A chi appartiene la follia? - Società Psicoanalitica Italiana

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A chi appartiene la follia? - Società Psicoanalitica Italiana
A chi appartiene la follia?
Il rapporto tra psichiatria e psicoanalisi nel Regno Unito
JESSICA YAKELEY
Nella tana del leone
Il mio primo paziente durante il training psichiatrico fu un ragazzo che aveva raggiunto una certa
notorietà sulla stampa nazionale britannica: era stato tratto in salvo dalla gabbia dei leoni dello zoo di
Londra mentre la sua testa si trovava ben posizionata tra le fauci di un leone maschio. Dopo che le sue
gravi ferite furonocurate, fu trasferito presso il servizio dove al tempo lavoravo, l’Unità Nazionale per
le Psicosi dell’Ospedale Maudsley di Londra, dove gli venne somministrata la clozapina, ultimo
ritrovato nel campo dei farmaci antipsicotici. Nella mia immaginazione, questo individuo
rappresentava l’antitesi del paziente schizofrenico tipico: era un giovane della mia età, colto, eloquente
ed educato; appariva calmo, razionale e perspicace. Infatti, quando il mio Tutor mi chiese di fare
un’anamnesi trovai inizialmente assai arduo individuare un qualche segno di psicosi, almeno finché
non chiesi al paziente la ragione della sua visita alla tana del leone. Mi disse che era in grado di
comunicare con i felini e che aveva voluto parlare con il «Grande Felino» – il leone maschio, il
capobranco. Allora, data la mia scarsa familiarità con il pensiero psicoanalitico e con le sue possibili
applicazioni nel campo della pratica psichiatrica, il pensiero che da tempo quel giovane si trovasse in
cura proprio dal «Grande Felino» – il noto professore di psichiatria a capo dell’Unità Nazionale per le
Psicosi – e che il suo delirio simboleggiasse il desiderio inconscio di una possente figura paterna non
mi sfiorò nemmeno, né tantomeno passò per la mente del paziente.
Avevo cominciato il training presso un illustre istituto noto come l’«Oxbridge della Psichiatria»
che godeva di un’ottima reputazione internazionale e disponeva di strumenti di ricerca all’avanguardia,
dove però le idee psicoanalitiche erano apertamente avversate. All’inizio, fu come essere gettata nella
tana del leone: benché il Maudsley e l’Istituto di Psichiatria rappresentassero nel Regno Unito il non
plus ultra per quanto riguarda il training e la ricerca in psichiatria e salute mentale, a quel tempo i
giovani medici erano caricati di molta responsabilità già nelle prime fasi del training e, implicitamente,
ci si aspettava da loro che non disturbassero i loro superiori con questioni riguardanti la gestione clinica
quotidiana dei pazienti. Quando, nel cuore della notte, dovevamo prendere decisioni concernenti
pazienti psicotici gravi o con tendenze suicide e avevamo bisogno di consigli e aiuto, facevamo
affidamento più sull’esperienza e la cortesia delle infermiere che sui medici specialisti. Sopravvissuta
al mio incarico presso l’Unità Nazionale per le Psicosi, cominciai il mio secondo lavoro all’interno di
un team appena formato per la salute mentale di comunità. Il mio nuovo Tutor mi avvisò che gli ultimi
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due giovani medici erano andati in malattia a causa dello stress e sperava che io non facessi la stessa
fine. Non lo rividi se non di rado, e benché sua moglie, come appresi in seguito, fosse in effetti una
psicoterapeuta psicoanalitica, lui sembrava quasi del tutto sprovvisto di un’indole terapeutica.
La nostra difesa più manifesta contro la follia che ci circondava risiedeva nella nostra supposta
superiorità intellettuale: eravamo stati scelti tra una serie di candidati altamente qualificati e ci si
aspettava da noi che assorbissimo la saggezza e l’abilità dei nostri predecessori al fine di far progredire
le scoperte scientifiche riguardanti il funzionamento del cervello, in modo tale da trasmettere alle future
generazioni di psichiatri, a nostra volta, il bagaglio delle conoscenze acquisite. Oltre a questo, però,
facevamo affidamento implicitamente e in modo critico sul nostro reciproco sostegno emotivo,
formando ogni anno un gruppo serrato di specializzandi all’interno del quale si consolidavano affetti e
legami intensi e duraturi e dove alcuni, me inclusa, incontrarono il loro futuro coniuge.
Psichiatria e psicoanalisi: due paradigmi conflittuali?
La storia dell’ospedale Maudsley rispecchia quella della psichiatria inglese: ciò che accadeva in
quell’ospedale nei primi anni Novanta durante il mio training rifletteva il modo – carico di
conseguenze per il futuro – in cui psicoanalisi e psichiatria si rapportavano tra loro. Le nuove scoperte
nel campo della genetica, del brain imaging e della psicofarmacologia avevano indotto una disciplina
appena nata, la psichiatria biologica, a credere di aver pienamente sorpassato le intuizioni non solo
della psicoanalisi, ma anche quelle provenienti da una ricca tradizione di psichiatria sociale.
Sono stata formata da una generazione di accademici brillanti, appassionati, in maggioranza
maschi, molti dei quali erano clinici o ricercatori compassionevoli e talentuosi (benché lo status di chi
lavorava nei reparti ospedalieri in qualità di consulente fosse notevolmente inferiore a quello di chi
diventava professore universitario presso l’Istituto di Psichiatria) che erano stati tuttavia disillusi dalle
rivendicazioni della generazione di psichiatri di ispirazione psicoanalitica (molti dei quali erano in
effetti psicoanalisti) che li aveva formati. La competizione e lo scontro vertevano su chi era il vero
detentore di una teoria valida della psicosi: entrambe le parti pretendevano di aver trovato la causa o la
cura. Teorie eziologiche che rimandavano a difetti nella genitorialità erano confutate sulla base di
prove che dimostravano le basi biologiche della schizofrenia.
In modo determinante, Julian Leff e altri avevano chiarito l’epidemiologia della schizofrenia e al
contempo raffinato la teoria del contributo familiare al mantenimento della sofferenza psicotica
attraverso la nozione di «emozione espressa» (Vaughan&Leff, 1976). Queste nozioni, però, furono
contaminate dalla disputa sulle teorie della responsabilità genitoriale. Il risultato fu che quando
arrivammo al Maudsley, le borse di studio che privilegiavano un approccio simile a quello di Leff
erano state sostituite da quelle che andavano in cerca del sostrato biologico delle psicosi. La madre
«schizofrenogena» era stata sostituita dalla madre che, senza colpa alcuna, aveva contratto l’influenza
durante la gravidanza o incontrato complicazioni ostetriche, fattori questi che avevano predisposto lo
sviluppo della malattia psicotica nel bambino. Tenui indizi neurologici nei parenti sani di pazienti
schizofrenici indicavano una base genetica del disturbo, con l’ulteriore supporto di studi sui gemelli e
sulle adozioni che dimostravano la sua ereditarietà. La risonanza magnetica mostrava che il cervello
degli schizofrenici era assai diverso dalla norma. Allo stesso tempo, cure psicoanalitiche a lungo
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termine – per quanto modificate nella tecnica e nel setting in vista del trattamento di pazienti
seriamente disturbati – non potevano competere con la nuova ondata di farmaci antipsicotici di seconda
generazione quali la clozapina e il risperidone (testati negli anni Ottanta e Novanta). Le aziende
farmaceutiche che disponevano di fondi maggiori e che erano più scaltre dal punto di vista
commerciale rispetto agli istituti psicoanalitici – unitamente ai tornaconti commerciali del successo dei
farmaci psicotropi – alimentarono un’industria della ricerca finanziata dalle “Grandi Aziende”, nella
quale ogni singola azienda andava in cerca del profitto. All’Unità Nazionale per le Psicosi, dove i
rappresentanti farmaceutici erano i benvenuti con i loro doni e pranzi gratuiti per il personale, la terapia
familiare – per non parlare di quella psicoanalitica – non veniva più nemmeno contemplata. Il massimo
che veniva offerto in termini di psicologia era costituito da teorie cognitivo-comportamentali sintomospecifiche in caso di deliri o allucinazioni.
Naturalmente, i rapporti tra psichiatria e psicoanalisi avevano cominciato a farsi tesi molto tempo
prima. Lo stesso Freud aveva affermato che «la psicoanalisi fa parte della psicologia e non della
medicina» (Freud, 1927, p.252), un passo che fu utilizzato con successo quando nel 1985 quattro
psicologi americani fecero causa alla Società Psicoanalitica Americana, alla Società Psicoanalitica di
New York e alla Società Psicoanalitica Internazionale. Queste organizzazioni erano state accusate di
discriminazione e violazione delle leggi federali antitrust poiché non permettevano agli psicologi di
formarsi come psicoanalisti adducendo il fatto che non erano medici. Il fine della causa, che fu vinta in
tribunale dagli psicologi nel 1989, era quello di garantire al pubblico la maggiore varietà possibile di
psicoanalisti qualificati. Ciò non era stato possibile fino ad allora, poiché il training psicoanalitico era
riservato ai soli psichiatri (Appel, 2004).
All’interno della Società Psicoanalitica Britannica (BPAS), fondata da Ernest Jones nel 1919, i
pazienti venivano affidati fin dall’inizio ad «analisti profani»: per questo motivo Jones e altri
psicoanalisti di formazione medica furono accusati di negligenza medica dal Consiglio Medico
Generale. Ciò a sua volta portò, tra il 1927 e il 1929, alla creazione di un Comitato Speciale al fine di
«investigare il soggetto della psicoanalisi e di stendere un rapporto su di esso» (Casement, 2004). Uno
dei risultati di questa indagine fu che in Gran Bretagna venne dato il permesso di esercitare agli
psicoanalisti che non erano medici; ciononostante, fino agli anni Settanta, le posizioni chiave
all’interno della Società erano spesso riservate a medici. Al contrario di quanto avvenne negli Stati
Uniti, nella maggioranza dei casi la psicologia in quanto professione reagì alla propria relativa
esclusione con un aperto rifiuto della psicoanalisi e con una messa in ridicolo della sua metapsicologia
e dei suoi metodi. Quest’ atteggiamento è ben riassunto in una frase dello psicologo Hans Eysenck, il
quale nel 1952 affermò che i pazienti in psicoanalisi fanno gli stessi progressi dei gruppi di controllo
non curati (Eysenck, 1952). Ciò significava che secondo l’impostazione empirica tradizionale della
filosofia e della scienza britanniche tipica del ventesimo secolo (con la sua enfasi sulla misurabilità,
l’uso di strumenti di controllo, sull’analisi statistica dei dati e sulla replicabilità) la psicoanalisi non era
da considerarsi dottrina scientifica. Le affermazioni di Eysenck furono appoggiate da filosofi e
scienziati del calibro di Karl Popper e Lewis Wolpert, i quali accusarono la psicoanalisi di non essere in
grado di produrre ipotesi confutabili nelle quali i dati potessero essere oggetto di condivisione e
comprensione (Popper, 1963; Wolpert, 1992).
La psicoanalisi, le cui teorie si affidano al laboratorio del caso clinico singolo e incontrollabile,
trovò difficile adeguarsi a questo paradigma. Ciò indusse alcuni importanti psicoanalisti a sostenere che
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la disciplina psicoanalitica sfuggiva per essenza a ogni tentativo di renderla oggetto di ricerca (Steiner,
1985), cosa che la rendeva più simile alle arti che alle scienze o la classificava al massimo come una
disciplina ermeneutica (Ricoeur, 1970) nella quale i criteri di coerenza interna e plausibilità narrativa
avevano la meglio su ogni tentativo di individuare una conferma esterna della «verità» psicoanalitica
(Spence, 1987). All’interno del dibattito – spesso assai acceso – concernente i relativi punti di forza
dell’empirismo nei confronti di una epistemologia basata sull’analisi euristica, gli psichiatri di
formazione biologica accusavano gli psicoanalisti di rozzo solipsismo, mentre questi ultimi replicavano
schernendo il riduzionismo biologico degli psichiatri.
La conseguenza di tutto questo fu che nel Regno Unito si crearono training differenti per coloro
che erano interessati allo studio psicologico della mente e per coloro che erano interessati invece alla
cura e al trattamento delle psicopatologie. Da un lato, i dipartimenti universitari di psicologia che si
concentravano sull’apprendimento e sulle teorie cognitivo-comportamentali producevano psicologi
clinici che avevano a malapena sentito parlare di Freud e non ne conoscevano affatto le teorie. Questi
psicologi popolarono rapidamente i dipartimenti e le cliniche di terapia psicologica del Servizio
Sanitario Nazionale (NHS). Dall’altro lato, la Società Psicoanalitica Britannica, i sempre più numerosi
istituti di psicoterapia psicoanalitica e di training e tutti quei corsi di consulenza vagamente ispirati a
idee psicoanalitiche producevano diplomati che nella maggioranza dei casi sceglievano la professione
privata al di fuori del Servizio Sanitario Nazionale.
Esiste in realtà, nel Regno Unito, un’illustre tradizione di psicoanalisti attivi nel settore della
salute pubblica già a partire dagli anni Venti. Molti di loro, come Wilfred Bion, John Bowlby, Herbert
Rosenfeld, Henri Rey e Murray Jackson, erano anche psichiatri e contribuirono alla fondazione e
direzione di dipartimenti di psicoterapia che offrivano cure di psicoterapia psicoanalitica finanziate
dallo stato. L’inesorabile ascesa e il successo delle terapie cognitivo-comportamentali fornite in gran
parte dagli psicologi, però, costituirono una seria sfida alle terapie di ispirazione psicoanalitica
all’interno del Servizio Sanitario Nazionale. I professionisti delle teorie cognitivo-comportamentali
furono più inclini e più capaci degli psicoanalisti nel dimostrare che le loro terapie soddisfacevano alla
crescente esigenza che ogni cura disponibile, incluse quelle psicologiche, dovesse essere somministrata
a persone sofferenti psichicamente solo ove «fondata su prove certe». L’efficienza, la qualità, la
sicurezza e l’efficacia in termini di costi di qualsiasi cura finanziata dallo stato deve essere
formalmente valutata attraverso test di controllo randomizzati e, se possibile, anche resa disponibile e
sistematizzata in forma manualistica – un atteggiamento, questo, che discrimina immediatamente la
psicoterapia psicoanalitica, la quale non si adatta certo facilmente a simili criteri.
La necessità di cure fondate su prove certe venne formalizzata attraverso la creazione dell’Istituto
Nazionale per la Salute e l’Eccellenza Clinica (NICE), fondato nel 1999 dal Ministero della Salute con
il pretesto di ridurre le variazioni nella disponibilità e nella qualità delle cure e dei trattamenti offerti
dal Servizio Sanitario Nazionale in tutto il paese. Nella situazione economica attuale, dove le politiche
sanitarie soffrono della mancanza di liquidi, si è reso necessario il razionamento delle cure nel settore
pubblico e i commissari sono sempre più riluttanti a finanziare cure non approvate dal NICE. Ciò ha
messo in serio pericolo la sopravvivenza delle cure di ispirazione psicoanalitica all’interno del Servizio
Sanitario Nazionale. Le uniche istituzioni di impostazione psicoanalitica che sono rimaste quasi
indenni da questa perdita di status sono state le cliniche Tavistock e Portman, ora unitesi a formare il
Tavistock and Portman NHS Foundation Trust. Un’istituzione che gode tuttora di un’ottima
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reputazione a livello nazionale e internazionale per quanto riguarda la qualità del training e dei
trattamenti della salute mentale basati su idee psicoanalitiche e sistemiche. Ciò nonostante, come del
resto accade dappertutto, la Fondazione viene sempre più messa sotto pressione affinché dimostri la
validità dei suoi metodi di cura.
Nel campo della psichiatria inglese, tutti coloro che si sono formati come psicoterapeuti
psicoanalitici hanno sofferto di una crescente demoralizzazione e si sono sentiti sotto assedio. La
misura della loro crescente insicurezza è data dalla ridondanza dei loro titoli: originariamente, il titolo
di «Specialista in Psicoterapia» conteneva implicitamente l’assunto che la loro principale qualifica
fosse quella di psichiatra; dato però che la maggioranza delle persone ignorava che gli psicoterapeuti
potevano avere una formazione medica, essi si sentirono obbligati a specificare il loro status
modificando il titolo in «Psichiatra Specialista in Psicoterapia» e, più recentemente, in «Medico
Psicoterapeuta». Ciò faceva parte del tentativo di convincere non solo il pubblico, ma anche i loro
colleghi medici quanto alle credenziali scientifiche della psicoterapia. Inoltre, l’iscrizione alla Facoltà
di Psicoterapia del Royal College of Psychiatry era tradizionalmente riservata solo a coloro che si erano
formati in psicoterapia psicoanalitica; nell’ultimo decennio, però, il Royal College of Psychiatry – che
stabilisce i curricula psichiatrici per quelli che intraprendono il training post-laurea in psichiatria – ha
permesso a coloro che si specializzano in psicoterapia di specializzarsi formalmente in teorie cognitivocomportamentali piuttosto che in psicoterapia psicoanalitica come indirizzo principale.
Psicoanalisi sotterranea
Nel frattempo, quando iniziai il training al Maudsley e all’Istituto di Psichiatria, il Dipartimento
di Psicoterapia conservava ancora una venerata reputazione e una certa aura mistica e ospitava
psicoanalisti di primo livello come Jonathan Pedder, Christopher Dare e Michael Feldman, sotto la cui
supervisione ebbi il privilegio di lavorare. Il dipartimento, però, stava subendo una progressiva
marginalizzazione all’interno dell’istituzione nella sua globalità. A questo reagì adottando una
posizione sostanzialmente difensiva e isolazionista. Nonostante ciò, benché talvolta i miei colleghi del
training mi prendessero un po’ in giro quando scoprivano che ero in analisi («Non mi ero reso conto
che la psicoanalisi esistesse e che le persone si sdraiassero ancora sul lettino – è proprio come nei
film?»), ebbi la fortuna di far parte di un gruppo dove la maggioranza degli specializzandi mostrava un
qualche interesse per il pensiero psicoanalitico. Anzi, facevamo a gara tra noi a chi prendeva in cura
per primo un paziente in psicoterapia e a chi aveva il miglior supervisore.
A quel tempo, comunque, non ero sufficientemente audace da esternare pubblicamente la mia
ambizione di specializzarmi in psicoterapia, né tanto meno quella di cominciare il training analitico.
Finii quindi per lasciarmi convincere a fare una pausa dopo il primo anno e a prendere parte a un
progetto di ricerca della durata di sei mesi presso l’Istituto di Psichiatria. Il progetto era diretto dal mio
primo Tutor all’Unità Nazionale per le Psicosi e l’oggetto di indagine era la teoria biologica da lui
prediletta in quel momento, ossia quella secondo la quale alcuni casi di schizofrenia erano causati da
complicazioni durante la gravidanza o la nascita. A mettermi sotto pressione erano sottili esigenze di
carriera: a causa dell’ennesima riconfigurazione del training medico post-laurea, tutti dovevamo di
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nuovo fare domanda per mantenere la nostra posizione di specializzandi, e la partecipazione a un
progetto di ricerca era uno degli elementi chiave per “restare dentro”.
Tutto questo, però, coincise con l’inizio della mia analisi: il mio analista viveva nella zona Nord
di Londra (il Maudsley, situato nella zona Sud, distava ben novanta minuti di macchina) e io dovevo
sgattaiolare via in anticipo o in ritardo nella speranza di non essere notata da nessuno. Altre persone,
comunque, sembravano immuni da simili conflitti interiori. Una di queste era la senior lecturer
specializzanda in brain imaging, il cui padre era stato un illustre professore di neuropsichiatria, la quale
dichiarava apertamente di stare facendo un’analisi. A questo alcuni reagivano con smarrimento. La
segretaria del professore per il quale lavoravo, ad esempio, mi disse: «Sa, deve andare in terapia tutti i
giorni!».
Benché la linea ufficiale fosse che la psicoanalisi era antiquata, irrilevante o, peggio, dannosa per
i pazienti, all’interno del Maudsley e dell’Istituto di Psichiatria il pensiero psicoanalitico continuò a
esercitare un certo fascino e a suscitare un inconscio rispetto, sentimenti questi che tendevano a
emergere più o meno nascostamente. Gran parte delle discussioni e della vita scientifica dell’istituzione
avevano luogo nella mensa dell’ospedale, dove l’ora del pranzo era sacra e i professori e i ricercatori
dell’Istituto si mescolavano con gli specializzandi e gli specialisti di comunità. Vista la mia recente
ammissione come candidata da parte dell’Istituto di Psicoanalisi e il mio accresciuto senso di sicurezza
rispetto all’«uscire allo scoperto» pubblicamente come psichiatra con inclinazioni psicoanalitiche,
scoprii che altri psichiatri, inclusi quelli che ne denunciavano apertamente l’inefficacia, davano spesso
inizio a conversazioni sulla psicoanalisi mostrando un misto di curiosità, invidia e rispetto. Un
eminente psichiatra forense ammise che avrebbe voluto intraprendere un’analisi, ma che «non aveva
mai trovato il coraggio di farlo». Quest’atteggiamento era forse il riflesso di un’invidia verso la
capacità di tenere ben saldi i propri principi in un momento in cui l’Istituto di Psichiatria era esposto
alle pressioni di un’ampia sfera politica.
I primi anni Novanta videro l’introduzione da parte di Margaret Tatcher del «mercato interno»
per il Servizio Sanitario Nazionale. Si creò così una scissione tra «compratore» e «fornitore» a causa
della quale i servizi si trovarono a competere tra loro per aggiudicarsi un ammontare limitato di
finanziamenti. Fino a quel momento non c’era stata una chiara linea di demarcazione tra ricerca e
servizi clinici o tra le disposizioni in materia di fondi nazionali e locali; i professori di psichiatria
quindi erano liberi di assecondare i loro particolari interessi di ricerca e spesso mostravano scarso
interesse verso l’effettiva direzione dei reparti o la visita ai pazienti.
Questi cambiamenti politici e finanziari furono in parte conseguenza della chiusura degli ospedali
psichiatrici negli anni Ottanta, del fatto che ci si rese conto che i letti ospedalieri costano e che la
ricerca – in particolare australiana e italiana – mostrava che la psichiatria comunitaria e gli approcci
basati sul modello dell’Assertive Outreach) erano più convenienti in termini di spesa ed efficacia e
risultavano migliori per il benessere dei pazienti. All’improvviso, i professori furono minacciati
dall’introduzione di servizi psichiatrici di comunità settorializzati, dall’ascesa di una modalità di
gestione non medica e da limitazioni finanziarie, così che la linea di demarcazione non riguardava più
solo gli psicoanalisti, i biologi e i cognitivisti, ma anche coloro che erano interessati a ricerche
accademiche e gli psichiatri clinici che tentavano di curare i pazienti (molti dei quali soffrivano di
disturbi della personalità, un’area di ricerca questa relativamente trascurata in confronto alle psicosi)
mantenendoli all’interno della comunità.
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Psichiatria psicodinamica
La psicoanalisi, naturalmente, ha molto da dire a proposito dei processi inconsci di scissione e i
suoi apporti e contributi alla psichiatria sono molteplici e sono stati ben documentati (cfr. ad es.
Gabbard, 2005). Ciò ha creato le condizioni per una “psichiatria psicodinamica” più informata, della
quale esiste una illustre tradizione all’interno della formazione medica inglese sia durante sia dopo i
corsi di laurea (cfr. ad es. Holmes, 1991). I vantaggi di un approccio psicoanalitico alla psichiatria
includono: l’assunzione di una prospettiva attenta ai processi di sviluppo nel concepire la malattia del
paziente come influenzata in modo complesso dalle sue precedenti esperienze e come manifestantesi in
un momento significativo della sua esistenza; la proposta di una differente nosologia che legga il
disturbo mentale attraverso uno spettro che si muove tra normalità e anormalità senza una chiara
distinzione tra malattia mentale e disturbo della personalità (in alternativa alla classificazione
categoriale psichiatrica della malattia mentale come suddivisa in entità patologiche discrete); la
comprensione dei sintomi di tali entità come manifestazioni superficiali di soggiacenti strutture
anormali della personalità piuttosto che come malattie in se stesse; la distinzione tra «stati psicotici
della mente» e forme gravi di malattia psicotica; la presupposizione che ogni paziente, per quanto
inconsciamente, in qualche modo possiede o agisce la propria malattia invece di subirla passivamente
come una condizione biologica; il riconoscimento dell’impatto emotivo del paziente come uno
strumento diagnostico e terapeutico, cioè a dire l’uso del controtransfert.
L’approccio psicoanalitico dà rilievo alla dimensione soggettiva, interpersonale ed esperienziale,
va in cerca di significati fenomenologici, incoraggia il clinico a empatizzare e a identificarsi con
l’esperienza interna e con gli stati emotivi del paziente. Richard Lucas, uno psichiatra e psicoanalista
kleiniano dotato di carisma e talento che, in modo inusuale, operava nel campo della psichiatria
generale piuttosto che in quello della psicoterapia, ha fatto conoscere a generazioni di giovani psichiatri
il pensiero psicodinamico attraverso i suoi «workshop sulle psicosi». Si trattava di seminari a cadenza
settimanale che avevano lo scopo di aiutare i giovani medici a relazionarsi significativamente ai
pazienti che soffrivano di stati psicotici. Lucas esortava a «sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda
psicotica»: voleva dire che bisognava identificare l’elemento psicopatologico dominante e allo stesso
tempo conservare un atteggiamento di generale empatia nei confronti del paziente e considerarlo come
un essere umano invece di oggettivarlo come «lo schizofrenico» (Lucas, 2010).
La concettualizzazione della mente della persona psicotica proposta da Lucas (influenzato dalle
idee di Bion) non considerava la mente come composta di due parti scisse che andavano ricomposte,
ma di due parti completamente separate della personalità – quella psicotica e quella non psicotica – che
operavano in simultanea e andavano affrontate separatamente. È necessaria una costante attenzione ai
processi di controtransfert perché il medico sia in grado di capire quale parte della mente del paziente è
attiva in un determinato momento e se egli si stia relazionando con quella sana o con quella folle
camuffata da normale. Benché all’Unità Nazionale per le Psicosi io non avessi accesso a questo tipo di
pensiero (che sarebbe risultato utile nel rapportarsi a pazienti che sembravano simulare o esagerare i
sintomi, come schernendo la loro stessa follia), più tardi, durante il training psichiatrico al Maudsley e
la specializzazione in psicoterapia, fui supervisionata da Michael Feldman e Leslie Sohn, due talentuosi
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psicoanalisti kleiniani che mi introdussero a idee simili. Pur non essendo una kleiniana, continuo a
trovare utili queste idee.
Molto tempo prima, però, avevo avuto la fortuna di beneficiare di un’esperienza unica durante i
miei studi di medicina, grazie alla quale fui esposta per la prima volta alla psicoterapia e al pensiero
psicodinamico. Ciò avvenne attraverso un progetto denominato Student Psychotherapy Scheme(SPS)
dell’University College di Londra: si tratta di un metodo di insegnamento psicodinamico concernente
la relazione medico-paziente. Esso permette agli studenti di medicina clinica del primo anno di
incontrare a cadenza settimanale un paziente esterno accuratamente selezionato per una psicoterapia
psicodinamica della durata di un anno, sotto la supervisione settimanale di uno psichiatra più anziano
specializzato in psicoterapia. In origine il progetto fu fondato nel 1958 presso l’allora Ambulatorio di
Medicina Psicologica dell’Ospedale dell’University College di Londra (UCH) da parte di tre psichiatri,
Heinz Wolff (fondatore insieme a Henri Rey del Dipartimento di Psicoterapia del Maudsley), Dorothea
Ball e Roger Tregold, i quali erano stati avvicinati da diversi studenti di medicina che desideravano
conoscere meglio i propri pazienti.
Come sede ospedaliera di insegnamento, l’Ospedale dell’University College era un luogo insolito
perché vi fiorivano idee psicodinamiche e perché c’era un forte interesse per la medicina
psicosomatica. Il progetto cominciò presto a godere di grande popolarità e l’Ospedale dell’University
College divenne noto come una delle sedi principali dove esso veniva messo in atto. Così, ai tempi in
cui ero studentessa di medicina, a metà degli anni Ottanta, alcuni illuminati studenti di medicina
avevano scelto di proposito l’Ospedale dell’University College come sede dei loro studi di medicina,
proprio per avere l’opportunità di prendere parte al progetto. Significativamente, il progetto è rimasto
attivo sotto l’egida della Facoltà di Medicina dell’University College di Londra per circa mezzo secolo
affinché gli studenti di medicina potessero approfondire sempre più la loro conoscenza in materia di
capacità e competenze comunicative e di rapporti medico/paziente. Questa esperienza si è rivelata utile
sia per i pazienti in quanto importante introduzione alla psicoterapia, sia per gli studenti in quanto dava
loro l’opportunità di un contatto psicodinamico prolungato con un paziente. Nel mio caso, accettare un
paziente per una psicoterapia senza avere nessuna esperienza al riguardo mi apparve come un’enorme
responsabilità e costituì una delle esperienze più formative durante gli studi di medicina. La mia
paziente era una donna affetta da una lieve forma di psicopatologia borderline. Essa sviluppò
rapidamente nei miei confronti un atteggiamento di dipendenza e attaccamento: i concetti di transfert,
regressione e acting out mi si presentarono in tutta la loro pregnanza quando la paziente assunse una
dose eccessiva, ma non letale, di droga durante le mie ferie annuali.
Nonostante io fossi già interessata alla carriera psichiatrica, l’esperienza di questo progetto
rafforzò e rese definitiva questa scelta e rivestì anche un ruolo formativo nel condurmi alla successiva
decisione di intraprendere il training psicoanalitico. Molti anni dopo, il mio primo incarico di
specialista psichiatra includeva una collaborazione con il mio precedente supervisore all’Ospedale
dell’University College: dovevamo vagliare e investigare i vantaggi del progetto come esperienza di
insegnamento per gli studenti di medicina. In due test di controllo randomizzati mostrammo come la
partecipazione al progetto non solo accrebbe negli studenti di medicina le capacità di comunicazione e
la comprensione dei processi emotivi inconsci all’interno della relazione medico-paziente (Yakeley et
al., 2011), ma anche che essa costituiva un fattore positivo e determinante nella successiva decisione
degli studenti di intraprendere la carriera psichiatrica. Si trattava di un risultato importante data la
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scarsa considerazione in cui gli studenti di medicina tengono la psichiatria, un atteggiamento questo
che contribuisce all’ormai annosa crisi nel reclutamento in questa specialità (Yakeleyet al., 2004). Un
risultato interessante e toccante della nostra ricerca dal punto di vista qualitativo stava nei molti
riscontri da parte di medici che durante i loro anni di studio universitario avevano partecipato al
progetto, ma che poi avevano finito per specializzarsi in medicina generale, medicina ospedaliera o in
chirurgia, ma non in psichiatria. Dai loro resoconti e ricordi emergeva che la partecipazione al progetto
era stata una delle esperienze più importanti degli anni universitari e che li aveva aiutati moltissimo e
ancora li aiutava nel comunicare con i pazienti.
Dal 2004 abbiamo accresciuto ed esteso la possibilità di un incontro con il pensiero
psicodinamico a un numero maggiore di studenti attraverso l’offerta dei cosiddetti «gruppi Balint». Si
tratta di gruppi di discussione a cadenza settimanale basati sulle idee di Michael Balint, il quale in
origine li creò in collaborazione con i medici generici (Balint, 1957). Qui gli studenti vengono
incoraggiati a parlare delle proprie esperienze cliniche con i pazienti allo scopo di sondare gli aspetti
emotivi della malattia e della relazione medico-paziente. Questa procedura assomiglia alle «discussioni
di casi» o alla «pratica riflessiva» tipiche dei gruppi guidati da psicoterapeuti psicoanalitici, le quali
costituiscono ora, nel Regno Unito, una parte obbligatoria del training di tutti gli psichiatri alle prime
armi.
Psicoanalisi psichiatrica?
Mi sono soffermata su alcuni modi significativi nei quali il pensiero psicoanalitico può giovare
alla psichiatria. L’inverso, però, ossia come la psichiatria possa essere di ispirazione alla psicoanalisi,
sembra essere raramente oggetto di discussione. Credo invece che la questione sia importante,
soprattutto se desideriamo che il divario tra la psichiatria e la psicoanalisi non si estenda ulteriormente
fino al punto in cui nessuno psichiatra vorrà più intraprendere il training psicoanalitico.
Nella mia esperienza, una minoranza significativa dei soci anziani della Società Psicoanalitica
Britannica mostra un atteggiamento ambivalente, se non addirittura ostile, verso coloro che nel campo
delle professioni mediche decidono di fare il training psicoanalitico; la stessa cosa vale anche per
coloro che iniziano il training con lo scopo di lavorare in un contesto come il Servizio Sanitario
Nazionale ispirandosi alle idee psicoanalitiche invece di perseguire l’obbiettivo di diventare
«psicoanalisti puri» che ricevono – esercitando la professione privata – pazienti in analisi quattro o
cinque volte alla settimana. La maggioranza degli psichiatri che iniziano il training psicoanalitico
lavorano nel Servizio Sanitario Nazionale ed è probabile che ricorrano a trattamenti di ispirazione
psicoanalitica in combinazione con altri approcci (ad esempio le teorie cognitivo-comportamentali) o
con la somministrazione di farmaci. Gli psichiatri che vogliono diventare analisti, dunque, possono
sentirsi – a torto o a ragione – sottostimati o discriminati durante le varie fasi del loro percorso
formativo all’interno della società. Negli ultimi due decenni, la percentuale di candidati che avevano
qualifiche mediche accettati per il training è notevolmente calata, un andamento che solo recentemente
sembra si stia invertendo.
All’altro capo della traiettoria della carriera psicoanalitica, alcuni cambiamenti nei criteri
necessari per poter essere considerati come analisti in training (come, ad esempio – al momento della
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presentazione della domanda – l’obbligo di avere quattro pazienti in cura simultaneamente con quattro
o cinque sedute psicoanalitiche alla settimana) impediscono l’accesso a molti analisti attivi nel settore
pubblico che hanno la possibilità di seguire non più di due o tre casi contemporaneamente. Più
recentemente, considerato l’orientamento delle attuali politiche governative britanniche in materia di
risparmio e di riduzione della forza lavorativa nel settore pubblico, gli psicoterapeuti di formazione
medica operanti all’interno di strutture del Servizio Sanitario Nazionale quali le cliniche Tavistock e
Portman (dove ho lavorato nell’ultimo decennio) si sentono messi sempre più sotto pressione: di fronte
ai loro colleghi non medici (tutti egualmente qualificati e navigati psicoterapeuti psicoanalitici che
provengono però da altre discipline come la psicologia, i servizi sociali, la psicoterapia infantile, la
terapia sistemica, le discipline infermieristiche o che svolgono il tirocinio) sentono di dover giustificare
le loro più vantaggiose condizioni di impiego e devono rispondere a un interrogativo cruciale: qual è il
valore aggiunto, se esiste, nell’essere uno psicoanalista o uno psicoterapeuta psicoanalitico di
formazione psichiatrica?
Più di una volta, durante il training, venni descritta come «troppo psichiatrica». Il significato di
questa espressione era, credo, che ero troppo concreta, letterale o strutturata nelle mie formulazioni e
teorie e che non ero abbastanza vicina ai meccanismi inconsci di comunicazione e ai significati
simbolici. Ciò poteva certamente essere vero a quel tempo, ma mi piace pensare che alcuni elementi
cruciali della mia formazione medica e psichiatrica si siano mantenuti nel tempo e si siano integrati
(piuttosto che scontrati) con le capacità ed esperienze maturate nel campo della psicoanalisi:
l’esposizione a un’ampia gamma di modelli teorici e l’acquisizione di tutta una serie di capacità nel
campo della leadership, della gestione amministrativa, dell’audit, della metodologia di ricerca e, più
nello specifico, nel campo delle diagnosi e delle valutazioni di rischio. Non solo: a ciò va aggiunto
anche lo sviluppo di una più indefinita ma vitale capacità di tollerare e contenere gli stati estremi della
mente.
Lavorare in un pronto soccorso psichiatrico significa essere esposti all’intero spettro delle
psicopatologie, a stati estremi della mente che si incontrano di rado sul lettino dello psicoanalista – stati
di terrore psicotico, mania, sadismo o ossessività che vanno ben al di là delle descrizioni
psicoanalitiche degli «stati psicotici della mente» deliri e allucinazioni dal contenuto assolutamente
bizzarro, grottesco e incomprensibile; pazienti le cui menti hanno invaso i corpi producendo mutismo
psicotico, catatonia o inedia estrema (come nell’anoressia nervosa), disturbi che sembrano resistere a
qualsivoglia intervento; ancora, pazienti i cui corpi hanno invaso le menti, come quelli che incontrai
durante i primi casi di HIV, quando ancora non era disponibile nessuna cura efficace, dove l’infezione
si era estesa rapidamente attraverso i loro corpi deformati e deperiti per poi eruttare nel loro cervello
come delirio, demenza e psicosi.
Gli psicoanalisti hanno spesso accusato gli psichiatri di nascondersi dietro il loro approccio
diagnostico strutturale per proteggersi da un qualsiasi contatto significativo con l’esperienza soggettiva
del paziente; allo stesso modo, però, il modello psicoanalitico, nel suo tentativo di rintracciare
significati inconsci nella follia, può incorrere nello stesso difetto: fornire una base esplicativa della
malattia del paziente che ha a che fare più con l’analista che con il paziente. In effetti, questo è forse
uno dei vantaggi dell’approccio psicodinamico nel campo della salute mentale: agevolare una qualche
comprensione dei sintomi del paziente e dei suoi modi di relazionarsi agli altri può rivelarsi utile per la
gestione globale di quel paziente perché serve più a ridurre le ansie del personale che a fornire una cura
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specifica per il paziente. Comunque, i sintomi mostrati da alcuni pazienti sembrano effettivamente
incomprensibili – e forse è proprio qui che reagiamo ad essi con interesse – ma il modello
psicoanalitico spesso si immerge troppo rapidamente in un’intelaiatura eziologica dove il significato è
erroneamente fuso con la causa.
In qualità digiovani medici presso l’Unità Nazionale delle Psicosi venivamo molto incoraggiati a
passare la maggior quantità di tempo possibile insieme ai pazienti allo scopo di «imparare a conoscerli
davvero». In questo modo, durante l’ispezione settimanale del reparto da parte dellospecialista,
saremmo stati in grado di descrivere non solo il loro attuale stato mentale e la loro risposta alla cura,
ma anche di mostrare di conoscere le loro abitudini alimentari, quanto dormivano, la loro igiene
personale, i rapporti che avevano con gli altri all’interno del reparto e, cosa più importante, l’esperienza
e la conoscenza che avevano della propria malattia.
La nostra impostazione si basava sulla scuola tedesca di psicopatologia descrittiva, all’interno
della quale Karl Jaspers, nella sua opera pionieristica sulla psicopatologia generale (Jaspers, 1913),
codificò sistematicamente l’esperienza della vita mentale e gli stati emotivi del paziente con grande
ricchezza di dettagli fenomenologici e senza presupporre processi di causazione. Questo approccio fu
aggiornato per la moderna psichiatria da Frank Fish nel suo Psicopatologia clinica (Fish, 1967),
seguito da Andrew Sims con Sintomi nella mente (Sims, 1988), entrambi testi sui quali facevamo
costante affidamento. Invece di oggettivare e deumanizzare il paziente, l’estensione della complessità e
della permutazione dei sintomi e dei segni resa possibile da questo sistema, la quale permetteva di
coprire sia le esperienze interne soggettive del paziente sia le manifestazioni esterne del suo disturbo
dirette agli altri, assicurava un ritratto molto individualizzato di ciascun paziente. Tale ritratto poteva
poi fungere da salda base epistemologica per le nostre successive esplorazioni, ipotesi eziologiche e
integrazioni con altri paradigmi teoretici, incluso quello psicoanalitico.
«Conoscere» il paziente significava anche che ci si aspettava da parte nostra la stesura di una
storia esaustiva dello stesso. Ciò veniva ottenuto in due modi: intervistando il paziente in diverse
occasioni stando sempre attenti ai pregiudizi e alle distorsioni del suo stato mentale e della sua
memoria affioranti sia nel contenuto sia nella forma del suo racconto; rintracciando convalide storiche
e triangolazioni attingendo a una gamma di fonti esterne, nel rispetto di considerazioni riguardanti il
consenso, la capacità e la confidenzialità. Queste fonti includevano i parenti del paziente, i datori di
lavoro, appunti di altre agenzie connesse al paziente; a volte scrivevamo addirittura alle scuole
frequentate dal paziente per ottenere resoconti scolastici passati (una pratica poi caduta in disuso).
Questo metodo permetteva di ricostruire un quadro piuttosto ricco dello sviluppo del paziente, nel
quale si potevano rintracciare gli antecedenti della sua malattia mentale e personalità, che costituiva un
contenitore narrativo-esplicativo avente una funzione terapeutica sia per il paziente sia per coloro che si
prendevano cura di lui.
Questo approccio basato sullo sviluppo è certamente uno dei dogmi del metodo psicoanalitico
classico, ma temo che rischi di diluirsi o addirittura di andare perduto sia nella psichiatria sia nella
psicoanalisi contemporanea, anche se per ragioni diverse. In psichiatria, l’abitudine di tralasciare la
storia pregressa del paziente è stata l’esito accidentale piuttosto che deliberato della pratica clinica
contemporanea, nella quale la semplice quantità di pazienti nonché il loro rapido avvicendarsi nei
reparti di pronto soccorso e nelle attività frenetiche della psichiatria di comunità hanno fatto sì che i
clinici disponessero di troppo poco tempo. Nella psicoanalisi, invece, l’indebolirsi della tendenza a
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ricostruire storicamente i ricordi passati è stato il frutto di una più attenta riflessione. L’idea freudiana
della cura come riportare alla coscienza ricordi dimenticati è stata in parte scardinata dalle scoperte
delle neuroscienze quanto alla distinzione tra memoria autobiografica e memoria implicita e dal
riconoscimento che la memoria non è un processo unitario e che non è mai in grado di replicare
accuratamente eventi del passato perché inevitabilmente e costantemente soggetta alle distorsioni e
ricostruzioni dei processi dinamici della mente. La ricostruzione è caduta in discredito come strumento
terapeutico in corrispondenza di uno spostamento globale del metodo psicoanalitico verso il
riconoscimento della relazione terapeutica come veicolo principale del cambiamento psichico e, più
specificamente, verso un’interpretazione che privilegia il «qui e ora» del paradigma
transfert/controtransfert. Avventurarsi in un dialogo di tipo storico con i pazienti è considerato ora una
trappola terapeutica capace di distogliere l’attenzione del terapeuta dalle ben più rilevanti interazioni
paziente-terapeuta nell’impeto delle dinamiche di transfert.
Ciononostante, ricostruire la storia del paziente è importante, non solo perché permette di
apportare chiarezza alla diagnosi mettendo in luce i fattori predisponenti, gli antecedenti e gli elementi
che hanno fatto da innesco della malattia, ma anche perché, in particolare, è una componente essenziale
della valutazione dei fattori di rischio. Un’attenta valutazione dei rischi dovrebbe far parte della
valutazione di tutti i pazienti prima dell’inizio della terapia, ma si rende particolarmente necessaria
laddove i pazienti abbiano una storia pregressa di agiti (autolesionismo, abuso di droghe o alcolici,
promiscuità, crimini o anche violenze), dal momento che questo genere di comportamenti può
assumere forme peggiori durante il corso del trattamento psicoterapeutico e richiedere un intervento
attivo e diretto.
Nella mia esperienza, però, psicoanalisti e psicoterapeuti si sono astenuti dall’adottare un
approccio sistematico alla valutazione dei rischi per ragioni diverse. Per prima cosa, è ampiamente
diffusa la consapevolezza che un’accurata predizione dei rischi è impossibile e che perciò essa
assomiglia a una sorta di futile esercizio divinatorio nel quale al terapeuta viene richiesta una opinione
che non è più affidabile di quanto si potrebbe leggere in una sfera di cristallo. In secondo luogo, forse
alcuni ritengono che occuparsi di eventi che hanno a che fare con il mondo esterno interferisca con
l’esplorazione del mondo interno del paziente che dovrebbe costituire l’obiettivo centrale dell’impresa
analitica. In terzo luogo, altri probabilmente nutrono preoccupazioni riguardo a questioni confidenziali
e per questo si astengono da una valutazione formale dei rischi per evitare di dover prendere decisioni
sgradevoli riguardo all’opportunità di divulgare fatti privati compromettendo così il setting analitico.
Infine, coloro che operano nel campo della salute mentale, tanto più se psicoterapeuti e psicoanalisti, si
sono giustamente rifiutati di farsi intrappolare nel ruolo di agenti di controllo sociale al servizio della
protezione pubblica a scapito dei bisogni terapeutici del singolo paziente.
In realtà, però, un approccio attuariale centrato sulla valutazione psichiatrica dei rischi si mostra
sorprendentemente compatibile con la teoria psicoanalitica classica nel sostenere il concetto della
ripetizione compulsiva. È la storia personale a predire meglio di ogni altra cosa come qualcuno si
comporterà nel futuro: il quadro clinico – che è spesso fuorviante – ci riesce molto meno. In altre
parole, un individuo con alle spalle una storia di autolesionismo è molto più portato a ripetere un atto
autolesionistico rispetto a uno che non ha una simile storia. Quello che mi preoccupa è che
l’atteggiamento prevalente della psicoanalisi – che enfatizza i limiti della ricostruzione storica a favore
dell’insistenza sul primato dell’interpretazione nel qui e ora, secondo l’assunto implicito che il presente
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contiene il passato – possa portarci a scartare fatti storici importanti che meritano di essere conosciuti e
accettati nella loro realtà storica. Non sto parlando solo di eventi traumatici eventualmente incorsi
durante la fase pre-verbale dello sviluppo e che non possono essere consciamente richiamati, ma di
eventi significativi accaduti magari durante il periodo di latenza, nell’adolescenza o agli inizi dell’età
adulta e che possono essere recuperati attraverso la memoria autobiografica.
Ho notato, nel corso degli anni, una diffusa tendenza da parte degli psicoanalisti e dei terapeuti
(me inclusa) a minimizzare, nel lavoro con pazienti con una storia di agiti, l’importanza di soffermarsi
su tali agiti e, in alcuni casi, a fare pochissimi sforzi per ricostruire la storia del paziente in generale. Mi
ricordo ad esempio di una mia valutazione psicoterapeutica nella quale il paziente aveva negato
qualsiasi episodio di autolesionismo, cosa che io presi quasi per vera senza effettuare ulteriori
approfondimenti – almeno finché non mi ricordai che colui che me lo aveva inviato aveva menzionato
una overdose nel contesto di un litigio del paziente con la madre avvenuto qualche anno prima. Qui la
paziente non stava mentendo consapevolmente perché quando le chiesi ragione di questa faccenda mi
disse che aveva «dimenticato» e che pensava che quello che io intendevo per «autolesionismo» fosse
qualcosa «di più serio, come tagliarsi». Ciò mi indusse a valutare di nuovo il rischio che la paziente
continuasse a «dimenticare» o a negare l’impatto di esperienze interpersonali a forte contenuto emotivo
(incluso ciò che sarebbe emerso nella relazione di transfert), un impatto che poi si sarebbe tradotto
invece in agiti violenti: per questo motivo decisi di consigliare una terapia con un terapeuta più anziano
di quanto si era all’inizio pensato.
In questo caso, corsi il rischio di lasciarmi risucchiare dalla presentazione della paziente nel “qui
e ora”, nel quale percepii che benché comunicasse una vulnerabilità che evocava in me una risposta di
controtransfert materno, la paziente si mostrava motivata e dotata di sufficiente solidità egoica per
poter sostenere un lavoro di esplorazione. Credo che qui il mio controtransfert rappresentasse solo un
lato di quella «relazione di ruolo» agognata dalla paziente e di cui ha parlato Joseph Sandler (Sandler,
1976), per il fatto che io assunsi la posizione dell’oggetto materno amorevole idealizzato. Quello che la
paziente non voleva ricordare non era solo l’overdose, ma anche il contesto relazionale in cui essa si
era verificata, ossia una madre scostante e fredda che per prima aveva allora minimizzato l’overdose
non cercando nemmeno un aiuto professionale per la figlia.
Penso che il ricorso a una posizione teorica nella quale l’esplorazione della storia personale del
paziente venga scoraggiata possa essere adottata inconsciamente dall’analista a scopo difensivo, per
non dover così provare il dolore e l’orrore di fronte a quegli stessi eventi traumatici reali che il paziente
si rifiuta di ricordare per le medesime ragioni, con il risultato che si creano negazioni e comportamenti
collusivi all’interno della diade analitica. Tutto questo può essere ulteriormente inasprito a causa di un
equivoco o di un abuso relativamente diffuso del controtransfert come strumento terapeutico, secondo
il quale i sentimenti o l’esperienza conscia dell’analista nei confronti del paziente vengono
abitudinariamente accettati per come appaiono invece di essere riconosciuti come meccanismi di difesa
contro affetti e costellazioni interne di relazioni oggettuali inconsce e più complesse scatenate dal
paziente nell’analista.
Ritengo, perciò, che un’esplorazione della storia personale del paziente non sia sempre difensiva,
ma formi una parte essenziale della terapia del paziente. La raccolta di informazioni e la ricostruzione
della storia sono importanti per comprendere le radici dei meccanismi di difesa di un paziente,
particolarmente nel caso di individui gravemente disturbati o borderline, vista la gravità dei traumi
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precoci, spesso incorsi in epoca pre-verbale, che questi pazienti di solito hanno subìto. Questa opera di
ricostruzione non dovrebbe limitarsi al processo di valutazione, ma dovrebbe essere protratta
collaborativamente come parte integrante del lavoro terapeutico. I pazienti offriranno spesso un quadro
narrativo lacunoso e frammentario delle fasi iniziali della loro esistenza e la ricostruzione di una
narrazione più coerente, supportata da una rielaborazione dei ricordi all’interno del transfert, forma una
parte vitale della ricostituzione della mente del paziente e del rafforzamento del suo Io.
Un simile lavoro non ignora le inevitabili distorsioni che il paziente apporterà a causa delle sue
fantasie e dei suoi desideri inconsci, le quali vengono costantemente affrontate all’interno della
relazione di transfert con il terapeuta. Se manca il tentativo di ricostruire ed esaminare gli eventi reali
vissuti dal paziente e il loro impatto, il risultato sarà che non solo risulterà limitato e incompleto
l’incontro terapeutico in quanto collocato in un vuoto privo di contesto storico, ma si perderanno di
vista anche gli indicatori storici dei rischi potenziali che un paziente potrebbe porre durante la terapia o
l’analisi. La ricostruzione storica e la valutazione del rischio non dovrebbero essere esercizi ristretti alla
sola pratica psichiatrica, ma dovrebbero formare una parte significativa e costitutiva dell’impresa
psicoanalitica.
Direzioni future
Oggi, nel Regno Unito, sia la psichiatria sia la psicoanalisi devono affrontare sfide molto difficili.
Sotto l’attuale coalizione di governo il Servizio Sanitario Nazionale è sottoposto a tagli nel
finanziamento finora mai visti, in coincidenza con un grande processo di riorganizzazione delle
modalità in cui i suoi servizi sono commissionati (Department of Health, 2010). Nell’ambito della
salute mentale, la continua ristrutturazione dei servizi ha avuto come esito una crescente
frammentazione: accade così che un paziente, nel corso di un unico episodio di malattia, venga fatto
rimbalzare da un team all’altro. Il paziente potrà allora avere a che fare con il team di intervento
precoce, il team per i ricoveri urgenti, il team per la risoluzione delle crisi attivo 24 ore, il team per i
bisogni complessi, il team per il trattamento a domicilio e il team per la guarigione e incontrerà
raramente lo stesso psichiatra o lo stesso infermiere psichiatrico per più di una volta; non avrà
nemmeno il tempo di sviluppare una relazione terapeutica significativa che potrebbe essere una parte
necessaria del suo percorso di cura. Le nozioni di attaccamento e di complessità psicologica e una
prospettiva attenta allo sviluppo sono andate perse nella fretta di curare i pazienti nel modo più rapido
ed economico possibile. L’introduzione del «pagamento in base ai risultati» nei servizi di salute
mentale (in base al quale vengono stabilite di comune accordo tariffe uniformi per il trattamento di
condizioni specifiche) penalizza i pazienti con patologie del carattere complesse che non possono
essere facilmente classificate o curate una dopo l’altra come se si trovassero su un nastro trasportatore.
Tra le vittime principali di queste recenti innovazioni figurano proprio i servizi di psicoterapia
psicoanalitica, molti dei quali sono stati da poco chiusi a seguito di consultazioni inadeguate o perché il
loro personale non ha avuto il tempo per opporsi alle decisioni di chiuderli. Nel frattempo, come è
successo in molti altri paesi, gli psicoanalisti del Regno Unito hanno anche subito il colpo della crisi
economica, la quale ha ridotto considerevolmente il numero dei pazienti in grado di sostenere le spese
per un’analisi. Nel contempo, il numero degli psicoanalisti e degli psicoterapeuti psicoanalitici
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(psichiatri inclusi) che esercitano la professione privata è in costante aumento a causa del minor
numero di posti di lavoro disponibili nel settore pubblico (incluse ridondanze forzate): questa
situazione ha generato sentimenti di amarezza, risentimento e disperazione. È quindi della massima
importanza che la psichiatria e la psicoanalisi collaborino tra loro al fine di evitare che i loro rapporti
interdisciplinari precipitino in ulteriori rivalità e scissioni distruttive.
Il futuro, però, non è tutto così desolante. Vi sono infatti alcuni sviluppi molto promettenti nel
trattamento delle psicosi, dei disturbi di personalità e di coloro che commettono crimini perché affetti
da disturbi mentali. Sono molti gli psichiatri che in questo campo continuano a esercitare la propria
creatività trasversalmente allo spartiacque tra psichiatria e psicoanalisi. Tra di essi spiccano ad esempio
Brian Martindale, fondatore e attuale presidente della Società Internazionale per il Trattamento
Psicologico della Schizofrenia e di altre Psicosi (ISPS), una organizzazione internazionale che
promuove la psicoterapia e le cure psicologiche per persone affette da schizofrenia e altre psicosi;
Anthony Bateman, che in collaborazione con Peter Fonagy ha sviluppato una terapia basata sulla
mentalizzazione, la cui efficacia nel trattamento del disturbo borderline della personalità e di altri
disturbi mentali è stata dimostrata attraverso test di controllo randomizzati (Bateman & Fonagy, 2011);
psichiatri come Rob Hale, EstelaWelldon, Gwen Adshead e Gill McGauley, attivi nel mio stesso
campo, la psicoterapia forense, che promuovono l’applicazione delle idee psicoanalitiche nel
trattamento di coloro che commettono crimini perché affetti da disturbi mentali.
Infine, la conferma che il pensiero psicodinamico e psicoanalitico sono entrati a far parte della
comunità degli psichiatri neurobiologici e genetici mi è giunta di recente quando ho scoperto che il mio
primo professore presso l’Unità Nazionale per le Psicosi ha accettato che l’esperienza dello sviluppo
possa costituire un fattore di rischio nell’eziologia della schizofrenia: è stato provato, infatti, che la
probabilità di sviluppare una malattia psicotica è maggiore nelle donne che hanno subito abusi in età
infantile. Inoltre, un recente dibattito svoltosi presso l’Ospedale Maudsley e intitolato «Prendete
coscienza dell’inconscio» ha approvato con una maggioranza schiacciante la seguente mozione:
«Questo istituto è convinto che la psicoanalisi rivesta un ruolo prezioso nei moderni servizi di salute
mentale». Nei suoi dodici anni di storia, il dibattito del Maudsley è stato quello in assoluto più seguito,
tanto che gli organizzatori si sono trovati a dover lasciar fuori dalla sala almeno la stessa quantità di
persone che era stata ammessa. La conta finale dei voti vide un’inaspettata maggioranza di 260 voti in
favore della mozione, con solo 43 astensioni e 35 voti contrari.
La psichiatria psicoanalitica rimane viva e vegeta, ma continuerà a doversi adattare ai tempi e a
dover combattere per far sentire la sua voce. Allo stesso tempo, il mondo psicoanalitico deve
perseguire un approccio più eclettico e applicato a fianco di quello psicoanalitico puro se vuole avere
qualche speranza di sopravvivenza all’interno dei futuri servizi di salute pubblica sia nel Regno Unito
sia a livello internazionale.
SINTESI
L’autore ricostruisce i difficili rapporti tra psichiatria e psicoanalisi nel Regno Unito dai tempi di Freud,
concentrandosi su come la recente ascesa della psichiatria biologica abbia marginalizzato il pensiero e la pratica
psicoanalitica nel campo della salute mentale. I benefici di un approccio psicoanalitico alla psichiatria sono stati
riconosciuti da tempo, ma l’autore sostiene che, all’inverso, anche la psichiatria può permeare la psicoanalisi,
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particolarmente nell’area della diagnosi e della valutazione dei rischi. La psichiatria e la psicoanalisi devono
quindi collaborare per assicurare la sopravvivenza delle terapie psicoanalitiche nel settore pubblico.
PAROLE CHIAVE: psichiatria, psicoanalisi, psicosi, terapia psicoanalitica.
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