capiscano. In questo pregiudizio si possono leggere
due aspetti: gli udenti quando non hanno voglia di prestare attenzione ad una persona che
sta parlando, fanno finta di non sentire. Chi non si sente ascoltato dice allora: “non capisci,
non vuoi sentire”, viene attribuita una responsabilità, una chiusura alla comunicazione e
questa stessa attribuzione può diventare un pregiudizio nei confronti delle persone sorde che
faticano a percepire il messaggio. Il secondo aspetto è che la persona sorda non sia capace
di comprendere un linguaggio complesso, che sia in qualche modo incapace.
Dagli anni ’60 in poi ci sono stati tanti autori che hanno messo sotto accusa alcuni test di
intelligenza proposti alle persone sorde poiché
presentavano prove di tipo linguistico
valutando in questo modo la comprensione del linguaggio, non le effettive capacità intellettive.
Questo pregiudizio ha una ricaduta sui comportamenti e atteggiamenti. Come mi hanno
riferito molte persone sorde che conosco, quando dici a qualcuno: “io ho un problema di
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udito”, a volte cominciano a parlarti “c-o-s-ì’”, mettendoti a disagio.
C'è un elemento particolare della disabilità uditiva che interferisce nella relazione tra udente e
sordo ed è lo spiazzamento, perché non riuscire a intendersi è spiazzante per entrambi: è
spiazzante per chi non sente e per l'udente, quindi se non si riescono a trovare delle strategie
diventa difficile continuare l’interazione. Gli udenti sono abituati a parlare, la comunicazione
privilegiata è quella orale.
Direi che l'elemento secondo me più forte che causa pregiudizio è questo che sottolinea
Sacks: gli udenti sono ignoranti, nel senso letterale del termine, rispetto alla sordità: perché
penso che sia muto? Perché non conosco la situazione dei sordi. Perché penso che non
capiscano? Perché magari una volta ho visto una persona che non capiva (o percepiva?) e
non conosco altre situazioni. Stranamente rispetto ad altre disabilità persiste questa difficoltà
proprio di conoscere e capire bene. Allora che cosa faccio quando trovo delle persone
ignoranti? Cerco di istruirle.
Ma qui trovo un problema: non esiste una rappresentazione sociale condivisa della sordità.
Che cosa vuole dire? Spiego con degli esempi. Quando io chiedo ai miei studenti di mettersi
nei panni di una persona cieca, generalmente mi sanno dire più o meno quali possono essere
le difficoltà che incontra, il vissuto. Quando chiedo di provare a mettersi nei panni di una
persona sorda, fanno molta più fatica. In università Cattolica il servizio integrazione per gli
studenti con disabilità organizza tutti gli anni una giornata che si chiama: “mettiti nei miei
panni”. In questa giornata gli studenti normodotati che lo desiderano sperimentano una
situazione di cecità, vengono bendati, vanno in giro per l'università, sperimentano le difficoltà
nel trovare l'aula; oppure una situazione di disabilità motoria, si mettono sulla carrozzina e
sperimentano le famose barriere architettoniche. E per la disabilità uditiva? Non hanno
trovato delle simulazioni efficaci per mettersi nei panni del sordo. Io nel mio laboratorio
utilizzo i tappi alle orecchie, faccio parlare tutti, quando uno non sente la persona che parla
dietro, allora comincia a capire qualcosa, sperimenta sulla sua pelle la difficoltà di
discriminazione. Della sordità non c'è una rappresentazione sociale condivisa, non c'è un’idea
comune. La sordità è invisibile, questo lo sappiamo, spesso è solo con la conoscenza diretta
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che si esce dall’idea confusa o pregiudizievole, quindi se c'è ignoranza serve informazione.
Ma quale informazione? Dipende da chi sono i sordi, e qui faccio riferimento ad una autrice,
un’americana che si chiama Leigh. Ha scritto un libro, “A lens of deaf identities”. Lei è sorda
oralista, il libro inizia con un aneddoto: dice che un giorno al supermercato incontra una
persona sorda segnante che le dice: “Tu non sei sorda, tu parli bene, quindi non sei una vera
sorda!” negli Stati Uniti, c'è una comunità di sordi segnanti molto forte, quella un po' leader a
livello mondiale. La Leigh ha risposto: “Certo che sono sorda, ma sono sorda oralista”. Da lì è
partita una riflessione che ha portato alla stesura di un testo di più di 200 pagine. Alla fine del
libro dice che le persone sorde possono essere accomunate in tre categorie:
- deaf, sordo con la "S" maiuscola, sordo segnante che si sente appartenere a una comunità,
quindi si percepisce come una minoranza linguistica, e sente molto forte questa sua identità
di persona sorda;
- deaf, che è la stessa parola sordo ma con la "s" minuscola perché non c'è un senso di
appartenenza alla comunità, c'è la persona sorda oralista che culturalmente è udente,
frequenta la società udente e non sente così forte questa parte identitaria legata alla sua
disabilità. È un termine che viene utilizzato anche in campo sanitario, quindi come aggettivo,
non come sostantivo che identifica un gruppo;
- hard of hearing: il terzo gruppo è quello molto vasto di chi ha difficoltà di udito, delle cadute
non profonde, che non precludono la possibilità di percepire, magari parzialmente, il
linguaggio. Spesso queste persone non vogliono neanche essere accomunate al gruppo dei
sordi, si sentono "normali" semplicemente con un leggero problema di udito che spesso
tendono a nascondere.
Quindi se questa è la panoramica, - ed è molto ristretta, perché potremmo parlare di chi ha
l'impianto, che ha una situazione diversa, o
di chi è diventato sordo - semplicemente
prendendo queste tre categorie la rappresentazione che si dà della sordità è molto diversa.
Vediamo la prima: se io, udente, voglio conoscere la sordità e mi imbatto nel primo tipo, in
coloro che si definiscono sordi con la "s" maiuscola, vedo la lingua dei segni e penso che tutti
i sordi la utilizzino. C'è una serie americana in cui alcuni protagonisti sono sordi. Ci sono due
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ragazze scambiate alla nascita, una diventata sorda a tre anni che entra a far parte della
comunità sorda, utilizza la lingua segnata con i sordi e l’oralità più i segni con gli udenti. Poi
c’è un ragazzo sordo segnante figlio di genitori sordi che usa solo la lingua segnata. Nelle
quattro stagioni di questo telefilm si toccano più volte dei pregiudizi verso i ragazzi sordi,
quelli con la s maiuscola.
Il deaf con la d minuscola veicola altre rappresentazioni della sordità, per esempio il video "Io,
straniera", mostra una ragazza oralista che arriva ad una festa. Un ragazzo si mette a parlare
con lei che per un po’ conversa normalmente, ma quando non comprende una frase perché
le parla dandole le spalle, lei gli dice di essere sorda. A questo punto lui si allontana con una
scusa, si spaventa e non vuole più aver a che fare con lei. Recentemente in un talent
televisivo si è presentata una ballerina sorda oralista che dice alla giuria: “Io ho inseguito il
mio sogno, ho un problema ma per me non è un problema, quindi non fatelo diventare un
problema voi”. Sembra non trovare le parole per dichiarare la propria disabilità uditiva, una
difficoltà presente in alcune persone oraliste, nel definire la propria identità, nel riconoscere
che esiste questa parte di sé. La richiesta degli oralisti agli udenti è quella di non voltare le
spalle e altre indicazioni su come comunicare. In questo caso l’udente che si interfaccia con i
sordi oralisti si fa un’idea diversa della sordità, pensa che i sordi parlino, che non ci sia una
minoranza linguistica e che debba rispettare delle regole comunicative.
Per quanto riguarda chi ha un leggero difetto di udito è difficile identificare una
rappresentazione, più facile trovare un mascheramento.
Io credo che sarebbe bello e proficuo se ci fosse, sui siti, sui libri, nelle associazioni, una
maggior unione delle persone sorde, un fronte comune che potesse rivolgersi agli udenti
dicendo: “Noi all'interno abbiamo tanti aspetti diversi ma siamo tutti accomunati dalla stessa
disabilità”. Questo a mio avviso potrebbe rimediare all'ignoranza diffusa verso la sordità,
perché, se è vero, come diceva Helen Keller, che la sordità separa le persone dalle persone,
per comunicare io ho bisogno da una parte delle persone udenti che abbiano un’idea delle
difficoltà che sperimentano le persone sorde, e dall'altra delle persone sorde che si pongano
in modo più chiaro e più unito. È vero che ci sono differenze al proprio interno, però se si
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vogliono istruire gli udenti, bisogna trovare dei punti in comune.
Concludo con un accenno alle strategie. La comunicazione è l'elemento fondamentale per
poter superare difficoltà come il pregiudizio e lo spiazzamento. Comunicare vuole dire
condividere dei significati, vuole dire che ci sono dei contenuti che possono essere condivisi.
1) serve un canale, una lingua, o più lingue, un tramite, uno strumento. Ovviamente lo
strumento principe per gli udenti è la lingua orale, poi la lingua scritta. La lingua dei segni è
stata riconosciuta essere una vera e propria lingua; aiuta quando si è all'interno del gruppo
dei sordi, ma nel momento in cui ci si interfaccia con gli udenti, è necessario conoscere la
lingua che utilizzano gli udenti. Su questo punto sono concordi tutte le associazioni
internazionali di sordi che propongono il bilinguismo, lingua segnata e lingua orale.
2) serve una teoria della mente, che è quella che non hanno le persone con autismo, ovvero
l'idea che un'altra persona possa avere dei pensieri e delle emozioni differenti dai propri. Per
comunicare con una persona devo pensare questo. Perché lo dico con riferimento alle
persone sorde? Perché quando c'è una grave difficoltà di apprendimento della lingua,
soprattutto nei primi anni, io ho trovato in qualche ragazzo che ho avuto modo di supportare,
soprattutto a scuola, un po' questa difficoltà. È vero che esiste l'esclusione dal gruppo
soprattutto alle scuole medie, un’età difficile, ma in alcuni casi l'errore del ragazzo sordo che
ha gravi difficoltà comunicative è quello di avere scarsa teoria della mente, un pensiero rigido
centrato sui propri bisogni e questo è un ostacolo all’inclusione.
3) poi ci sono dei contenuti da condividere, un talento o un sogno. Il primo sordo nell'antichità
considerato intelligente, citato da Plinio il Vecchio, è stato Quinto Pedio e di professione
faceva il pittore. Quindi in un'età in cui non c'era nulla a disposizione delle persone sorde, la
strategia che aveva trovato questa persona era quella di utilizzare un proprio talento per
comunicare. Immagino che non avesse né segni né parola per potersi esprimere al tempo di
Plinio il Vecchio, ma ha comunicato con l’arte visiva, attraverso le immagini.
Io avrei concluso questa parte introduttiva, sono curiosa di sentire le testimonianze e cosa
emergerà da parte del pubblico da questa serata.
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ELIO PARODI - Buonasera a tutti voi. Prima di introdurre i testimoni che ho portato, vi
segnalo il cartellone – affisso sulla porta della sala – con 4 personaggi che si sono distinti
nello sport, nel lavoro e nella cultura. In ordine abbiamo:
MARIO D’AGATA, campione del mondo di pugilato dei pesi gallo.
COLEMAN DERRICK, campione di football americano, ricevendo 62 yard e un touchdown,
il 2 febbraio 2014 vinse il super bowl XLVIII quando i Seahawks batterono i Denver Broncos
per 43-8.
ROBERTO E. WIRTH, direttore degli hotel Hassler sparsi in tutta Europa.
NINO DI SALVATORE, (Verbania 1924 – Milano 2001), è stato fondatore e direttore della
scuola politecnica di design di Milano.
“Se sono riuscito a creare dal nulla, da solo, una scuola a livello universitario che oggi conta
220 studenti provenienti da tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti, dal Canada alla
Germania, allo Zambia ... con 30 professori in gran parte facenti parte delle nostre università,
una scuola, in breve, che compie tanto immenso bene da trent'anni, lo devo alle forze che Dio
e gli uomini buoni mi hanno donato. Quando, giovinetto, crescevo nel tormento ansioso
dell'oggi e del domani. In questa mia scuola, che ancora adesso io dirigo, insegno una
materia nuova, bellissima: "scienza della visione". Perché? Forse perché, non udendo bene,
le mie energie si sono focalizzate nel senso della vista? Per una compensazione, per vivere
la vita del mondo? Mi ricordo che, crescendo, avevo 14/15 anni, mi accorsi di una preferenza
per il disegno, per le arti, per la creatività. Interiorizzare le immagini anziché i suoni,
continuando sempre il processo della vita interiore che dissi prima, esso è divenuto vita
creativa della mente e dello spirito. Procedendo quindi oltre l'insegnante professionista,
adesso, ancora da trent'anni, insegno ai giovani a dare la vita alle cose morte. Ecco quindi
concluderei così la mia umana avventura: quella benedetta solitudine, quel benedetto silenzio
erano - veramente - la condizione necessaria e feconda perché si compisse un umano
destino”.
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Con queste parole concluse la sua relazione nel 1984 al convegno AFA di Como sulla
comunicazione.
Ecco a voi le testimonianze dirette di Antonio Beretta e di Riccardo Luini.
ANTONIO BERETTA - Buonasera a tutti. Quando ero piccolo avevo 5 anni e stavo a Como,
e dopo a Milano; ho lavorato in una fabbrica di tessitura per 7 anni, portavo il carrello, pulivo,
la sera gli amici mi facevano vedere come si faceva il telaio e mi dicevano: “ti piace?”… e poi
io ho pulito anche il loro posto dove lavoravano. Mi dicevano: “domani prova a lavorare due
telai, devi lavorare di notte”. Io dicevo: “Va bene”. Quindi abbiamo fatto i telai, si passava il filo
nel telaio.., era difficile da fare come lavoro. Dopo 7 anni ho trovato un lavoro alla posta,
ufficio pacchi su alla ferrovia, poi alla posta di Como dove sono finito a lavorare in Ufficio. Mio
nipote suonava le percussioni da 5 anni e diceva: “mio nonno può venire qua”? Erano tutti
ragazzi e ho provato a suonare anche io con loro, poi mi è venuta la passione perché la mia
era una famiglia di musicisti. Il primo sabato ho cominciato a suonare, il secondo sabato, il
terzo sabato, ho fatto prima la batteria, poi le percussioni, poi ho sentito dai piedi che saliva
qualcosa fino al cuore, quando facevo così con gli strumenti, prima suonavo veloce, poi
suonavo piano, e appena suonavo andavo avanti sempre meglio. Ogni tanto il sabato quando
suonavo, suonavo anche i piatti che suonavano più forte e li sentivo! Grazie a tutti!
RICCARDO LUINI - Buonasera. Io sono Riccardo Luini, sono sordo da quando avevo tre anni,
forse per questo che parlo anche abbastanza bene. Riguardo il tema di questa sera: "sono
una persona sorda, e allora?", ho pensato di collocare questa definizione in un ordine
temporale: passato, presente, e futuro, dove per "futuro" io intendo la prospettiva, la nostra
prospettiva di sordi. Il passato, se vogliamo, lo sintetizzo così: sono una persona sorda, e
allora? quando ero un preadolescente significava, come ha sottolineato bene Antonella Conti,
anche frustrazioni, molta solitudine, discriminazione, il cercare di capire perché tante persone
mi chiamavano solo per andare a giocare a pallone, perché ero bravo a giocare, ma quando
si trattava di trovarci per qualcosa di diverso, il Luini non lo chiamavano. Finché un giorno, e
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questo è sempre il passato, è successo un evento molto importante: io ho potuto finalmente
giocare in una squadra di calcio, a Monte Olimpino, e ho potuto finalmente confrontarmi con i
normoudenti. Io non voglio fare nessuna discriminazione con chi usa il linguaggio dei segni,
ma il mio percorso è quello del sordo pienamente oralista, io ho accettato la sfida con le
persone normoudenti, ho pagato un prezzo molto alto e lo pago tutt'ora, però trovo che la
sfida sia affascinante. Sono entrato in questa squadra di calcio e una sera, durante un
allenamento, un mio compagno si è accorto che non rispondevo e mi ha gridato nell'orecchio:
“Uei, Luini!!” e io in quel momento ho fatto a me stesso una promessa e ho promesso che
avrei cercato di lavorare con me stesso per potere vincere la sfida dello stare con le persone
cosiddette "normali", normoudenti. Ora rientriamo nel presente: io questo percorso l'ho fatto
grazie alla donna che ho sposato, che è stata di grande stimolo per me, e mi ha messo nella
condizione di capire che se volevo ottenere qualcosa, dovevo mettermi in gioco. La tendenza
a volte delle persone sorde è quella di stare un po' indietro, di fare un po' del vittimismo se
vogliamo. Io ho cercato di superare questa fase e ho accettato l'idea del confronto con le
persone. Io frequento abitualmente senza discriminazione persone normoudenti e devo dire
che spesso mi sorprendo del fatto che riesco a comunicare sentendo. Questa è la sfida che io
avevo accettato quando questo compagno mi ha gridato! Cosa significa? Che innanzitutto
ciascuna di noi, persone sorde, deve fare in modo che lui nei confronti degli altri si proponga
come una persona sorda, ma normale, la disinvoltura nel parlare con le persone, anche
quando queste sono tante e faccio diverse riunioni, perché io tratto l'informatica e sono
responsabile di software all'ospedale VALDUCE di Como, e questo porsi nei confronti delle
persone in modo diverso da quello che è stato detto, cioè facendo capire che sono sordo. No,
la sfida che io faccio è quella di dire: voglio vedere qual è il mio limite. In questo senso la
prospettiva qual è? La prospettiva è questa: io spero vivamente che il nostro obiettivo non sia
solo quello di eliminare le barriere alla comunicazione, ma quello di eliminare le barriere alla
sordità. Qualcuno di voi mi dirà: ma è la stessa cosa. Non è vero, perché se voi oggi ci fate
caso, con in mano uno smartphone voi riuscite a comunicare ma non riuscite a sentire, io
cerco quello! La prospettiva prevede anche l'inserimento della tecnologia, 6 anni fa ho fatto
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due impianti cocleari e devo dire che, con molta pazienza, le mie prospettive sono cambiate.
Io adesso non cerco solo di comunicare, io cerco di sentire, sentire per me vuole dire questo:
vuole dire che mentre io sto camminando con mia moglie, che mentre io sono in macchina
con mia moglie, io la sento senza guardarla! E tenete presente che io sono sordo totale,
senza gli impianti non sento niente! Questa prospettiva capisco che per tante persone possa
sembrare irraggiungibile, ma io vi garantisco che solo ed esclusivamente questione di
tecnologia, sì, ma di volontà. In questo senso io non mi sento diverso da altre persone che
hanno fatto un altro cammino, ma io mi sento di potervi garantire che la prospettiva di
lavorare per abbattere le barriere della sordità è una prospettiva possibile. Io comunico anche
se sono sordo, ma io voglio dire, voglio arrivare a sentire il meglio possibile. È un messaggio
di incoraggiamento, se vogliamo, ed è il risultato della mia personale esperienza. Vorrei che
tutti potessimo dire, strada facendo, che almeno una volta, e è una esperienza entusiasmante,
noi abbiamo sentito, non solo comunicato. Vi ringrazio.
ANTONELLA CONTI - Adesso è il momento di Armando De Salvatore in rappresentanza
dell’ALFA di Milano.
ARMANDO DE SALVATORE - Buonasera a tutti, porto i saluti della presidente di ALFA, Emi
Bonadonna, provo a dare un mio personale contributo, la visione della associazione e vorrei
inizialmente parlare - e è giusto farlo - del ruolo che hanno le associazioni oggi e che
potranno avere nel futuro rispetto alla vita concreta, quotidiana, che hanno tutte le persone
sorde. Le associazioni un po' si stanno trasformando perché sta cambiando il mondo, chi mi
ha preceduto ha parlato di tecnologia, di barriere alla comunicazione, ma ha sottolineato un
aspetto che è quello delle barriere alla sordità; il primo intervento della pedagogista ha
tratteggiato degli aspetti che riguardavano i pregiudizi sulla sordità, cioè come le persone, che
non sono sorde e che non conoscono la sordità, giudicano e valutano le persone sorde.
Questo aspetto di mettere insieme un sostantivo che ci accomuna tutti, quello di essere delle
“persone”, e un aggettivo “sordo” che qualche volta può divenire un sostantivo è una
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operazione molto difficile oggi. L'obiettivo delle nostre associazioni e nostro è di arrivare a un
punto in cui questo termine” sordità" viene così sfumato quasi da scomparire. Cosa voglio
dire? Che oggi il percorso di una famiglia nella quale nasce un bambino sordo oggi è meno
difficile. A inizio aprile mi ha contattato una giovane coppia, molto spaventata, chiedendomi:
“Ci è nato un bambino sordo e ci è stato diagnosticato ora, cosa sarà di lui? Abbiamo paura,
stiamo chiedendo informazioni a tutti e anche su internet”: è un percorso che fanno tutte le
famiglie quando viene diagnosticata una sordità a un bambino. Se nessuno dei due genitori è
sordo, quindi non ha avuto una esperienza diretta con la sordità, il mondo da scoprire, le
domande, sono veramente moltissime e moltissima è la paura che attraversa questi genitori.
Nasce oggi un bambino sordo. C'è una poetessa polacca, Wislawa Szymborska, che diceva
che alla nascita il mondo non è mai preparato quando nasce un bambino sordo. Dalla mia
esperienza di genitore con un figlio sordo, ci sono stati una serie di ostacoli, dati da difficoltà
burocratiche, dati da paure e timori, o da scontri con persone che ignoravano che cos'è la
sordità, che hanno reso un po' difficile alcuni momenti di questa fase dell'essere genitori. Il
ruolo delle associazioni è anche quello di cercare di preparare, di informare adeguatamente
molti ambienti della nostra società. Quindi sicuramente intervenire negli ambienti ospedalieri,
della sanità e della riabilitazione, oggi è fondamentale. E’ essenziale, come sapete, che la
diagnosi e la protesizzazione siano fatte precocemente, il più presto possibile, e che
entrambe siano fatte correttamente, e che l'impianto cocleare sia fatto entro il terzo anno di
vita, e perché è importante entro il terzo anno di vita? Qui entra la parola "accesso", perché è
il termine più efficace per potere avere un accesso all'ascolto, quindi al linguaggio e alla
parola per potere stare nel mondo orale, per potere vivere oggi una vita molto simile a quella
di un bambino che oggi nasce udente. La logopedia che ha fatto mio figlio per quasi 10 anni...
per i bambini che nascono sordi oggi e sono diagnosticati precocemente, il lavoro fatto con la
logopedia è molto più breve. L'accesso a scuola e alla socializzazione: il primo giorno di
scuola è il primo gradino importante, lo è per tutti i bambini e ancora di più lo è per un
bambino sordo perché inizia a relazionarsi e confrontarsi con i propri coetanei, a scuola inizia
il vero mondo sociale di quel bambino, fino ad arrivare al momento in cui si farà la domanda:
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ma che differenza c'è tra me e un ragazzino che ci sente? E prima o poi la fanno i bambini
questa domanda. Soprattutto la problematica arriva alle scuole medie, nella scuola materna e
nella scuola elementare le difficoltà sono inferiori; quando si arriva alla scuola media comincia
qualche difficoltà nella relazione con i propri compagni, perché il linguaggio è più immediato,
perché se c'è qualche differenza, il mondo dei ragazzini non permette molti interscambi liberi,
non rallenta, e bisogna essere sempre alla stessa velocità degli altri. La possibilità di avere un
impianto cocleare, fatto precocemente oggi, consente per esempio di non avere l'insegnante
di sostegno per i ragazzini, che altrimenti sono costretti a avere un rapporto di dipendenza da
parte di un adulto che aiuta in classe. E questa cosa cambia molto il percorso scolastico,
cambia molto il discorso della sicurezza, dell'autostima, che ha un ragazzino: ce la faccio da
solo! Mio figlio e molte persone che hanno fatto la stessa esperienza, è stato un rapporto
anche di fatica. Cioè i ragazzini sordi spesso studiano d più. Sintetizzo passando per due
temi che riguardano sempre il ruolo che possono avere le associazioni, ruolo fondamentale. Il
primo aspetto è quello della preparazione del mondo, della società, riguardo alle barriere alla
comunicazione: avere la possibilità di potere comunicare attraverso la tecnologia e potere
udire in contesti come quello scolastico e lavorativo, di potere comunicare bene in situazioni
dove prima si manifestavano solo barriere. L'altro aspetto, ancora più importante, è quello
della comunicazione, della prossimità e della relazione, potere fare uscire dall'isolamento
molte persone che a causa della propria sordità sono ghettizzate, isolate, escluse, anche in
ambito lavorativo. Per questo aspetto le associazioni, ma noi tutti, possiamo fare moltissimo.
Oggi, soprattutto per i ragazzi, l'aspetto dell'inserimento lavorativo è il primo punto e su
questo la speranza è che tutti noi possiamo cercare di lavorare in questa direzione; cercare di
lavorare in ambito scolastico, sanitario, lavorativo, sociale, relazionale, cercando di incidere in
ognuno di questi luoghi, per dare un diritto di cittadinanza e di autonomia, libertà a tutte le
persone sorde. Grazie.
ANTONELLA CONTI - Ora la voce e le mani dell'interprete, abbiamo il presidente dell'ENS
regionale, Renzo Corti, quindi la parola a lui.
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RENZO CORTI - Buonasera. Prima di tutto voglio scusarmi con i miei amici sordi se uso la
parola con la voce, è una mia scelta personale perché vedo che in quest'aula la maggioranza
sono persone normoudenti. Non ho preparato nessuna testimonianza perché sono appena
uscito dall'ospedale, ma quello che mi viene oggi dire è spontaneo, lo tiro fuori dal mio cuore.
Il tema di questa sera: “sono una persona sorda, e allora?” La mia domanda può essere una
domanda diretta provocatoria: questa sera la maggioranza delle persone udenti vedono che
sono una persona sorda, ma questa sera uso la parola, se avessi usato il linguaggio della lis,
non so se ci sarebbero stati pregiudizi nei miei confronti. Io provengo dalla mia prima
generazione di sordi, sono diventato sordo a 5 anni e la mia famiglia quando sono diventato
sordo era una famiglia di persone normali, udenti, e si era molto disperata, a quei tempi le
istituzioni ci hanno indicato una scuola speciale a Milano e mi hanno messo in questa scuola
speciale. Non sentivo niente, non parlavo nemmeno, ma alle vacanze di Natale quando sono
tornato a casa ho cominciato a parlare con i miei genitori e sono rimasti sorpresi, mi hanno
detto: “Meno male che sai parlare! Noi pensavamo che tornassi segnando come una scimmia,
invece parli!” Per queste scuole speciali della prima generazione una figura importante da
ricordare è Antonio Magarotto, ha istituito le scuole speciali e ha fatto un buon lavoro. I
pregiudizi di oggi c'erano 100 anni fa, in particolare nello sport: io sono stato presidente della
federazione italiana sport sordi, sono state vicepresidente della federazione internazionale
sport, ho una vasta esperienza, nello sport i pregiudizi esistevano già. Quando giocavo nel
campionato di terza categoria non era un pregiudizio la sordità, ma era un pregiudizio perché
noi picchiavamo i calciatori normali! Ma dopo tutto tornava normale, alla fine della partita
eravamo normali e è importante che i pregiudizi li affronta la persona sorda in prima persona.
Dopo un attimo di disagio, quando una persona normale sente che una persona è sorda, si
blocca, ma dipende anche dalla capacità di relazione di dire: guarda che io sono sordo, parla
piano, e se la persona inizia a parlare significa che superiamo il pregiudizio. Oggi il mondo è
cambiato, è più avanzato, condivido che bisogna ambire alla tecnologia per potere migliorare;
però dobbiamo essere insieme con la prima generazione di sordi e la generazione attuale per
potere costruire e dare tranquillità alla famiglia, perché quando nasce un bambino sordo le
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famiglie si preoccupano. Quindi bisogna trovare dei canali che possono offrire una strada
migliore per la scelta della famiglia. Questa sera avrei gradito vedere i vostri figli qui, insieme
a noi, per potere comunicare, sentirsi partecipi di questo dibattito; pensiamoci per la prossima
volta che ci incontriamo in un seminario, portate tutti i figli, vediamo di stare tutti insieme,
sono convinto che possono migliorare anche e il pregiudizio può sparire! Non voglio
aggiungere altro perché ho ascoltato gli interventi delle altre persone che in parte condivido e
in parte bisogna rifletterci sopra. Grazie per l'attenzione e buonasera a tutti.
ANTONELLA CONTI – E’ il momento di Tiziana Basso, presidente dell'AGUAV
l'associazione di bambini che hanno fatto l'impianto cocleare presso l'ospedale di Varese.
TIZIANA BASSO - Buonasera a tutti, sarò brevissima e non voglio parlare tanto
dell'associazione che è nata nel 1997 che supporta questo centro di Varese che cura la
sordità dei bambini, tanti, ma anche tanti adulti. Vorrei parlarvi della mia esperienza di
mamma udente di un figlio sordo. Io non sono mai riuscita a vedere una diversità in mio figlio
sordo, rispetto ai miei figli udenti. Quando ci è stata diagnosticata la sua sordità, per noi, forse
a causa della formazione mentale della famiglia - mio marito è medico - nostro figlio era
semplicemente malato, aveva qualcosa che non funzionava nel suo sistema uditivo. Da lì è
nato subito il desiderio di permettere a lui di sentire, ci sembrava impossibile potere vivere nel
silenzio, non solo nella difficoltà di comunicazione, ma proprio togliere la possibilità di sentire,
per noi la vita è suono e ci era impossibile pensare che nostro figlio non potesse vivere così.
Lì è partito il nostro tentativo, la nostra lotta per riparargli l'orecchio difettoso che la natura gli
aveva tolto. Ci erano state date tranquillizzazioni: metta le protesi così sentirà. Mentre la sua
sordità era totale e con le protesi non sentiva ed è stato un percorso doloroso perché
abbiamo dovuto scegliere in un momento in cui l'impianto cocleare era visto con grande
spavento, come una cosa del tutto innovativa, sperimentale, era un buco da fare nella testa,
venivano fuori dei fili, io mi sentivo la mamma di un mostro! Però il desiderio che lui sentisse
come i suoi fratelli era più forte, e così ci siamo buttati e siamo arrivati a Varese, e lì abbiamo
scoperto una realtà di questi bambini che tu facevi fatica a capire chi fosse sordo e chi udente
e abbiamo capito che la sordità è cambiata in questi ultimi 30 anni e adesso chi vuole ha più
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possibilità, non strettamente legate solo alla tecnologia: è per questo che io dal 1997 sono
presidente di questa associazione perché credo che sia fondamentale capire che la
tecnologia aiuta, ma ci vogliono dei centri di alta specializzazione e di altissima esperienza
per garantire il risultato dell'impianto cocleare. Non basta mettere l'impianto cocleare
nell'orecchio di un paziente sordo, ci vuole innanzitutto la sua tenacia, a me è piaciuto tanto
l'intervento del signor Luini che ringrazio perché è una testimonianza importante; ci vuole
soprattutto la voglia di sentire, però bisogna essere anche guidati e noi in Varese abbiamo
trovato questo centro che cura a 360 gradi il paziente, perché il paziente non è un paziente
sordo, è una persona. E allora si cura la persona, cercando di rafforzare, di superare i limiti, i
pregiudizi, dare sicurezza. Ma quando un bambino riesce a sentire e lo riesce a fare al meglio
delle sue possibilità, il gioco è fatto. Il bambino impara e gioisce della vita e dei suoni. Io ho
visto bambini commuoversi perché sentivano per la prima volta un suono che faceva il dito
sul tessuto del cappello, e scendevano le lacrime in quel momento!
Ora lascerei la parola a Rossano, uno dei ragazzi, qui c'è anche mio figlio, Francesco,
segretario AGUAV, a cui sarei ben felice di cedere la parola, ma mi ha detto di no, Rossano
invece ha accettato, per cui lo ringrazio.
ROSSANO - Buonasera a tutti, io mi chiamo Rossano e sono di Sondrio, ho perso l'udito a
causa di una malattia, la meningite, da meningococco quando avevo solo 7 mesi e da qui è
iniziato il mio percorso con l'impegno dell’Audiovestibologia di Varese. Da allora portavo
diversi tipi di protesi acustiche fino a quando ho fatto l'impianto nel 2000 all'orecchio destro e
nel 2013 all'orecchio sinistro. Dopo avere fatto l'impianto, ho dovuto fare la rieducazione per
un periodo, facendo mappe ed esercizi fatti in casa con mia madre. Un impegno molto
importante all'inizio, molto duro, perché sentivo dei rumori, dei suoni, ma non sentivo bene le
parole. Ma con pazienza e impegno, provando e riprovando dopo un po' di tempo sono
riuscito a capire bene le parole. Io noto la differenza tra la protesi e l'impianto, quando avevo
la protesi sentivo, ma avevo molte difficoltà. Con l'impianto mi è cambiato completamente il
mondo: sento benissimo, non ho difficoltà a relazionarmi con gli altri, il telefono è
indispensabile nel mio mondo del lavoro, io sono dipendente di una azienda e sono volontario
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della Croce Rossa Italiana e ho altre attività importanti, nel tempo libero mi dedico allo sport,
viaggio tantissimo e sto sempre in mezzo alla gente a comunicare, a volte i miei amici a volte
mi chiedono: ma tutto questo percorso l'avresti fatto senza impianto cocleare? La mia risposta
è: non lo so, ma non importa perché ho già preso questa decisione, ho fatto la mia scelta e
adesso devo proseguire andando avanti in questa avventura migliorando sempre di più.
Adesso io sono una persona felicissima e entusiasta di questo percorso e mi rendo conto che
sentire non è solo sentire le parole, ma anche sentirsi bene anche a livello interiore. Per
questo ringrazio tantissimo prima di tutto i miei genitori che mi hanno dato una mano, mi
hanno spinto a fare quello che dovevamo fare, e ringrazio l'Audiovestibologia di Varese,
l'AGUAV, Tiziana Basso e oggi me la godo! Grazie.
ANTONELLA CONTI - Tanti stimoli, tanti relatori diversi, passiamo al dibattito, per le
domande Parodi passerà con il microfono, e i signori segnanti, possono segnare.
INTERVENTO
- Poco tempo fa ho conosciuto un sordo che ha fatto un impianto cocleare e
aveva 40 - 45 anni, gli ho chiesto come stava, e mi ha detto che non sentiva, e alla
televisione guardava i sottotitoli, doveva fare ancora la riabilitazione per 5 anni e quindi
arriverà più o meno a 50 anni con questa protesi, quanto può valerne la pena? perché questo
può diventare un problema.
ANTONELLA CONTI - Questa è una domanda per la presidente AGUAV Tiziana Basso.
INTERVENTO - Quando sono piccoli è fondamentale, necessario, ci mancherebbe, ma mi
domando quando sono grandi.
TIZIANA BASSO - Io la capisco, per questo io dico che non è solo la tecnologia che fa
sentire i sordi, ma c'è bisogno di avere centri dove sappiano curare la sordità a 360 gradi.
L'importante per l'impianto cocleare non è tanto l'applicazione dell'impianto, ma è la
regolazione dell'impianto, che è delicatissima. Io ricordo che di mio figlio dicevano: lui deve
imparare a sentire, avere la gioia del sentire, non il disturbo del sentire perché se tu hai un
rumore che ti dà fastidio, non puoi sentirlo. Allora devi riuscire a sentire con gioia e devi
abituare soprattutto il tuo cervello al sentire perché più anni passano nel silenzio... - queste
sono le cose che mi hanno insegnato -... Il cervello si spegne e vive senza suono. Per potere
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sentire bisogna allenarsi e abituarsi, e questo vuole dire non fare 5 anni di rieducazione, i
bambini e gli adulti seguiti a Varese ci impiegano qualche mese, come diceva Rossano, di
tenacia, di sacrificio e esercizio. Quando mio figlio faceva i primi esercizi aveva 7 anni e non
aveva mai sentito niente, aveva l'impianto cocleare io facevo sentire alle spalle il rumore della
carta e lui alzava la mano perché sentiva il rumore della carta, poi gli dicevo a bocca
schermata: mamma, papà, Chicco, coprivo la bocca e dicevo: Chicco, e lui rispondeva papà.
Per cui sentiva i suoni ma non discriminava la parola. È come il neonato che sente il rumore
della porta che sbatte, ma non riconosce la sua mamma se lo chiama per nome o se sta
cantando una canzone, sente solo il rumore. Ci vuole esercizio e questo esercizio è abbinato
a delle mappe che sono la regolazione dell'impianto cocleare, ecco perché noi sosteniamo il
Centro di Varese perché lottare solo per gli impianti cocleari non basta, si rischia di fare
confusione. Tante persone arrivano a Varese avendo fatto gli impianti cocleari in altri centri e
dicono: non sento niente! Perché bisogna avere una attenzione estrema in tutto, per cui
l'impianto funziona ma non è solo quello che fa sentire, è la tenacia, esercizio e è avere un
centro che sappia seguirti costantemente. Questo è il segreto: avere dei centri in ogni regione
dove ci sia tanta esperienza e personale che per anni si dedichi alla sordità. A Varese sono
30 anni che l'equipe lavora sulla sordità.
FRANCESCA ZUCCHI – La mia domanda è indirizzata alla signora Tiziana Basso: quando
parlava del centro di audiovestibologia di Varese ha detto che è un centro che cura, la sordità
la considera una malattia?
TIZIANA BASSO - Sì, io considero una malattia la sordità.
FRANCESCA ZUCCHI - Io sono sorda protesizzata, è un handicap non una malattia.
TIZIANA BASSO - Anche essere cardiopatici, ma un bambino che nasce con una epilessia
ha un problema, la sordità è un problema del nostro orecchio che difficilmente colpisce il
nervo acustico, è un difetto delle parti cigliate all'interno che non vibrano per cui non
trasmettono il suono al cervello e non si sente. La nostra formazione familiare, con un marito
medico, quando è stata diagnosticata la sordità di nostro figlio, abbiamo detto: c'è qualcosa
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nel suo orecchio di difettoso, di sbagliato, correggiamolo. In effetti l'impianto cocleare sono
degli elettrodi che vanno inseriti nella coclea e producono queste vibrazioni in quantità ridotte,
sono 22 elettrodi rispetto alle centinaia di migliaia di ciglia di un orecchio sano, quindi c'è una
differenza. So che per voi non è facile accettare questo, ma io sono una sostenitrice che per
esempio la sordità non guarirà mai perché è un handicap, e ritengo giusto ammetterlo. Noi a
Varese forse abbiamo peccato addirittura di eccessiva presunzione dicendo: i sordi adesso
sentono. Così i nostri bambini, mio figlio per primo, non si è mai considerato sordo e se ha
delle difficoltà, come quando era ragazzino che non sentiva bene, diceva che erano gli altri
che parlavano male e non che lui sentisse male. Io ritengo che il giusto sia ammettere che ci
siano delle difficoltà, che vanno superate, affrontate e per me non si guarisce la sordità ma la
si cura attraverso la tenacia, come diceva il signor Luini, attraverso la tecnologia e attraverso
un monitoraggio costante di centri con esperienza.
ANTONELLA CONTI - Vorrei intervenire anch'io. In realtà la risposta ce la dà un organismo
molto grande: l'Organizzazione Mondiale della Sanità tanti anni fa, nel 2002, ha definito il
concetto di salute e ha cambiato il modo con cui viene definita la salute, questo vale per i
medici e per tutti. Che cosa ha detto? Ha introdotto un nuovo classificatore (per noi in
università è una specie di vangelo) che si chiama ICF, international classification of
functioning, questo deficit può diventare una disabilità nel momento in cui incide sulla mia
qualità di vita, nel momento in cui viene alterata la funzione uditiva, non sento i rumori e non
discrimino le parole, questo mi crea una disabilità. Un handicap invece ce l'ho se la società
non mi permette di partecipare, quindi se i segnali sono solo uditivi e non visivi io rimango
escluso. La disabilità non è considerata una malattia, anche un down sarebbe malato a vita,
che la disabilità non è una malattia nella scuola della pedagogia speciale è una conquista di
secoli, è una condizione di vita, ce ne sono tante di disabilità differenti. Il focus non è tanto
sulla malattia, perché anche il concetto di malattia è differente, per noi occidentali la malattia
è un organo che non funziona, per altri sono altre cose, ma il focus è sulle necessità che
questa persona ha, quindi sulle possibilità di farla partecipare alla vita sociale. Ritornando a
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questo ICF, international classification of functioning, la risposta su che cos'è la salute dice:
dipende sostanzialmente dalla qualità della vita e dal livello di partecipazione che questa
persona ha. Una persona può avere un deficit, e questo c'è e rimane anche se fai l'impianto,
a mio avviso, perché nel momento in cui tu nasci persona sorda, quando tolgo gli impianti
immagino per dormire, tranne le mamme con i bambini piccoli, ritorno a essere sordo, non
posso dire che non ho questo deficit. Ma non è una malattia che curo perché è una
condizione di vita che io mi porterò fino a quando campo. Se nasco con una sindrome di
down è una condizione di vita, che mi pone in una situazione di avere determinati bisogni,
non è una malattia, se la società risponde io posso partecipare, se la società non risponde io
non riesco a partecipare. Questa è la logica della Organizzazione Mondiale della Sanità,
quindi sintetizzando questa è la risposta. In termini accademici non è accettata questa cosa:
è una malattia, è un deficit, che mi crea alla disabilità e sul quale la società deve lavorare per
non creare handicap. Non sono solo parole, sono tanti anni che in università si studia da 10
anni, ma il tentativo di fare utilizzare questo icf, sia nella sanità, sia nelle scuole, sia nel
sociale, è in atto da diversi anni, il tentativo di utilizzare questo linguaggio comune che
dovrebbe risolvere questa problematica.
FRANCESCO - Buonasera, io sono Francesco e sono segretario dell'AGUAV e lavoro nella
Audiovestibologia di Varese. Volevo leggere una domanda non mia, scritta da Federico, che
è qui accanto a me: “un udente sordo nella dimensione psicologica e sociale si è diviso in due
categorie psicosociali: io attivo e io passivo. Come vive la sua realtà quotidiana e quali sono
le dinamiche di integrazione”?
ANTONELLA CONTI – Scusi, non abbiamo capito la domanda anche leggendola, può
riformularla in modo diverso. Probabilmente c'è una riflessione sotto, ma non abbiamo capito
la domanda, puoi venire qui a farla?
FEDERICO - Buonasera, sono figlio del presidente dell'associazione AGUAV, nella fase
introduttiva si è parlato di “discriminazione”, allora io ho pensato: ma se un sordo vive in due
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dimensioni opposte, in una dimensione attiva, cioè si integra con gli altri, magari con delle
cose in più rispetto a un utente sordo, passivo, che vive una realtà completamente diversa da
come vivono gli udenti normali.
ANTONELLA CONTI - La comunicazione è interazione. La domanda era questa, Federico,
dimmi se ho capito: quanto una persona sia attiva come sordo, se lo subisce, il discorso del
deficit, e quanto invece si attiva per contrastarlo e per trovare delle strategie, era questa la
domanda o no?
FEDERICO - Quando si è parlato dei processi di discriminazione, io volevo capire se un
sordo vive una sua vita nella sua realtà in modo partecipe, dinamico, attivo, magari può
cogliere qualcosa dagli altri rispetto a uno che è passivo, nella sua vita quotidiana, proprio
perché non riesce a cogliere e a sua volta si crea dei pregiudizi nei confronti degli udenti.
ANTONELLA CONTI - Le testimonianze di questa sera hanno risposto dicendo: quando io mi
pongo delle sfide e lo vivo in modo attivo (è giusto quello che ci aveva scritto Federico), io ho
fatto 7 anni alla cattedra di psicologia sociale, si usa molto questo concetto di ruolo attivo e
passivo, per esempio, io faccio l'insegnante e posso farlo in modo passivo, quindi faccio
sempre gli stessi programmi per arrivare a casa presto, piuttosto che mettere creatività e fare
sempre cose nuove, quindi in maniera attiva. La stessa cosa vale nel deficit che posso avere,
ho una difficoltà di udito, come mi pongo? hanno già risposto tutte le testimonianze questa
sera. Mi viene da dire questa ulteriore riflessione: che cosa serve per essere attivi?
prevalentemente la psicologia ci dice: l'autostima, se io ho l'autostima sotto i piedi, non mi
attivo, perché mi scoraggio prima di partire, se io riesco a renderli sicuri del proprio valore,
allora più facilmente ho la possibilità di vedere dei traguardi raggiungibili. Io posso sfidare la
possibilità di sentire nel momento in cui mi è data un minimo di fattibilità e lo vedo come
qualcosa di fattibile. Sentire è una categoria ampia al suo interno, perché c'è una soglia di
detenzione ci dice la logopedia, sento che c'è un suono ma non sento altro, una soglia di
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discriminazione, riesco a cogliere che ci sono suoni diversi, una soglia di riconoscimento,
riesco a capire delle parole e quindi a comprenderle e poterle identificare. Sicuramente c'è
una attenzione e una parte attiva che una persona deve mettere da questo punto di vista.
Quando avevo messo nella slide: la sordità separa le persone dalle persone, di Helen Keller,
pensavo a questa cosa: io penso che si devono attivare tutti, i sordi devono vivere in modo
attivo, prendere coraggio e fare presenti le proprie difficoltà alla Società. La richiesta dei
pannelli visivi nelle stazioni mi sembra un livello minimo di civiltà che giustamente va portato
avanti insieme, per esempio, e dall'altra parte le persone udenti si devono attivare nei
confronti della sordità, per quello insistevo sul punto numero 1: conoscerla, chi meglio dei
sordi la può presentare, quindi conoscerla bene e pensare a tante situazioni di mettersi nei
panni perché secondo me è un po' più difficile per un udente mettersi nei panni di una
persona che ha questa difficoltà. Quindi io penso che si debbano attivare tutti quanti.
LAURA PARODI – A proposito di
barriere psicologiche, i pregiudizi difficili da sfatare,
perché occorre sensibilizzare tutti gli interlocutori e creare le basi per una vera cultura
all'integrazione, all'inclusione. Io sono educatrice e ho adottato una difesa personale in alcune
situazioni lavorative, giusta o sbagliata che sia a volte, di fare conoscere prima di tutto le mie
capacità, prima di fare conoscere la sordità, questo per il timore che la conoscenza della mia
condizione di disabilità mi discrimini in senso non solo negativo ma anche positivo, cioè
questo aspetto a volte è anche psicologico, anche se la sordità è diventata una parte
integrante della mia identità e le difficoltà che ho affrontato e superato mi hanno forgiata e
temprata nel carattere, però ci sono questi aspetti psicologici che sono più difficili da estirpare
rispetto al pregiudizio.
ANTONELLA CONTI - Grazie a Laura per la considerazione.
Nel mondo del lavoro pubblico o privato è possibile avere il disagio di integrarsi nel gruppo:
quando mi trovo con un collega udente da soli è facile comunicare vicendevolmente, ma
quando sono nel gruppo per svago o altro, io sono nel gruppo e nessuno mi nota. Quindi la
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difficoltà di comunicare quando si è in tanti. Anche se provo a parlare nel gruppo si crea
disagio e a questo punto io la definisco ignoranza. Sono brava e talentuosa nel campo
professionale e si approfittano di me, invece nel campo personale sono invisibile, perché?
Perché sono una persona sorda! questa mi sembra una riflessione.
INTERVENTO - Da normoudente molte volte mi sono trovata in difficoltà - inizialmente,
adesso no - con mio marito, con delle persone che non sentono e mi accorgo che alcune
persone che non ci conoscono sono in difficoltà perché guardano mio marito e dicono: avrà
capito o no, glielo ripeto? Io dico infatti a mio marito: non avere paura, fatti avanti tu. Perché
quando io l'ho conosciuto, per me era normale che avesse gli apparecchi per sentire, ma io
mi sono immedesimata anche nelle altre persone, un normoudente spesso sta zitto o ti isola
perché non sa come comportarsi, perché l'ho provato su di me, io lo vedo anche con alcuni
nostri amici: adesso che lui sente bene, sono più disinvolti, perché lui va avanti e si vede che
non ha problemi, per cui dovete dare una mano anche voi ai normoudenti perché sono in
difficoltà certe volte.
ANTONELLA CONTI - Io concordo pienamente, istruzioni agli udenti.
INTERVENTO – Mi permetto di aggiungere qualcosa a quello che ha detto la moglie del
signor Luini. Io sono una maestra ed è il secondo anno che ho in classe un bambino,
protesizzato molto presto: il bambino non ha mai usato la lis, è oralista in pieno, e sin
dall'inizio ho portato avanti questo discorso. Innanzitutto l'anno scorso aveva 15 ore di
sostegno e quest'anno 11, come insegnante di sostegno, e lo teniamo in disparte ma per fare
in modo che questo bambino tiri fuori le unghie per vincere e difendersi, anche se a scuola è
ben inserito, ma proprio per non avere quei problemi che si dicevano adesso. Ci sono dei
momenti in cui il bambino viene vicino quando non sente, per essere autonomo e inserito in
un contesto. Dalla scuola dell'infanzia mi era arrivato che aveva delle difficoltà borderline
sull'insufficienza mentale. Prima si diceva: la lettoscrittura è meccanica, uno la impara, in
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realtà lui sta procedendo su altri apprendimenti di livelli alti e astratti e io questo borderline
sull'insufficienza mentale non la noto. E a mio avviso c'è una full immersion, ma deve essere
protesizzato perché quando si trova in un contesto come la piscina... Sono due fratelli, il
maggiore che capisce il labiale ce la fa, capisce le indicazioni dell'istruttore, questo manca di
queste capacità. Forse bisognerebbe portare avanti i due aspetti, dargli questa possibilità del
labiale per vincere questa situazione. Per quanto riguarda la rigidità, io l'ho notata nelle
relazioni soprattutto, lui cerca un rapporto privilegiato con un compagno e strada facendo sta
perdendo queste cose, anche se è creativo ma è chiuso in un mondo tuo suo, anche i
bambini autistici disegnano benissimo, pensiamo a Ligabue o a Van Gogh.
INTERVENTO - Buonasera, per quanto riguarda la comunicazione di cui parlava prima, che
cos'è il pensiero rigido, che cosa intende per pensiero rigido?
ANTONELLA CONTI - Io direi prima all'insegnante che a scuola l'alunno sordo mette in crisi
generalmente gli insegnanti, fino a che punto spingere l'autonomia e fino a che punto si nega
un deficit, sono dei punti su cui lavorare. Una cosa dico per essere sintetica: i primi istruttori
dei sordi che sono stati intorno al 1500, quando hanno iniziato l'istruzione di alcuni nobili,
hanno usato prevalentemente la lettura e la scrittura. Se un bambino sordo arriva la scuola
primaria con la possibilità di accedere a un linguaggio che deve avere nella mente, altrimenti
non comprende le parole che legge, questo gli apre l'universo, la lettura e la scrittura.
Ci sono due domande: che cosa si intende per rigidità? per chi ha delle grosse difficoltà
comunicative, di fatto è un po' questo, che io ho notato in alcuni ragazzini sordi che ho
seguito nel contesto scolastico. Sentire troppo poco o troppo male e avere una espressione
troppo limitata, porta il soggetto a chiudersi un po' nelle proprie riflessioni, quindi a tenere
poco conto del pensiero altrui, e essere rigido da questo punto di vista, poco flessibile. È
collegato al concetto di teoria della mente. Per esempio uno dei ragazzi che seguo si chiama
Michele, le insegnanti mi chiamano perché litiga sempre e gli altri lo escludono, fa sempre un
sacco di questioni con gli altri. Alla fine quando lui ha deciso una cosa, nel suo pensiero, è
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universale. Spesso siamo riusciti a uscire da questa rigidità utilizzando dei dialoghi scritti,
perché le parole scritte rimangono, se una parola non si capisce, si può andare a riprendere,
c'è il tempo di riflettere, di guardare, in questo modo con il lavoro di alcuni mesi, è riuscito a
modulare maggiormente il proprio pensiero e quindi il proprio comportamento, a diventare più
flessibile, assertivo è la parola più pregnante che si utilizza, essere in grado di tenere conto
del proprio valore e di quello altrui, e di cercare le mediazioni come tutti nella vita
sostanzialmente.
INTERVENTO - Grazie per la risposta.
ANTONELLA CONTI – Un’altra domanda è: “come si chiama il libro della Leigh”? il libro si
chiama: “a lens on deaf identities (perspectives on deafness)”, una lente sull'identità sorda, in
università Cattolica è possibile trovarlo.
ARMANDO DE SALVATORE - Intendevo dire due cose, una alla maestra e una alla giovane
donna che ha fatto una domanda parlando di sé al lavoro e della sua difficoltà. Quindi volevo
parlare sia di un ambiente, come quello citato dalla maestra, che ha citato due fratelli in
piscina, di cui uno è più in difficoltà e un altro meno, quindi ci può essere una difficoltà in base
a un ambiente specifico. In realtà in piscina siamo tutti in difficoltà. Per quanto riguarda la
condizione della disabilità introdotta dall'ICF, mette in relazione la condizione umana, una
interazione, con un ambiente, che può pregiudicare e può renderci tutti in difficoltà o, se
vogliamo, disabili, o l'ambiente può aiutarci, e anche la tecnologia è considerata ambiente,
anche la relazione e la partecipazione, il fattore umano, è un elemento condizionante. A
proposito di fattore umano, parliamo di qualcosa che ha a che fare con le persone: una
persona che lavora che si autodefiniva una persona che vale sul proprio lavoro ma che
veniva sfruttata, era invisibile, la sua capacità - competenza veniva non valutata per quello
che è. Io volevo invitare tutti, noi genitori e i ragazzi nel proprio percorso, nella loro visione,
soprattutto giovani ragazzi sordi, a provare a farsi una domanda: quale strategia posso
mettere in piedi come azioni, posso provare a fare per cambiare in positivo il mio rapporto
lavorativo? non guardarsi allo specchio sempre come una difficoltà dovuta alla sordità, magari
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c'è bisogno di un passo in più per aprire una relazione, non sempre c'è una incapacità del
mondo, ma bisogna anche fare un passo in avanti. Proviamo a cercare aiuto. Questa
domanda è molto comune a molti ragazzi udenti sul posto di lavoro. Per esempio il fatto che
qualche compagno non parla a mio figlio, ho detto: ma tu hai provato a dirgli ciao? hai provato
a relazionarti? hai provato altre strategie? non essere solo soggetti passivi, ma provare nuove
strade, chiedere aiuto ai consulenti del lavoro? dovrebbero farlo tutti, consulenti dell'amore?
dovrebbero farlo tutti, alla vita di coppia, non tutto è legato all'essere sordi, questo invito lo
faccio a me stesso, a mio figlio e agli amici di mio figlio.
ANTONELLA CONTI - Difficilissimo per me concludere perché è un dibattito molto stimolante,
tante riflessioni, è difficile ricordarle tutte, forse ci vuole più tempo, ma credo che la strada sia
questa: confronto tra associazioni di sordi su tematiche come per esempio quando mi sono
trovata con l'AFA si parlava di figli di sordi, delle ragazze di Roma dicevano: per noi era
irrilevante se i nostri genitori erano sordi o meno. Oggi si è parlato di pregiudizi, di modalità di
superamento, e molti interventi sono stati di persone direttamente sorde, interventi centrati
sull'attivarsi in prima persona. Io da udente mi sento di dire: attiviamo tutti e due, anche gli
udenti che forse hanno difficoltà a comprendere questa situazione, un confronto diretto di
testimonianze, ciascuno porta la propria ricchezza, la propria sfumatura e si condivide un
percorso insieme. Chiuderei qua, grazie a tutti.
La serata è stata tutta
sottotitolata ed ha avuto
anche l’interprete dell LIS per i
sordi segnanti.
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