QUI - Grandi e Associati

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Mattinata ventosa con ciliegio
Federico sentiva le voci dalla finestra aperta della cucina. Qualcuno
che si stava lamentando per il rumore delle foglie. Lui aveva già
attaccato la Playstation alla tele. Ancora non poteva accenderla – la
Rai l’aveva salvato dal compito in classe, ma adesso doveva seguire
l’intervista. Non sapeva se seguirla dalla finestra o se scendere di
sotto. Per ora se ne stava sul divano, di fronte alle tazzine dove la
troupe aveva bevuto il caffè mentre lui si era rintanato in camera.
«Signor Romagnoli, – disse una voce – quando è pronto noi si
comincia.»
Avrebbe potuto restare seduto e ascoltare da lì. Ma vedeva il proprio
riflesso sullo schermo spento. La gamba destra sulla coscia sinistra. I
capelli tagliati da poco che, per qualche giorno, gli avrebbero fatto
sembrare la testa quadrata. Guardarsi così gli ricordava quando aveva
il mal di macchina – forse era colpa dei granelli di polvere catturati
dall’elettricità, con la luce radente erano bianchi e grossi.
«Va bene» disse il nonno.
Si alzò, si avvicinò alla finestra.
Sotto il davanzale frusciava il ciliegio, attorniato da troppe persone.
La madre con un vestito color pesca, mai visto prima, e riccioli più
dorati del solito. La coppia di vicini anziani, i Biagini, con indosso
maglioni di lana nonostante la bella giornata di inizio aprile. Poi un
uomo dai capelli bianchi a spazzola che reggeva il microfono. Un
ragazzo alto, indifferente al vento che lo spettinava, la camicia a
maniche corte, che guardava il nonno da dietro l’occhio della
telecamera. Una station-wagon verde bottiglia, impolverata dai tre
chilometri di breccino dal bivio della Statale fin qui a Ca’ Virginia, la
scritta R.A.I. quasi illeggibile sulla fiancata.
Il nonno era seduto nella sua sedia di ferro, col bastone di traverso
sulle ginocchia. Dava le spalle alla tenuta – la sedia era stata girata
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rispetto al solito, in modo che potessero inquadrare dall’orto fino al
fosso e alla collina al di là della valle. Sua madre aveva insistito
perché il nonno mettesse quei pantaloni nuovi, di principe di Galles –
come aveva precisato – che gli facevano sembrare le gambe più
magre. E adesso anche il mento sembrava più magro, più a punta.
L’operatore ruotava la lente dello zoom. Sull’obiettivo si rifletteva la
vigna. La vigna era tanto rigogliosa da nascondere i paletti – verde,
con qualche macchia di ruggine, come gli occhi del nonno.
«Quando sono tornato dalla guerra, casa nostra sembrava un mezzo
rudere. Ma il peggio le bombe l’avevano fatto con la fornace Volponi.
L’avrete vista, scendendo giù.»
«…»
«È andata in malora. C’è rimasta solo la ciminiera. Ma tutti i mattoni
delle case qui intorno li hanno cotti alla Volponi. Comunque io sono
rimasto e ho rimesso a posto il tetto. Mio figlio è nato in quella
camera là, quella al centro.»
«Be’, complimenti» disse il giornalista.
«Il giorno stesso ho piantato il pino al cancello.»
«Bel posto qui, tranquillo, eh?»
«Il ciliegio l’ho piantato invece quand’è nato mio nipote. Undici anni
fa.»
«Quando si sente pronto cominciamo.»
Squillò il telefono. Gli occhi di tutti si spostarono verso la finestra.
Federico si ritirò, corse a rispondere.
«Ciao ba’… sì, sono arrivati… puntuali… sotto il ciliegio… quando
finiscono ti richiamo?»
Federico rimase con la cornetta a mezzaria: Elezioni del cazzo! aveva
detto il padre, e riattaccato. Gettò un’occhiata ai volantini arrivati per
posta. Quello che aveva detto il padre, ieri, mentre nel tg
sventolavano migliaia di bandiere azzurre, azzurre come quei
volantini che recapitavano ogni giorno: intervistano i partigiani solo
perché fra un mese si va a votare.
Passò tra le sedie, attento a non urtarle, – ora il sole batteva sul
tavolino, sopra la custodia di Resident Evil – si riaffacciò.
«Che ne pensa dei giovani d’oggi?»
«Mi fanno pensare a noi, a quando ci prendevano disarmati.»
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Il giornalista tossicchiò, sfogliò il blocchetto.
«Torniamo al passato. Come ci si sente a uscire vivi da un campo di
concentramento?»
«Mi dispiace di non poter più mangiare le cipolle.»
«Cosa?»
Il giornalista si voltò verso sua madre, l’operatore scostò la
telecamera dall’occhio.
«Mio suocero…» disse sua madre.
A Federico diede fastidio che si fosse intromessa, doveva essere solo
il nonno a parlare. Che lo lasciasse dire delle cipolle. E chissà, magari
il nonno avrebbe raccontato anche del ciliegio. Adesso era fiorito, il
ciliegio, di fiori così fitti da sembrare coperto di panna. Ma una volta
il nonno gli aveva detto che se prendi un coltello e fai un taglio nella
corteccia, comincia a uscire il vero ciliegio, da dentro, così piano che
nessuno se ne accorge. E quei bitorzoli neri e contorti che poi nascono
sul tronco, sono le sue cicatrici. Perché il ciliegio, aveva detto, è come
un uomo.
«Mio suocero sta raccontando di quando è uscito da Auschwitz, di
quando ha toccato cibo per la prima volta dopo-»
«Se non trovavo quella casa, – riprese il nonno – quella casa, l’ho già
detto?, no, non ve l’ho detto, nella campagna, be’, quella casa, morivo
di sicuro. Bella, la sala, un tavolone largo e i vassoi pieni di cipolle in
umido…»
«Una cosa per volta. Da capo.»
Il nonno spiegò al giornalista che una mattina, diversamente dal
solito, nessun soldato tedesco aveva aperto la loro baracca. Erano
passate ore, ma lui e gli altri trenta avevano continuato a guardare il
chiavistello che non scorreva. Dall’esterno si sentiva invece un
vociare, parole in tante lingue. Si erano decisi a forzare la porta. Nel
campo si aggiravano i detenuti, sparsi, ognuno col proprio passo,
talpe abbagliate dal sole. I Tedeschi non c’erano più. Le torrette agli
angoli del perimetro spinato erano vuote. In cima alle altane
penzolavano le mitragliatrici. I nazisti, in una notte, avevano
abbandonato il campo, non restava una sola Kübelwagen.
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«Essere liberi sembrava ancora più impossibile perché noi della
diciannove aspettavamo da un giorno all’altro il trasferimento a
Bergenbelzen...»
Nella telecamera la spia rossa era di nuovo accesa.
«I Tedeschi ci avevano scoperto nella baracca un apparecchio per
prendere Radio Londra. La punizione era Bergenbelzen. A
Bergenbelzen l’intero campo era organizzato intorno ai forni.
Aspettavamo di essere caricati su un camion e di andare a morire, e
invece ci svegliamo liberi, così liberi che potevamo metterci a ballare.
Qualcuno dice che sarebbero arrivati i Russi, che era meglio rimanere.
Io vado con chi pensa che potevano tornare i Tedeschi. Ma avevo
paura di avvicinarmi all’uscita. Quando qualcuno voleva farla finita, si
metteva a camminare verso quel cancello. Si incamminavano come
scemi, facevano finta di non sentire la voce dall'altana, una, due volte,
finché la terza era una raffica di mitra.»
«E com’è ritornato a casa?»
«A piedi. Quella volta non avevo bisogno di questo…» colpì il
bastone con le nocche.
«In molti non ce l’hanno fatta, però.»
«È legno di albicocco. Il più duro che c’è. Sentite.»
«In molti non ce l’hanno fatta a tornare.»
Ecco, era adesso che sua madre sarebbe dovuta intervenire, zittire il
giornalista e dirgli di ascoltare il nonno. Il nonno sapeva cose che gli
altri non sapevano. Sapeva addirittura che i maiali capiscono quel che
dicono gli uomini. Era per questo che, il giorno prima che venisse
l’addetto del mattatoio, il maiale allevato dal nonno si metteva a fare
un verso lamentoso. Succedeva ogni anno. Il maiale piangeva perché
aveva capito le parole che si erano scambiati il nonno e suo padre. E il
nonno quella sera la passava ad accarezzare il maiale in mezzo agli
occhi finché non si calmava.
«Molti si sdraiavano su un prato e poi non ce la facevano a rialzarsi.
Il sonno ne ha uccisi parecchi. Non sapevamo dov’eravamo, e poi la
sete, bevevamo ai pozzi delle case ridotte in macerie. Ma più che il
sonno e la sete… la fame. Nella marcia abbiamo preso a morsi di
tutto. Fiori, bacche strane, girasoli. Un giorno pure le pannocchie
secche, appese al sottotetto di un porcile, i maiali ovviamente erano
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già spariti. Finché non abbiamo trovato quella casa lì. Un sogno, in
fondo a un campo d’orzo. Devo la vita a quella casa. Peccato però –
accennò all’orto col bastone – peccato però per le cipolle…»
«Si può sapere cos’è ’sta faccenda?!» il giornalista abbassò il
microfono.
«C’era un portico, con le poltroncine di vimini, ancora me le vedo,
rivolte verso il giardino. Diamo una voce, non risponde nessuno.
Entriamo. Un gran silenzio. Si fa il giro delle stanze. Erano due piani,
tutti i pavimenti di marmo, pure le scale. I quadri alle pareti, sui
mobili i candelabri con le candele, i divani puliti, le mensole con gli
oggettini. Le finestre aperte, come per far cambiare l’aria, e le tende. E
a piano terra c’era un salone. Nel mezzo una tavola lunga, con una
tovaglia, bianca, Walter dice che è di seta, lui ha fatto il sarto. Sopra,
vassoi d’argento riempiti di cipolle in umido. Restiamo lì a guardare.
Aspettiamo. Avevamo paura. E se era un trucco dei Tedeschi? Nel
campo sapevamo che facevano le torture ai cristiani, e vuoi vedere
che ci avevano lasciato fuggire, che ci avevano fatto trovare questa
casa e adesso erano nascosti a spiare come ci ingozzavamo? E poi
perché solo cipolle? Con che diavolo le avevano condite? Magari ci
avevano sparso un acido inodore…»
«Ma alla fine era cibo vero, – disse il giornalista – cibo buono…»
«Ah, buono sì.»
«E allora perché ‘peccato per le cipolle’?»
«Mi dispiace perché da quella volta… e chi le può mangiare più? Un
peccato. Qui da noi – accennò di nuovo all’orto – qui da noi c’è un
terreno ottimo. E io le semino. Ma non per mangiarle, non io. Ne ho
mangiate così tante, in quella casa, che oggi l’odore, anche solo
l’odore, mi dà il voltastomaco. Più che un bacherozzo nel brodo.
Giuro.»
Federico addocchiò il cestino sulla mensola. Spuntava una cipolla
dal velo rossastro. Scherzava spesso col nonno, sapendo che gli
facevano ribrezzo. Gliene avvicinava uno spicchio al naso, lui lo
scansava schifito.
«Le mie cipolle le mangiano quelli di casa…»
«E volevo ancora chiederle, Signor Romagnoli, cosa pensa di questa
società che avanza, votata solo al denaro?»
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«Ma anche se non servissero a niente, anche se in casa mia nessuno
le volesse, le seminerei uguale. Mi piacciono da vedere. Mi piace la
forma che hanno, sono belle. Le avete mai guardate bene? Da vicino,
dico.»
«…»
«Io le guardo spesso.»
«…»
«Se vuole, a lei e al suo amico, gliene regalo una cassetta. Ne ho
diverse nel fondo.»
Il giornalista spense il microfono. L’operatore fece scivolare la
telecamera dalla spalla.
«L’intervista è finita, – disse il giornalista – Signor Romagnoli.» Poi
all’operatore: «Qualcosa c’ha pur detto.»
«Allora arrivederci» disse il nonno che si alzò dalla sedia, si aggiustò
la coppola e si incamminò in direzione della vigna.
Federico si ritrasse, aprì la custodia di Resident Evil. Il disco con lo
zombi che allungava le mani gialle, dalla bocca gli usciva una verme
grosso come un baco da seta. Lanciò il dvd sul divano e corse di sotto.
Sua madre stava parlando col giornalista. L’operatore aveva
appoggiato a terra una valigetta rigida, ci stava riponendo la
telecamera via via che la smontava.
«Ci spedite il servizio a casa, giusto?»
«Sempre che non decidano di scartare tutto.»
«Come ‘scartare’…»
«Signora, mi dica la verità. Lei cosa direbbe a sentire un’intervista
dove c’è un vecchio che parla con amore delle sue cipolle? Abbiamo
detto cipolle e non tulipani o rose. Insomma, di un racconto così, cosa
penserebbe? Una casa intatta tra le bombe, una tavola imbandita in
mezzo al niente…»
«Ma è la verità!»
«E allora?»
Il giornalista si girò, tornava alla station-wagon. Salì dalla parte del
volante e mise in moto. L’altro stava ancora sistemando la valigetta
nel bagagliaio.
«Eri qui?» disse sua madre voltantosi verso Federico.
«Ha chiamato il babbo…»
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Lei lo scansò per rientrare in casa.
L’operatore sbattè il portabagagli e salì. Le ruote della station-wagon
fecero saltare la ghiaia senza riguardo. Federico rimase a osservare la
macchina che oltrepassava il pino, sobbalzando all’altezza del
cancello.
Andò sotto il ciliegio. Rigirò la sedia, si sedette.
L’ombra dei rami galleggiava sull’erba. Toccò la grossa corda con cui
il nonno aveva assicurato la sedia al tronco. Aveva avuto l’accortezza
di mettere un pezzo di gomma tutto intorno, un vecchio copertone,
per non fare del male al ciliegio. La corda era logora, dentro si vedeva
il fil di ferro. Guardò verso la tenuta. Il vento portava l’odore del
rosmarino, il cespuglio era coperto di piccoli fiori azzurro-blu. Il
nonno era curvo su un filare. Li avrebbe controllati toccando quasi
ogni foglia. Otto filari. Aveva ragione il giornalista, era un bel posto,
tranquillo. Il cinguettìo era così forte che se ci facevi caso poteva
sembrare un chiasso, cani che abbaiavano, non si capiva da dove. Le
rondini scendevano in picchiata nella valle, risalivano come se
rimbalzassero. Un bel posto, avevano detto il giornalista e l’operatore
– però adesso stavano andando via. Anche i Biagini si stavano
allontanando, loro a piedi.
Guardò la finestra della cucina: sua madre col portatile all’orecchio.
Gesticolava nervosa, le succedeva ogni volta che si agitava parlando al
telefono. Lui prese un bel respiro e si mise a guardare di nuovo la
tenuta. Così faceva il nonno. Il nonno sembrava sempre pacioso sotto
il ciliegio. Anche se aveva quelle cose dentro – il rumore dei mitra, il
risvegliarsi al mattino in una baracca, il filo spinato che ti rinchiudeva
come una bestia.
«Hanno detto che forse non la usano – disse la madre – Hanno detto
che non ci si crede a uno che parla con amore delle sue cipolle.»
Strinse i pugni sui braccioli. La finestra, sua madre, l’orto, i vicini
che tornavano a casa a piedi – li stava tenendo insieme con la stretta
delle mani. La fiancata con la scritta R.A.I . ricomparve alla svolta in
salita.
«Trattare così un povero vecchio…»
Si girò verso il nonno. Aveva sentito? O faceva finta di no? Chi stava
sentendo tutto era l’albero alle sue spalle. Abbassò una mano per
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sfiorare il tronco. A una prima occhiata, sembrava una corteccia
compatta, resistente come il bronzo a cui assomigliava nel colore. E
invece era piena di piccole imperfezioni, bozzoli neri, escrescenze, in
quei punti in cui la corteccia si era spaccata per qualche motivo. Il
bronzo era soltanto una lamina sottile che fasciava il tronco come una
benda. Il vero ciliegio, come sapeva il nonno, era dentro. Eppure, su
in alto, sui rami candidi, sembrava un altro albero. Gli sarebbe
piaciuto mangiare quei fiori che odoravano di miele e che toglievano
il dolore.
«Al telefono mi avevano detto che l’avrebbero mandata in onda il 25
aprile.»
Federico scattò in piedi. Fece tre passi in avanti, come per gridare
alla madre di stare zitta, o al nonno che non era vero niente, o per
urlare contro la macchina della Rai dove quei due stavano ridendo –
ma sollevò la mano per schermarsi dalla luce. Era veramente piccolo,
quell’altro 25 aprile, ma ricordava il nonno sul palco della piazza di
Urbino, la medaglia che gli avevano appuntato sulla giacca come se
fosse una spilla, il velluto degli stendardi, poi la marcia a piedi fino al
Parco della Rimembranza, al passo con la banda, la corona di alloro
che li precedeva tutti.
Entrò nel fondo. Il nonno teneva le cipolle nelle cassette per la frutta
accanto all’Ape. Erano sistemate in file ordinate. Ne prese una. Aveva
un velo così compatto, odorava appena.
«Fede!» sua madre, ancora dalla cucina.
Significava che aveva finito la telefonata con suo padre e adesso
voleva in qualche modo continuarla con lui, dire quanto avevano
mancato di rispetto al nonno, dire altre cose sempre con quella voce.
Spostò le cipolle nella cassetta finché sembrò che non ne mancasse
nessuna. Dopo aver controllato che lei non fosse alla finestra, uscì di
soppiatto. Corse svelto verso la strada.
I Biagini erano già rientrati in casa. Attraverso l’edera del cancello
vide la loro Mercedes, con lo stesso velo di polvere che si era steso
sulla macchina della Rai. Continuò in salita, ma non sapeva dove
andare, e si fermò davanti al numero civico di porcellana dipinta a
mano, la villa del dentista. Il cancello scorrevole era aperto, la
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macchia blu della piscina e l’antenna parabolica, il loro silenzio che
minacciava il nonno.
Arrivò fino alle rovine della fornace Volponi. Era vero, di sicuro,
quello che aveva detto il nonno: alla fornace Volponi avevano cotto i
mattoni di ogni casa dei paraggi – ma adesso il tetto era crollato quasi
per intero. Si vedevano le travi sbilenche e le pareti ancora in piedi
erano infestate dall’erba murella. Rimaneva su la ciminiera che
svettava sopra le macerie.
«Fedeee!»
Era salito abbastanza per vedere casa sua dall’alto. La storia di Ca’
Virginia, come la raccontava il nonno, era molto diversa da come la
raccontava suo padre. Suo padre aveva quella frase – hai avuto un bel
culo, te, Fede, a girare col triciclo intorno a una BMW – che cambiava
tutto. Pensò di essere il nonno che tornava a piedi dalla guerra e
vedeva, da lì, il buco sul tetto provocato dalla bomba. Non si metteva
a frignare, ma si rimboccava le maniche e lo restaurava. Poco dopo gli
saltava in testa l’idea di mettersi a costruire divani, di aprire una ditta
dove all’inizio erano solo lui e il figlio, ma nel giro di un niente venti
operai e furgoncini con la scritta ‘Romagnoli’. Adesso passava quasi
l’intera giornata nell’orto. A curare delle cipolle che non gli
piacevano, anzi, che lo facevano vomitare. Ma le seminava e
annaffiava e conservava nelle cassette per loro, quelli di casa.
Il rumore di una macchina – dovevano essere i due della Rai che
tornavano indietro. Parcheggiavano, chiedevano scusa a sua madre,
davano la mano al nonno e gli dicevano che il 25 aprile avrebbero
trasmesso tutto quello che lui aveva detto sulle cipolle. Vide il Suv del
dentista alzare un gran polverone.
«Fedeee!»
Doveva scappare dalla voce di sua madre. Non le avrebbe lasciato
dire, non a lui, che il nonno era un povero vecchio. Entrò nel vialetto
della fornace sbarrato da una catenella ridicola e da un cartello
arrugginito di accesso vietato. Nella parte più alta della ciminiera
c’era ancora il segno nero del fumo. Così doveva essersi immaginato
Bergenbelzen, il nonno, quando aspettava il camion nella baracca 19
di Auschwitz. Costruzioni basse, una ciminiera nel mezzo.
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La cipolla stava nella mano come una pallina da tennis, poteva
tirarla verso i resti della fornace. Ma doveva morderla. Se non lo
faceva, il nonno non sarebbe tornato dalla vigna. E Ca’ Virginia
sarebbe crollata come la fornace Volponi. E il ciliegio si sarebbe
spaccato, avrebbe versato per mille anni quanto la sua fragile
corteccia teneva dentro, così fragile nonostante assomigliasse al
bronzo. Schiacciò la cipolla col pollice. Si sprigionò l’odore acre.
Affondò ancora il dito. Quello che non aveva urlato alla madre e alla
macchina della Rai era in questa poltiglia. Chiuse gli occhi. L’avvicinò
alla bocca e le diede un morso, pensando al nonno ad Auschwitz, il
nonno che non sapeva, steso in quella baracca, di avere qualcuno che
stava pensando a lui.
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