Matrimonio, quel vincolo chiamato liberta
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Matrimonio, quel vincolo chiamato liberta
In copertina: Pietro Ayres, Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo (olio su tela, terzo decennio del XIX secolo - Palazzo Barolo, Torino) e Pietro Ayres, Marchesa Giulia di Barolo nata Colbert (olio su tela, terzo decennio del XIX secolo - Palazzo Barolo, Torino). Composizione fotografica realizzata da Sergio Solavaggione, 2006. © 2014 La Fontana di Siloe La Fontana di Siloe è un marchio di Il Quadrante s.r.l. Il Quadrante s.r.l. corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: gennaio 2014 ISBN 978-88-6737-023-8 Cristina Siccardi MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA L’unione di Fede, Speranza e Carità di Tancredi Falletti di Barolo e Juliette Colbert MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTÀ Premessa Nella storia dell’umanità non sono molte le coppie di sposi perfettamente riuscite, coppie che si siano distinte per l’armonia fra i coniugi che si siano prodigati, con i medesimi intenti, per il bene del prossimo. Fra queste rare coppie sono da annoverare Tancredi Falletti di Barolo e Juliette Colbert de Maulévrier. Nella civiltà contemporanea, che ha perso la sua fisionomia cristiana, il matrimonio è continuamente minato da uno stile di vita fuori dalle regole e dalle leggi naturali e divine, sostituite da un concetto non più definito di coppia: essa si crea e si distrugge in nome di una presunta libertà e che, in definitiva, va sotto il nome di «libertinaggio». Tancredi e Juliette non soltanto vissero cristianamente, seriamente e costruttivamente il loro reciproco amore, ma lo offrirono a Dio. Prese separatamente le loro figure sono straordinarie, moltiplicate per due sono la dimostrazione che il mondo si può davvero cambiare, se le regole di comportamento sono dettate dai principi evangelici. La Fede cattolica, infatti, è stata il fondamento sul quale hanno edificato la loro casa sulla roccia. Ambedue hanno saputo mettere a frutto talenti, ricchezze, prestigio per la Gloria di Dio e per la riabilitazione degli indi- 8 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA genti. Essi sono la dimostrazione concreta che è cristianamente possibile possedere molti beni e tuttavia esserne distaccati; sono la prova inconfutabile che se la ricchezza sta nell’anima, allora prestigio e potere possono essere messi al servizio di Dio e degli altri con sorprendenti risultati. Attaccando il loro cuore non ai beni materiali ma a Cristo, hanno abbracciato la Croce e così facendo hanno fatto loro le Sue sofferenze e le sofferenze degli infelici. Sono divenuti, come già li chiamavano quando erano in vita, «padre e madre dei poveri», ottenendo quel titolo genitoriale che di natura non ebbero. La Provvidenza divina ha loro negato il conforto di crearsi una famiglia naturale, perché nei suoi mirabili disegni dovevano formarsi una famiglia, ben più numerosa e confortevole, la famiglia del cuore, per l’amore di Dio e del prossimo, nelle schiere innumerevoli della gioventù che essi avrebbero beneficato. Ben intesero i Barolo i disegni di Dio, e con le copiose ricchezze possedute, e con l’esercizio delle virtù più elette corrisposero degnamente ai disegni di Dio. 1 Cristo è stato il collante della loro unione coniugale, Cristo è stato il loro vessillo, la loro guida, il loro Maestro, il loro supremo obiettivo, tutto il resto è stata una conseguenza di questo amore incondizionato che derivava da una Fede che non era sentimento, ma vita quotidiana e che manifestavano pubblicamente, senza timori o ipocrisia. Hanno vissuto con Speranza, donandola generosamente e gratuitamente agli altri con il loro costante aiuto e la loro serena presenza: migliaia di persone hanno così abbracciato la gioia di esistere, hanno trovato una chiave per aprire la porta che ha risolto i loro problemi in terra, scoprendo pure la chiave che ha aperto loro il mistero della Salvezza eterna. Tancredi e Juliette PREMESSA 9 hanno vissuto in funzione della Carità, per la quale si sono spesi totalmente, consumandosi in essa. Pur ciascuno dotato di una propria e spiccata personalità, non sono mai stati succubi l’uno dell’altra, bensì sempre padroni di se stessi, ma in profonda sintonia, una sintonia che permise loro di comprendere realmente che cosa significa essere marito e moglie: i loro sguardi, persi e guadagnati nell’amore reciproco, inglobavano l’essenza dell’esistere, che per un credente consiste nell’onorare, lodare il Creatore e amare il prossimo come se stessi. Non si può dimenticare che le generose e innovatrici iniziative sociali di Tancredi di Barolo furono originate da una comunione di vita e di ideali con la sua sposa, da una vita coniugale ricca di sensibilità umana e sociale e soprattutto di carità cristiana. Parallelamente, la vita e le opere di Giulia di Barolo furono sempre in perfetta sintonia con gli ideali del marito, da lei significativamente definito il migliore degli uomini. E va aggiunto che, dopo la morte del marito, Giulia decise di intensificare e di moltiplicare le sue opere di carità proprio nel ricordo di Tancredi, come per obbedire a un suo comandamento, per realizzare quegli ideali di carità cristiana che li avevano accomunati durante il matrimonio. […] Due sposi che meritano il riconoscimento della loro santità. Non è difficile vedere la sapiente mano della Divina Provvidenza nella unione coniugale di Tancredi e Giulia, ambedue profondamente nutriti di grande fede religiosa, di carità cristiana intelligente e concreta, di acuta sensibilità per le drammatiche condizioni sociali di tanta povera gente. 2 In un’epoca nella quale il matrimonio ha perso la sua dimensione sacramentale per entrare in una dimensione pret- 10 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA tamente egocentrica ed individualista, dove il divorzio è diventato fatto normale, come normale è considerata la convivenza, senza più considerare la legge divina che chiama l’uomo e la donna a divenire una cosa sola sotto la grazia di Dio, Tancredi e Juliette parlano alle confuse e squilibrate unioni di oggi con il loro riuscitissimo matrimonio: 32 anni di vita comune, dove tutto veniva condiviso in un cuor solo ed un’anima sola. Ciò che apparteneva all’uno apparteneva all’altra, per quanto riguarda sia i beni materiali, sia quelli spirituali: nulla celavano di sé e tutto mettevano al servizio del Regno di Dio. Un’unione fuori moda? Più realistico affermare: un’unione d’eccezione e senza tempo. Ciascuno consapevole delle proprie responsabilità e della serietà della fuggevole vita. Può essere allora il «vincolo» matrimoniale considerato una trappola o una catena per la personale libertà e per l’individuale realizzazione? Tancredi e Juliette nel loro matrimonio si sono messi in gioco fino in fondo, con tutta la propria libertà; hanno camminato insieme, in unità, per rispondere personalmente alla comune chiamata alla santità. Testimoniano ancora oggi, anzi proprio oggi, la bellezza del matrimonio che non mortifica i desideri, le capacità e le attitudini personali, ma li potenzia per la ricchezza, la purificazione e la letizia che deriva da un quotidiano e sempre rinnovato confronto e incontro. Il matrimonio, così, ben lontano dall’essere trappola o catena, si configura come «vincolo di grazia». Una grazia sì, anzi strumento della Grazia – un sacramento appunto! – perché atto a santificare attraverso l’esercizio delle virtù teologali, e quindi a rendere felici davvero. PREMESSA 11 Per la realizzazione di questo studio ringrazio vivamente le Suore di Sant’Anna, in particolare Suor Felicia Frascogna, le Figlie del Gesù Buon Pastore, in particolare Suor Ave Tago, Daniele Bolognini e il Dott. Gustavo Mola di Nomaglio. Nel centenario della morte del Marchese Tancredi Falletti di Barolo, discorso commemorativo di Mons. Edoardo Busca vice Presidente dell’Opera Pia Barolo, tenuto nel gran salone del Palazzo Barolo in Torino il 17 dicembre 1938, L.I.C.E. Roberto Berruti & C., Torino 1939, p. 15. 2 F. Gamba, Saluti, in Felicità - Verità - Bellezza, I volti della Carità di Carlo Tancredi di Barolo (1782-1838), Atti del Convegno, Torino 14 novembre 2008, a cura della Congregazione delle Suore di Sant’Anna, CLS Arti grafiche, Carmagnola (TO) 2009, p. 5. 1 1 In vita come in morte Si dice che un uomo muore come ha vissuto. Si dice anche che dietro ad un grande uomo c’è una grande donna. Tancredi di Barolo morì in grazia di Dio, così come era vissuto ed ebbe al suo fianco una donna eccezionale, Juliette Colbert, ma Juliette ebbe Tancredi, un uomo eccezionale. Insieme offrirono tutta la loro vita al Signore e al prossimo. Quando sopraggiunse la morte, egli era pronto e tutto aveva predisposto. La sua intelligenza e la sua altissima sensibilità spirituale la si può cogliere, in sintesi, nel suo testamento, redatto il 19 maggio 1838 1. «Testamento breve, savio, che tutti approvano, e massimamente ognuno si consola che sia erede una così sicura seguace delle virtù di lui» 2. Il suo primo pensiero è alla Trinità, poi al luogo dove riposeranno le sue spoglie e alla sua diletta Juliette, che ama, stima, ammira al di sopra di ogni altra creatura al mondo: In nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, così sia! Riflettendo all’incertezza dell’ora della morte, e desiderando provvedere alla disposizione di quelle cose, e di quei beni di cui Iddio mi volle possessore in questo mondo, ma che nella sua imperscrutabile saviezza non permise che io avessi a trasmettere in linea di discendenza diretta, io mi sono determinato a fare 14 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA questo atto di mia volontà, col quale ho ordinato, e disposto, come ordino e dispongo nel modo seguente: E primo: Intendo che dopo la mia morte il mio corpo sia trasferito al Campo Santo di questa Città, ed ivi seppellito nella sepoltura privata n° 197 di mia proprietà, e che ov’io non abbia avuto tempo di prepararmi anticipatamente la mia tomba in detto luogo, sia eretto sulla mia fossa un monumento semplicissimo […]. Desidero pure, che dopo la mia morte non si seppellisca più veruna persona in detta sepoltura, ma resti tutto lo spazio rimanente a disposizione di mia Consorte la Marchesa Giulietta Falletti di Barolo, pel caso in cui volesse fissarvi la sua sepoltura. […] Ed in tutti li miei beni stabiliti e mobili, ragioni ed azioni, ovunque siano e si possano trovare, nomino mio Erede universale la Marchesa Giulietta Francesca Falletti di Barolo, nata Colbert mia dilettissima Consorte e ciò in pegno del profondo affetto che io ho sempre nodrito per lei, e della mia alta stima, ed ammirazione per le sue virtù, volendo così porla in grado di proseguirne l’esercizio a maggior gloria di nostra Santa Religione, a beneficio dei miei Concittadini, ed a suffragio dell’anima mia. […] Persuaso ch’ella darà una pronta ed intera esecuzione a tutte le sovra espresse mie intenzioni e disposizioni in ogni loro parte, ed anche col soddisfare entro un anno i legati pei quali non ho fissato un termine, pieno altronde di fiducia nel suo vivo affetto per la mia memoria, io l’autorizzo ad aggiungere a queste mie disposizioni quelle altre che per circostanze sopravvenute crederà più convenienti, benefiche od onorevoli esaminando coll’assistenza del mio esecutore testamentario se ne nominerò uno con ulteriori disposizioni, oppure di persone savie, prudenti, e perite nelle Leggi a di lei scelta, quelle omissioni, od errori che potessero trovarsi nelle disposizioni da me fatte, men- IN VITA COME IN MORTE 15 tre penso con somma soddisfazione che ella farà certamente delle mie sostanze quel buon uso che è da lungo tempo lo scopo dei nostri comuni ed incessanti desideri. 3 Le esequie devono essere semplici e austere. Esistono testimonianze che asseriscono il suo dispiacere di fronte alla cerimonia troppo sfarzosa tenuta per il funerale del padre Ottavio nella parrocchia di San Dalmazzo. Tancredi domanda che sulla sua tomba sia eretto un monumento «semplicissimo sol bastante» ad applicare la norma «degli ordinamenti stabiliti». Il Marchese chiede poi che nessuno, dopo di lui, venga seppellito nello stesso luogo, «ma resti tutto lo spazio rimanente a disposizione di mia Consorte» nel caso ella volesse poi esservi sepolta. Le esequie, da svolgersi alla parrocchia di San Dalmazzo, dovranno, ribadisce, essere sobrie, senza alcuna «pompa, né intervento di orfane, spedalieri, od altra corporazione». Sollecita, invece, la celebrazione «nel più breve termine possibile» di sante messe di suffragio per la sua anima «in numero di mille». Segue un elenco di elemosine da destinare ai poveri «in suffragio dell’anima mia», da effettuarsi entro sei mesi dal decesso. Tancredi in ogni sua decisione non tralascia mai la presenza di Juliette, lei è perennemente al suo fianco, in vita come in morte. Le sue volontà sono quelle che lei vorrebbe, come le scelte di lei saranno sempre quelle di lui. Le parole a lei indirizzate saranno da Juliette citate nel proprio testamento, aggiungendo «Tale si era l’ultimo linguaggio del migliore degli uomini» 4. Così prosegue: La Provvidenza avendo voluto, nella sua sapienza, contro ogni probabilità apparente, e malgrado i voti del mio cuore, farmi 16 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA sopravvivere al mio diletto Marito […]., ed avendomi poi tolto il Padre, io dispongo della fortuna che mi è stata lasciata da coloro che io amava e la cui perdita mi è stata così dolorosa. Conosco perfettamente le pie intenzioni del mio defunto Marito, il quale me le ha tante volte comunicate, relativamente all’impiego de’ suoi beni. Mi ricordo il rinnovamento che me ne face colle sue disposizioni nell’ultimo suo testamento, e specialmente nominandomi sua erede universale […] e coll’aiuto di Dio eseguirò fedelmente i manifestatemi desiderii, così qui mi accingo a farli eseguire dopo morte […] secondando pertanto i voti del mio amato Marito. 5 Una comunione, la loro, che non conosce contingenze né di spazio, né di tempo. Posseggono la stessa concezione di vita (votata a Dio e agli altri), la stessa concezione di morte (che apre le porte della vera e definitiva Casa): Ah, che quando l’amore e il desiderio si slanciano verso Voi, mio Dio, quando il mio cuore s’accende al pensiero della grandezza che siete, e alla vista delle opere da Voi fatte, ben sento che deve venire un giorno, in cui conoscerò che sono una grande cosa! La terra, per bella che sia, non è la mia patria! 6 Ambedue sono protesi alla vita eterna, nella quale si possono trovare, se si sono meritati, i beni celesti: autentica e sola felicità dell’uomo che torna alla sua originaria sorgente: Un uomo di genio da Lui [Dio] ispirato ha detto che il tempo è un punto entro due limiti infiniti; ed è in tal punto che fu creato l’universo, che trascorre la breve sua esistenza, che cesserà d’esistere: che dire della nostra vita, di quella porzione minima di IN VITA COME IN MORTE 17 tempo, che è assegnata a ciascuno di noi? È una parte impercettibile di quel punto. Perché dunque stancare una così breve esistenza con tanti desideri, con tanti rimpianti? Non ci basta la speranza dell’eternità? 7 I pensieri dei Marchesi viaggiano all’unisono e la loro Fede si esplica su linee parallele: Ho io pure un cuore, e questo batte al pensiero delle altrui miserie. Il mio giorno di vita non lo passerò oziosa: andrò, cercherò gli afflitti, sebbene non è bisogno di ricerca: il dolore è sparso e seminato dappertutto. Ho conosciuto tutte le specie di dolori: quelli dell’innocenza, della colpa, del pentimento. Buon Dio! in vostro nome io andrò a cambiare le lacrime della disperazione in quelle dolci della speranza; in vostro nome ho detto, perché non sono io che voglia e possa, ma Voi che mi date volere e potere. Fonte d’ogni bene, Voi non isdegnate di venire a me per consolarmi, mentre io consolo gli altri, per accrescermi fiducia, mentre m’adopero a tener viva l’altrui speranza. Siate dunque benedetto! L’ammirazione che io devo alla potenza vostra infinita, in me s’agguaglia con la gratitudine alla vostra bontà incommensurabile. 8 Queste le parole lasciate dal conte Camillo Benso di Cavour (1810-1861) a proposito del testamento di Carlo Tancredi: È stato aperto […]. Stabilisce che sua moglie è l’erede universale senza restrizione alcuna. Lascia a Sonnaz ed a sua moglie qualche diamante di famiglia e gli fa dei legati pii che in tutto ammontano a non più di 40.000 franchi. Lascia il suo servizio da scrivania, in argento, a Pellico, raccomandandolo a sua moglie come uno dei suoi migliori amici. Non so se questo testa- 18 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA mento ha deluso le numerose aspettative, ma non dubito che ne ottiene l’approvazione da parte di tutti gli uomini assennati, poiché qualunque sia l’opinione che si possa avere su Giulietta, si deve riconoscere che il patrimonio per lei non è mai stato che un mezzo per fare del bene. 9 Significativa è l’ultima strofa della poesia Tancredi, che Silvio Pellico scrive dopo la morte dell’amato amico: E un altro voto innalza a Dio per noi; È un clamor, è un desio di mille cuori! La compagna di tutti i pensier tuoi Siaci serbata, e in vece tua dimori! In terra vuol ciò che dal ciel tu vuoi, Giovar, riconfortar, farci migliori: Molto perdemmo in te, ma ancora in essa Su noi la luce tua splende reflessa. 10 Questi versi esprimono in forma poetica la realtà concreta di due vite, di due anime rese una cosa sola dalla grazia del matrimonio. Eccezionale la sintonia che il Pellico aveva percepito esistere tra i due coniugi, al punto che Juliette è definita «la compagna di tutti i pensieri tuoi». Non è semplice consonanza di idee, ma vera e propria comunione maturata tra Tancredi e Juliette su questa terra nei lunghi anni di vita matrimoniale, comunione che non è interrotta neppure dalla morte, perché lei «in terra vuol ciò che dal ciel tu vuoi» e in lei «su noi la luce tua splende reflessa». Ascoltiamo ancora le preziose e rivelatrici parole di Juliette, vero alter ego di Tancredi: IN VITA COME IN MORTE 19 Dimandando i lumi dello Spirito Santo, spero di riceverli per fare in ogni cosa la volontà di Dio e la volontà di Colui che, ora in Cielo, mi otterrà, ne ho fiducia, la grazia di finir di fondare e stabilire le cose in questo mondo, in guisa da riempire le sante intenzioni che egli aveva durante la sua vita, e che fanno ora la sua felicità eterna. 11 Juliette Colbert di Barolo ha sempre riconosciuto i meriti spirituali e caritativi del consorte, così come lui aveva riconosciuto e sempre apprezzato quelli della moglie, comunicandoli agli altri. La loro esistenza fu concepita come offerta ed immolazione: Io provo ogni momento la gioia di questo sacrificio. Debole, languente che sia, la mia vita struggesi per Lui. Ah, ridoniamogli quello che Egli ci ha dato: anima, pensieri, vita, forze, tutto offriamo a Lui, finché si degni di riceverli. In ricambio Ei ne darà l’eternità. 12 Il patrimonio Barolo, che passerà nelle mani della consorte, servirà ancora a compiere quella carità che in comune accordo aveva animato i loro giorni e che aveva dato ragione alle loro inarrestabili aspirazioni. Il Marchese comprende che la mancanza di una discendenza cui affidare l’ingente patrimonio di famiglia, comporti per lui una particolare responsabilità quale amministratore di detti beni ed, in particolare, quale titolare del diritto e dovere di disposizione futura degli stessi. In questa sua evidente tensione di ben adempiere a quello che pare essere il compito precipuo della sua vita, dovere discendente dalla sua particolare condizione sociale e di censo, egli è 20 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA perfettamente sostenuto, accompagnato e condiviso dalla sua consorte al cui proposito aggiunge che «da lungo tempo» (il buon uso delle sostanze) è «lo scopo dei nostri comuni ed incessanti desideri». Parimenti il suo desiderio di fare il bene in quanto gli viene affidato, si manifesterà apertamente a tutta la cittadinanza, come sappiamo anche in modo eroico, nell’espletamento degli incarichi che ebbe nell’ambito dell’amministrazione della cosa pubblica cittadina. 13 Il primo elemento soggettivo che appare nel documento è la cristiana accettazione del fatto di non aver avuto discendenza, dolore molto grande, considerando l’importanza del titolo nobiliare e l’ingentissimo patrimonio posseduto. Siamo di fronte alla virile accettazione della volontà divina, pertanto «è certamente dimostrazione della profonda e matura Fede cristiana dell’augusto testatore» 14. Seguire la volontà di Dio, vedendo nel prossimo afflitto il volto di Cristo, fu l’ineludibile orizzonte dei giorni di Tancredi e di Juliette. San Evagrio Pontico (345-399), monaco, asceta, teologo e scrittore affermava: «A una teoria si può rispondere con un’altra teoria. Ma chi potrà mai confutare una vita?» e qui siamo dinnanzi a due esistenze corali, confluite in un’unica ragione di vita: «Instaurare omnia in Christo» 15. Testamento consegnato ed aperto il 5 giugno 1938 alla Camera delle Conferenze del Reale Senato. 2 C. Durando, Lettere inedite di Silvio Pellico a suo fratello Luigi, Tip. Salesiana, Torino 1876, p. 27. 3 Copia del Verbale di apertura di testamento del fu Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Torino, Archivio Storico Opera Barolo, mazzo 211, n. 38. Come attesta il Verbale di apertura, nella sessione straordinaria del Senato del 9 settembre 1838, il testamento del Marchese Carlo Tancredi è 1 IN VITA COME IN MORTE 21 contenuto in due fogli di carta da processo bollati a centesimi 30. Venne scritto dallo stesso testatore su tutte le otto facciate con la data 19 maggio 1838 e depositato negli Archivi del Reale Senato il 5 giugno dello stesso anno. Ogni foglio è vidimato dal Signor Presidente Commendatore Gromo, sigillato con il reale sigillo e firmato da S.E. Il Signor Luigi Montiglio di Villanova, Ministro di Stato e Primo Presidente. Cfr. A. Pregno, Meraviglioso mistero sponsale, in AA.VV., Felicità - Verità - Bellezza, I volti della Carità di Carlo Tancredi di Barolo (1782-1838), Atti del Convegno, Torino 14 novembre 2008, a cura della Congregazione delle Suore di Sant’Anna, CLS Arti grafiche, Carmagnola (TO) 2009, p. 26. 4 Cfr. G. Falletti di Barolo Colbert, Disposizioni testamentarie, Eredi Botta, Torino 1864, p. 4. 5 Ivi, pp. 3-5. 6 Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri, tradotti dal francese e pubblicati per la prima volta da Giovanni Lanza, Tipografia Speirani e Figli, Torino 1887, p. 66. 7 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, p. 479. 8 Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., pp. 82-83. 9 C. Cavour a Cesare Alfieri di Sostegno in «Giulia di Barolo Carità sempre subito», rivista di collegamento e di informazione per promuovere la causa di canonizzazione della serva di Dio Giulia di Barolo, Anno terzo, n. 11 semestre 1993, p. 30. 10 S. Pellico, Tancredi, in Lettere di Silvio Pellico a Giorgio Briano aggiuntevi alcune lettere ad altri e varie poesie, Felice Le Monnier, Firenze 1861, p. 122. 11 G. Falletti di Barolo, Disposizioni testamentarie, Tip. A. Vinciguerra & Figli, Torino 1901, p. 5. 12 Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., p. 84. 13 A. Pregno, Meraviglioso mistero sponsale, in AA.VV., Felicità - Verità - Bellezza, I volti della Carità di Carlo Tancredi di Barolo (1782-1838) cit., p. 30. 14 Ivi, p. 28. 15 Ef 1,10. 2 A Parigi, alla corte di Napoleone Tancredi e Juliette furono una delle risposte più belle, più lucide e più coraggiose all’ideologia nemica del Cattolicesimo, che si fondava sui falsi concetti di libertà soggettiva, di uguaglianza (che si contrappone all’armonia fra le diverse realtà), di fraternità (universale e non perché figli del Dio Uno e Trino), concetti illuministi che si contrapposero ai principi cristiani di libertà portata da Gesù Cristo. Essi furono nemici aperti delle menzogne diffuse dalla Rivoluzione francese, dal liberalismo, dalla Massoneria, dal relativismo etico e religioso, che aveva innalzato sul trono la dea ragione, dichiarando guerra al Cattolicesimo. Tancredi e Juliette vissero proprio nel tempo della massima penetrazione degli ideali dei filosofi illuministi che pensavano di ricostruire la società fondandosi su teorie che non volevano tenere conto del peccato originale, pensando che la perfezione dipendesse da un atto volontaristico stabilito esclusivamente dalla ragione, senza tenere conto della realtà. E se la realtà non era come avrebbe preteso la verità giacobina, tanto peggio. Chi non si piegava andava sollecitamente eliminato. Si apriva così la grande stagione degli «ismi», inaugurata dal primo dei numerosi genocidi, quello 24 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA vandeano, cui ne sarebbero seguiti molti altri. L’ultimo dei Marchesi di Barolo, si trova a chiudere la grande storia di una dinastia aristocratica dai molti meriti, con un compito sentito ancora più profondamente: restaurare la società sconvolta dalla rivoluzione, partendo dall’educazione dei singoli. 1 Tancredi nasce a Torino il 26 ottobre 1782 2. Viene battezzato otto giorni dopo, nella chiesa di San Dalmazzo in via Dora Grossa (oggi via Garibaldi), con i nomi di Carlo Ippolito Ernesto Tancredi Maria 3 (sarà poi sempre chiamato Carlo Tancredi o più semplicemente Tancredi): il padrino è il Marchese Carlo di Barolo e la madrina Maddalena Seissel d’Aix, Marchesa d’Oncieux. I Falletti sono una delle più antiche casate piemontesi. Di essa si hanno notizie storiche già nell’anno 900, con Baldassarre, ambasciatore. Alcuni studiosi attribuiscono l’origine dei Falletti ai duchi di Limbourg nelle Fiandre; altri, invece, ad Anscario e Berengario (900 ca. - 966), Marchese d’Ivrea dal 928 al 950 e re d’Italia dal 950 al 961. Nel 1100 i Falletti erano fra i signori più economicamente potenti della zona di Alba. Acquistato, probabilmente dallo stesso comune di Alba, il feudo di Barolo, estesero a poco a poco i loro domini, guerreggiando con i Marchesi di Saluzzo, i Marchesi del Carretto, la repubblica di Asti e gettandosi nelle lotte fra guelfi e ghibellini. Il castello principale di Barolo è stato roccaforte durante le incursioni saracene del X secolo e nel 1250 divenne feudo dei Falletti di Barolo, che in quei tempi giunsero a possedere più di venti fortilizi. Proprio a Barolo amavano villeggiare gli ultimi Marchesi, ma soprattutto Juliette e il loro segretario, Silvio Pellico (1789-1854): decenni fa c’era ancora chi ri- A PARIGI, ALLA CORTE DI NAPOLEONE 25 cordava lo scrittore intento a leggere sotto le fronde degli alberi che circondano il castello. Nel maniero sono tuttora conservate le camere della Marchesa e del letterato, oltre che la preziosa biblioteca con più di duemila volumi, riordinati dallo stesso Pellico e che negli anni passati è stata oggetto di saccheggi e furti. Le ruberie sono avvenute negli anni di incuria e disinteresse, quando cioè venne chiuso il collegio Barolo (1968) che la Marchesa aveva qui fondato 4. Con il concorso finanziario della popolazione, il castello, dopo anni di degrado e abbandono, è stato acquistato nel 1970 dal Comune di Barolo (apparteneva all’Opera Pia Barolo di Torino, oggi Opera Barolo), il quale lo ha reso efficiente, trasformandolo in una struttura pubblica al servizio dell’area albese. Attualmente ospita l’enoteca regionale cui hanno aderito gli undici paesi del Barolo, il museo del vino e la scuola professionale alberghiera 5. L’altro maniero, appartenuto sempre alla casata dei Falletti di Barolo, si trova a cavallo della dorsale che conduce da Novello a La Morra, ed è conosciuto come il castello di La Volta. Nel XVI secolo questa potente dinastia, suddivisa in diversi rami, era proprietaria, oltre che dei feudi di Barolo, La Volta e La Morra, anche di Pocapaglia, Castilion Falletto, Serralunga, Roddi, Benevello, Perno, Castagnole, Cavatorre, Rodello… Ma raggiunse il suo massimo splendore nel Settecento, con il Marchese Carlo Luigi, che oltre ad una figlia, sposata al Marchese Mossi di Casale, lasciò nove maschi: quasi tutti si distinsero nella carriera militare, civile ed ecclesiastica. Il più importante rappresentante della casata fu Gerolamo IV, succeduto al padre Carlo Luigi nel maggiorascato. Sfortunatissima la sua unione con Elena Matilde Provana di 26 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Druent 6. Realizzò una brillante carriera militare: nel 1689 comandò una compagnia di dragoni verdi del genovese; nel 1703 venne inviato alla difesa di Alba, minacciata dalle truppe francesi; nel 1714 era governatore in seconda di Pinerolo e un anno dopo responsabile della piazza di Casale e governatore del ducato del Monferrato. In riconoscenza dei suoi servizi Vittorio Amedeo II di Savoia (1666-1732) lo nominò Marchese di Castagnole e la terra di Barolo venne eretta a Marchesato (9-VII-1730). Nel 1731 fu chiamato a ricoprire la carica di primo viceré di Sardegna (quando l’isola divenne parte dei possedimenti sabaudi e Vittorio Amedeo II divenne primo re di casa Savoia) con il grado di luogotenente generale, poi di capitano generale. Morì a Cagliari nel 1735 e volle essere sepolto a Barolo. In genere i membri della famiglia Falletti di Barolo furono uomini accreditati dell’esercito, della chiesa, della diplomazia e dell’ordine cavalleresco ed ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, i cosiddetti cavalieri di Malta. Il padre di Carlo Tancredi, Giuseppe Ottavio Alessandro Falletti (1753-1828), fu attivo politico sia durante la bufera giacobina, sia durante gli anni imperiali di Napoleone; fu anche letterato e filosofo, particolarmente vivace nella polemica insorta fra classici e romantici. Sua madre, Maria Ester Paolina Teresa d’Oncieux de la Bâthie e de Chaffardon (1759-1833), era una nobile di origine savoiarda, «donna piissima, da cui il figliuolo ricevette quel completamento di formazione religiosa che riattizzava la vecchia tradizione famigliare e tanto bene s’innestava sul suo temperamento, osiamo pure dire, angelico» 7. Di questa madre, semplice e buona, Carlo Tancredi, dirà nel 1833, dopo la sua morte: «Dio senza dubbio, ha il suo disegno nel colpirmi così e mostrandomi la morte di una donna pia, la dolce fine A PARIGI, ALLA CORTE DI NAPOLEONE 27 di una vita tutta di virtù, il passaggio al Cielo di un’anima santa e l’intercessione di una protettrice che veglierà su di me» 8. «Dal padre ereditò l’amore agli studi; dalla madre la bontà d’animo, una fede e una religiosità profonde» 9. La Marchesa Paolina, che si era sposata il 21 settembre 1780, era figlia spirituale di padre Brunone Lanteri (1759-1830), fondatore degli Oblati di Maria, che in seguito guidò anche la Marchesina Juliette. Sull’infanzia e la giovinezza di Tancredi possediamo scarse notizie, sappiamo solo che respirò un clima ricco di fermenti culturali, grazie soprattutto all’attività letteraria e filosofica del padre. Attraverso i registri delle spese familiari, possiamo risalire a chi, negli anni 1792-1798, era stato suo precettore: un certo signor abate Cirillo Michel, sacerdote di monte Serrano nella Gallia Narbonese. Costui, come risulta, dagli Elenchi di Sacerdoti residenti in vari distretti parrocchiali di Torino nel 1808 10, apparteneva al clero della diocesi di Torino e viveva nel territorio della parrocchia di San Dalmazzo. Il Marchesino frequentò, inoltre, i corsi di grammatica e retorica presso il Collegio S. Rocco di Torino. Tancredi ottenne tutti i privilegi pedagogici concessi ai nobili: la sua governante era una certa Teresa Rossi; suo maestro di cembalo il signor Roggero; le lezioni di maneggio venivano affidate al «capo cavallerizzo» signor Damof; il maestro di disegno era il signor Griva, di scrittura il signor Alberga, di ballo Domenico Lapiera. Curioso scorrere le pagine del registro di «Abiti e spese per il Sig. Marchesino», custodito nell’archivio di palazzo Barolo. Leggiamo in data 1802: piqué per corpetto £. 10, lezione di inglese £. 26, lezione di cembalo £. 26, calzetti di seta £. 20, e poi scarpe, fazzoletti… e «varie spese minute». 28 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Secondo il censimento della popolazione di Torino, risalente al 1802, la «famiglia» più numerosa del quartiere, chiamato di Moncenisio (corrispondente alla zona compresa oggi fra le vie Bellezia, Giulio, corso Valdocco, via Cittadella, corso Siccardi, via Bertola e via Botero) – dove avevano sede gli uffici giudiziari, i tribunali e il senato – era quella Barolo, composta da due coniugi, un sacerdote, un segretario e ventidue persone di servizio. Con le cure materne Tancredi acquista un forte credo religioso e con l’interesse del padre riceve uno scibile poliedrico. Quest’ultimo decise di abbandonare la carriera militare per dedicarsi maggiormente all’educazione del figlio, con il quale intraprese importanti viaggi istruttivi: Germania, Olanda, Svizzera e Francia, dove si stabilirono per qualche tempo. Uomo doc del Settecento, egli fu un cosmopolita e venne insignito dal governo imperiale di alte onorificenze, alle quali non ambì, ma neppure credette prudente rifiutare; le abbandonò volentieri non appena i Savoia fecero ritorno nelle terre avite. Ottavio Alessandro, che apparteneva alla stessa generazione di Prospero Balbo 11, entrò nella milizia della Stato sabaudo nel 1772 e nella carriera militare giunse al grado di capitano. Nel suo palazzo si riunivano i dotti della città e per qualche tempo fu ospitata l’Accademia Sanpaolina 12. Già anziano, si inserì nella diatriba fra classicismo e romanticismo e fu tra i primi in Italia a dedicarsi al romanzo storico 13. Nel 1799, il Marchese di Barolo viene chiamato agli uffici municipali. Socio dal 1801 della prestigiosa e celebre Accademia delle Scienze, si dedica all’attività della stessa con grande impegno e prende parte a numerose altre realtà culturali 14. Il Piemonte, dopo l’annessione alla Francia, è diviso in sei dipartimenti: al Marchese Ottavio viene affidata l’alta carica A PARIGI, ALLA CORTE DI NAPOLEONE 29 civile di presidente del Collegio elettorale del Dipartimento del Po. Nel 1806 viene nominato senatore dell’Impero e nel 1807 ufficiale della Legion d’onore; inoltre, per volontà di Napoleone, diventa commendatore dell’Ordine di Baviera. Nel 1812 riceve la gran croce dell’ordine della Reunîone. Grazie ad un padre ben inserito che tiene «per norma costante della sua vita la devozione sincera e profonda alla fede cattolica, di cui fu scrupoloso osservatore» 15, Tancredi beve lo spirito cristiano senza mai trascurare la realtà del mondo, mentre il contatto diretto con le esperienze di Paesi e culture differenti gli procureranno quell’abile disinvoltura nel destreggiarsi fra la saggezza propria del cattolico e le variabili della società. Il Marchese Ottavio «nella vecchiaia… giocondossi della virtù e dell’affetto della pia consorte, del degno suo figlio Tancredi e della diletta nuora, Giulia Colbert, alla quale in peculiar segno di benevolenza lasciò, testando, un anello del valore di duemila cinquecento lire, ed istituì suo erede universale il figlio Carlo Tancredi. Il Marchese Ottavio di Barolo fu di natura egregia, d’indole magnanima, e così di sensi come di modi fu compito cavaliere. Dignitoso in ogni azione, si mostrò signorile senza fasto e splendido senza prodigalità: gentile e cortese con tutti, era cogli sventurati più umano e pio; se grandi furono le sue ricchezze, più grande ancora era in lui la generosità e la beneficenza… Amoroso marito e padre ottimo, si studiò di mantenere nella famiglia il decoro, la concordia e lo spirito cristiano, che rigoglioso vi fiorì negli anni successivi, per opera del Marchese Tancredi e della consorte Giulia Colbert. 16 30 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Un terreno dunque promettente e fertile quello sul quale si forma Tancredi, che fin dai primi anni si distingue «per la capacità dell’intelletto, per la giustezza e l’elevazione de’ principii, e per una forte tendenza a promuovere ed operare ogni specie di vero bene» 17. Crescerà nella più profonda umiltà, fuggendo gli onori, e pativa di non poter evitare la comune ammirazione; la sua umiltà era tanto più bella ch’egli aveva tutti i doni per rendersi notevole e primeggiare sovra i più: aspetto amabile e signorile, parola calda e piena di senno, ottimo gusto nelle arti, e soprattutto una riputazione intemerata di giustizia e di bontà. 18 Le sue conoscenze raccolte nei numerosi viaggi in Italia e all’estero lo condurranno ad essere scrupolosamente attento alle innumerevoli istanze degli affamati e dei diseredati, per i quali aveva una speciale predilezione. All’età di 22 anni è chiamato a Parigi, alla corte di Napoleone divenuto imperatore. Nel Registro delle spese di Casa Barolo fino al 4 giugno 1805 è segnalato come guardia d’onore a cavallo. Il 5 giugno 1805, Tancredi risulta già ciambellano di S.M.I. 19, il 3 ottobre 1809 è nominato Conte dell’Impero ed egli, in questo ambiente, talvolta frivolo, ha modo di distinguersi non solo per ricchezza e alto lignaggio, ma anche per bontà e serietà d’animo. Proprio in questo ambiente matura la stima e l’amore reciproco di Tancredi e Juliette, anche lei presente a Corte in qualità di damigella d’onore dell’Imperatrice. Non ci è dato sapere con attendibilità come nacque l’amore tra i due giovani. Possiamo però immaginare che i ripetuti A PARIGI, ALLA CORTE DI NAPOLEONE 31 appuntamenti alla corte saranno stati l’occasione migliore per conoscersi 20. Il loro matrimonio fu favorito probabilmente dall’Imperatore Napoleone Bonaparte (1769-1821) che si circondava della nuova ed antica nobiltà per raccogliere favori e consensi, nonché estendere la sua longa manus nelle corti europee. L’ultimo erede della stirpe Falletti di Barolo, una delle famiglie più ricche d’Europa, si sposa a Parigi il 18 agosto 1806 – probabilmente nella parrocchia di Notre-Dame de l’Abbaye aux Bois oppure nella vicina chiesa di Saint Germain Auxerrois come era ed è tutt’ora d’uso fra le famiglie nobili – con la contessina Juliette Colbert de Maulévrier. Il contratto nuziale fu stipulato legalmente, poco prima di quello religioso, dal padre dello sposo e da quello della sposa di fronte ad un ufficiale dello Stato e da testimoni d’eccezione: l’Imperatore stesso e l’Imperatrice Giuseppina di Beauharnais (1763-1814), più i rispettivi padri, Édouard-Victurnien-Charles-René Colbert (1754-1839), Conte di Maulévrier, e Ottavio Alessandro Falletti (1753-1828), Marchese di Barolo. Si univano due illustri casati: i Colbert originari dello Champagne e i Falletti del Piemonte 21. Così il còlubro si unì agli scacchi: rispettivi stemmi delle due famiglie. La biscia azzurra in campo d’oro simboleggia la prudenza, la riflessione e la perspicacia. Mentre lo stemma Barolo riporta lo scudo in campo azzurro, attraversato da una fascia a triplice ordine di scacchi di colore rosso ed oro, sorretto da due aquile e sormontato da Ercole con la clava. L’alto e fiero spirito era rappresentato dal motto: «Aper si te fiert oxidel», che venne in seguito sostituito con «In spe». Araldicamente l’azzurro rappresenta il cielo, dunque la volontà di «mirare verso l’alto». Il còlubro e lo scudo scaccato, con il matrimonio, vennero circondati da una corona, formata da nodi d’amore. Quando 32 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA il Marchese morì, la cordigliera fu sciolta, manifestando lo stato vedovile. Fin dal principio li legano comunanza di idee e di ideali: «Giovani, ricchi, altolocati formarono una coppia ideale: e il loro matrimonio fu assai più che un matrimonio brillante: fu un matrimonio felice» 22. M. Albera, Sulle tracce di una vita, alla ricerca di un santo, in AA.VV., Felicità - Verità - Bellezza, I volti della Carità di Carlo Tancredi di Barolo (1782-1838) cit., p. 73. 2 Cfr. A. Dufour, La Famille des Seigneurs de Barol. Essai historique, Botta de Jean Bruneri, Torino 1884, p. 44. 3 Certificato di Battesimo, Torino, Archivio Storico Opera Barolo, mazzo 211, n. 38. 4 L’articolo 63 del testamento di Giulia di Barolo recita: «Io fondo in Barolo, ovvero nel castello della Volta, se più convenisse, provincia di Alba, un collegio che porterà sempre la denominazione di Collegio Barolo, nel quale potranno essere ricevuti, mediante una modica pensione, i fanciulli cattolici di qualsiasi ceto, i quali, per iscarsezza di mezzi di fortuna, non fossero in grado di procurarsi una buona educazione… vi dovranno essere ammessi gratuitamente sino al numero di quindici inclusivamente, tutti qui fanciulli cattolici che, privi di beni di fortuna, ma provveduti di talenti e di attitudine… non potrebbero… conseguire uno stato nella società, e sarebbero verisimilmente altrettanti ingegni perduti». Ma oltre undici anni ci vollero per realizzare il desiderio benefico della Marchesa. Il Collegio Barolo aprì i battenti solo nel 1875. La Scuola Tecnica ebbe vita al 1875 al 1923, anno in cui la Riforma Gentile soppresse tale tipo di scuola, succedendo l’Istituto Tecnico inferiore. La scuola elementare superiore passò al comune di Barolo. 5 Della struttura originaria del X secolo rimane ben poco: il mastio, ancora oggi visibile, fa parte di essa. La prima testimonianza scritta risale al ‘200 in un atto di cessione di proprietà da parte dei signori di Marcenasco in favore del comune di Alba che, pochi anni dopo, lo cedette ai Falletti che lo ristrutturarono significativamente e ne fecero dimora stabile di un ramo del casato. Il catasto del 1524 cita la presenza di una trentina di case intor1 A PARIGI, ALLA CORTE DI NAPOLEONE 33 no al castello, case gradualmente scomparse per far posto ad appendici successive del castello stesso. Nel 1544, invece, fu fatto «rovinare» e saccheggiare dal governatore francese della vicina Cherasco nel corso delle lunghe guerre dell’epoca. Toccò successivamente a Giacomo e Manfredo riparare i consistenti guasti, apportando ulteriori modifiche migliorative. Il nuovo, frutto dei rimaneggiamenti cinquecenteschi, rimase sostanzialmente immutato fino al 1864, anno della morte di Juliette Colbert, ultima Marchesa Falletti. Nel frattempo il castello era già «decaduto» a residenza di campagna a causa del trasferimento della dimora principale dei Falletti, avvenuto già nel ’700, al Palazzo Barolo di Torino. Tra i suoi illustri ospiti durante l’ultima epoca dei Falletti spicca senza dubbio Silvio Pellico, presentato alla Marchesa da Cesare Balbo dopo la decennale prigionia dello Spielberg, divenuto poi negli anni intimo amico, fidato consigliere nonché amministratore della biblioteca Falletti. Il Pellico e la Marchesa erano soliti trascorrere insieme lunghe giornate tra castello Falletti e il castello della Volta, dediti alla lettura e alla conversazione. Alla morte della Colbert, il castello Falletti passò all’Opera Pia Barolo che, con pesanti lavori di ristrutturazione che ne alterarono profondamente la struttura, lo trasformò nel Collegio Barolo. Ruolo del Collegio, attivo fino al 1958, era di dare una possibilità di studiare a ragazzi economicamente in difficoltà. Nel 1970 fu acquistato dal Comune di Barolo, grazie soprattutto a una pubblica sottoscrizione cui furono in molti a contribuire generosamente. Nel corso degli anni è stato restaurato in modo capillare e il risultato non scontenterà certamente i visitatori. Le sue cantine, pure pregevolmente restaurate, ospitano l’Enoteca Regionale del Barolo, mentre il secondo piano è dedicato al Museo Etnografico-Enologico e, quando presenti, esposizioni artistiche e fotografiche. La visita al Castello Falletti si concentra al primo piano, il cosiddetto piano nobile: la prima sala che si incontra risalendo lo scalone è il Salone delle quattro stagioni, ampio e luminoso ambiente con arredi fine stile impero che deve il proprio nome a quattro pitture che sormontano altrettante porte e dedicate ciascuna a una stagione dell’anno. Da questo locale si accede alla Sala degli stemmi, il cui soffitto è decorato con gli emblemi sia dei Falletti che delle famiglie con cui questi si sono imparentati: da citare, oltre al monumentale camino e alla sua cinquecentesca decorazione in stucco, il fatto che questa sala ospita da diversi anni le sedute del consiglio comunale. La stanza della Marchesa è pure interessante per la presenza di uno dei pochi letti in stile impero visibili in Italia. La presenza di Silvio Pellico è testimoniata dalla sua stanza, i cui muri sembrano tappezzati in stoffa ma sono in realtà abilmente pitturati per simularne l’ef- 34 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA fetto, e dalla Biblioteca, che il Pellico custodiva scrupolosamente e che contiene circa tremila testi di epoca compresa tra il quindicesimo e il diciannovesimo secolo. Si consiglia, infine, una puntatina alla terrazza del castello, dalla quale è possibile godere di un bellissimo panorama, con vedute verso la bassa Langa e alcuni tra i più prestigiosi crus di Barolo. 6 L. Cibrario, sulla scorta dei cronisti del tempo, racconta che il conte Provana scelse lo sposo per la figlia senza nemmeno consultarla. La giovane sposa, che s’era poi innamorata del marito, ebbe da lui tre figli: Ottavio, Giacinto e Teodoro (cfr. A Dufour: La famille des Seigneurs de Barolo, Turin 1884, p 37). Sennonché, lo stravagante “Monsù Druent”, volle dopo qualche anno, che la figlia vivesse con lui a Torino, separata dal marito. Di ciò ella, già molto delicata di salute, tanto si accorò, che, perduto l’intelletto, giovanissima ancora, all’età di ventisei anni si suicidò buttandosi dalla finestra del palazzo il 24 febbraio 1700 (Cfr. L. Cibrario, Storia di Torino, vol. II, p. 320; A. Manno, Pietro Micca e il generale conte Solaro della Margherita in Miscellanea di Storia italiana edita per cura della R. Deputazione di Storia patria, tomo XXI, serie II, p. 419). Per ulteriori approfondimenti sulla triste sorte di Gerolamo IV di Barolo e di Elena Matilde di Druent, cfr. C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re, la straordinaria vita della Marchesa di Barolo, Gribaudo Editore, Cavallermaggiore 1992, pp. 28-29. 7 In «Luce centenaria», periodico delle Suore di Sant’Anna, marzo-aprile 1948. 8 9. C. T. Falletti di Barolo, Lettera al conte di Saluzzo, 1° dicembre 1833, in Archivio Storico Opera Barolo. 9 D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico il Marchese di Barolo, Tip. Commerciale, Alba 1941, p. 1. 10 Torino, Archivio arcivescovile, 12/6/3. 11 Il conte Prospero Balbo di Vinadio e Migliandolo (1762-1837), appartenne, insieme al padre di Carlo Tancredi Falletti di Barolo, alla generazione riformatrice dei quadri amministrativi della prima metà dell’Ottocento. Organizzatore della cultura, letterato ed economista, diplomatico e uomo di governo, fu uno dei «carrieristi» più lucidi della classe dirigente subalpina, che attraversò pressoché indenne tre diversi regimi politici: dall’ancien régime al quindicennio napoleonico e dalla Restaurazione della monarchia al regno di Carlo Alberto. Insomma, visse tra il movimento dei lumi e il movimento dei popoli. Fece sempre sua – come d’altra parte farà il Marchese di Barolo junior – l’ideologia moderata, praticando riforme e miglioramenti nella pubblica amministrazione. È infatti possibile individuare una linea continua che collega il riformismo di un grande sovrano A PARIGI, ALLA CORTE DI NAPOLEONE 35 come Vittorio Amedeo II a quello di un principe tormentato e contradditorio come Carlo Alberto, passando attraverso l’esperienza del lungo ed operoso ministero di Giambattista Bogino (ministro riformatore di Carlo Emanuele III), della prima fase del regno di Vittorio Amedeo III e dello stesso governo napoleonico, per molti aspetti ispirato all’esempio dell’assolutismo riformatore di fine Settecento. 12 Cfr. T. Vallauri, Delle Società letterarie in Piemonte, Favale, Torino 1834, p. 217. L’Accademia culturale Sanpaolina era stata fondata dal conte Gaetano Bava di San Paolo: i membri del circolo iniziarono a radunarsi nel 1776 a casa del conte e poi in quella del Marchese Giuseppe Ottavio Falletti di Barolo. «Componevasi dei migliori letterati, che vivessero in quei giorni a Torino… L’Alfieri tra gli altri sappiamo avervi letto alcune delle sue tragedie». Cfr. anche D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico cit., p. 18. 13 Pubblicò nel 1824 le Perigrinazioni ed avventure del nobile Romeo di Provenza e nel ’25 Teodoro Callimachi greco in Italia: nel primo si rievoca l’epoca dei trovatori e del dolce stil nuovo, nel secondo il Rinascimento italiano. Cfr. G. Agnoli, Gli albori del romanzo storico in Italia e i primi imitatori di Walter Scott, Piacenza 1906. 14 Per ulteriori informazioni sul Marchese Ottavio Alessandro Falletti di Barolo cfr. C. Siccardi, Giulia dei poveri cit., pp. 30-31; oppure: R.M. Borsarelli, La Marchesa Giulia di Barolo e le opere assistenziali in Piemonte nel Risorgimento, Chiantore, Torino 1933, pp. 14-16; G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert, Torino, Giulio Speirani e figli, 1892, pp. 23-27. 15 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 27. 16 Ivi. 17 S. Pellico, Orazione funebre, Biblioteca Reale di Torino, PM. 3969/13, pp. 1-2. 18 Ivi, p. 5. 19 Era il dignitario al quale era affidato il servizio delle stanze private del signore, degli ornamenti regali, interveniva nelle udienze solenni, accompagnava gli ambasciatori… Ciambellano e camerlengo sono due titoli di origine medievale, ancora in uso presso alcuni ordinamenti politici moderni, che talvolta compaiono anche nelle forme gran ciambellano o gran camerlengo. Il titolo di camerlengo deriva dal latino medievale camarlingus, a sua volta corruzione, a partire dal franco kamerling, del latino camerarius, col significato di «addetto alla camera» (generalmente sottinteso «del tesoro» e «del sovrano»). Il significato del titolo e la funzione sono in parte confrontabili con quelle del cubiculario nel tardo Impero Romano, nell’Impero bizantino e nella Corte pontificia. Nelle lingue anglosassoni il 36 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA titolo prende la forma di chamberlain, parola che deriva dal francese chambellan, da cui l’italiano ciambellano. 20 Cfr. Marcello Falletti di Villafalletto Un uomo che seppe contare i propri giorni, Anscarichae Domus, 2006, p. 46 21 Il nome Barolo è conosciuto in tutto il mondo per l’ottimo vino («Re dei vini» e «vino dei re») che di esso porta l’etichetta. All’inizio del secolo scorso il vino Barolo iniziò per primo, in Piemonte, il ciclo che doveva poi orientare la produzione subalpina verso i vini secchi, anziché su quelli dolci. Furono proprio i Marchesi Falletti ad incrementare tale produzione, facendo fermentare totalmente il mosto delle uve Nebbiolo – ottenendo così il Barolo – dei vastissimi possedimenti di Barolo, Serralunga, La Morra, influenzati da quanto avevano appreso dai frequenti contati con la nobiltà francese della Borgogna, ormai esperti di vini secchi. I Savoia restarono ammagliati dal Barolo e dopo i Savoia Cavour, cultore di vigne. Pare che lo stesso pontefice Pio VII, ospite dell’Abbazia dell’Annunziata di La Morra, abbia, dopo aver degustato il buon vino, elogiato la rossa bevanda. Ricordiamo inoltre che nell’Esposizione Internazionale di Vienna del 1873, il Barolo conquistò sette delle unidici medaglie concesse al Piemonte. Ed era la sua «prima uscita» ufficiale. 22 Fu un vero amico dei poveri – Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, a cura della Congregazione delle Suore di Sant’Anna, p. 2. 3 La famiglia Colbert Juliette 1-Françoise-Victurnie Colbert nasce il 26 giugno 1786 a Maulévrier 2, nella regione dell’Anjou, che successivamente, insieme al Poitou, alla Bassa-Loira e alla Vandea, avrebbe costituito la «Vandea militare», delimitata a nord dalla Loira, a sud dalla regione della Charente e affacciata sull’Atlantico 3. Fu battezzata nello stesso giorno dal parroco del paese, don Guy R. Tharreau. Invece non sono rinvenuti documenti a riguardo della Comunione e della Cresima, andati smarriti a causa delle guerre e devastazioni in Vandea. Capoluogo di contea, Maulévrier ospitava il castello abitato dalla nobile famiglia Colbert e per tale ragione anche se gli abitanti contavano appena 800 unità, il luogo era meta di molti visitatori, tanto che erano presenti sei alberghi. L’economia era prevalentemente agricola, ma ruotava anche intorno al commercio, come pure alla produzione tessile e artigianale. Il castello dei Colbert, discendenti di Jean Baptiste Colbert (1619-1683), ministro sotto il regno di Luigi XIV (1638-1715) era dotato di una cappella privata, con un proprio cappellano. La famiglia era profondamente cattolica e viveva in quella regione, la Vandea, che seppe difendere con il martirio le 38 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA proprie radici cristiane: là si consumò il primo genocidio della storia moderna. Il regime rivoluzionario di Parigi venne imposto con la forza nelle province di Francia ed ebbe proprio in Vandea, la più cattolica di esse, la reazione più coraggiosa e gloriosa. I Blanchs (i vandeani) si contrapposero ai Blues (i giacobini): uniti a Dio e al Re, i contadini della Vandea, con i loro sacerdoti e i loro generali si distinsero per la strenua difesa contro la dea ragione ed il principio deista dell’essere supremo; perciò, a causa del loro fermissimo Credo e della loro fedeltà monarchica, vennero massacrati. Per odio ideologico perirono, in quell’ecatombe, più di 30 mila abitanti. Tuttavia di questo evento storico o si è parlato in termini negativi per esaltare i «benefici» della Rivoluzione e del Terrore sanguinario oppure lo si è del tutto omesso dai libri di storia. Lascia scritto Aleksandr Isaevič Solženicyn (1918-2008): Già due terzi di secolo fa, da ragazzo, leggevo con ammirazione i libri che evocavano la sollevazione della Vandea, così coraggiosa e così disperata, ma non avrei mai potuto immaginare, neppure in sogno, che nei miei tardi giorni avrei avuto l’onore di partecipare all’inaugurazione di un monumento agli eroi e alle vittime di questa sollevazione. […] Gli avvenimenti storici non vengono mai compresi appieno nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a distanza, una volta che il tempo li abbia raffreddati. Per molto tempo ci si è rifiutati di capire di accettare quel che gridavano coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una contea laboriosa, per i quali la rivoluzione sembrava essere fatta apposta, ma che la stessa rivoluzione oppresse e umiliò fino alle estreme conseguenze: e proprio contro essa si rivoltarono […]. È stato il ventesimo secolo ad appanna- LA FAMIGLIA COLBERT 39 re, agli occhi dell’umanità, quell’aureola romantica che circondava la rivoluzione del XVIII secolo […]. Le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; quanto rovinino il corso naturale della vita; quanto annichiliscano i miglioramenti della popolazione, lasciando campo libero ai peggiori; come nessuna rivoluzione possa arricchire un Paese, ma solo qualche imbroglione senza scrupoli; come nel proprio Paese, in generale, essa sia causa di morti innumerevoli, di un esteso depauperamento e, nei casi più gravi, di un decadimento duraturo della popolazione. 4 La prima e la seconda guerra di Vandea vengono solitamente accorpate in un unico periodo che va dal 1793 al 1796. L’insurrezione ebbe inizio nel marzo 1793, quando la Convenzione Nazionale ordinò la leva obbligatoria per 300.000 uomini da inviare al fronte e proseguì per i successivi tre anni, con brevi tregue durante le feste, come il Natale e la Pasqua. Il periodo più acuto degli scontri, in cui spesso gli insorti ebbero ragione delle truppe repubblicane, terminò con la vittoria di queste ultime nella battaglia di Savenay. La repressione compiuta tra l’estate del 1793 e la primavera del 1794, ad opera delle truppe repubblicane regolari e da reparti di volontari, fu crudele e feroce. Tuttavia gruppi armati vandeani continuarono a combattere e una tregua vera e propria si ebbe solo nella primavera del 1795, con la pace di La Jaunaye. La terza guerra di Vandea durò solo tre mesi, dal 26 ottobre al 17 dicembre 1799, terminando con l’armistizio di Pouancé. La quarta guerra iniziò nel marzo 1813, dopo la ritirata di Napoleone dalla Russia (1812) ed ebbe una pausa quando, a seguito della sconfitta dell’Imperatore a Lipsia (ottobre 1813), Luigi XVIII (1755-1824) salì al trono, nell’aprile 1814. 40 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Dopo il ritorno al potere di Napoleone con i Cento Giorni, la guerra riprese il 15 maggio 1815 e terminò il mese successivo quando, a seguito della battaglia di Waterloo, Luigi XVIII ritornò sul trono di Francia in giugno. I primi testi che trattarono del genocidio vandeano furono le memorie di alcuni dei protagonisti di quei tragici eventi: Poirier de Beauvais, Joseph de Puisaye, la signora Sapinaud de La Rairie e per i repubblicani: Grouchy, Kléber, René-Pierre Choudieu, Turreau, Dumas. Il più celebre documento, del primo raggruppamento di testimoni, sono le Mémoires (1811) de Madame la marquise de la Rochejaquelein, vedova di Louis Marie de Lescure e in seguito di Louis de La Rochejaquelein, che essendo vedova di due tra i più importanti generali dell’Esercito cattolico visse in prima persona tutte le guerre di Vandea, che descrive come una rivolta spontanea dei contadini per difendere il loro re e la Chiesa. L’Esercito cattolico era composto da contadini della cosiddetta «Vandea Militare» dei dipartimenti di Vandea, Loira Atlantica, Maine-et-Loire e Deux-Sèvres. I capi furono scelti tra la nobiltà francese che non era emigrata in altri Stati, per paura della cattura e della ghigliottina, ma che rimase in Francia per cercare di ristabilire la monarchia. L’Esercito nacque il 4 aprile 1793, in seguito alla riunione dei principali capi vandeani avvenuta a Chemillé, in seguito alla quale venne scelto come comandante in capo (che verrà chiamato «Generalissimo») Jacques Cathelineau (1759-1793). Da Parigi, intanto, la Convenzione, ordinò la «pulizia etnica» dei «briganti» vandeani. I principali capi militari dell’Esercito cattolico e reale furono: Jacques Cathelineau, François-Athanase Charette de La Contrie (1763-1796), Charles Melchior Artus de Bonchamps (1760-1793), Maurice-Louis-Joseph Gigot d’Elbée (1752- LA FAMIGLIA COLBERT 41 1794), Louis Marie de Lescure (1766-1793), Henri du Vergier de La Rochejaquelein (1772-1794), Jean Nicolas Stofflet (1753-1796), Jacques Nicolas Fleuriot de La Fleuriais (17381824), Charles-Henri-Félicité Sapinaud de la Rairie (17601829), Louis (1777-1815) e Auguste du Vergier de La Rochejaquelein ([1783-1868], entrambi fratelli di Henri), Charles d’Autichamps (1770-1859) 5. Il simbolo della controrivoluzione vandeana era un cuore sormontato da una croce rossa su campo bianco, simboleggiante i Sacri Cuori di Gesù e di Maria, ai quali i vandeani erano particolarmente devoti grazie alla predicazione in questa terra di san Luigi Maria Grignion de Montfort (16731716); inoltre tale simbolo richiamava anche lo stemma della Vandea, anch’esso formato da due cuori rossi (quelli di Gesù e di Maria) sormontati da una corona che termina con una croce e che rappresenta la regalità di Cristo. Il motto era «Dieu Le Roi» («Dio [è] il Re»). L’odio per la profonda Fede religiosa dei vandeani fu la ragione principale della spaventosa repressione e delle stragi indiscriminate. Il Terrore si scatenò contro la Fede e contro contadini che volevano continuare a vivere del loro lavoro e dei loro valori. Ancora oggi nelle case di Lucs-sur-Boulogne (sul fiume Boulogne), il villaggio dove la memoria è molto forte, è rimasto il simbolo della rivolta vandeana: la bandiera con il cuore e la croce. Le chiese della Vandea sono piuttosto recenti, perché i Blues, i soldati inviati dalla Convenzione di Parigi, ne bruciarono circa 800. La chiesa più piccola di Le Lucs, chiamata la Chapelle, sorge su un colle un po’ fuori dal paese ed è divenuta monumento storico. Qui, il 28 febbraio 1794, i soldati entrarono nella Chapelle (che sorgeva nello stesso luogo, identica a 42 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA quella odierna) e spianarono i loro fucili contro più di cento uomini, donne e bambini. Le vittime, che pregavano in ginocchio per prepararsi alla morte, vennero trucidati. In tutto il villaggio di Le Lucs i morti furono 563, fra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni: oggi i loro nomi sono scolpiti sulle pareti della Chapelle a perenne memoria de «la haine de la foi» («l’odio verso la fede»). Vicino sorge un museo-memoriale, che venne inaugurato da Solženicyn il 25 settembre 1993. In Vandea i preti refractaires, che rifiutarono di giurare all’Assemblea costituente di Parigi, furono 768 e tutti vennero sostituiti da parroci sermentées, cioè giurati (spesso neppure regolarmente ordinati), disprezzati dai contadini vandeani. Esiste un documento del più feroce persecutore e sterminatore giacobino, il generale Louis Marie Tourreau (17561816), nel quale sottolinea la grande autorità, presso i vandeani, dei preti non giurati e ciò per tre ragioni: integrità dei costumi, serietà della formazione dottrinale, intima conoscenza del loro gregge. Nantes fu spesso teatro degli annegamenti delle persone, essi ebbero inizio alla fine del 1793 e continuarono fino alla primavera del 1794. Responsabile fu soprattutto Jean-Baptiste Carrier (1756-1794), inviato dalla Convenzione di Parigi a praticare la «soluzione finale» del problema vandeano. Le prime tre cosiddette noyades furono rivolte esclusivamente ai preti refractaires. Gli storici calcolano che gli annegati furono circa 8000. Quando Carrier tornò a Parigi, dopo gli eccidi, la Convenzione, per togliersi la responsabilità dei massacri, decise di ghigliottinarlo. Il generale Tourreau mise a ferro e fuoco la regione vandeana da nord a sud e da est ad ovest: i villaggi venivano circondati, la gente radunata e trucidata, infine i soldati incendiavano case ed edifici. L’olocausto del popolo vandeano era LA FAMIGLIA COLBERT 43 accompagnato dalla distruzione di tutto. Scriveva la «Gazette Nationale» riportando la seduta del 17 febbraio 1794: «Si tratta di spazzare con il cannone il suolo della Vandea e di purificarlo con il fuoco». Ha spiegato lo storico del genocidio vandeano Reynald Secher: Queste rappresaglie non corrispondono dunque agli atti orribili, ma inevitabili, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga e atroce guerra, ma proprio a massacri premeditati, organizzati, pianificati, commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la volontà cosciente e proclamata di distruggere una regione ben definita e di sterminare tutto un popolo, di preferenza donne e bambini»6 per sterminare una «razza maledetta», termine ripreso da tutti i rivoluzionari, una razza ed una terra considerate irrecuperabili, perciò: «La guerra finirà solo quando non vi sarà più un abitante su questa terra disgraziata» 7. I Giacobini gioivano, come risulta dai documenti dell’epoca, nel lasciare sul loro cammino soltanto cadaveri e rovine… perché occorreva «sacrificare tutto alla vendetta nazionale. 8 I cosiddetti «briganti vandeani» – come venivano chiamati dai tribunali rivoluzionari durante il Terrore – portavano in realtà lo scapolare del Sacro Cuore ed erano suddivisi in «parrocchie». Essi furono perseguitati, fucilati, annegati, deportati. Senza entrare nel merito delle discussioni scientifiche, la Chiesa ha riconosciuto ad alcuni di questi combattenti la gloria degli altari, dichiarandoli beati dopo aver accertato due elementi essenziali: l’uno materiale: la pena mortale violentemente inflitta; l’altro formale: nel persecutore l’odio alla fede, nel martire la paziente sopportazione della morte in difesa e per amore della fede. 9 44 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA La repressione fu un vero e proprio massacro, ordinato dalle autorità parigine e non da responsabili locali. Scriveva infatti al Comitato di Salute Pubblica, il 13 dicembre 1793, il generale François Joseph Westermann (1751-1794) dalla regione vandeana, dopo la sconfitta dei fedelissimi dell’altare e del trono: «Cittadini repubblicani, la Vandea non esiste più. La Vandea è morta sotto le nostre libere sciabole, è morta con le sue donne e i suoi bambini. Ho appena finito di sotterrarla nei boschi di Savenay. Seguendo gli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli e massacrato le loro madri, che così non potranno più generare dei briganti. Non ho fatto prigionieri. Ho sterminato tutti». Il comandante in capo dell’armata dell’Ovest, Turreau, dichiarò: «La Vandea diventerà il cimitero nazionale» 10. Il fuoco viene appiccato alle case e ai boschi. Le fucilazioni sono eseguite senza processi. Si parla addirittura di spedizioni all’insegna del «delirio di sangue e di sadismo». Le violenze sulle donne e sulle ragazze sono inaudite. Donne, bambini (anche neonati), anziani vengono trucidati con i mezzi più atroci e spietati, i cadaveri sono profanati barbaramente. Nel 1794 il numero degli arresti è incalcolabile e poiché fucilarli era considerata una faccenda troppo lunga e bisognava consumare troppa polvere da sparo, decisero di caricare i prigionieri su grandi battelli per gettarli nel fiume, un’operazione che veniva ripetuta ogni giorno. Dal 1° al 7 gennaio dello stesso anno sei «colonne infernali» di soldati attraversarono la Vandea: la chiamano «passeggiata militare». La quinta colonna è quella più spietata: entra nei villaggi, saccheggia case e chiese, dà poi fuoco ad ogni cosa e quando tutto è cenere, ordina che vecchi, bambini, LA FAMIGLIA COLBERT 45 malati, i quali hanno assistito alle morti atroci dei congiunti, siano fucilati. Qualche generale è contrario a tanta crudeltà: «È un anno», scrive il 20 ottobre 1794 il generale di brigata Danican, che urlo contro tutti gli orrori di cui sono stato sfortunato testimone. Molti cittadini mi hanno preso per pazzo… ho visto massacrare vecchi nel loro letto, sgozzare bambini sul seno delle loro madri, ghigliottinare donne in attesa di figli e anche all’indomani del parto… Io posso svelare a tutti i veri amici della Repubblica i misteri di questa guerra sulla quale non si è mai detta la verità. Io proverò che non ci si è accontentati di affogare i vandeani a Nantes, ma questo supplizio è stato ripetuto in trenta posti diversi sulla Loira. Le atrocità che si sono compiute sotto i miei occhi hanno sconvolto totalmente il mio cuore e la mia vita. E questo voglio continuare a gridare in faccia ai carnefici. 11 Accendevano i forni e quando erano caldi vi gettavano donne e bambini. Usarono di molti cadaveri la pelle e il grasso, mentre le autorità giacobine prescrissero che le teste dei ribelli vandeani fossero tagliate e disseccate per essere poi messe sulle mura delle città. I massacri si compirono anche a Lione, Bordeaux, Marsiglia e in altre zone della Francia: aggiungendo le vittime della ghigliottina di Parigi si superò il mezzo milione di morti 12. Nonostante le spaventose esecuzioni, nonostante le «noyades», gli annegamenti notturni a Nantes, in cui senza processo in due mesi vennero gettati nell’estuario della Loira da due a tremila tra preti «refrattari», la resistenza della Vandea non venne domata. Per vincere i vandeani, caduto il Comitato di salute pubblica, la Rivoluzione pensò di ricorrere a «la douceur», alla dolcezza. Si consigliò ai soldati dalla casac- 46 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA ca azzurra di partecipare alle funzioni nei villaggi, di rispettare i preti e la fede della povera gente. Alla fine era la Vandea che aveva vinto, seppure in un immenso cimitero. Nel 1796 venne ucciso il guardiacaccia dei Colbert, JeanNicolas Stofflet 13, il quale, alla morte del generale Henri La Rochejacquelein, lo sostituì al comando dell’armata vandeana; fatto poi prigioniero venne fucilato. Nei giorni del grande «Terrore» la famiglia Colbert venne perseguitata. Il nome Colbert deriva dal termine colibert che significa «servo affrancato». Capostipite della famiglia è Jean Colbert (1450-1512), capomastro ed architetto, vissuto a Reims. Nicolas Colbert (1590-1661), signore di Vandières, fu Consigliere, poi segretario di re Luigi XIII (1601-1643): dal suo matrimonio con Marie Pussort (1598-1659) nacquero diciotto figli, dei quali nove morirono nella prima infanzia. Il più noto di essi è il ministro delle finanze di re Luigi XIV (1638- 1715), JeanBaptiste (1619-1683), ma altri si distinsero nella vita religiosa: Claire (1618-1680) si fece monaca clarissa e dal 1657 al 1678 fu badessa del monastero di Santa Chiara a Reims, dove fu venerata per la sua santa vita; il fratello Nicolas (1628-1676) divenne Vescovo di Luçon e poi di Auxerre, uomo di grande pietà, austerità, carità; Louise-Antoinette (1631-1698) entrò nelle Figlie della Visitazione nel monastero di Santa Maria a Parigi, dove condusse una vita esemplare e altre due sorelle divennero religiose. Il sesto figlio di Nicolas, EdouardFrançois (1633-1693), divenne capostipite del ramo Colbert di Maulévrier e sarà luogotenente generale delle armate del sovrano. Padre di Juliette fu Édouard-Victurnien-Charles-René, figlio di René-Édouard (1706-1771), che divenne anch’egli luogotenente generale del Re e sposò, in seconde nozze, Charlotte-Jacqueline-Françoise de Manneville (1731-1794), figlia LA FAMIGLIA COLBERT 47 ed unica erede di Charles-Louis de Manneville, signore di Beuzeville-le-Grand e di Charlotte Françoise d’Auber, signora di Theuville. Questa madre, donna forte e profondamente religiosa, influì moltissimo sulla formazione dei figli e dei nipoti. Fu una delle ultime vittime del periodo del Terrore: venne arrestata e condannata a morte dal tribunale rivoluzionario con la falsa accusa di aver portato del denaro al figlio e agli «altri “scellerati” emigrati a Colonia». Suor Ave Tago, che ha ritrovato vasta documentazione d’archivio su Juliette Colbert e la sua famiglia, attesta che nel Museo Carnavalet di Parigi si trova una stampa d’epoca riproducente il quadro Le dernier appel des condamnés di Müller, dove sono raffigurati un gruppo di nobili condannati a morte e rinchiusi nel carcere della Conciergerie, fra questi la contessa di Maulévrier, la quale, seduta su di una sedia, recita tranquillamente il Rosario in attesa dell’esecuzione. Venne ghigliottinata il 26 luglio 1794 e fu sepolta nel cimitero di Picpus a Parigi, con altre 1305 vittime. Édouard, seguendo la tradizione dei Colbert, percorse una brillante carriera militare. Quando la Rivoluzione prese le mosse da Parigi, il Conte si trovava presso l’Elettore di Colonia. Il 19 aprile 1792 venne sospeso dall’incarico e richiamato in patria, ma decise, per sicurezza, di rimanere all’estero, pertanto fu considerato un emigrato. Nel periodo del «Terrore» raggiunse la famiglia a Maulévrier per trasferirla in Belgio, a Bruxelles, dove morì la moglie il 3 ottobre del 1793. Il Conte rientrò in patria nel 1801 e si stabilì con i figli a Parigi, in Rue de la Chaise, e dopo la sua cancellazione dalla lista degli emigrati ritornò in possesso di una parte dei suoi beni. A causa del suo rifiuto di fare domanda di arruolamento nell’esercito di Napoleone perdette un’assegnazione di 48 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA 350 mila franchi 14 in titoli consolidati e non gli furono restituiti i boschi di Maulévrier. Il 21 aprile 1812 sposò, in seconde nozze, Pauline-JeanneHenriette Le Clerc de Juigné (1778-1861) di 33 anni, nipote dell’arcivescovo di Parigi, che la lasciò erede universale. Nel 1814 il Conte riebbe la totale restituzione dei suoi beni e nel 1818 ricevette il titolo di Marchese. Finalmente poté ricostruire il castello di Maulévrier. Divenne Sindaco del paese e ricoprì tale incarico per dieci anni. Dopo la caduta di Napoleone riprese servizio nell’esercito, dal quale si congedò nel 1817 con il grado di maresciallo di campo, e nel 1821 fu nominato membro del Consiglio Generale di Francia. Uomo colto e profondo, era anche appassionato di storia e fu in grado di fornire abbondante documentazione e appunti personali allo storico Jacques Augustine Marie Crétineau-Joly (1803-1875) per l’Histoire de la Vendée militaire. Il padre di Giulia, sinceramente credente, proprietario di immensi possedimenti, faceva della carità una pratica abituale. Egli si interessava infatti attivamente ai problemi sociali del suo tempo e, oltre ad aiutare concretamente i poveri, si preoccupava di garantire ai giovani un’educazione adeguata: ogni anno per questo offriva la somma di franchi 200 ai genitori che si impegnavano ad assicurare ai propri figli una buona formazione umana e cristiana, e ad avviarli ad un mestiere. 15 Da una lettera scritta dal Marchese Édouard al Marchese Carlo Alfieri di Sostegno (1764-1844) – Parigi, 13 agosto 1806 – pochi giorni prima del matrimonio di Juliette con il Marchese di Barolo, si evince tutta la nobiltà d’animo di quest’uomo timorato di Dio. Egli accenna anche ai drammi che hanno colpito la sua famiglia a causa della Rivoluzione, e LA FAMIGLIA COLBERT 49 mentre dichiara di «sopportare» la vita, concentrata ormai soltanto più sui suoi amati figli, allo stesso tempo ringrazia la Provvidenza soprattutto di averli dotati «d’un coeur droit, sensible et bon». Molto legato ai suoi congiunti, egli stilò una bellissima iscrizione a loro memoria nel 1817, che si trova su una tavola di legno conservata nella cappella del Cimetière des Martyres a Yzernay, nella quale esprime gratitudine per l’indulgenza del padre, menziona l’amata prima moglie e ricorda la cognata, che fece da madre ai propri figli dopo la scomparsa della consorte e condivise le sue sofferenze durante l’esilio. Di sua madre ricorderà che aveva accettato con tranquillità la morte e che, mentre veniva portata alla ghigliottina, fra le voci che reclamavano nuove vittime, si sentì: «Oh! Pour cellequi c’est aussi trop fort» a motivo della sua bontà. Édouard morì il 18 agosto 1839 a Maulévrier e di lui scriverà Silvio Pellico, in una lettera a suo fratello Luigi: «Quel conte di Maulévrier Colbert, di cui parla l’articolo era appunto il padre della Marchesa; lo lodano non le sole teste della Vendée, fra cui egli aveva eroicamente brillato, ma anche gli antagonisti» 16. I genitori, che erano di provata pietà, si adoperarono con premura di farle succhiare col latte il timor di Dio, insegnandole ancora bambina a pronunziare con rispetto il santo nome. I sentimenti di religione e di virtù che andavano svolgendosi in quel tenero cuore lasciavano intravedere il grado di perfezione cui avrebbe toccato in età matura. 17 Così scrive nella prima biografia completa sulla Marchesa il Vicomte Armand de Melun: 50 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA «Vendéenne et fille de proscrits, Juliette reçu comme un héritage sacré la foie et le dévouement qui faisaient alors la gloire et la ruine de son pays et de sa famille», il biografo sostiene che il padre di Juliette «avait voulu assurer à ses enfants quelque chose de mieux et de moins fragile que sa fortune. Ses deux filles, élevées avec le plus grand soin, possédaient une instruction variée et profonde; le malheur avait mûri leur intelligence et avancé leur education». 18 Juliette era dotata di intelligenza brillante e profonda, di fantasia vivace e possedeva una natura propensa alla sensibilità e alla generosità; la sua volontà era tenace ed era dotata di un fine gusto estetico. La sua capacità riflessiva era intensa e feconda: Ricordo che a dodici anni tutti dicevano di me che ero pazza, così sempre io folleggiava: eppure credo di avere ancora delle foglie, che raccolsi quell’anno dopo una tempesta. L’impeto di essa n’aveva svelto da ogni albero, e tutte giacevano a terra confuse l’una coll’altra. Io ne presi di tutte le forme e dimensioni, domandai per ciascuna che età poteva avere e poi scrissi: Non guardare la morte agli anni, ma atterrare colla sua falce i giovani, non meno dei vecchi. Era un pensiero affatto comune, e ripetuto chi sa quante volte; ma a dodici anni non si ha tempo di ricordare, io credeva d’inventare. 19 Nel registro delle spese della famiglia Colbert si apprende che Juliette entrò nel convitto delle Suore Orsoline nel 1802, dove studiò con passione. Gli studi venivano integrati con viaggi che favorivano l’apprendimento delle lingue e la conoscenza delle diverse culture. Le spese riguardavano poi l’acquisto dei libri di studio come dei libri per la Santa Messa LA FAMIGLIA COLBERT 51 o libri edificanti; i costi per le lezioni private, gli abiti, gli accessori, la cameriera personale al compimento dei 18 anni; ma anche le offerte alla Chiesa, ai poveri, ad una scuola popolare. Juliette era bella, dentro e fuori, e si trovava a proprio agio nei salotti e ai balli. Amava dibattere e partecipare alle conversazioni degli uomini intelligenti, che la stimavano per la sua abilità nel difendere i propri principi politici e la propria Fede: «Queste energie, sorrette da un’intelligenza superiore, da un cuore colmo di generosità e da un’amabilità alla quale era difficile resistere, le valsero immensi successi e amicizie incrollabili, ma anche alcune opposizioni» 20. Tuttavia cercava gli spazi di silenzio e il rifugio nella solitudine, nutrendo un grande interesse per la letteratura: divorava i libri e nella sua biblioteca, accanto alle opere dei celebri scrittori, collocava tutto ciò che di notevole si pubblicava ogni anno. Esiste un’antologia scritta di suo pugno, che risale agli anni della giovinezza. Si ipotizza che l’abbia iniziata a scrivere negli anni dell’esilio in Germania poiché la carta è di produzione tedesca e l’abbia terminata nel 1806 a Parigi, quando si sposò. Molto spazio viene dato a Dante, Parini, Tasso, Pascal, del quale riporta i primi otto paragrafi della celebre Preghiera per chiedere a Dio il buon uso delle malattie. «Molti dei brani scelti hanno infatti un carattere religioso: vi troviamo ad esempio i temi della Croce come prova della fede, fondamento della speranza e perfezione della carità; oppure della morte e di ciò che ci attende dopo» 21. Fra le opere conservate a Palazzo Barolo spiccavano quelle di argomento religioso, oltre a numerosi saggi di filosofia, di diritto, di scienze e testi sull’educazione e sulle lingue moderne, che accompagnavano la collezione di classici latini e greci, 52 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA questi ultimi presenti in traduzione francese o in lingua italiana. I Marchesi erano particolarmente attenti a due acquisti: i libri e le opere d’arte. Juliette acquistava tutte le opere dei più noti scrittori europei. Fra le letture prediligeva quelle dei Salmi. «Oltre a manuali e pagelline di preghiere alla SS. Trinità, a Gesù Eucaristico, a Maria SS.ma, a san Giuseppe ecc., ella possedeva varie edizioni della Bibbia, numerosi volumi di esegesi biblica e di commento alle letture liturgiche» 22. Inoltre, nelle biblioteche Barolo-Colbert si potevano trovate testi dei Padri della Chiesa (in particolare san Giovanni Crisostomo, san Girolamo, sant’Agostino e san Gregorio Magno), di mistici come la beata Anna Katharina Emmerich (1774-1824), di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), di santa Teresa d’Avila (1515-1582), di san Roberto Bellarmino (15421621), di san Francesco di Sales (1567-1622), di sant’Anlfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) e di François de Salignac de la Mothe Fénelon (1651-1715). E molto, molto altro ancora. Presenza indispensabile era poi il classico di ascetica L’imitazione di Cristo. Ricordiamo in particolare come Juliette abbia raccolto parecchie pubblicazioni del XVIII e XIX secolo riguardanti la questione carceraria e le riforme degli istituti penitenziari, epicentro dei suoi interessi caritativi: «Tutti i libri riputati in fatto di riforma penitenziaria ella conosceva» 23. Giulia lascerà una parte dei suoi libri agli Istituti religiosi delle Suore di S. Maria Maddalena e delle suore di Sant’Anna ed una parte al collegio Barolo. Tancredi, invece, donò buona parte della sua biblioteca all’«Accademia delle Scienze» di Torino, di cui era membro. Determinata e tenace, Juliette ebbe sempre una personalità molto spiccata, che si sapeva imporre. Rimase orfana di LA FAMIGLIA COLBERT 53 madre a soli 7 anni, fu un dolore profondo, una ferita che rimase sempre aperta per un amore non assaporato: Che il sorridere di tale stella sia quello d’una delle persone dilette, cui la Provvidenza ha chiamato alla vita prima di noi? Forse quello di mia madre? Non ho avuto la consolazione di conoscerla, eppure l’ho rimpianta sempre, dacché il cuor mio si è schiuso all’amore. Mia madre, sei tu forse che mi guardi di là? 24 Difficile fu l’infanzia di Juliette, a differenza di quella molto serena di Tancredi. Oltre a rimanere orfana di madre, conobbe la falce della Rivoluzione Francese, subendo la condanna alla ghigliottina di alcuni suoi familiari, l’allontanamento obbligato dalla casa natia, riparando con la sua famiglia prima a Bruxelles, poi a Essen e Münster, dove rimase fino alla fine del 1800. Vivendo l’odio e la violenza della Rivoluzione, Juliette fu sempre negativa nei confronti delle idee di rivolta sociale e sempre difese la Chiesa da ogni attacco. Le notizie sulla giovanissima Juliette le possiamo trarre dalle Memorie di Silvio Pellico, dalla biografia del Visconte de Melun e dalla biografia di don Giovanni Lanza, direttore spirituale del collegio Umberto I di Torino. Pochissimi, infatti, sono gli scritti autobiografici che si sono salvati dal fuoco: nel testamento la Marchesa di Barolo lasciò scritto che si bruciasse ogni suo scritto. Si legge, infatti, all’Art. 2 della terza aggiunta del testamento, presentata al notaio Porta, con atto datato 19 aprile 1859: Lego al mio segretario, e co-esecutore testamentario signor Domenico Burdizzo (con ordine ed incarico positivo di abbruciarle subito, e con espressa proibizione di darne conto o schiarimen- 54 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA to a chicchessia), tutte indistintamente le carte e memorie che si trovassero ancora nei miei appartamenti a Torino, e nella mia villeggiatura di Moncalieri, vietando assolutamente a chiunque di prenderne nota o conoscenza, né di farne inventario […] in tutti i casi, e ad ogni modo ordino e voglio che si presti intiera fede alla solenne dichiarazione che io qui fo […]. Intendo dunque e prescrivo che il signor Domenico Burdizzo reputisi effettivo e legittimo possessore e padrone di pien diritto (per abbruciarle tosto come sopra) delle dette carte e memorie dall’istante medesimo della mia morte in poi, con autorità perciò di ritirarle esso medesimo direttamente e da solo, senza darne avviso o farne domanda a nessuno e senza riceverle, e dipendere a questo riguardo da qualunque persona od autorità. La formazione, a motivo della prematura morte della madre, viene guidata dal padre e sotto la sua sorveglianza viene educata in Olanda e in Germania; riceve, quindi, un’istruzione vasta ed accurata con pedagoghi e precettori a domicilio. La formazione è polivalente: studia latino, filosofia, storia, matematica e fisica; impara il francese, l’inglese, il tedesco, l’italiano. Ha uno spiccato talento artistico ed è capace di eleganza dialettica. La cultura acquisita in quegli anni verrà continuamente arricchita: «Così non le mancarono nozioni scientifiche ed anche una conoscenza abbastanza vasta del latino e di varie letterature, ch’ella amò sempre coltivare fino agli ultimi suoi anni» 25. Gli interessi letterari ed artistici saranno condivisi con Tancredi, che ebbe modo, non a causa dell’esilio forzato come accadde a Juliette, ma grazie al padre cosmopolita di conoscere lingue e culture di diverse nazioni europee, di far proprio un vasto bagaglio di conoscenze, avendo un’attenzione acuta per le contingenze storiche. LA FAMIGLIA COLBERT 55 Di Juliette si dice: «Grande rispetto di sé medesima, profondo sentimento del dovere, affetto riverente ai genitori, scrupoloso timor di Dio furono i principi a cui venne informato il suo animo» 26. Il padre, per fortificarla nella morale e nella religione le consigliava di accostarsi frequentemente ai Sacramenti e alla Parola di Dio, regalandole spesso libri di «sana dottrina» e tenendo con lei «conversazioni edificanti onde crescere in pietà e in dignità di carattere» 27. L’intelligenza e la ferma volontà di Juliette si unirono all’opera pedagogica paterna ed ecco che ella si trovò a fronteggiare le sue battaglie per due scopi essenziali: la Gloria di Dio e il bene del prossimo, gli stessi due impegni di Tancredi di Barolo. Nel 1801 a Parigi, quando i Colbert fecero ritorno in Francia, Joseph Guillon, un avvocato amico di famiglia, assunse la tutela dei figli di Édouard, essendo ancora egli iscritto nella lista degli emigrati ed i ragazzi minorenni; ma la cosa decadde già l’anno successivo. Al ritorno la famiglia vide con sgomento che il castello Colbert era stato bruciato, i campi erano devastati e la poca gente rimasta era alla fame. Da buon vandeano, il Marchese, forte nella Fede, ricostruì ciò che era stato distrutto, diede lavoro alle persone e soccorse i poveri. Quel senso del dovere cristiano, quella carità adamantina, quella determinazione ardita e vandeana, quell’amore per Dio e per il prossimo, quel Credo tenace, missionario e perseverante saranno portati da Juliette dentro le mura di Palazzo Barolo. Questo il nome di battesimo, così firmava le sue lettere (Juliette de Colbert M.se de Barol) e così è chiamata nel presente saggio. 2 Il nome Maulévrier, secondo una leggenda, deriverebbe dall’antica denominazione «Malum Leporarium», ossia «Mauvais Lévrier (levriero cattivo). 1 56 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA I fratelli di Juliette sono: Elisabeth-Marie-Victurnie (1783-1835), ÉdouardAuguste-Victurnien (1790-1817), Charles-Antoine-Victurnien (1793-1859), René-Olivier-Victurnien (1813-1891). 4 «Famiglia Cristiana», n. 41, 1993, pp. 80-81. 5 Alcuni di questi valorosi e cattolici generali sono ricordati nella bellissima canzone di Jean Pax Méfret, Guerre de Vendée. 6 R. Secher, Il genocidio vandeano, Effedieffe Edizioni, Milano 1989, p. 306. 7 Archivio storico dell’esercito, B. 58. Lettera del 25 piovoso dell’anno II. 8 Secher, Il genocidio vandeano cit., p. 306. 9 Congregazione delle Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, p. 21. 10 F. Agnoli, La rivoluzione francese: letture critiche dell’alba della modernità, in http://www.libertaepersona.org/wordpress/2009/05/la-rivoluzione-francese-letture-critiche-dellalba-della-modernit-1259/. 11 C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re, la straordinaria vita della Marchesa di Barolo, Gribaudo Editore, Cavallermaggiore 1992, pp. 18-19; cfr. anche «Il nostro tempo», 10 giugno 1990. 12 Cfr. E. Corti, Il martirio dei cattolici vandeani, «Il Timone», n. 13, maggiogiugno 2001. 13 Jean Nicolas Stofflet nasce a Bathelémont-lès-Bauzemont, in Lorena, il 3 febbraio 1751 e morirà ad Angers il 25 febbraio 1796. È figlio di un mugnaio e per lungo tempo è soldato semplice, in un reggimento svizzero in Francia. Poi diventa guardiacaccia, al servizio del conte di Colbert-Maulévrier, padre della Serva di Dio Juliette che sposerà l’ultimo rampollo del Casato Falletti di Barolo, il Servo di Dio Carlo Tancredi. Stofflet si unì ai vandeani quando insorsero contro la Rivoluzione francese in difesa della fede cattolica e dei principi monarchici. Intelligente e buon militare, nel marzo del 1793 prese le armi, partecipando, con grande audacia, a molte battaglie a fianco dei capi militari Rochejaquelin Cathelineau, Lescure e Bonchamps (cfr. C. Siccardi, Jean Nicolas Stofflet Martire-Testimoni, http://www.Santiebeati.it/dettaglio/95456). 14 Cfr. Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 26. 15 Ivi, p. 27. 16 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert, Tipografia Speirani e Figli, Torino 1892, p. 45, e Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 28. 3 LA FAMIGLIA COLBERT 57 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., pp. 45-46. Cfr. A. de Melun, La marquise de Barol. Sa vie et ses oeuvres, Libraire Poussièlgue frères, Paris 1869, pp. 2-5. 19 Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., p. 138. 20 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 49. 21 Ivi. 22 Ivi, p. 107. 23 Cfr. T. Canonico, Sulla vita intima e sopra alcuni scritti inediti della Marchesa Giulia Falletti di Barolo-Colbert, Tipografia G. Favale E. C., Torino 1864, p. 25. 24 Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., pp. 66-67. 25 R.M. Borsarelli, La Marchesa Giulia di Barolo e le opere assistenziali in Piemonte nel Risorgimento, Chiantore, Torino 1933, p. 11. 26 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 119. 27 Ivi, p. 47. 17 18 4 La difesa dalla povertà Sotto il regime napoleonico, i giovani sposi sostano alcuni mesi dell’anno a Parigi, dove frequentano parenti e amici, e dove il Marchese continua ad occupare la carica di ciambellano di corte e proprio nella capitale francese hanno modo di incontrare illustri e significative personalità del mondo cattolico, politico e letterario. Caratteri e temperamenti molto diversi fra loro, ma fortemente complementari: mite lui, vulcanica lei. Eppure la comune ispirazione religiosa fece loro intendere che Dio crea, tanto nell’ordine fisico che morale, le diversità di tendenze, non perché si escludano, ma per arricchirsi reciprocamente. Questi sono anche gli anni più intensi per i loro viaggi e grazie ad essi acquisiscono un vasto panorama culturale e civile. Loro scopo non è solo quello di visitare città d’arte e di storia e di intrecciare nuove relazioni, ma anche quello di rendersi conto di quanto si va progettando e realizzando nei diversi Stati europei in campo educativo e sociale. Sebbene giovani, hanno in animo di operare attivamente per soccorrere le diverse povertà, spirituali, materiali, culturali. Vengono in tal modo a contatto con le più disparate realtà. Entrambi si sentono sollecitati a ricercare le soluzioni più idonee per risolvere i problemi di miseria e di ignoranza. 60 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Tancredi considera l’ignoranza come la massima e la peggiore delle povertà. Insieme coagulano tante esperienze per mettere in pratica la loro personale ed originale formula: impiegheranno le loro forze, il loro immenso patrimonio, le loro energie in beneficio degli ultimi, mettendo a disposizione degli altri anche l’affetto e le premure che avrebbero avuto per quei figli che non ebbero. La sterilità fu causa di immensa e profonda sofferenza, ma l’accettare quella Croce con grande rassegnazione, inserendola nel piano della «sapienza» divina, fece in modo che la loro paternità e maternità si esprimessero in maniera straordinaria nell’ambito spirituale. «Insieme al marito Carlo Tancredi Falletti di Barolo, Giulia ha costituito una famiglia aperta a Dio e al prossimo. I due sposi, profondamente uniti nel cammino della santità, cercarono di animare ogni ambito della realtà storica in cui vissero con il messaggio del Vangelo» 1. Al vuoto creato dalla mancanza di figli fa riferimento il poeta Alfonso de Lamartine (1790-1869), amico-ammiratore dei Marchesi dal 1819, periodo che corrisponde alla carriera diplomatica del poeta. Più volte Lamartine, nelle sue epistole indirizzate a Juliette, ricorda Tancredi con grande affetto. Di lui si servirà anche in qualità di consulente d’arte. A causa dei molteplici impegni il Marchese si farà spesso desiderare, allora Lamartine gli scriverà, con arguzia, l’11 marzo 1828: «È ingrato, perché qui [Firenze] lo si desidera e lo si ama». Nell’Italia della Restaurazione non agiscono solo i movimenti liberali o rivoluzionari, ma anche le cosiddette Amicizie cristiane, sorte come società segrete, dove si sostiene l’alleanza fra il trono e l’altare e delle quali si parlerà anche nelle pagine successive. In alcuni ambienti torinesi si respirano le idee del pensatore e diplomatico savoiardo Joseph-Marie de LA DIFESA DALLA POVERTÀ 61 Maistre (1753-1821), nato a Chambéry. Magistrato dal 1774, nonché ambasciatore di Carlo Emanuele IV in Russia, aveva subito l’influsso delle idee illuministe, aderendo anche alla Massoneria; ma lo sviluppo tragico della Rivoluzione Francese e la conseguente opera di scristianizzazione e persecuzione della Chiesa modificarono le sue idee, conducendolo su posizioni tradizionaliste. Nelle Considerazioni sulla Francia, pubblicate nel 1796, egli interpreta la Rivoluzione come una rivolta coordinata da Satana contro le forze del bene, dunque contro Dio 2. Nella sua celebre opera Du Pape, de Maistre scrive: «Mille cause hanno indebolito l’ordine sacerdotale. La rivoluzione l’ha spogliato, esiliato, massacrato; essa ha infierito in tutti i modi contro i difensori naturali dei precetti che aborriva. Gli antichi atleti della santa milizia sono scesi nella tomba; giovani reclute si avanzano per occuparne i posti; ma il numero di queste reclute è per forza scarso, perché il nemico, con funesta abilità, ha già tagliato loro i viveri». Mentre nasce il Regno delle due Sicilie sotto la sovranità dei Borboni, le organizzazioni clandestine, già presenti sotto il regime napoleonico, si moltiplicano in tutta Europa, differenziandosi per struttura interna, pensiero e metodi di lotta. Alcune aspirano alla costituzione o all’indipendenza nazionale, altre elaborano articolati progetti di democrazia e di uguaglianza sociale. Altre ancora seguono prestabiliti modelli gerarchici, con complessi rituali di ascendenza massonica e gradi diversi di iniziazione, ma c’è anche chi propugna colpi di Stato militari o vaste insurrezioni popolari. Spesso queste associazioni cambiano nome e connotati per mascherarsi di fronte al controllo della polizia. In taluni casi esse vengono controllate da sette più importanti, a volte di carattere internazionale e i governi cercano di spiarle con in- 62 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA filtrati. Le più diffuse sono l’Adelfia, che vanta in Piemonte un notevole seguito nell’esercito; l’Ordine delfico, che trova i suoi adepti nei massoni; la Società guelfa, presente nello Stato pontificio; la Carboneria. Più tardi, nel 1818, Filippo Buonarroti (1761-1837) e Federico Confalonieri tenteranno di riorganizzare queste realtà sotto le seguenti denominazioni: i Sublimi maestri perfetti in Piemonte, la Federazione italiana in Lombardia, la Costituzione latina nell’Italia centrale. Attraverso questa rete Buonarroti intende riproporre gli ideali della «congiura degli eguali» 3 di memoria francese (Conjuration des Égaux: fu una cospirazione organizzata in Francia nel maggio 1796 dalla società degli Eguali contro il Direttorio, che, tuttavia, fallì completamente), al fine di creare una repubblica unitaria, una dittatura rivoluzionaria degli iniziati, fino a quando il popolo non avesse preso «coscienza dei propri diritti»; in definitiva si voleva abolire la proprietà privata e far sorgere una società di ideologia comunista. La struttura limiterà le idee programmatiche, facendo così della setta, più che uno strumento di lotta, una scuola di perfezionamento culturale, in grado di legare rivoluzionari di derivazione giacobina con moderati costituzionalisti e antiaustriaci. Nel Palazzo di via delle Orfane le idee rivoluzionarie non solo non vi entrano, ma vengono combattute. Il Marchese di Barolo è unito inscindibilmente alla corona dei Savoia e al seggio pontificio di Roma; mentre la sua sposa, che aveva visto nella sua famiglia la tragedia della ghigliottina, sarà avversa ad ogni tipo di rivolta contraria alla Fede, alle istituzioni, al diritto naturale e al diritto divino. E, insieme, divennero duttili strumenti della Provvidenza in una Torino dove si svilupperanno le migliori energie della carità, dove opereranno i Santi della carità subalpina 4. LA DIFESA DALLA POVERTÀ 63 Nella prima metà dell’Ottocento il Piemonte è caratterizzato dall’aumento demografico, nonostante l’alta mortalità infantile. Nel 1848 gli abitanti ammontano a 4.916.087, mentre a Torino risiedono 136.849 individui. Nella capitale subalpina gli anni della Restaurazione sono caratterizzati dalla formulazione di molti programmi urbanistici ed edilizi e da un notevole ampliamento della città. I sovrani interessati sono: Vittorio Emanuele I (regnò dal 1814 al 1821), Carlo Felice (regnò dal 1821 al 1831) e Carlo Alberto (regnò dal 1831 al 1848). L’innovazione del periodo napoleonico rispetto all’ancién regime era stata soprattutto l’urbanizzazione legata maggiormente all’utilità pubblica nella destinazione del suolo e con la Restaurazione si introduce un cambiamento profondo: gli spazi destinati un tempo ai giardini e ai servizi pubblici, ora si lasciano alla costruzione di residenze. Crisi agricole, commerciali e sanitarie, carestie, guerre e pestilenze, avevano, da sempre, contribuito ad ingrossare, in periodi alterni, la classe sociale costituita dai poveri e dai mendicanti. Da sempre però si provvedeva ad essi con il sostegno della carità privata: il buon cuore di alcuni, laici e religiosi, concedeva un pezzo di pane, un piatto di minestra o un lavoro. Tuttavia fra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento si andò organizzandosi un fitto piano di interventi. La domenica del 4 aprile 1717 (ottava di Pasqua) tutti i sacerdoti della capitale subalpina annunciarono nelle loro chiese che il mercoledì successivo avrebbe avuto luogo «la solenne funzione destinata ad inaugurare il prospero compimento di quell’opera, alla quale avevano sì generosamente contribuito i caritatevoli torinesi» 5. Si trattava dell’inaugurazione dello «Spedale di carità» di Torino, sito in via Po. Lo «Spedale» trovò 64 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA sistemazione in quello che sarà poi chiamato il Palazzo degli Stemmi, così chiamato perché ognuno dei più importanti benefattori sarà ricordato con un’effigie, con un busto o un’iscrizione. Questa istituzione determina la fine della libertà di mendicare e l’inizio di un’epoca in cui i poveri vengono rinchiusi, come altre categorie di devianti e di improduttivi. L’iniziativa è accolta con una processione ed un banchetto per il «rinchiudimento generale de’ poveri», come lo definisce il vicario generale di Torino. Circa ottocento mendicanti «che già la mattina erano stati vestiti del nuovo abito, verso il mezzo giorno si recarono al Duomo. Ivi trovarono tutte le confraternite della città, ognuna delle quali avea seco molti fanciulli vestiti a guisa d’angeli, e altrettante fanciulle ben adorne da vergini con corone di fiori in capo» 6. Qualcosa di sorprendente accade sùbito dopo: i poveri, invitati ad un gran banchetto in piazza Castello, vengono serviti dai paggi di corte, dalle «figlie d’onore», da cavalieri e dame. Un testo francese di André Guevarre S.J. (1646-1724), pubblicato nel 1717, affronta il tema della mendicità per farla scomparire, individuando in queste masse diseredate il potenziale formarsi delle «classi pericolose». Con il suo saggio, La mendicità sbandita col sovvenimento de’ poveri, più volte ristampato nello stato sabaudo, offrì lo strumento a Vittorio Amedeo II per mettere in pratica una riforma sulla mendicità. Si trattava dell’individuazione dei poveri non solo da assistere, ma da controllare: l’assistenza dei poveri veniva avocata a sé dallo Stato sabaudo, quell’assistenza tradizionalmente affidata alla Chiesa e ai nobili privati. Il problema della povertà venne centralizzato presso l’Ospedale della Carità, funzionante come luogo di smistamento in cui i poveri potevano essere: ricoverati; condotti in carcere; oppure rispediti, con la forza, ai luoghi di origine. Al- LA DIFESA DALLA POVERTÀ 65 cuni anni dopo, nel 1747, l’applicazione del controllo della mendicità assunse un’accelerazione. Venne emessa un’ordinanza in base alla quale si stabiliva che tutti i capitani dei quartieri della città di Torino verificassero, casa per casa, se ci fossero soggetti senza lavoro e senza beni, dediti all’ozio e al gioco e, quindi, perturbatori dell’ordine pubblico. I capitani dovevano prendere nota e trasmettere l’elenco all’ufficio del Vicariato. Si stabilì inoltre che i locandieri, se avessero dato ricovero ai suddetti individui, sarebbero stati soggetti a delle pene. In un editto datato 1720 Vittorio Amedeo II sancì penalmente i vagabondi e i falsi mendicanti: Dovranno, oltre agli zingari, riputarsi e considerarsi per vagabondi e per conseguenza rei delle pene tutti quelli che sani e robusti senza beni stabili e sufficienti al loro mantenimento, e senza esercizio di professione andranno vagando e che si troveranno avere appresso di loro grimaldelli e chiavi false, ovvero scalpelli e ferri consimili e che si fingeranno storpi e ciechi, eziandio che andassero questuando. 7 Così facendo impose uno spartiacque fra chi finge di essere diseredato o handicappato e chi invece è nullatenente. Il vagabondaggio entrò nell’illegalità. Il gesuita Guevarre si schierò con la magistratura più dura: I poveri che accattano dopo essere stati provveduti, nol possono fare, che per una ostinazione biasimevole, o per avere da poter soddisfare alle loro iniquità, crapula e ubriachezza e perciò meritano d’essere messi in prigione, e castigati severamente: non semplicemente perché domandano la limosina per l’amor di Dio, ma perché contravvengono a’ bandi e ordini di S.M. e 66 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA perché vogliono perseverare in quei peccati che necessariamente trae seco quella vaga libertà di mendicare. 8 Nel 1778 venne costituita a Torino la Congregazione per gli Ospizi e le Congregazioni di carità. Dopo la parentesi rivoluzionaria e bonapartista, la discussione sulla questione dell’accattonaggio riprende nuovamente toni accesi. È Cesare d’Azeglio, sovrintendente generale delle Opere Pie, che presenta un importante Progetto per sbandire la mendicità nel Piemonte, facendo presenti anche e soprattutto le cause della povertà. Essa trova le sue radici nei periodi di inattività agricola, quando cioè non viene impiegata tutta la forza bracciantile a disposizione. La cancrena della povertà non è un’esclusiva prerogativa di Torino, ma dell’Italia intera e di tutta Europa. Negli altri Stati si diffonde, per esempio, la cosiddetta «tassa sui poveri», i cui proventi sono destinati all’assistenza delle persone in difficoltà. Intanto lo spopolamento dalle campagne e la riduzione della produttività agricola continuano a crescere: la gente, attirata dalle città che si vanno pian piano industrializzando, abbandona i campi. Le istituzioni che si prendono cura della mendicità, con il passare del tempo, vanno qualificandosi: dal caotico «Spedale di carità» che accoglieva sbandati di ogni sorta, si giunge alle case di lavoro per i poveri; ospizi per anziani; riformatori per minorenni; ospedali per pazzi; ricoveri per donne di malaffare; case per vedove. E dall’iniziativa pubblica che lascia molto a desiderare si passa a quella privata, bene organizzata: pensiamo alle attività intraprese da Roberto (17901862) e Costanza (1793-1862) Taparelli d’Azeglio oppure alle opere del Cottolengo (1786-1842), di don Bosco (1815-1888), di Cafasso (1811-1860), di Murialdo (1828-1900), di Faà di LA DIFESA DALLA POVERTÀ 67 Bruno (1825-1888) e, prima ancora, dei Marchesi di Barolo. Ciascuno, a seconda delle proprie attitudini, si prende il compito di accogliere e seguire categorie ben diverse fra di loro: chi i carcerati, chi i giovani, chi gli infermi, chi i poveri… Nel 1836 si regolarizza legislativamente tutto il grande bacino delle Opere pie, dandogli un sistema economico simile a quello in vigore per le finanze regie. Oziosità e vagabondaggio sono ritenuti reati e come tali inclusi fra quelli previsti e puniti dal Codice penale che arriverà nel 1839. Coloro che non vengono arrestati sono comunque internati nel Palazzo di via Po e dagli 800 ospiti iniziali si passa, dopo un secolo, a 3.500 persone. Il problema della mendicità viene affidato alla polizia, la quale così dispone: «Li poveri autorizzati a questuare non potranno chiedere l’elemosina col viso coperto, nell’interno delle chiese, né nelle scale degli abitati, e né di notte tempo, cioè dopo il tramontare del sole; è proibita di chiederla gridando per le contrade, e alle porte delle chiese, pena l’arresto per tre giorni» 9. I poveri riceveranno, dall’ufficio del vicariato, «un pezzo di latta gialla», che si dovrà tenere costantemente «sul petto al lato sinistro». I Santi della carità subalpina tolsero quei pezzi di latta. Introduzione di Madre Delia Mazzocchi, in Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 5. 2 Fra le sue opere più importanti ricordiamo: Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche (1814); Del Papa (1819); Serate di San Pietroburgo (1821). 3 Con la costituzione repubblicana dell’anno III, repubblicani moderati e monarchici costituzionali trovano un accordo, impedendo la ripresa politica della democrazia e dell’aristocrazia. I termidoriani tolgono il maxi1 68 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA mum, che era un’azione di calmieramento, ripristinando la libertà di commercio e istituendo un suffragio basato sul censo. Seguono una linea liberale. Tuttavia il movimento democratico ebbe un sussulto con la rivolta degli uguali nel 1796, guidata da Gracco Babeuf, Filippo Buonarroti e Augustin Darthé. Gli Uguali insorgevano per riportare la «reale uguaglianza». 4 Non «Santi sociali», definizione di matrice marxista, ma «Santi della carità subalpina» che agirono come tutti quei Santi che, grazie alla Fede, si dedicano, con lo sguardo rivolto a Dio, alla carità verso il prossimo. 5 Cfr. A. Lonni, «Mendicità e assistenza», in AA.VV., Storia Illustrata di Torino, Elio Sellino Editore, Milano 1992, vol. IV, p. 1042. 6 Ivi. 7 Ivi, p. 1046. 8 Ivi, p.1050. 9 Ivi, p.1057. 5 Quell’unione così straordinaria Questo connubio fu saviamente ideato sia per le doti pregevoli degli sposi, sia per la comunanza di principii religiosi e civili che era tra loro e tra le due famiglie, sinceramente cattoliche e ferventi nella devozione a’ loro re. Tornò quindi gradito ad entrambe, che se ne ripromettevano il più felice successo, che indarno può sperarsi senza l’unione morale ed intima delle credenze comuni e fedelmente professate. 1 Entrambi i coniugi erano privi di ipocrisie e gestivano diversamente le loro personalità trasparenti: La Marchesa di Barolo, la più fedele e la più affascinante delle amiche, era talvolta severa con quelli che non le erano simpatici, e più di un contemporaneo, nel rendere giustizia al suo merito, le ha rimproverato di aver troppo tenuto a far prevalere le sue idee e a prendere il primo posto nell’attenzione di coloro che parlavano con lei; ma fuori della società mondana le sue stesse imperfezioni si cangiarono in qualità, e i suoi difetti in virtù. Quell’ambire il successo 2, quell’ostinazione a far trionfare il suo punto di vista, furono la sorgente e il mezzo delle sue opere più belle e difficili; e se nei salotti ci si lagnava talvolta della forza 70 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA imperiosa della sua volontà, sempre la si benediceva nella cella del prigioniero e nella stamberga del povero. 3 Nei primi anni di matrimonio gli sposi vivevano parte dell’anno alla Corte imperiale e parte nella capitale del Regno Sardo. Con la Restaurazione e il ritorno dei legittimi reali in Piemonte, i Barolo diradarono le loro permanenze in Francia e si stabilirono in maniera definitiva a Palazzo Barolo, in via delle Orfane. Juliette venne accolta amabilmente nella nuova famiglia e benevolmente dalla nuova patria: la sua bontà, il suo brio, la sua spiccata intelligenza conquistarono la società torinese. Volle imparare storia, abitudini, dialetto piemontese, fondendo in sé Francia e Italia. Inizialmente non dovette neppure cambiare nazionalità poiché all’epoca il Piemonte era unito alla bandiera rossa, bianca, blu. Juliette «confondait dans son affection le Piémont et la France, mais peu à peu le Piémont l’emporta, et lorsqu’en 1814 il eut repris sa liberté et son autonomie, la bienveillance de Madame de Barol resta fidèle à la France; mais son dévouement, son amour et ses sacrifices appartinrent à sa nouvelle patrie» 4. Un amore straordinario il loro, ossigenato dalla costante vita di preghiera e di carità assidua e solerte, un amore sponsale secondo il cuore di Dio. Una comunione ideale che trova conferma in una lirica che Silvio Pellico scrisse dopo la guarigione da una violenta febbre che colpì Juliette durante una delle sue frequenti visite alle carceri. Furono in molti ad offrire preghiere e persino la propria vita pur di aver salva colei, come dice il poeta, «che a tanti è luce, e tanti rincuora» 5. Lei sola era serena, «unanime coll’alto volere onnipotente» 6 e attendeva sorella morte. QUELL’UNIONE COSÌ STRAORDINARIA 71 Tancredi, nel pianto, le diceva: «Tu necessaria mi sei, tu di grazia superna a me sei pegno! Se non mi stai appresso, ahi più non è chi ispira forza alla vita mia, forza al morire» e la risposta di lei: «Forza alla vita ed al morire è Iddio», così diceva mentre stringeva il crocifisso con amore e con un dolce sorriso si soffermava proprio sulla morte e sul Paradiso 7. Stessa apprensione Juliette avrà nei confronti di Tancredi dopo un incidente accaduto in Francia: Nous espérons qu’avec des soins point de fatigue nous éviterons l’abcès… Tout autre risque est maintenant tout à fait passé chère maman. Remercions la Providence. Je puis vous dire à présent que cet accident auroit pu être tout ce qu’il y a de plus affreux; mais je vous le répète tout va bien et nous sommes bien sages; nous voyagerons doucement et nous soignerons beaucoup Mr. votre fils que j’aime beaucoup comme vous savez. 8 Una tenerezza infinita dimostrerà di avere sul letto di morte di Tancredi il 4 settembre 1838, a Chiari. E lui manifesterà nei confronti della sposa una fiducia e confidenza illimitate, tanto che, nella sua ultima confessione, Juliette «voleva allontanarsi, lui non volle, disse che non aveva affatto segreti per sua moglie» 9. Il Massé annota l’eccezionale comunione di spirito tra i due sposi: Ambedue colti e di fine sensibilità – lei più ardente, generosa e volitiva, per temperamento e tradizione intransigente nelle idee; lui non meno ricco di sentimento e di bontà ma meno espansivo, più liberale e facilmente remissivo – godettero quella perfetta comunione di spirito che ti fa ammirare, gustare e godere con assai maggiore intensità e struggente dolcezza 72 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA quanto il tuo sentire e la tua commozione sono compresi e divisi da colui o colei che tu ami e in cui provi tanta gioia a trasfondere l’anima tua. E la loro felicità fu di quelle – troppo rare – in cui la fusione degli spiriti e dei cuori, insieme a quella della carne, esalta veramente la vita e la «moltiplica come diecimila». 10 Dopo ventinove anni di matrimonio il Marchese confiderà a Silvio Pellico che nella moglie aveva sempre visto «la più costante aspirazione a perfezionarsi nella virtù; e ciò che egli maggiormente lodava si era che ella fosse – questi erano i suoi termini – la creatura più semplice, più incapace di superbia e di finzione. Mi disse che sebbene dal principio della loro conoscenza ei l’avesse amata molto, ora ei l’amava più ancora» 11. Lo scrittore tiene poi a precisare che il Marchese non era avvezzo a simili esternazioni ed «io ascoltava con rispetto e con gioia simili parole d’un uomo tanto nemico delle esagerazioni» 12. Quotidianamente i due si scambiavano resoconti, idee, progetti, confidenze, quelle che tengono aperto un cuore all’altro, quelle che nutrono la vita, riempiendola di quell’affetto necessario a tenere la strada coniugale sgombera da ombre. Ogni giorno dopo la preghiera, la lettura, le visite, la carità, la dose di preoccupazioni, di problemi, di sofferenze e croci, si ritrovavano, prima del pranzo, per raccontarsi la mezza giornata, e se uno dei due era fuori Torino per alcuni giorni, allora si scrivevano, partecipandosi di tutto «per tenersi al corrente dei loro pensieri» 13. Un modello di coppia «troppo rara» nel mondo, ma graditissima a Dio. «Purtroppo era mancata, ad allietare la loro casa, la dolce poesia e la possente benedizione dei figli; perché tutto non si può avere in questo mondo. In più di un caso ciò sarebbe stato causa, a lungo andare, di freddezza fra i co- QUELL’UNIONE COSÌ STRAORDINARIA 73 niugi e anche di divisione; essi invece seppero fare una cosa ancor più rara in simile circostanza: rimasero strettamente uniti nel loro amore, concordando di riempire la loro vita con quella immensa opera di bene per cui il loro nome è rimasto giustamente celebre e benedetto: e si amarono così, in piena concordanza di ideali e di lavoro, sino alla fine» 14. «Anzi l’affetto divenne tra essi più puro e più forte, perché fondato sulla fede, sulla carità, sul dovere. In mirabile accordo i due giovani coniugi si accesero di santa gara nel farsi apostoli di cristiana beneficenza; ed in ciò venivano secondati da’ pii loro genitori» 15. Perciò, accettando con rassegnazione e abbandono il volere di Dio, seppero vivere con paternità e maternità spirituale il loro fecondo amore: non per nulla a Torino i Marchesi di Barolo erano noti come il «Padre dei poveri» e la «Madre dei poveri». «Una delle mie contentezze», rivela Silvio Pellico, «era d’udire in ogni città e per le campagne gente dabbene che parlava con amore dei coniugi Barolo e delle loro esimie beneficenze […]. Mi convinsi non esservi che una sola riputazione di altissimo valore quella che proviene da virtù cristiane: ogni altra gloria celebrata dal mondo è vera miseria» 16. Significative sono le epigrafi apposte alle due statue del Marchese e della Marchesa di Barolo, presenti sopra le porte che chiudono le navate laterali della parrocchia di Santa Giulia in Torino. Sotto il monumento dedicato a Tancredi leggiamo: «Fu vero amico dei poveri che raccomandò / alla pia consorte istituendola erede», mentre sotto quello di Juliette: «La carità operosa del consorte emulò / fece perpetue insigni beneficenze». Essi furono profondamente uniti, ma allo stesso tempo profondamente se stessi: fra loro era la libertà portata da Cri- 74 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA sto. Vissero un’unità che non andò a discapito delle singole identità, bensì ne esaltò le caratteristiche migliori. Proprio in virtù della sacramentalità del matrimonio, i Marchesi sono stati vincolati l’uno all’altra in maniera indissolubile. «Quei due impareggiabili cuori» crearono un «mirabil duo» dice Silvio Pellico. La Carità è stata la fonte e la strada della loro perfezione cristiana. Amarono Dio in tutta profondità e davvero amarono il prossimo come se stessi. Si sono educati all’amore e possiamo riscontrare loro unione formidabile anche dopo la morte di Tancredi. Le conseguenze furono drastiche, la tragedia infatti allontanò totalmente la nobildonna dalla vita mondana, concentrando il perfezionamento dell’anima nella crescita della Fede e nell’ardore caritativo, come se avesse dovuto compiere un lavoro per due, anche per chi non c’era più. Caratteri diversissimi, lo sappiamo bene ma nelle divergenze non si respinsero, si completarono! Ecco la bellezza di questo connubio. La comune ispirazione religiosa fece loro intendere… che Dio crea, tanto nell’ordine fisico che morale, le diversità di tendenze, non perché si escludano, ma si sommino, come in un abbraccio, che tra gli esseri umani è l’abbraccio dell’amore; il quale così ha l’unico modo di superare il suo contrapposto, l’egoismo… Se la Chiesa lo volesse… come sarebbe bello vederli comparire in una volta, insieme, nella gloria degli altari, coppia esemplare ai moderni coniugi… senza la religione dell’amore! Ma esemplari… anche ai religiosi, e… Perché non è lo stato religioso proprio l’unione di vita con una moltitudine di persone dai temperamenti tanto possibilmente diversi quanto sconosciuti al momento del legame della professione? E non è la loro divergenza il provvidenziale attrito per il QUELL’UNIONE COSÌ STRAORDINARIA 75 luccicore del perfezionamento personale, e per la produzione di quel prodotto che è il fine di ogni attività cristiana in tutte le società, la umana, ma specialmente la religiosa: la carità?… nessuna famiglia religiosa avrebbe da adontarsi di aver fondatori due coniugi come i Marchesi di Barolo, modelli per la vocazione ad ogni stato, nel mondo e nel chiostro! Santi cioè… universali! 17 Anche nelle attività caritative ebbero i loro campi d’azione, lui guardava alla preservazione morale della gioventù, offrendo istruzione e opportunità di lavoro; lei mirava al recupero delle carcerate. Ambedue erano per prevenire difficoltà e drammi con metodi rigorosi e misericordiosi insieme. Tancredi e Giulia costituirono una vera e propria communio personarum, il loro esistere si identificò nella comunione più completa: l’uno nutriva l’altra delle proprie conoscenze e delle proprie virtù e così faceva lei. Tutto si confidavano, tutto condividevano. E la loro vita si propagava oltre le mura del Palazzo, «bonum est diffusivum sui» («il bene tende a diffondersi»), scrive San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae 18. Nella loro dimora tutti erano in gran movimento ed erano indotti ad emulare i Marchesi: servitù, segretari, collaboratori, amici, ognuno chiamato a portare a termine il proprio lavoro: le giornate si consumavano nell’impegno veloce e costante, creativo e dinamico. Il bene quanto più è comune, tanto più è proprio e, perché proprio, viene tutelato ed accresciuto. I Barolo, che facevano a gara nella Carità, divennero modello ad altri benefattori, creando una virtuosa catena di bene. La Provvidenza divina ha loro negato il conforto di crearsi una famiglia naturale, perché nei suoi mirabili disegni dovevano formarsi una famiglia, ben più numerosa e confortevole, la fa- 76 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA miglia del cuore, per l’amore di Dio e del prossimo, nelle schiere innumerevoli della gioventù che essi avrebbero beneficato. 19 Tancredi e Juliette furono davvero edificatori della Città di Dio. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli. 20 Le tribolazioni, le fatiche, i contrattempi in casa Barolo consolidarono e rafforzarono giorno dopo giorno la loro unione: «Aquae multae non potuerunt extinguere caritatem» («Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo») 21. Vissero la Carità secondo gli insegnamenti di san Paolo: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità QUELL’UNIONE COSÌ STRAORDINARIA 77 non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte la più grande è la carità! 22 Non a caso Tancredi preparò il monumento funebre della sua famiglia, facendo progettare dallo scultore Bogliani un altorilievo rappresentante la Fede, la Speranza e la Carità. Egli stesso dettò la didascalia: In Spe erit Fortitudo. Spe enim salvi facti sumus. Induti loricam fidei et charitatis. Maior autem est charitatis 23. «Sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio… per quelli che ha chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati» 24, e gli sposi Barolo servivano la Verità amando Dio. Scrive Tancredi: per chi ha tempo e salute sarà cosa facile il persuadersi che l’impiegarvi l’uno e l’altra, come pure l’ingegno avuto da Dio e le facoltà tutte dell’animo, aggiungendovi ancora quel peso autorevole che le ricchezze, il nome o l’alto grado sociale danno sempre al buon esempio, egli è certamente il modo più sicuro di soddisfare, quanto è in noi, il debito contratto colla divina Provvidenza sia per la sorte propi- 78 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA zia che s’avrà incontrato fin dalla culla, sia per l’efficace patrocinio che s’avrà ottenuto lungo una vita lodevolmente operosa. 25 Interessante notare come Carlo Tancredi utilizzi il concetto di «debito» che lui, rappresentante di quel mondo a cui fa riferimento, ovvero della «ricchezza», del «nome» e dell’«alto grado sociale», si sente in dovere di pagare alla Provvidenza. È ciò che pensa e vive anche Juliette, che dei beni ricevuti si sente solo «amministratrice». Dalle opere e dagli scritti traspare il reciproco aiuto nel cammino verso la santità, santità soprattutto come esplicazione del proprio dovere, nella piena fedeltà alla propria vocazione. Nella storia della Chiesa coppie di Santi sposi, diventate modello di perfezione familiare, sono davvero poche rispetto a tutti i modelli religiosi esistenti 26. Tancredi e Juliette sono un’eccezione. Essi portarono a compimento il vincolo stretto a Parigi nel 1806, vivendo con coerenza il sacramento del matrimonio e, fedeli fino in fondo, si lasciarono assorbire completamente dal Vangelo per seguire Cristo, non ammettendo compromessi, né eccezioni. G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 28. Ovvero il risultato positivo. 3 A. de Melun, La marquise de Barol. Sa vie et ses oeuvres, Libraire Poussièlgue frères, Paris 1869, pp. 5-6. 4 Ivi, p. 4. 5 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, p. 63. 6 Ivi, p. 63. 7 Cfr. S. Pellico, Il ritorno alla vita, poema in 12 ottave, manoscritto autografo, ACCS. 1 2 QUELL’UNIONE COSÌ STRAORDINARIA 79 Lettera di Madame la Marquise de Barol-Turin Piémont alla suocera, Paolina d’Oncieu, orig., ASFB, m. 216, n. 21. Cfr. anche A. Tago cit., p. 76. 9 S. Pellico, Lettera al M.se Antoine Colbert di Maulevrier, Torino 10 settembre 1838, Archivio della Famiglia Chabot de Fougeroux, Villefort, Yzernay (Francia). 10 D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico cit., p. 5. 11 S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert. Memorie di Silvio Pellico, Tip. Pietro di G. Marietti, Torino 1864, p. 68. 12 Ivi. 13 S. Pellico, Lettere famigliari inedite di Silvio Pellico, pubblicate dal sac. Prof. Celestino Durando, Tip. E Libreria Salesiana, Torino 1876, Vol. I, pp. 190191. La corrispondenza fra i due sposi non è pervenuta, poiché la Marchesa, nel suo testamento, stabilì che tutte le sue carte non distrutte prima della morte, fossero bruciate. Cfr. Testamento 1856, terza aggiunta, 18 aprile 1859, art. 2. 14 D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico cit., p. 7. 15 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 30. 16 S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert – Memorie di Silvio Pellico cit., pp. 70-71. 17 In «Luce centenaria», periodico delle Suore di Sant’Anna, marzo-aprile 1948. 18 San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 5, a. 4, ad 2. 19 E. Busca, Nel centenario della morte del Marchese cit., p. 15. 20 Mt 5,14-16. 21 Ct 8,7. 22 1 Cor 13,1-13. 23 Cfr. Schizzo autografo di Bogliani, Biblioteca civica di Torino, in Manoscritti Cossilla, mazzo 5. Il foglietto reca la seguente scritta: Monumento che lo scultore Bogliani sta lavorando nel Campo Santo di Torino, abbozzato da lui, 2 dicembre 1835. Per la famiglia Falletti di Barolo. Fede, Speranza e Carità. 24 Rm 8,28-30. 25 C.T. Falletti di Barolo, Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane intorno ai varii stati che da essa possonsi eleggere ed alle disposizioni con cui si devono abbracciare, Marietti, Torino 1837. Cfr. D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico cit., p. 76. 26 Rare risultano le esperienze di santità coniugale. Nel 1994, anno internazionale della Famiglia, il Santo Padre Giovanni Paolo II, in un contesto culturale e sociale di profonda crisi di valori all’interno dell’istituzione 8 80 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA matrimoniale, ha beatificato due madri di famiglia: Gianna Beretta Molla (1922-1962), che scelse di morire pur di dare alla luce la sua creatura, ed Elisabetta Canori Mora (1774-1825), che si prodigò, in una faticosa vita di sacrifici, per salvare l’anima dell’infedele marito Cristoforo, il quale si convertì e dopo la morte della consorte divenne sacerdote. In quell’anno si parlò di altri candidati agli altari e cioè dei coniugi Martin, genitori di santa Teresa di Lisieux e dei coniugi Beltrame Quattrocchi, una coppia borghese di questo secolo, ma poco si è parlato della famiglia Barolo. Santa Teresa di Gesù Bambino usava dire: «Il Signore mi ha dato un Padre ed una Madre più degni del cielo che della terra». Dove ella crebbe, casa Martin appunto, fu una scuola di santità: «Quando una casa è grande, non c’è tempo di starsene sepolti nel proprio dolore: la vena della vita zampilla fresca e sospinge sempre avanti». Il cuore è sotto il torchio? Lo si offre al Signore. Bufere, burrasche, terremoti? Tutto è messo e rimesso in Dio. Se la Provvidenza non li avesse fatti incontrare, Luigi (1823-1894) e Zelia (1831-1887), questi i nomi dei genitori di santa Teresa, sarebbero stati entrambi destinati alla consacrazione religiosa, per naturale istinto alla vita contemplativa. Lui, innamorato di Lamartine e di Chateaubriand, romantico, amante della natura e del creato, lei riservata, ma briosa, pragmatica, dalla fede intrepida. Si incontrarono e sùbito si amarono, sùbito si stimarono. Il loro accordo morale li condusse dopo soli tre mesi di fidanzamento al matrimonio, che si celebrò in Notre-Dame. Il rito si tenne a mezzanotte, nella più stretta intimità. La nobiltà spirituale di Zelia fece concepire a Luigi la speranza di stringere con lei – come la martire Cecilia e Valeriano, come Caterina di Svezia (figlia di santa Brigida) e il suo sposo o come i terziari francescani Elzeario di Sabran e Delfina di Glandève – un’unione fraterna. Ma non erano questi i piani di Dio. Dopo dieci mesi di vita comune, l’opportuno intervento di un confessore indusse i Martin a mutare opinione, comprendendo che la realtà sensibile può indirizzare comunque alle sfere trascendenti: «La carne, messa al suo posto, non offusca, ma serve lo spirito». Constatarono che la teologia matrimoniale contempla l’unione fra uomo e donna non solo per generare nuovi figli di Dio, ma anche quale epifania della comunione coniugale, l’espressione completa dell’amore senza riserve, il sigillo e segno tangibile del dono totale che lega gli sposi l’uno all’altra «per elevarsi insieme a Dio», come spiega san Francesco di Sales. Dunque protesi alla santificazione attraverso un’ascesa più ardente, perché fatta a due. «La natura, sottomessa al ritmo della grazia, lungi dal frenare lo QUELL’UNIONE COSÌ STRAORDINARIA 81 slancio, le conferisce ardore maggiore. Il peccato originale ha sconcertato l’armonia del piano divino; ma non per questo si deve vedere macchiata di nero l’opera del Creatore. Mutilato e decaduto, quando l’egoismo lo fa sterile, il focolare domestico acquista tutta la sua nobiltà quando si conforma all’ordine di Dio: la responsabilità familiare sale alla grandezza di una vocazione». Tutto è puro per chi è puro. E Dio chiamò i Martin a forgiare una famiglia pienamente cristiana: un nucleo nel quale dolori e gioie si frammistarono armonicamente e coralmente. Si sono educati a vicenda Luigi e Zelia, proprio come Carlo Tancredi e Giulia. E hanno educato il fiore più bello dei loro nove figli: Teresina, la beniamina di casa, e soprattutto per il papà che la chiamava «Reginetta di Francia e Navarra». Beatificata nel 1923, l’autrice di quel capolavoro chiamato Histoire d’une âme (uscita nel 1898), fu denominata da san Pio X «la più grande santa dei tempi moderni» e Pio XI la considerò la «stella» del suo pontificato e al tempo stesso «il sorriso di Dio all’umanità». Fu canonizzata nel 1925, divenendo patrona secondaria della Francia (1944), dopo santa Giovanna d’Arco. Se il «il trastullo di Gesù», se «la pallina che Egli fa rotolare dove gli piace», per usare le definizioni che Teresina dava di sé, si è abbandonata «all’audacia della bontà» del Padre fino all’olocausto del corpo e all’incendio dello spirito, gran parte del merito è anche da ricondurre all’humus che respirò nella sua casa di Alençon e di Lisieux. Quella fu la sua culla di santità, sbocciata in pienezza nel Carmelo, dove già si trovavano due sorelle. La perfezione cristiana germogliata e coltivata dai Martin diede i suoi frutti nei figli. Quella dei Barolo in una città intera. La vicenda dei coniugi Beltrame Quattrocchi si apre invece nella Firenze degli inizi del Novecento e si svolge a Roma fino alla metà del ’900. È una coppia moderna, di pensiero borghese. Affrontano la vita con impegno ed entusiasmo. Lei è appassionata di letteratura e frequenta numerosi esponenti della cultura dell’epoca; lui è un avvocato che vuole contribuire alla crescita civile della società mediante la sua professione. Casualmente si incontrano. Provvidenzialmente si sposano. Nascono quattro figli e anche in questo caso educandosi fra loro, educano i propri frutti in una costante testimonianza di vita cristiana di preghiera e di azione caritativa. Non è stata la santità dei cosiddetti «folli di Dio», ma quella di gente comune, «è la santità vissuta nell’ordinarietà dei compiti, nell’intensità degli affetti, 82 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA nell’attiva presenza alle vicende umane, nella coniugalità pienamente vissuta come dono reciproco e alleanza feconda, nelle responsabilità dell’educazione dei figli e nella capacità meravigliosa di rispettare le scelte esigenti della loro libertà, senza gli egoismi e le possessività, pur così comprensibili nell’amore paterno e materno…» (G. Papàsogli, Questi borghesi… i Servi di Dio Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 713). 6 I «Diari» di viaggio di Tancredi e altri scritti Ogni anno i coniugi Barolo dedicavano generalmente un mese ai viaggi, sia in Italia che in Europa, essi venivano puntualmente registrati dal Marchese in preziosi Diari di viaggio 1 , molti dei quali sono conservati nell’Archivio storico di Palazzo Barolo; anche Giulia prendeva nota, traccia illustrativa di tali viaggi si possono leggere nelle sue descrizioni epistolari. Oltre alle visite a musei, chiese, monumenti, palazzi, castelli… i Barolo dedicavano molto tempo agli aggiornamenti delle diverse realtà a cui erano maggiormente dedicati: le scuole e gli istituiti di pena. Nel 1818 andarono in Svizzera, dove solitamente trascorrevano le vacanze estive, e visitarono, fra le diverse istituzioni, anche quella educativa diretta da Philip Emannuel Fellemberg (1771-1844), un filantropo e agronomo bernese che fondò a Hofwyl una scuola di agronomia ed una colonia educativa, frequentata da allievi appartenenti ad ogni classe sociale. Il Marchese descrive tale istituto nel suo Journal d’un voyage en Valais, dans l’Oberland Bernais, dans le Cantons de Underwald et d’Ury et dans la Suisse italienne par le mont Saint Bernard, le Gemoni, le Bruming et le Saint Gothard en revenant au lacs de Lugano et de Como (1818) 2. Un altro lungo viaggio li condusse dal novembre 1819 al maggio 1820 a Napoli e Roma, dove sostarono per trascorre- 84 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA re la Santa Pasqua. Percorsero l’Italia anche dall’ottobre 1833 al maggio 1834. Lo spiccato interesse artistico viene evidenziato nei Diari di Tancredi, fin da quando era ragazzo. Era affascinato dai monumenti, dai paesaggi, dalle nuove tecniche, da nuove correnti di pensiero, filosofiche e politiche, ma anche avvinto dai «sensi più emotivi e delicati davanti a ricordi o cose che toccano il suo animo sensibile e ben educato. I quaderni di viaggio ne sono pieni in ogni pagina» 3. Con il padre incontrò ambasciatori, ministri, sovrani in Baviera, Sassonia, Baden, Württemberg… «Un intreccio di personaggi dai nomi importanti e altisonanti e di ricevimenti ufficiali che sarebbero serviti alla diplomazia francese, con i Falletti a capo, ad operare quella pacifica adesione alla politica europea di Napoleone in piena ascesa» 4. Nel 1816, durante un viaggio in Inghilterra, rimase estasiato per il modo di vita dei londinesi e per il loro amore per la natura e il verde. Colpisce il suo interesse per il teatro, sia per la scenografia, per gli spettacoli in sé, sia per gli artisti, ma anche per gli usi e i modi degli spettatori. Insieme alla moglie andrà a vedere le Nozze di Figaro di Mozart e The School for Scandal di Sheridan al Drury Lane Theatre. La cronaca dei fatti mondani lascia comunque ampio spazio alla descrizione degli asili infantili londinesi e al metodo educativo che in essi si stava sperimentando, per esempio quello elaborato da Joseph Lancaster (1778-1838): Perfezionato dal Dottor Bell per insegnare a leggere e scrivere ai bambini […]. A giudicare da uno che ho visto a quella di Westminster, sembra che il vantaggio di questo metodo non sia così facile da imparare, ma più facile da insegnare, e di conseguenza nella possibilità di istruire con poche spese un I «DIARI» DI VIAGGIO DI TANCREDI E ALTRI SCRITTI 85 grandissimo numero di bambini. Si contano attualmente a Londra più di cento mila bambini che ricevono questa istruzione gratuita. La differenza principale dal metodo ordinario consiste in quello che un solo maestro può sorvegliare molti bambini, che essi v’imparano quasi da soli a leggere e scrivere nello stesso tempo, e che il loro alfabeto comincia con le lettere I.L.T.O.A. Ordinate in linea all’inizio davanti a delle tavole coperte di sabbia cercano d’imitare con il dito su questa sabbia, le lettere che hanno sotto gli occhi sopra un pezzo di carta; in seguito le tracciano con del gesso su una piccola lavagna che portano appesa al collo e non permette loro di scriverle sulla carta che quando sono abbastanza avanzate per non più coprirle di scarabocchi. Questo metodo economico è ancora molto veloce. Tutti i movimenti vengono fatti in silenzio al segnale che dà un altro bambino più avanti dei suoi compagni, e che ricopre le funzioni d’ispettore, e tutte le lavagne presentate nello stesso tempo sono viste velocemente e corrette da colui che si muove lungo la linea. È facile adattare questo metodo a delle scuole molto numerose e mantenerle con poca spesa, e mettere così questa primaria istruzione alla portata di tutta la classe indigente. 5 A Londra visitarono anche alcuni ospedali, si recarono nel carcere di Newgate e in un ospizio per giovani penitenti. In tal modo approfondirono le loro conoscenze circa le possibili soluzioni ai problemi dei disagi di povertà, di sanità, di delinquenza a Torino. Tancredi ama Londra e i londinesi per il loro stile di vita, per il loro modo di pensare, un modo d’essere affine alla «sua personalità di studioso, riflessivo, amante della quiete e della campagna» 6. Nella capitale inglese incontrano intellettuali, politici, ecclesiastici, personalità con incarichi di alta responsabilità. Vi- 86 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA sitano le chiese e Tancredi è incantato da St. Paul, a cui dà l’attributo di «magnifica»: La più bella forse che esiste dopo San Pietro di Roma. Alla vista, questo coro che non è molto grande, e che è riservato solo al servizio divino, era ben lontano da essere riempito questa mattina, sebbene sia domenica. Ho osservato la stessa solitudine nelle altre chiese, questo dimostra che il rito dominante si è impadronito di tutti i numerosi edifici consacrati alla Religione prima della riforma, mentre gran parte della nazione, essendo aperta a parecchie sette indipendenti, il locale dove esse si riuniscono non è proporzionato al numero di persone che le seguono. L’osservanza della Domenica è in Inghilterra d’un rigore estremo. Niente spettacoli, niente riunioni, mai nessun tipo di festeggiamenti. Tutti i negozi sono chiusi ad eccezione di quelli dei macellai e dei fornai, che sono aperti solo al mattino. Dentro le case non è permesso di giocare, cantare e fare musica. Si va in chiesa, si passeggia, o bene si resta a casa e si legge la Bibbia… Una domenica a Londra quando piove, è quanto di più noioso si può immaginare al mondo. 7 Storia e arte si alternano, lasciando spazio anche alla sua passione per i giardini e le piante. Il lettore è immediatamente colpito dall’analisi minuziosa degli ambienti, è un ottimo osservatore: ben poco sfugge ai suoi occhi attenti e scrutatori. Il suo scrivere si fa spesso erudito e assume i toni del trattato specifico e tecnico quando, per esempio, descrive il sistema di irrigazione delle coltivazioni. Interessanti le sue osservazioni sul culto protestante, scritte nel luglio 1803: (Ginevra) I protestanti hanno un culto molto semplice e spoglio di tutto ciò che colpisce gli occhi. I loro templi non hanno altro I «DIARI» DI VIAGGIO DI TANCREDI E ALTRI SCRITTI 87 ornamento che delle logge di legno e una quantità di panche, dove tutti i posti sono segnati. Tutti i tipi di dipinti, di quadri, di statue sono strettamente esclusi; un pulpito di mediocre altezza si eleva in mezzo ai banchi; è lì che i predicatori calvinisti, rivestiti con un’ampia tunica nera e un bavero alla romana attaccato alla cravatta, predicano il vangelo con un tono semplice e uguale, senza gesti e senza declamazioni. È lì che fanno anche delle lunghe preghiere che gli assistenti, in piedi, in un atteggiamento convinto e con il cappello sul viso, ripetono a bassa voce. Al di sopra del pulpito del predicatore c’è un altro pulpito più basso e più stretto; è il posto di un cantante; questo è incaricato di guidare il canto, la cui grave e uniforme modulazione, è sostenuta, ordinariamente, dal suono dell’organo, l’unico ornamento delle Chiese che sia stato conservato nei templi protestanti. I sermoni finiscono, ordinariamente, con la formula di fede che assomiglia al Credo della Chiesa Cattolica. Se non ché, invece di dire: Credo nello Spirito Santo, nella S. Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana, dicono Credo nello Spirito Santo e nella Chiesa Universale. Si canta, in seguito, in lingua volgare, qualche versetto dei salmi; delle cifre, appoggiate su di una pietra nera, posta davanti al pulpito, indicano i Salmi del giorno. Finita la funzione, ciascuno s’inchina e, in silenzio, rimette il cappello sul capo. Una cassetta dell’elemosina, posta in mezzo alla porta, raccoglie le offerte che si danno, uscendo. Il clero di Ginevra è strettamente ridotto da qualche tempo per la diminuzione dell’onorario che lo Stato dà ai ministri del culto. Così non c’è più un Pastore per ogni Parrocchia della Città, come invece c’è nei templi delle campagne e per ripartire il servizio fra i diversi Ministri, s’incontrano ogni venerdì; la loro assemblea si chiama Concistoro e colui che la presiede si chiama Moderatore. Ciascun Ministro lo è a sua volta fino al venerdì seguente. 88 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Tutte le funzioni della Chiesa Protestante portano questo carattere di semplicità che Calvino gli ha dato per odio a tutti i riti complicati della Chiesa Cattolica: battesimo, matrimonio, sepoltura. Tutti questi atti di religione non sembrano che degli atti civili; ma le sepolture, soprattutto, mancano di decoro; tutti i parenti, rivestiti di mantelli neri, con velo da lutto attaccato al cappello, accompagnano la salma, camminando a due a due, ma non credendo per niente alle preghiere per i defunti; parlano fra di loro; ne ho visti anche scherzare e ridere sul defunto; una donna, vestita di nero, precede con due bambini che portano ciascuno uno sgabello. Queste donne chiamate précises sono incaricate d’invitare i parenti; è un mestiere che si annunzia mettendo un cartello sulla porta. Il cimitero, situato fuori della città, non è che un brutto campo, circondato da muri; nessuna voce, nessuna iscrizione che parli al cuore e che ricordi il passato; la salma, posta sugli sgabelli, mentre si scava la fossa, la si mette subito in essa e si copre di terra che gli assistenti mandano con i piedi e poi si ritirano tumultuosamente; che quelli, i quali vogliono che rimanga qualcosa di loro dopo la morte, non vengano mai a morire qui a Ginevra! 8 Illustra anche gli stabilimenti industriali che incontra di paese in paese (che cosa si fabbrica, come si lavora, chi vi lavora) e le infrastrutture, nonché gli strumenti ingegneristici (come la «macchina idraulica» che «porta l’acqua del Rodano nelle diverse fontane di Ginevra»; di essa esamina misure, elementi compositivi, materiale utilizzato, funzionamento…), ma si sofferma anche sulla lunghezza e larghezza dei laghi della Svizzera. Fra le sue passioni anche la geografia e la cultura dei popoli. A Zug, più che negli altri cantoni, rimane impressionato dalla vita serena che conducono gli abitanti: «L’air de tranquillité et d’insouciance qui respire dans leur I «DIARI» DI VIAGGIO DI TANCREDI E ALTRI SCRITTI 89 maintien annonce le bonheur monotone de ce peuple vraiment libre, egal et souverain» 9. Si compiace che qui le persone siano religiose, legate ai valori della famiglia, del lavoro e particolarmente legate al santuario di Nostra Signora d’Ensielden. Piacevoli sono pure i ritratti che esegue sulle persone che incontra, come quello dedicato al ginevrino Jacques Necker (1732-1804), nominato da Luigi XVI (1754-1793) ministro del Tesoro e delle Finanze reali. Il Marchese di Barolo andò a fargli visita un anno prima che il politico morisse, e lì ebbe modo di conoscere la figlia, Madame de Staël (1766-1817), femminista ante litteram. Germaine portava il cognome di un diplomatico svedese che i genitori le diedero per marito, imponendogli la condizione di lasciar vivere la consorte accanto alla sua famiglia. La baronessa, che influenzò moltissimo la letteratura del tempo, aveva raccolto, intorno a sé, un importante salotto letterario. Si trattava dell’ultimo, grande centro intellettuale e cosmopolita, accanto a quello di Sophie de Condorcet all’Hôtel des Monnaies, dove si consumava il trapasso fra antico regime e rivoluzione. Per il suo libertarismo fu esiliata da Napoleone nel castello di Coppet, in Svizzera e qui radunò l’intellighenzia europea. Critici i commenti del Marchese: Il castello di Coppet, con un bel parco all’inglese, è, da tanti anni, l’abitazione del Signor Necker, che ne è il proprietario. È lì che tutti gli stranieri vanno a visitare questo illustre uomo, ormai in riposo; stanco per una vita piena di eventi, affetto di una specie di elefantismo, che gli ha fatto gonfiare le estremità in una maniera orribile; il suo spirito risente dell’infermità del corpo; sembra abitualmente assente, non parla che di rado e, quando parla, si ha difficoltà a sentirlo. Si riconoscono le sue fattezze 90 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA nel suo ritratto; egli ha conservato la sua vecchia pettinatura; la sua fisionomia non è cambiata; a mala pena sorride, qualche volta, quando gli si parla delle sue grandezze passate; le ricorda con soddisfazione e, con un piede nella fossa, rimpiange ancora il falso splendore del piacere e gli applausi insensati della moltitudine. La baronessa di Staël, sua figlia, vive con lui, da quando l’imprudenza dei suoi discorsi e il tipo di riunioni che ella teneva nella sua casa, l’hanno costretta ad allontanarsi dalla Francia. Fiera di un esilio che ella considera come un trionfo, si vanta, nel suo ritiro, di tutto il fanatismo della libertà e, alzando la sua voce per far sentire gli ultimi accenti di questa libertà moribonda accetta con orgoglio la potenza consolare. Tale è in questo momento il genere di entusiasmo della Signora de Staël, che ella esagera ancora. La guerra l’ha riempita della tenerezza, la più esaltata, per la nazione inglese; ella parla spesso in suo favore. La rapidità della sua eloquenza è tale che ella non esita mai; trova sempre le parole proprie, senza sceglierle, frammischia il suo discorso di frizzi e parla come un libro aperto; con un viso sgradevole, ella ha degli occhi scintillanti e delle belle braccia che fa valere tenendo sempre qualche bagatella nella mano e tutti i generi di civetteria sono riuniti in lei; vuole sempre primeggiare; posta in un circolo di uomini, nell’atteggiamento della declamazione, ella si sente al centro ed è felice. L’ambizione dello spirito è la sua passione dominante; il suo carattere si rivela nelle sue opere. 10 Carlo Tancredi non ha molta simpatia per la spregiudicata baronessa Staël-Holstein, che a proposito delle donne scriveva nel De la littérature (1802): il loro destino «ricorda, per certi aspetti, quello degli schiavi sotto gli imperatori: se aspirano ad acquisire dell’ascendente, si ricorda loro che sono I «DIARI» DI VIAGGIO DI TANCREDI E ALTRI SCRITTI 91 schiave; se restano schiave, si opprime il loro destino», se poi le donne aspirano alla celebrità «nelle monarchie, esse hanno da temere il ridicolo, nelle repubbliche, l’odio». Château-Thierry, con il suo stupendo e gradevolissino paesaggio, ha l’onore, afferma l’autore, di aver dato i natali al poeta La Fontaine (1621-1695), del quale esiste la casa in una via appartata che conduce al castello della città. Di Parigi il resoconto è più che dettagliato. Descrive ciò che visita sia al mattino che al pomeriggio, giorno dopo giorno. Le ore antimeridiane, precedute dalla Santa Messa, sono dedicate alle passeggiate nelle piazze, nei viali, sui ponti e alle visite culturali: biblioteche, gallerie, musei, monumenti, palazzi governativi (con i recenti ricordi della Rivoluzione). Le ore meridiane sono prevalentemente occupate dagli affari, dagli spettacoli teatrali, dalla visita ai conoscenti. Attento alle innovazioni e al progresso tecnologico, prima di terminare la sua visita parigina, dedica parecchio tempo a studiare, nei particolari, il telegrafo, il primo inventato nel 1793. Tancredi utilizza con abbondante frequenza la punteggiatura: molte virgole e molti punti e virgola. I periodi, piuttosto brevi, consentono una lettura agile e disinvolta. Abile nel saltare da un argomento all’altro, offre notizie, informazioni, indicazioni molto precise e puntuali. Sa destreggiarsi fra una descrizione paesaggistica e una riflessione sociale, una dissertazione economica e un accenno urbanistico. Attratto dalla bellezza, imprime sulla carta il suo stupore. «Senza bellezza l’uomo muore di disperazione» (Dostoevskij). Dio ha creato l’uomo per la felicità e per la bellezza. Juliette scriverà: «Chi viaggia per soddisfazione frivola d’amor proprio, non si commuove di nessuna cosa; l’egoismo è più freddo ancora dell’ignoranza». Così per il Marchese: la com- 92 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA mozione, pur contenuta in un sicuro tratto maschile, è sempre pronta a fiorire in moti impressionistici. Evidenti gli accenti romantici, parlando del paesaggio spettacolare delle montagne di Chablais, in Svizzera (8 agosto 1803), afferma: «Tutto è stupendo, tutto trasporta, tutto si lega e si incatena sul terrapieno della cattedrale. Appoggiato a un parapetto, gli occhi fissi all’orizzonte, si aspetta la notte con dolcezza e si è soddisfatti», il creato quieta lo spirito e appaga l’anima. Gli appunti scritti a ventun anni sono molto diversi dalla profondità spirituale e caritativa che si legge negli scritti di edificazione spirituale degli anni della maturità. Con il trascorrere del tempo, infatti, la sua spiritualità si affina. Un antico biografo del Marchese, Domenico Massè, sostiene che egli non polemizzò come il padre, ma si limitò a cimentarsi «con più fede e maggior successo di lui» nel nuovo genere letterario romantico, dal quale fu totalmente rapito. È vero, Carlo Tancredi non polemizza mai con nessuno: segue la sua strada, che è quella del cattolico serio, che segue gli insegnamenti della tradizione della Chiesa. Ama scrivere: racconti, resoconti di viaggio, novelle, romanzi, prose edificanti, i suoi lavori furono pubblicati e altri rimasero inediti 11. La prima opera, di chiarissimo sapore romantico, ha un notevole successo: Elza, novella del secolo XIII. È scritta per metà in prosa e per l’altra in endecasillabi sciolti 12. Il racconto è pubblicato anonimo nel 1822 da Chirio e Mina 13, poi ripubblicato a Firenze da Ciardetti, a Bologna e a Londra nel 1830. Inoltre comparirà nelle Novelle romantiche in versi e in prosa, attribuito erroneamente, alla poetessa Diodata Roero di Saluzzo (1774-1840). Nello stesso anno il romanziere storico Domenico Guerrazzi (1804-1873) include la novella nella I «DIARI» DI VIAGGIO DI TANCREDI E ALTRI SCRITTI 93 sua Antologia romantica, inserendola accanto a Tommaso Grossi (1790-1853) e Ippolito Pindemonte (1753-1828), «trovando bellissime due novelle» (la seconda sono I sabbioni di Trufarello). Un’ultima edizione comparirà a Bologna nel 1835-1837, nella Raccolta di Novelle morali storiche romantiche. Al suo apparire il periodico letterario «Ricoglitore» ne scriverà una favorevole recensione. Per molto tempo si credette che alcune opere narrative del Marchese fossero state scritte da Giulia di Barolo, ma esaminando la calligrafia, notando il fraseggiare al maschile e la precisione storica, si giunse alla reale paternità. Il 1827 è l’anno nodale del romanzo storico in Italia: Stendhal (1783-1842) pubblica Armance e Victor Hugo (18021885) Cromwell. Sono allestiti I Promessi sposi di Alessandro Manzoni (1785-1873), La battaglia di Benevento di Domenico Guerrazzi (1804-1873), Il castello di Trezzo di Giovan Battista Bazzoni (1803-1850) e la Sibilla Odaleta (pubblicata anonima) di Claudio Varese (1909-2002). A ragione possiamo affermare che il Marchese di Barolo si è posto, nel panorama del romanzo storico italiano, come uno degli antesignani per eccellenza, sulla scia di Walter Scott (1771-1832), il quale aveva iniziato a pubblicare i suoi romanzi nel 1814. Ma al di qua dello spartiacque del 1827, quello che è stato detto il periodo «albare» del romanzo storico propone proprio in Piemonte un avvincente tracciato di approcci, di tentativi, di esiti che non si riscontra con tanta ricchezza in altre regioni (e giustifica il fatto che il non troppo, in verità, significativo attestato di «primo» romanzo o racconto storico italiano abbia avuto come più abituali destinatari scritti di autori piemontesi). 14 94 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Nel 1823 esce la seconda novella, I Sabbioni di Trufarello (Torino, Chirio e Mina), ovvero Trofarello 15. Qui si narra, in un migliaio di versi divisi in sei canti, la leggenda medioevale della pianura moncalierese, in cui i sabbioni di Trofarello stanno ad indicare l’aridità di questa terra. Secondo lo stilema del tempo il Marchese adotta lo stratagemma dell’antico: afferma di aver girato in versi italiani un vecchio manoscritto piemontese-provenzale prestatogli dal priore del convento francescano di Testona (Moncalieri). Nel 1824 viene pubblicato, per i tipi Bocca di Milano, il romanzo La pittrice e il forestiero. Racconto tratto dalle memorie inedite d’un viaggiatore in Italia. L’autore si prefigge l’intento di far conoscere le bellezze climatiche e panoramiche d’Italia. La vicenda si svolge nella Napoli di fine Settecento 16. È la natura a pennellare queste pagine: il tramonto di Napoli, le suggestioni delle rovine di Pompei, il fascino di Capri… C’è poi l’Europa travagliata dalla guerra, la Polonia lontana, gli orrori del carcere, la triste condizione dei poveri napoletani. Dopo il 1824 il Marchese non scriverà più libri di genere narrativo. Di carattere didattico-propedeutico risulta l’opera Elenco degli alberi principali che possono servire all’ornamento dei giardini coll’indicazione del modo più conveniente di collocarli (Chirio e Mina, Torino 1826). Si tratta di una vera e propria guida destinata a coloro che desiderano abbellire la propria casa di campagna, anche se privi di un parco o di un grande giardino. Il vademecum è assortito (circa 150 alberi citati): mettendo a frutto conoscenze raccolte durante i suoi viaggi (in particolare fra i giardini più famosi di Italia, Inghilterra, Francia e Germania), l’autore offre la migliore collocazione degli alberi da giardino, esaminandone altezze, grandezze, fogliame, tronchi, clima, terreno, profumi… Pur nella dissertazione I «DIARI» DI VIAGGIO DI TANCREDI E ALTRI SCRITTI 95 scientifica e tecnica non manca il gusto romantico ed estetico: con mille varietà di alberi crea arazzi naturali di efficace effetto con sfondi di cielo, di verde, di costruzioni, magari inserite in contesti di antiche rovine. Dal 1832 in poi si occuperà, editorialmente parlando, di istruzione della gioventù, di temi etici, spirituali, ascetici, religiosi. Significative a questo riguardo le operette morali. Citiamo alcuni lavori: Gesù, Maria e gli Angeli ossia il pellegrino a tre stazioni insigni in Terrasanta (Giacinto Marietti, Torino 1838); Morte e giudizio ossia il pellegrino alla valle di Giosafat (Giacinto Marietti, Torino 1838); Il primo uomo e l’uomo Dio (Giacinto Marietti, Torino 1838). Al settore dell’istruzione appartengono i saggi: Sull’educazione della prima infanzia nella classe indigente. Brevi cenni dedicati alle persone caritatevoli (Torino, Chirio e Mina 1832,); Cenni diretti alla gioventù intorno ai fatti religiosi successi nella città di Torino dal principio della era cristiana ai tempi nostri (Giacinto Marietti, Torino 1836); Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane intorno ai vari stati che da essa possonsi eleggere ed alle disposizioni con cui si devono abbracciare (Giacinto Marietti, Torino 1837). Quest’ultimo elaborato è un importantissimo documento che testimonia genialità e lungimiranza. Il poliedrico autore si rivolge agli studenti dell’intera Italia, inoltre ipotizza e progetta la possibilità di offrire ai ragazzi, nel corso degli anni di formazione scolastica, un orientamento professionale, garanzia di futuro lavoro. Profondo ed eccellente conoscitore della geografia, il Marchese scrive le Lezioni sopra la geografia patria ad uso della gioventù piemontese, che vengono pubblicate in tre volumi (Giacinto Marietti, Torino 1836) 17. Propone un nuovo metodo per l’approccio alla geografia: lo studio né arido, né asettico, né distaccato, ma partecipe, rendendolo più aderente alle realtà 96 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA interne della storia, dell’economia, dell’arte, delle culture, dei costumi, ravvivando le conoscenze con letture storicodescrittive, più piacevoli all’apprendimento. Il linguaggio che utilizza è fresco e invitante, egli mira più a formare che ad impartire solo nozioni. I viaggi cosiddetti «pittorico-sentimentali» (di particolare notorietà quelli di Modesto Paroletti) vengono utilizzati da Falletti di Barolo, che li introduce nella scuola come cornice interessante e suggestiva della geografia: Appunto per ciò le sue nozioni brevi, ove l’autore, sia nella rievocazione storica che nella descrizione, rivela la conoscenza diretta di chi ha visto e sentito e riporta le proprie impressioni, con uno stile piano, sobrio, e senza ricerca di effetti letterari, ma sempre elegante e chiaro. E vi espande la sua anima meditativa, sempre aperta alla poesia delle cose e dei ricordi, innamorata com’è del suo vecchio Piemonte, sempre ispirata da un alto senso di saggezza cristiana che mira più ad educare che a istruire. 18 Le traduzioni dei diari di C.T. Falletti di Barolo qui riportate sono riprese da Marcello Falletti di Villafalletto, Un uomo che seppe contare i propri giorni, Anscarichae Domus, Scandicci – Firenze, 2006, p. 36-37. 61-64. 259-268; e da AA. VV. Felicità Verità Bellezza. La poliedrica figura di Carlo Tancredi nei diari di viaggi cit., pp. 113-139. 2 In ABT, sez. Manoscritti, 4/3 n. 21. 3 M. Falletti di Villafalletto, La poliedrica figura di Carlo Tancredi nei diari di viaggi, in AA. VV. Felicità - Verità - Bellezza cit., p. 115. 4 Ivi, p. 115. 5 C.T. Falletti di Barolo, Journal d’un Voyage à Londres dans l’Eté de 1816. 6 M. Falletti di Villafalletto, La poliedrica figura di Carlo Tancredi nei diari di viaggi, in AA. VV. Felicità - Verità - Bellezza cit., p. 119. 7 Cfr. C.T. Falletti di Barolo, Journal d’un Voyage à Londres dans l’Eté de 1816 e Journal d’un Voyage dans quelques Provinces d’Angleterre. 1 I «DIARI» DI VIAGGIO DI TANCREDI E ALTRI SCRITTI 97 C.T. Falletti di Barolo, Journal d’un voyage en Valais, dans l’Oberland Bernais, dans le Cantons de Underwald et d’Ury et dans la Suisse italienne par le mont Saint Bernard, le Gemoni, le Bruming et le Saint Gothard en revenant au lacs de Lugano et de Como, 1818. Archivio Storico Opera Barolo. 9 Ivi. 10 Marcello Falletti di Villafalletto, Un uomo che seppe contare i propri giorni cit., pp. 36-37. 11 I manoscritti di Carlo Tancredi Falletti di Barolo si conservano all’Opera Barolo di Torino, in Palazzo Barolo. 12 Narra la triste vicenda di Elza (Elisabetta, in lingua sveva), figlia di un truce castellano della Selva Nera. Elza s’innamora di un cavaliere giovane e coraggioso, privo di beni, il quale si impegna a sposarla dopo aver conquistato la gloria combattendo contro gli infedeli. Ma egli la tradisce. Elza si uccide dalla disperazione. Il vampiro allora si libra nell’aria dalla più alta torre del castello per succhiarle il sangue. Il fantasma della fanciulla d’ora in poi, nella sua immutata bellezza, apparirà costantemente al cavaliere tutte le volte che egli tenterà di intrecciare una nuova storia d’amore, impedendogli così di soddisfare le sue passioni. Ed il vampiro, reso immortale proprio dal sangue di Elza, minaccia in eterno con una spada tutti gli uomini che abuseranno della fiducia di una giovane innamorata. Lo scenario sul quale si dipana l’oscura vicenda è intessuto di tempeste, fulmini, rovine, apparizioni, sangue e morte. 13 Una delle principali tipografie torinesi della prima metà dell’Ottocento, fondata nel 1819 in via Po. 14 P.M. Prosio, Agli albori del romanzo storico in Piemonte: le Novelle di Diodata Saluzzo, estratto da: Ludovico di Breme e il programma dei romantici italiani, Atti del convegno di studio di Torino 21-22 ottobre 1983, Torino, Centro Studi Piemontesi, p. 170. 15 In Moncalieri, nella cintura di Torino. 16 Un nobile polacco, esule (a causa della guerra civile), malinconico e triste, giunge in Italia trovando in questa terra serenità e pace alle sue inquietudini, grazie anche all’amore della figlia, Giannina. La trama corre intorno alla vicenda del nobile polacco, che dopo aver trascinato per lungo tempo la sua malinconia – ossessionato dalla morte e da un passato misterioso ed inquieto – tra le brume del suo nordico paese d’origine, risorge spiritualmente fra gli incanti italiani, dove peraltro l’amata figlia trova la sua vocazione artistica. L’ambiente è quello napoletano, passionale e violento, fatto di gelosie, miserie e generosità della popolazione. 17 Breve sunto di nozioni geografiche universali e particolari d’Europa; Notizie ele8 98 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA mentari sopra la geografia fisica e statistica dei R.R. Stati Sardi di terraferma e dell’isola di Sardegna; Cenni diretti alla gioventù intorno ai fatti storici, monumenti notevoli e particolarità naturali del Piemonte in aggiunta alle notizie elementari sopra la geografia dei RR. Stati, già pubblicata ad uso dei fanciulli. 18 D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico cit., p. 24. 7 Amicizie e «persecuzioni» Torino assunse, fra la seconda metà del Settecento e l’Ottocento, la fisionomia di una città cosmopolita e la sua internazionalità era dettata dagli interessi europei dei suoi cittadini letterati, intellettuali e politici. Nel 1840 ha luogo a Torino il secondo congresso degli scienziati d’Italia al quale avranno accesso, per volere di Carlo Alberto (1798-1849), anche i letterati. Vi parteciperanno circa 583 intellettuali provenienti dal Piemonte e dalla Savoia, ma anche da altri Stati italiani, d’Europa e del Sud America. Intanto Palazzo Barolo diventa un formidabile cenacolo di intellettuali, politici e rappresentanti della Chiesa. Ospiti abituali: Giuseppe Gerbaix de Sonnaz (1828-1905), Santorre di Santa Rosa (1783-1825), Cesare (1778-1853) e Alessandro Saluzzo (1775-1851), Vittorio Sallier de la Tour (1774-1858), Federico Sclopis (1798-1878), Cesare Balbo (1789-1853), Camillo (1810-1861) e Gustavo Benso di Cavour (1806-1864), Carlo (1827-1897) e Cesare Alfieri di Sostegno (1799-1869), JosephMarie de Maistre, le principesse di Savoia. Fra gli ecclesiastici era un habitué di via delle Orfane il Cardinale Giuseppe Morozzo Della Rocca (1758-1842), vescovo di Novara. La ponderatezza e il rigore del Marchese erano proverbiali, più frizzante, invece, Juliette: 100 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA La Marchesa con quel tratto squisito che proviene dall’educazione e dalla coltura sapeva rendere gradevole e animato il conversare. Ell’avea un’entratura obbligante, maniere gentili, insinuantisi: le sue osservazioni erano sempre opportune, maturi i giudizi, pronti e graziosi i suoi sali. Che se talvolta la vivezza del suo spirito trascorreva a qualche parola alquanto frizzante, non esitava punto di chiedere scusa con garbo lusinghiero. Accadeva talora che discorrendo sulle vicende politiche non si trovasse in pieno accordo con alcuno degli interlocutori, le cui opinioni si mostravano intinte di gallicanesimo e di rivoluzione. Ma ella non si peritava di esporre il proprio avviso con quella franchezza che è suggerita dalla convinzione. 1 Non aveva timore, quando era il caso, di redarguire il suo interlocutore, come accadde con il Conte Sclopis, il quale in Parlamento, nel 1848, si dichiarò a favore della confisca dei beni dei Gesuiti, nei tempi in cui divenne feroce la persecuzione ai danni dei figli di Sant’Ignazio ai quali, liberali e massoni, volevano strappare la formazione scolastica della classe dirigente. Disse la Barolo: «Conte Sclopis, il suo discorso fu, secondo il solito, facondo, elegante, erudito: peccato che il suo argomento arieggi a quello della parabola evangelica, in cui si narra che alcuni malandrini, visto venire loro il figlio unico del padrone, dissero: “Eccolo, uccidiamolo, e faremo nostra la sua eredità”» 2. Testimoni del tempo affermano che fosse un’eccellente disputatrice, ma quando le sue espressioni si facevano maggiormente accese era pronta a scusarsi, anche alcuni giorni dopo il fatto, magari con dei biglietti, che faceva recapitare all’interessato. Persino i liberali, che in lei avevano un’acerrima nemica, le portavano rispetto: AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 101 Bella, giovane, piacevole, essa ebbe tosto nel suo salotto una schiera di corteggiatori, severamente virtuosa, non lasciò mai che l’interessamento, l’affetto destati dalle sue felici qualità prendessero, o almeno manifestassero, il carattere di colpevole passione; istruita non fu mai pedante, briosa nel trattare e nel discorrere non fu mai mordace; religiosissima non fu mai intollerante né spigolista. 3 A Palazzo Barolo i Marchesi tenevano quegli incontri per due essenziali ragioni: le loro conoscenze erano molteplici a motivo della loro posizione sociale autorevole (oltre ad essere nobile, Tancredi era parte integrante del corpo governativo della città) e, soprattutto, essi erano obbligati a tenere contatti e rapporti con illustri personaggi a motivo dei loro grandiosi progetti caritativi. «Tutte le idee oneste e sincere avevano diritto di cittadinanza in quel salotto, e ognuno era libero di esporle e difenderle: sola rigidamente esclusa, la Rivoluzione (tutti dovevano appartenere al gran partito dell’ordine) e l’irreligione» 4. Interessante notare come Giulia, fra l’aprile e il maggio del 1822 si recò nove volte a trovare Santorre di Santarosa (1783-1825) in carcere a Parigi perché aveva partecipato all’insurrezione liberale; mentre nel 1850 andò a far visita all’Arcivescovo di Torino Luigi Fransoni (1789-1862), esiliato a Lione come oppositore del governo liberale di Torino. Tancredi era più riservato, mentre la giovialità di Juliette le permetteva di stabilire contatti confidenziali con tutti: «Son coeur lui faisait des amis à tous les degrés de l’échelle sociale» 5. La Francia era ben rappresentata a Palazzo Barolo a motivo di Juliette, che coltivò importanti amicizie 6. Come sottolinea il suo biografo Vicomte Armand de Melun, sia a Torino 102 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA che a Parigi si desiderava partecipare alle riunioni serali della Barolo, che sapeva sostenere le conversazioni e le discussioni con garbo e brillante intelligenza, facendo sentire a proprio agio gli interlocutori, in un sereno clima di amicizia e simpatia che i Barolo sapevano cristianamente creare. È indubbio che Juliette aveva un fascino particolare che avvicinava, ma allo stesso tempo creava soggezione, per cui l’equilibrio era perfetto: affabilità, amabilità e quel distacco necessario al rispetto reciproco. Il distacco discreto, di stampo squisitamente subalpino, era caratteristica del Marchese, meno propenso alle conversazioni, ma molto attento a ciò che veniva detto in quelle riunioni e pronto a servirsene quando, al Palazzo Civico, espletava le sue mansioni amministrative e di governo. Le soir, le salon de Mme de Barol, lorsque sa santé le lui permettait, appartenait à la conversation la plus intéressante et la plus variée. Dans sa jeunesse elle avait brillé par l’animation de sa parole et l’éclat de son esprit, et se laissait volontiers entraîner par l’effet qu’elle produisait; mais peu à peu elle se détacha de ce mouvement sans but, qui contrastait si fort avec les autres habitudes de sa vie; la réflexion, l’âge et les infirmités aidant, elle quitta le monde et son vain bruit pour la société plus intime et plus sérieuse. Son salon devint alors le théâtre de conversations approfondies sur la politique, la littérature et même la philosophie, et le rendez-vous des hommes les plus remarquables. 7 Tancredi e Giulia di Barolo durante i loro soggiorni a Parigi strinsero amicizia con ecclesiastici e uomini impegnati nel campo educativo e sociale. Il vescovo d’Orléans, Monsignor Félix-Antoine-Philibert Dupanloup (1802-1878) fu tra gli amici più intimi dei Marchesi: savoiardo di spiccato ingegno e di profonda Fede, era particolarmente impegnato nella AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 103 predicazione e nelle questioni educative. Fu rettore 8 di Seminario e in seguito vicario generale dell’Arcivescovo di Parigi, Denis-Auguste Affre (1793-1848). Un altro amico dei Barolo era Monsignor Hyacinte-Louis conte de Quélen (1778-1839) di antica famiglia bretone. Nel 1819 fu consacrato vescovo e divenne coadiutore dell’Arcivescovo di Parigi, il Cardinale Alexandre-Angelique de Talleyrand (1736-1821), al quale succedette due anni dopo. Non aderendo alla Monarchia di luglio il Governo francese ne chiese la destituzione, ma Gregorio XVI (1765-1846), respinse la richiesta, fu così che l’Arcivescovado divenne teatro di terribili disordini, che culminarono con il saccheggio e l’incendio. L’abate René-Michel Légris-Duval (1765-1819), molto stimato in casa Barolo, era dedito alla predicazione e alle opere di carità ed era conosciuto come il «novello san Vincenzo de’ Paoli». Ebbe un grande influsso negli interessi di Juliette per il mondo carcerario, infatti, l’abate Légris-Duval operò in favore delle carcerate e delle donne di strada pentite per le quali fondò diversi istituti. Fu proprio questo sacerdote a portare l’ultimo viatico a Luigi XVI decapitato dalla Rivoluzione. Fra le conoscenze francesi meritevoli di segnalazione sono da considerare quella con la Marchesa Adelaide de Pastoret (1766-1843), nata Piscatory, ella fu la pioniera degli asili d’infanzia in Francia per le classi disagiate, così come lo fu il Marchese di Barolo in Italia. Dopo alcuni tentativi, nel 1826 aprì la prima salle d’essai e due anni dopo, sull’esempio delle Infants Schools inglesi, la prima sala d’asilo di Parigi. Altra figura interessante che i Marchesi contattarono, per confrontarsi con le altre realtà europee nell’assistenza ai bisognosi, fu Alexis Tocqueville (1805-1859) di nobile famiglia 104 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA normanna; divenuto magistrato e uomo politico, fu inviato nel 1831 negli Stati Uniti per studiare il sistema penitenziario americano e in quell’occasione la Marchesa gli chiese di inviarle informazioni sulle carceri statunitensi. Tocqueville le scrisse una relazione inviandole anche un suo libro, Du système penitentiaire aux États-Unis. Il poeta Alphonse de Lamartine (1790-1869), poi Ministro degli Esteri e capo del Governo provvisorio sostenuto dal partito repubblicano, ebbe una venerazione speciale per Juliette, benché i Barolo fossero fermamente monarchici. A lei dedicherà anche una lirica dopo aver visitato la GrandeChartreuse, in Savoia, dal titolo Improvisée à la grande Chartreuse. Considerava l’amica Una donna estremamente incantevole quanto a bellezza e a fascino spirituale, distintasi in seguito tra le più illustri per le opere virtuose e la generosità di vita nei confronti di tutte le miserie umane… L’ammiravo da tempo… La sua immaginazione ardente, tenera e pia, era il cristallo più limpido e più variopinto insieme attraverso il quale l’occhio e il cuore di un poeta potessero contemplare quelle montagne, monumento della natura, e quel monastero, monumento dell’uomo. 9 Lamartine, esponente di spicco della cultura romantica, con i suoi versi canta l’ineffabile Juliette: La sera, mentre scendevamo, un temporale si addensò sopra gli abeti… Le guide avevano riparato la signora di B.*** sotto una rientranza della roccia… si sarebbe detta una di quelle nicchie nelle quali la pietà dei contadini della Savoia o del Tirolo pone la statua variopinta della Vergine, per proteggere i passanti nei punti pericolosi… Quando il temporale fu quasi passato… un AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 105 immenso arcobaleno si disegnò come celeste arcata sopra la cava roccia dove la Signora di B.***, appoggiata alla parete di granito grigio, scioglieva i capelli al vento per asciugarli. Non ho mai compreso così bene l’aureola che la pietà pone ad irradiare attorno al volto delle vergini, degli angeli e dei Santi. Dio stesso aveva disegnato e colorato questa. 10 L’epistolario fra Palazzo Barolo e casa Lamartine è piuttosto nutrito 11; Juliette scriveva sia al poeta che alla moglie, Mary-Ann Elisa Birch (1790-1863), amabilmente chiamata Marianne, che sposò Lamartine nel 1820. Era figlia unica di un colonnello inglese appartenente alla famiglia dei Churchill. Di famiglia protestante, si convertì al Cattolicesimo nel 1820: amava la poesia e la natura, era amante della musica e della pittura, di profonda Fede si diede infaticabilmente alla carità verso i poveri. Tancredi, da parte sua, era così stimato dal poeta francese che divenne suo unico consigliere nel dirimere le proprie difficoltà finanziarie. Nel 1832 i coniugi Lamartine partirono per un viaggio in Libano con la figlia, la piccola Julie, la quale morì improvvisamente a Beirut di tisi. La tragedia colpì fortemente i Barolo. Lamartine aveva progettato (ma non fu possibile realizzare tale disegno) di fare ritorno in Francia senza la moglie per non sottoporla al rientro a casa, dove tutto le avrebbe parlato dell’amatissima figlia e per tutelarla l’avrebbe lasciata a Torino, a Palazzo Barolo: «È la comprova di una fiducia illimitata, l’affidamento della persona più cara rimasta al poeta ad una sincera e grande amica» 12. L’amicizia con la famiglia Lamartine raggiunse anche una cugina di Marianne, Henriette Churchill, la quale, convertita al Cattolicesimo e conquistata da Juliette, fu ospite di Palaz- 106 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA zo Barolo per diversi periodi. Accompagnò la Marchesa anche a Pisa, nell’inverno del 1826 e del 1827, e durante il viaggio compiuto dai coniugi Barolo nell’inverno 1833-1834. Il visconte Aymon de Virieu, il più grande amico del poeta francese, fraternizzò anch’egli con i Barolo. La Marchesa influì in qualche modo sull’azione politica dello stesso Lamartine, come danno testimonianza scritti e discorsi 13 politici in difesa degli oppressi durante le sedute parlamentari che tenne fra il 1834 e il 1851. Fra le amicizie italiane più rilevanti è da considerare quella con il conte Cesare Balbo di Vinadio (1789-1853), uomo politico e storico, che aspirava all’indipendenza dagli austriaci e sosteneva le ragioni della fedeltà alla monarchia sabauda e alla religione cattolica. Dopo la concessione dello Statuto Albertino, fu il primo Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna (13 marzo - 25 luglio 1848). Carlo Alfieri di Sostegno e il figlio Cesare erano parte integrante del salotto Barolo e certamente avevano già avuto modo di conoscere Tancredi e Juliette a Parigi, dove Carlo Alfieri era stato per lungo tempo ambasciatore del Regno. La confidenza fra le due famiglie risulterà molto efficace quando Cesare Alfieri, membro interno del Governo subalpino, darà udienza e avallo alle iniziative caritative dei coniugi Barolo. Fra i frequentatori assidui di via delle Orfane troviamo anche il Conte Francesco Falletti di Villafalletto (18051877), cugino di Tancredi, il quale resterà un punto di riferimento anche quando Juliette sarà vedova: proprio a lui ella affiderà la gestione dei suoi beni nei giorni in cui sarà fuori dal Piemonte e lo nominerà esecutore testamentario insieme a Domenico Burdizzo e Vittorio Viani, suoi segretari. AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 107 Splendida la lettera di Juliette al cugino d’acquisto, scritta da Roma il 30 ottobre 1851. In essa emerge la sua fine sensibilità alle realtà filosofiche e spirituali della vita: L’église Catholique voit dans Dieu le souverain de l’Univers sous touts les rapports, et dans le Pape son représentant spirituel sur la terre: tandis que dans certains pays Dieu est toujours mis hors de cause et par conséquent encore plus son représentant spirituel: comment s’entendre? Ne trouvez-vous pas, en y réfléchissant, qu’il y a beaucoup de païens sur la terre dite des chrétiens et catholiques? Les Dieux ont changé de noms; on a détrôné M.me Junon et ses pareilles, mais on adore la prospérité matérielle, le luxe de la vie, le luxe à bon marché; et malgré ce culte si public pour le quel on a substitué le vrai culte, ce Dieu des matériels est il vraiment tout? Sommes nous, par exemple, plus riches? Avons-nous plus de bien-être qu’avant le prétendu risorgimento? [sic] Vous savez que je ne me mêle pas de politique; j’ignore beaucoup dans ce genre de choses. Mais dès qu’il s’agit de bien, de mal, de Dieu et de ce qui lui est dû, la conscience aide à dissiper l’ignorance. […] Dieu sait que je voudrais contribuer au bien par tout, mais je crois devoir commencer par les lieux où j’a quelque chose, enfin autour de moi. Un savant de la vrai science l’a conseillé avant moi, ce savant était M. Saint Paul. 14 Altra importante amicizia maturò con i savoiardi Joseph e Rodolfo de Maistre. Nell’Archivio della famiglia de Maistre è conservato un ritratto di Juliette con questa quartina, attribuita all’abate André de Maistre, futuro vescovo di Aosta: «De Juliette ici la belle âme respire. Son doux regard te charme ainsi que moi. Mais se jamais tu la voyais sourire, prends garde à toi» 15. Un forte legame stringeva Costanza de Maistre con la Marchesa che definisce «gage de la misericorde divine» 16. Juliet- 108 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA te ricorderà nel suo testamento l’amica donandole una statua di Gesù Bambino del Bernini e una pregiata acquasantiera, regalata dalla regina Maria Adelaide. I rapporti fra i Barolo e i membri di Casa Savoia furono sempre ottimi, particolarmente sotto il regno di Carlo Alberto, che appoggiò sempre le iniziative benefiche dei Marchesi. Profonda stima nutriva per loro la Regina Maria Teresa di Asburgo Lorena (1801-1855), molto buona e religiosa, che tentò, senza successo, di convincere il figlio, Vittorio Emanuele II (1820-1878) a non sostenere le politiche anticlericali dei liberali. Grande amicizia intercorse con la Regina Maria Adelaide di Asburgo-Lorena (1822-1855): suocera e nuora morirono nello stesso anno; il 1855 fu foriero di diversi lutti per Vittorio Emanuele II, come gli aveva predetto san Giovanni Bosco, quali castighi per il sostegno del Re alla persecuzione legislativa inflitta alla Chiesa. Ma d’amicizia più gioconda e più cara si legò essa alla venerabile Maria Cristina, regina di Napoli, verso la quale era tratta da singolare simpatia, conoscendone l’indole egregia e le virtù ammirabili. Nei mesi che passava in Napoli la Marchesa faceva studio di poter visitare frequente la piissima Regina, da cui non si partiva mai, se non col cuore consolato da’ soavi ed edificanti colloqui. 17 Davvero peculiare l’amicizia che intercorse fra Juliette Colbert de Barol, come usava firmare le lettere, e Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861): li separavano 24 anni e da quando era bambino il conte frequentava Palazzo Barolo. A sei anni il futuro Primo ministro d’Italia scriveva alla zia di aver incontrato una «charmante jeune et touchante dame que je dis cocote, mais son nom est Juliette Baroline» 18. Ecco che Ju- AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 109 liette porta a spasso il piccolo Cavour sulla carrozza di Palazzo Barolo: «Mon cher Camille, ta cocote est si souffrante qu’il lui est impossible de sortir aujourd’hui; d’ailleurs il fait si vilain tems qu’il faut à son grand regret renoncer à la promenade» 19. Fu proprio a Palazzo Barolo nel 1832 che Cavour confiderà il suo sogno di svegliarsi una mattina Primo Ministro del Regno d’Italia. Tuttavia, le sue simpatie sempre più marcate per il liberalismo laicista imposero ai Marchesi una presa di distanza da questa frequentazione. Rimarrà, comunque, nello statista un’immensa stima per Tancredi e Giulia di Barolo, come dimostrano queste parole rivolte a Cesare Alfieri di Sostegno subito dopo la morte del Marchese a Chiari (Brescia): Giulietta in queste dolorose circostanze ha dispiegato quella forza d’animo che è una delle sue più preziose qualità […]. Al confine i nostri stupidi gendarmi le hanno fatto ogni sorta di difficoltà per lasciare entrare i resti di suo marito che dovrebbero essere sacri a tutti i piemontesi perché egli era un grande e ammirevole cittadino. 20 Inoltre, quando Cavour veniva interpellato dai Marchesi per le loro opere di carità egli, onorato, cercava di venire incontro alle loro esigenze. La franca amicizia (quella reale e non interessata) permise a Juliette di essere chiara con Cavour e di porlo di fronte alle sue responsabilità davanti agli uomini e, soprattutto, davanti a Dio. Cavour cercava di proporre le sue idee a Juliette, ma lei era ferma e irremovibile: siamo già al 1860 e gli fa notare che una sua lettera è tutta imperniata sulla politica e lei, precisa severamente, non è mai stata una «donna politica»: «Tâcher d’empêcher un peu de mal et de faire un peu de bien, voilà la mission que j’ai compris conve- 110 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA nir à une petite femme comme moi». «Tuttavia lo invita a riflettere sul suo ruolo politico, chiedendogli se è veramente libero, se lo è il paese» 21 e le sue parole sono rapide e fendenti, su tutto domina la Fede e l’importanza della vita eterna: Vous avez trop d’esprit pour ne pas savoir que le mal inutile peut être au moins dangereux pour ceux qui le font. Quant à moi, je ne crois à l’utilité d’aucun mal assurément. Dieu seul peut remédier; invoquezle. Laissez-le outrager le moins qu’il vous sera possible. C’est de tout coeur que je le prie pour vous… Votre bonheur dans ce monde et dans l’autre, voilà Camille, le but des prières qui se font et se sont faites depuis longtemps pour vous. Un’amicizia speciale, la più grande, fu quella dei Marchesi di Barolo con lo scrittore Silvio Pellico. L’autore di quel capolavoro letterario e cristiano che sono Le mie prigioni, raccontò così il suo felice incontro con i Marchesi, avvenuto nel 1832: In questo libro […] il cuore della generosa donna trovò un carattere di sincerità che l’appagò, e senza esitanza mi scrisse alcune righe piene di bontà. Era il 5 novembre 1832. Questo suo tratto di nobile fiducia mi commosse […]. Andai subito per renderle grazie, non la trovai in casa e le espressi brevemente per iscritto la mia riconoscenza. Mi pareva verosimile dover tutto finire così […]. La Marchesa Giulietta non si limitò al suo primiero atto di bontà. Disse al Conte Cesare Balbo che Ella voleva che io le fossi da lui presentato. […] Ei mi condusse a Lei la stessa sera: un po’ di febbre l’aveva costretta a mettersi a letto, ma riceveva visite e poteva conversare. V’era il Marchese Tancredi suo marito, la Marchesa Madre, allora già vedova e, fra diverse altre perso- AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 111 ne, il vecchio cardinale Morozzo. Mi vidi accolto da tutti con somma benignità, e quando dopo brev’ora m’atteggiai a prendere congedo, la Marchesa Giulietta e suo marito si degnarono ancora di ritenermi qualche tempo discorrendo di più cose. Alzatomi finalmente per partire, egli (il Marchese) mi disse: – Voglio che questa visita sia un principio di buona amicizia tra noi. – Uscii rapito di sì simile amorevolezza e presago che non erano passeggiere dimostrazioni. 22 Subito si stabilì una splendida sintonia spirituale. Pellico divenne così bibliotecario, consigliere, segretario, uomo di fiducia, amico, fratello e trovò a Palazzo Barolo conforto e pace, amicizia nobile e disinteressata. Grande estimatore dei Marchesi di Barolo, fra i pochi che si siano impegnati a scrivere sulla vita e le opere del Marchese dei poveri, resta questo testimone oculare, che si sentì in dovere di lasciare ai posteri le sue considerazioni sugli amici che riempirono di bene gli ultimi decenni della sua vita 23, spentasi sedici anni dopo la morte di Tancredi e dieci anni prima della scomparsa di Giulia. Proposte di lavoro Silvio Pellico le aveva ricevute da Re Luigi Filippo e dalla regina Maria Amelia che lo avrebbero reclutato per affidargli l’educazione del loro ultimo nato. Anche Cesare Balbo gli aveva offerto la formazione dei suoi figli, essendo rimasto prematuramente vedovo. Ma l’invito dei Barolo fu quello più allettante, soprattutto perché il reduce dallo Spielberg conosceva la bontà di cuore dei due coniugi: i compiti che gli affidarono non furono quelli di un dipendente, ma il pretesto di una sicura protezione. «Quest’atto che fu da alcuni giudicato un avvilimento per chi riceveva, e per chi dava poco meno che un insulto, ha salvato l’Italia dalla vergogna di vedere una delle sue glorie più immacola- 112 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA te (e non sarebbe stato il primo esempio) mendicare un pane in terra straniera» 24. Leggiamo nella lettera scritta all’amico Federico Confalonieri (1785-1846) l’11 ottobre 1837: Ho stretto amicizia con poche persone; i più intimi sono i Barolo, marito e moglie, anime rare, sempre occupate di vera carità e di Dio. Io sono vincolato a loro non solo come a benefattori miei, che m’hanno aperta la casa loro con tutta fiducia e generosità, ma come ad ingegni elevati ed amabili, ed a cuori eccellenti ad ogni cosa. 25 L’8 luglio 1838, con scultoreo annuncio, vera esplosione di gioia, Silvio scrive ancora a Confalonieri: «Quando mi scrivi indirizza ora, senz’altra sopraccoperta “Silvio Pellico in Casa Barolo”» 26. Qui lo scrittore saluzzese si accosta sempre più alle verità del Vangelo, trovando pace e serenità, sentendo la «fallacia e il danno dello spirito volterriano di cui era stato imbevuto giovinetto, negli studi di Lione e più tardi nei convegni di Milano» 27. Casa Barolo è nido per il suo ritiro dal mondo, trionfo al suo bisogno di conoscenza e di bene, balsamo al suo soffrire, «crogiuolo d’amicizia e d’affetto sublimi» 28. Un «crogiuolo» che ispira versi significativi dedicati a Tancredi e a Juliette, versi delicatissimi, sintesi dell’intima relazione di amicizia che si è venuta a creare fra lui ed i Marchesi: VERSI DI UN AMICO AFFLITTO I Mesta da lungo tempo è l’alma mia, Deh, la ristori di letizia i rai! AMICIZIE E «PERSECUZIONI» Chi mi dice se alfin tutto sparia Di Tancredi il malor ond’io tremai? Pietoso Ciel, mi svela in qual dì sia Ch’esso e Giulietta a me tu renderai! Finché i loro sembianti io non rimiro, Fra acerbe inquietudini sospiro. II Nulla d’umano in terra è prezioso Come d’amici il consolante affetto, Ben questi a dritto amici appellar oso! Leggon nel petto mio, leggo in lor petto Il mio cor ne’ lor cuori ha ver riposo; Essi la pace han data al mio intelletto: Niuno mai, fuorché madre e genitore, Ebber per me sì generoso amore. III Negli anni giovanili agevolmente Sovra amistà si fa amistà novella; Questa è l’ultima mia! La più possente! Volge il sest’anno ch’essa i dì m’abbella: È il don che mi largia l’Onnipotente Dopo decenne orribile procella. Mosso a pietà da giorni sì infelici Tutto mi dié, mi dié i suoi propri amici! IV Signor, Signor, poiché tu me li desti, Poiché m’hai dato a Loro in quella guisa, Che affidar suoli a Spiriti Celesti L’Alma che poscia guidano indivisa, 113 114 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Sgombra dai cari miei, sgombra i funesti Morbi da cui lor vita ir può recisa; Non un dei due rapito unqua mi sia, Aggiungi agli anni lor la vita mia. V Se questa grazia imploro perché li amo, Perché stando al lor fianco mi miglioro, Perché il viver con loro, sol viver chiamo, Perché supremamente uopo ho di Loro! Tu il sai, mio Dio, non per me sol ciò bramo! Il lor respiro in terra è a te decoro; Padre e Madre ai tuoi poveri essi sono: Per la mia causa e per l’altrui ragiono. 29 Rime alternate che manifestano l’intensità della sua gratitudine a Dio per poter stare a fianco di questi suoi amici: la sua mestizia si tramuta in aperta riconoscenza per aver compreso, grazie a Tancredi e Juliette, il mistero della vita. Essi sono l’antidoto a tutti gli ideali erronei della gioventù, a tutti i mali morali e fisici subiti. Non è un poeta frustrato, scosso, infelice, ma un poeta che ha finalmente, dopo il suo lungo peregrinare spirituale, scoperto la sua vera identità. Altrettanto significativa risulta la poesia dedicata da Pellico all’amico Tancredi, dopo la sua morte: AMICIZIE E «PERSECUZIONI» TANCREDI «Eratque vir ille magnus. (Job, 1,3) […] V. Un fortunato lustro e l’anno sesto, A fianco respirai del caro egregio, E non un dì, non un sol dì, lo attesto, Nol vidi aver delle miserie spregio. Padre era a tutti, e il guardo suo modesto Dava agli afflitti un indicibil fregio; Abbassando se stesso, li estollea, A coraggio, ad onor li sospingea. VI. Ma la benignità di quella mente Non era d’alma senza nobil ira, Non fiacchezza di spirito impotente, Che striscia e facil gl’incontrati ammira: In lui destavan fremito repente Ogni cor basso, ogni ragion delira: Tregua al perverso ricusava ei sempre, Se nol vedea pentirsi e mutar tempre. VII. Possedon di bile alto tesoro Le indoli eccelse; – era Tancredi tale: Premerla vonno entro i precordii loro, La governan con forza celestiale, Preferiscono all’impeto indecoro 115 116 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Quel pazïente amor che tutti assale; Ma dove a sdegno irrompere sia bello, Lor maschio dir diventa igneo flagello. VIII. A voi, tepidi spirti, è agevol cosa Atteggiarvi a sorriso imperturbato: In Tancredi una fiamma impetüosa Rendea possente l’animo indignato. Ciò vidi, e più onorai la generosa Mansüetudin del mortale amato: Due nature chiudeansi in un sol core, Sublime sdegno e più sublime amore. IX. Ingenito uno stimol l’avea spinto A laudevoli studi in giovinezza: Solo da luce d’avi andar ricinto Non gli apparia bastante gentilezza: A ogni giorno, ad ogn’ora, il degno istinto Rende al più vago di mental grandezza: Ei brillava, ei vincea chi gli era accanto, Ma ignorò, finché visse il darsi vanto. […] XII. Oltre all’acume del vivace ingegno, Insuperbir Tancredi avrìa potuto D’essere un della Patria alto sostegno, D’essere a tanti sventurati ajuto: Ma tutto oprando pel Celeste Regno, AMICIZIE E «PERSECUZIONI» Porgea di lodi intero a Dio il tributo: Non più ch’uno stromento in sé vedea Di Chi dal nulla i proprii servi crea. XIII. La qualità di servo del Signore Era la gloria più da lui sentita: Perciò fraternamente ei rendea onore Alla, minima pur, umana vita: Perciò ad ogn’uomo oppresso da dolore Ei stendeva la destra impietosita: Come vibrato avria sguardo protervo, Se in ciascun ravvisava un divin servo? […] XVIII. Onoriamo Tancredi! Egli è rimaso Un di que’ nomi sommi e prediletti, Per cui d’amor tutto un paese è invaso, Di cui si glorian Principe e Soggetti: Di lui s’ignora un fatto, un detto, un caso Che non fosser dal popol benedetti: Ah non si giunge a fama tal di buono Quand’ottime d’un uom l’opre non sono! XIX. Come non benedir chi sempre al bene De’ cittadini suoi volgea gl’istanti? Non apparìan comuni rischi e pene E spaventoso morbo e plebei pianti, Ov’ei non fosse esempio, aita e spene, 117 118 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Ove ai perigli non corresse innanti: Della rapida lue nel tempo atroce, A dir quant’ei giovasse, una è la voce. XX. Troppo qui tu sei grande in ogni mente! Non giungerìa a lodarti il verso mio: Ognun t’ama, com’io, fervidamente, Attesta ognun quel ch’attestar poss’io: Non elogi, o Tancredi, un prego ardente Mando a te, come ad angelo d’Iddio: Tu, che tanti qui sparso hai benefici, Spargine ancor da lochi tuoi felici! Altri versi il poeta saluzzese vergò per Juliette, come la lirica UNA DONNA «Quoniam mulier sancta est et timens Dominum (Iudith. c. 8. 20) I Nota è a me sulla terra una mortale Che dal Ciel tutti i doni ebbe più chiari: Poch’alme han forza d’intelletto eguale, E fior dal meditar colgon sì rari: S’alza di fantasia su fulgid’ale, E a’ più posati ragionanti è pari; Pronta discerne il ver, pronta l’addita, E tanta luce è da umiltà addolcita. AMICIZIE E «PERSECUZIONI» II Cinta ell’è di ricchezze e di splendore, E le aggradano brio, riso, favella; Tutte potrebbe del suo viver l’ore Incantar con magia sempre novella: Par che delizïato il suo bel core Ogni affannoso sentimento espella: Ma questa d’eleganti arti regina Nutre d’egregi fatti ansia divina. III E color che l’ammirano raggiante D’ingegno e grazie in suoi ridenti crocchi, Ignoran che fissati ha poco avante Sopra miseria spaventosa gli occhi; Che sua candida man dianzi tremante Alzò il mendico prono a’ suoi ginocchi; Che il delicato piè stanco or riposa D’aver recata ad egri a ta ascosa. […] V Né quest’amica degli afflitti cuori, Per ritrarli all’altezza del Vangelo Li circonda di spregi e di rigori, Sì che ognor tremin quasi in ira al Cielo: Del pentimento ai nobili dolori Vuol congiunta speranza e amante zelo: Vuol quella santa ilarità tranquilla, Per cui la Croce maggiormente brilla. 119 120 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA VI Certo, ell’aveva le inique voci udito Contra a religïon vibrate spesso: Che selvaggia sia questa, ed avvilito Cada, se a lei si volge un cuore oppresso; Mostrar quindi la saggia ha statuito, Che fede e cortesia si danno amplesso: Che penitenza e consolante riso Ponno concordi alzarci al Paradiso. VII Ma sì! Caratter questo è ben del vero, E sol di Cristo nella legge splende! Che in chiunque a virtù mova sincera Santificati e duolo e gaudio rende: Retta è la via del pentimento austero Che ne’ deserti caritade accende: Retto altresì, perché temprato e pio È il civile consorzio innanzi a Dio. […] X Memore che sì cari il Dio umanato Dichiarò i pargoletti ond’era cinto, La pia nel proprio ostello ha radunato Stuol di fanciulli in duplice ricinto Ove, mentre sostegno al corpo è dato, Viene a virtù il crescente animo spinto, Vigilando colà vergini umili, Ad addolcire i palpiti infantili. […] AMICIZIE E «PERSECUZIONI» XII Questa donna vegg’io quindi, nel tristo Tempo in cui Dio l’indico morbo scaglia, Trarre agl’infermi ad onta del previsto Pericolo che a molti il cuore ismaglia. Compiange, esorta, aiuta e volge a Cristo Chi in angoscia di morte si travaglia, Poscia a piangenti vedove e orfanelli D’orrenda povertà tempra i flagelli. […] XIV Tal esser può sì fievol creatura, Qual è donna cresciuta a splendid’agi, Quando al lume del Ciel, che l’assecura, Pace e gloria non pone in bei palagi. E rammenta che un Dio prese figura Di poverello, e visse in fra disagi, E di lui ne asservrâr le labbra sante Che in ogni afflitto Ei stassi a noi davante! XV Tal esser può, restando pur nel mondo E in convenevol, fulgida eleganza, Chi nutre del Vangel senno profondo, Chi gode esser di Dio fatto a sembianza, Chi sa che spirto uman d’opre fecondo Non dée in van’ombre usar la sua possanza; Ma in amar Dio, ma in dimostrargli amore, Sempre sacrando all’altrui bene il core! 30 121 122 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA La Fede è la roccia sulla quale si aggrappa con tutta la forza che possiede. Non c’è una discrepanza netta fra il Pellico ante e post Spielberg (una convinzione forse cresciuta in base alle limitate notizie che si sono raccolte intorno allo scrittore del dopo 1830), se così fosse, non avrebbe potuto scrivere Le mie prigioni. Un percorso travagliato, quello pellichiano, ma pur sempre omogeneo e armonico. Nasce in una famiglia fortemente cattolica, è educato cristianamente, viene a contatto delle idee francesi e volterriane, segue la corrente deistica, fa sua la causa italiana, ma allo stesso tempo porta con sé un bagaglio di valori umani impareggiabile che non potrà non riportarlo sulla strada del cristianesimo. 31 Palazzo Barolo divenne il suo romitaggio, in quanto, se le sue condizioni di salute fossero state migliori, avrebbe scelto una vita lontana dal mondo, quella del chiostro, «meno in contatto con la società» 32; ma fra i Marchesi trovò comunque pace e serenità, «avendo questa casa un non so che di monastero» 33. Un paradosso nella vita dei Barolo: non c’era persona che venisse respinta fuori dalla loro porta, eppure fra quelle mura si respirava aria di chiostro. Silvio e Tancredi ebbero modo di consolidare la loro amicizia nel 1835, quando Juliette fu costretta a recarsi a Parigi per l’improvvisa e inguaribile malattia della sorella, la contessa d’Aunay, che curò per alcuni mesi, fino alla sua morte. In quelle settimane il Marchese condusse l’amico nei diversi possedimenti Barolo. Sarebbe stato davvero bello ascoltare i loro discorsi: quelli di un uomo sofferente nel cuore e nelle membra, che prende forza e vitalità accanto ad un uomo carico di Spirito Santo e di vigore evangelico. La scena immaginabile è quella di un omino fiaccato da capo a piedi per la AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 123 durissima prigionia, camminare e discorrere a fianco di una persona che non conosce tregua nel proseguire il suo cammino di Samaritano, fermo ad ogni angolo per sollevare deboli e miseri. Soldato indomito di Cristo, non badava né ad umiliazioni, né a dolori fisici o morali. La fiducia che il Marchese riponeva nel Pellico era davvero grande: si confidava con lui, rivelandogli non solo i suoi conti, non solo i segreti amministrativi, ma confessando i propri sentimenti. Tra il novembre del 1833 e l’aprile del 1834 i Barolo svernarono nel centro Italia e al Pellico, rimasto a Torino, la Marchesina scrisse splendide lettere. In quel periodo Silvio frequentò con maggior frequenza la Marchesa di Barolo, madre di Tancredi: E non mi riusciva difficile farla parlare del soggetto a lei più caro, cioè del figlio e della nuora. La rispettabile donna dimenticava i suoi dolori, s’animava e mi diceva ogni bene dell’uno e dell’altra. Mi mostrava le lettere che le scrivevano, voleva che io gliele rileggessi, e giubilava delle loro espressioni di tenerezza, io gioiva del suo giubilo e delle sue materne benedizioni che lor mandava, ringraziando il Signore. Se io le diceva come vi fosse in tutti una voce concorde sulle virtù del Marchese e della Marchesina, sclamava esser giusto che parlassero così di suo figlio e di sua nuora, e mi assicurava che me ne convicessi io medesimo ogni giorno più conoscendo il tenore della loro vita. 34 Un Petit cahier (Piccolo diario) venne scritto, invece, da Silvio Pellico per Giulia dal 23 luglio al 7 agosto 1837, quando i coniugi Barolo si recheranno nel Tirolo per cercare quelle forze fisiche che a Tancredi mancavano. Per non lasciare solo lo scrittore i Marchesi gli consigliarono di recarsi dal «buon 124 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA amico», il Marchese Guasco. Fu poi sollecitato da Juliette a redigere questo piccolo diario e ad inviarglielo, come lei aveva fatto quattro anni innanzi durante il viaggio per l’Italia. La malinconia è la padrona incontrastata del Petit cahier, carico di un sentire romantico. Nell’ultimo intervento del 7 agosto fa riferimento a due volumi contenenti la raccolta completa delle sue liriche. La pubblicazione era stata sovvenzionata dal Marchese: Mi vien detto e scritto che essi faranno del bene a parte della gioventù. Mi compiaccio di sperarlo, e per questa ragione non rimpiango ciò che il signore di Barolo ha generosamente fatto… Dio lo ricompenserà per questo come per tutte le sue altre buone azioni ed intenti… Il desiderio del signore di Barolo e il vostro fu di glorificare Dio e al tempo stesso fu anche di elargire nuovi benefici su di me. Il mio desiderio fu di aggiungere qualche lode alle infinite che Dio merita da tutto l’universo, di predicare la fede, la mansuetudine, il perdono, l’obbedienza, la carità in maniera differente. Non credo di avervi frammischiato scopi dettati dalla vanità o da interesse terreno. Domani parto: che felicità! Poiché è finalmente per rivedervi! 35 Quando il Marchese morì, Silvio restò profondamente scosso come esprime nella poesia Tancredi: «Me lungamente ammutolì il dolore…» 36. Divenne quindi consigliere, collaboratore e confidente della moglie e molto cambiò nella vita di Palazzo Barolo. Juliette divenne più severa, più austera: i salotti non furono più organizzati e lei non fu più briosa come prima. In quel clima si severità-serenità cristiana, Pellico dedicava molte ore allo studio, alla meditazione e all’insegnamento. Così scriveva al fratello Luigi: AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 125 M’alzo anche per tempo, secondo l’uso antico, e fatta breve orazione innanzi al crocefisso di Maman, passeggio indi per la stanza, medito un poco sul passato, sul presente e sull’avvenire, poi do tregua ai pensieri religiosi e gravi e mi pongo a sedere cercando di riposare la mente con qualche lettura di storia e simili. Nei giorni festivi, appena alzatomi, vado in Chiesa, e sono di ritorno alle sette. Mi portano ogni giorno alle otto una chicchera di caffè, e ravvivato da questo leggero stimolo, torno a studiare. Mi diverte lo stare in esercizio di greco e di altre lingue; studi non volti a produrre nulla, ma di solo diletto. Veggo di rado prima delle dieci la sig. Marchesa. A quest’ora si va a tavola. Dopo colazione passo mezz’ora o più colla signora Marchesa ragionando de’ suoi interessi di carità o prendendo i suoi comandi per iscrivere qualche lettera. Scendo poi alle sale di ricovero, e pongo sul registro i nuovi bambini, se se ne sono presentati. La sig. Marchesa esce ed io sono di nuovo in libertà sino al tocco. Vado indi al Monastero di S. Anna, e là io do un’ora di lezione di lingua francese a quattro religiose, affinché esse possano diventar maestre di tal lingua per le loro educande. Poi fo o non fo qualche visita, e sto il resto del tempo in casa. Alle cinque si pranza. Rimango in compagnia fino alle nove, ed allora mi ritiro per mettermi quasi subito a letto. – Eccoti la storia della mia giornata. 37 Silvio Pellico doveva andar fiero di queste giornate baroliane, poiché più di una volta, e a più di un conoscente o parente, le descrive. Dal 1838 tutti i restanti anni della sua vita Silvio Pellico li visse nel diletto palazzo Barolo (ove le sontuose stanze da lui abitate si conservano ancora religiosamente con le cose sue) accanto alla Donna in silenzio amata e venerata, compagno a lei in un ri- 126 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA tiro sempre più stretto e più dedito alle opere di carità, fino al gennaio 1854, quando amorosamente assistito da lei e dalla sorella Giuseppina abbandonò sereno l’anima a Dio e il corpo alla terra con quei versi, ultimo canto del cigno: Anima: Dio, che all’umana polvere Ogni virtù comandi, Tuoi cenni son sì grandi, Come innalzarmi a Te? Dio: Figlio, purché tu m’ami, Prenderti in braccio intendo: Amami, e a te discendo, Ti porto in ciel con me. La Marchesa, com’è naturale, ebbe sempre il posto maggiore e quasi un culto negli affetti del Pellico, che scrisse per lei il Tommaso Moro, la cantò nella lirica Una Donna, e in altra lirica, l’Antico Messale, cantò il messale miniato che lei preferiva; la considerò anche come sua guida, e nella lirica religiosa che porta appunto questo titolo, pur protestando a Dio di rinnegare ogni altro amore incompatibile col suo, così conclude: Ma perdona se pure infra lo stuolo Delle tue creature predilette Una più ch’altra sulla terra io colo. Ella a false calunnie non credette E mi difese da’ nemici miei! Ella aben far tutti i suoi passi mette Ella è mia guida, il nostro Sol tu sei! […] Ma da essa non poté mai disgiungere l’impareggiabile suo Marito, il Marchese Tancredi. AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 127 Nel suo testamento si legge: «Nel ringraziare Iddio delle tante misericordie usatemi sopra la terra, rammento con particolarissima riconoscenza l’aver degnato disporre ch’io acquistassi per benefattore il fu Marchese Tancredi di Barolo e per benefattrice la sua piissima vedova, mettendo nei loro cuori la più grande indulgenza a mio riguardo. 38 E il calamaio d’argento che Tancredi aveva lasciato allo scrittore in eredità, come da sua disposizione testamentaria, passa di proprietà a Juliette: Non avendo nulla da offrire alla mia benefattrice che sia degno di lei, la prego almeno di voler accettare il mio calamaio d’argento, il quale, in mancanza di meriti miei, ha il merito d’essermi stato legato dall’ottimo suo marito, di venerata memoria. 39 Nella casa dei Marchesi, Silvio si abbeverò al Cuore del Vangelo, quello che aveva fino ad allora nascosto: «Sempre attraverso tutte nebbie, i rai /Del Vangel mi venian racconsolando;/ Sempre la Croce occultamente amai» 40. Pellico, che era divenuto il braccio destro di Juliette 41, l’accompagnò in tutti i suoi spostamenti e viaggi che la vedranno protagonista di indimenticabili giornate fatte di industriosa operosità per garantire agli istituti Barolo le autorizzazioni necessarie e i riconoscimenti ecclesiastici. I nemici profittarono di tale alleanza spirituale e su «La croce di Savoia» si diede annuncio, nel 1852, del «matrimonio segreto» fra la Marchesa e lo scrittore. La calunnia ama- 128 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA reggiò molto sia la Marchesa che Pellico: «E quelle infami licenze della stampa, quella mancanza di rispetto a tutti! Mi ha veramente afflitto e sdegnato quell’indegna falsità d’un preteso matrimonio dell’ottima signora Marchesa. Oh! Che impudente razza di bricconi! Che tempi!» 42. Invece del matrimonio si era celebrato ben altro rito: Juliette e lo scrittore entrarono nel Terz’Ordine di San Francesco durante la loro sosta a Cortona, presso la tomba di Santa Margherita 43. Per sua volontà la Marchesa sarà rivestita, dopo la sua morte, dell’abito di Terziaria di San Francesco 44. Durante la persecuzione dei Gesuiti ad opera delle autorità liberali e massoniche, Juliette si adoperò per fare loro da scudo, così accadde anche nei confronti del fratello di Silvio Pellico, padre Francesco, il quale, dopo l’espulsione governativa dei membri della Compagnia di Gesù dal Piemonte nel 1848, avrà proprio dalla Marchesa un sostegno economico e alla sua morte riceverà una pensione vitalizia di mille lire annue. Nel maggio del 1847 Juliette fu in pericolo di vita, una infiammazione generale del suo fisico la portò in punto di morte, le vennero praticate diverse cavate di sangue, che non diedero i risultati sperati. I medici sostenevano che ella si fosse consumata a causa dell’indefesso operare. Il 2 maggio ricevette, serenamente, il Viatico e il 5 l’Unzione degli Infermi, avendone grande consolazione. Fu proprio in quell’occasione che emerse quanto la Marchesa fosse amata e quanta devozione ci fosse nei suoi confronti; molti, infatti, offrirono la loro vita per risparmiare la sua. Si sparse l’erronea notizia della sua morte, perciò vennero celebrate molte Messe in suo suffragio. La piissima serva di Dio s’era disposta con gran pace a morire… Quel che è vero, è che si pregava con ardore e lagrime da AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 129 molti per la sua conservazione; io conosco più d’una persona che offerse a Dio la propria vita in ricambio di quella. 45 Ogni volta che la sua salute destava una qualche preoccupazione, si vedeva una folla di persone andare a prendere notizie al Palazzo, sembrava che ciascuno, povero o ricco, trepidasse per una parente o un’amica; si pregava per lei nei conventi e nelle mansarde dove aveva così spesso portato il pane quotidiano con la parola e il gesto affettuoso che lo rendeva meno amaro. 46 In quel maggio del 1847 le Suore della Visitazione le inviarono una reliquia di San Francesco di Sales, del quale Juliette era molto devota. Le preghiere vennero esaudite e la guarigione fu considerata miracolosa, perciò venne seguita da molti ringraziamenti. Le ospiti degli Istituti Barolo si recarono al Santuario della Consolata per rendere il loro grazie al Signore e alla Madonna, ma nel Santuario c’erano anche numerosi fedeli: venne esposto il Santissimo e venne cantato il Te Deum. Proprio alla Consolata sono custoditi tre dipinti ad olio, offerti in ringraziamento e furono commissionati e donati dal Rifugio e dalle Suore di Santa Maria Maddalena, dall’Ospedaletto e dalle Suore di Sant’Anna. Ancora nel 1847 Juliette fu colpita da un grave lutto: la tragica morte, avvenuta in un incidente durante una battuta di caccia, del nipote Paul, figlio unico del fratello Charles Antoine. Nel testamento possiamo leggere la traccia, vergata con mano profondamente materna, di questo immenso dolore: Quando il mio caro Paolo, di lui figlio viveva, io avea preso disposizioni per lui nel mio precedente testamento; ma Iddio 130 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA chiamando a sé quel caro giovanetto, m’ha costretta a cangiare le mie disposizioni. Voglio almeno che mio fratello trovi qui un cenno a sua memoria, un’ultima assicurazione di tutta la tenerezza ch’io aveva per suo figlio, e della parte che ho presa al suo dolore, che ben era anche il mio. 47 Il 1848 non fu meno difficile del precedente anno; ma per altre ragioni. I liberali-massoni diedero manifestazione di tutta la virulenza del loro violento odio contro la Chiesa e la Fede cattolica. Fra i perseguitati anche Juliette, che fu accusata di tramare contro lo Stato, di assoldare sicari, di dare ospitalità a malfattori e ai Gesuiti. I «democratici» conoscevano la sua vita caritatevole e sapevano che godeva di grande stima a Corte, nel mondo ecclesiastico e tra il popolo; avevano constatato che non osteggiava alcuna forma di governo, purché fossero rispettate la religione e la santa Chiesa. Folle di facinorosi si radunano sotto le finestre di Palazzo Barolo e degli Istituti Barolo per lanciare sassi e insulti. «Schiere di uomini e donne prezzolate assediano i suoi caritatevoli ospizi, urlando di volerne saltare le mura, incendiarle e strappare a viva forza tutte le vittime ivi rinchiuse» 48. I giudici del Tribunale effettuano scrupolose indagini, interrogano gli interessati, i parenti, i conoscenti delle «vittime», suore, novizie, maestre, allieve, ma in quelle «prigioni» «il n’y avait d’autres liens que l’affection, d’autres sentiments que la reconnaissance» 49. Le furono indirizzate lettere piene di ingiurie e di minacce di morte, mentre sui giornali venivano pubblicati infami AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 131 articoli contro la sua persona e le sue opere: la campagna diffamatoria giunse ad accusarla di rapire le figlie ai genitori e di sequestrarle nei suoi istituti, dove subivano maltrattamenti e privazioni: «Le infami accuse e calunnie, divulgate da giornali settari, sono portate ai tribunali; i magistrati le trovano false, ma intanto la persecuzione dura come prima» 50. La Guardia Nazionale andò a perquisire Palazzo Barolo. Tali aggressive perquisizioni, che numerose si verificarono anche all’Oratorio di Valdocco di San Giovanni Bosco e al Convitto Ecclesiastico di San Giuseppe Cafasso, venivano effettuate con grande cura e con la volontà di trovare qualcosa di sospetto. Quando la truppa armata fece irruzione nel cortile della residenza della Marchesa per cercare dei Gesuiti, Juliette chiese loro di rispettare la sua casa, consentendo soltanto a due-tre soldati di entrare per fare le ricerche, che non portarono a nessun risultato. Il Rifugio venne assediato dai facinorosi per due notti e per porre fine ai loro dileggi e agli assalti alle porte, vennero inviati dodici carabinieri per presidiare lo stabilimento. Gli amici della Marchesa le consigliarono di lasciare il Piemonte, ma lei rifiutò affermando: È impossibile che riesca a trasportar meco le mie cinquecento figlie adottive, e debbo quindi rimanere per far loro da madre fino alla fine. Mi si vorrà forse troncare il capo? Ebbene, anche questa è una via per salire al cielo. Il Signore non mi abbandonerà certamente. 51 Importante rilevare che molte delle persone che la conoscevano e la stimavano non la sostennero e non la difesero dalle false accuse, probabilmente per non esporsi loro stessi 132 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA a critiche. Tuttavia Juliette conosceva molto bene l’essere umano, le sue debolezze e le sue miserie e non si stupì di ciò. La sofferenza di Juliette non era per se stessa, ma per vedere calpestati i principi e le realtà della Chiesa: Il cattolicesimo torna d’impaccio agli italianissimi; non solamente si oltraggia e svilisce la religione, si cacciano i frati e le monache, ma dopo averli spogliati si lasciano basir di fame. Le Carmelitane, mie vicine, muovono a pietà colla loro miseria e ad invidia colla loro rassegnazione. 52 La persecuzione fatta ai Monasteri è causa di vera angustia a chi ha il cuore un po’ cattolico. Lo sai in Cremona come sono trattate le monache che esistono negli Stati presi alla S. Sede? Non hanno per vivere, vestirsi ecc. che per le claustrali sei baiocchi al giorno, e per le converse quattro! Le hanno preso tutti i loro beni. Sono in corrispondenza con alcune di loro, mi fanno compassione più di quello che posso dire. 53 Con coraggio tutto sopportò, convinta che è impossibile fare del bene senza sofferenza e senza Croce. La sua maturità ed ascesi spirituale la condussero ad altissime vette: la tensione verso la perfezione non l’abbandonò mai anche nei momenti più difficili e dolorosi della sua esistenza. Le sue parole, per il suo biografo de Melun, ricordano l’insegnamento del santo curato d’Ars 54: Le désir de remédier au mal, l’impossibilité d’y réussir produisent une sorte de tourments et d’angoisses: mais ne sommes-nous pas envoyés en ce monde pour travailler et souffrir? Si nous ne travaillons pas pour le bien, il nous faut travailler pour la satisfaction de notre amour-propre, maître plus exigeante et plus impérieux que Dieu. A AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 133 l’oeuvre donc pendant notre vie, nous aurons assez de temps pour nous reposer dans l’éternité. Questa «sorvegliata speciale» dalle autorità liberali e massoniche, sempre perdonò i suoi nemici, pur continuando le sue battaglie nella Fede, come lasciò scritto nel suo testamento: Ho vissuto lungamente in questo Paese desiderando il bene a tutti, adoperandomi a farne un poco, e confidando che nessuno mi volesse male. Dopo il 1848 ebbi la prova del contrario, non solamente per ingiuriosi ed infamanti scritti stampati, ma anche per lettere minaccievoli, insulti per le strade etc. Questo mi obbliga a protestare qui che continuo nullameno a desiderare il bene a tutti, ed adoperarmi il più che posso a farne, e che a tutti sinceramente perdono. Iddio perdoni a me, ed aiutandomi conduca l’anima mia, che gli raccomando, ad eterna salvazione. 55 I Marchesi di Barolo erano a conoscenza dell’Amicizia Cristiana, tramite Brunone Lanteri ed altri loro amici, ma non risulta che ne facessero parte benché ne avessero assorbito lo spirito. L’Amicizia Cristiana a Torino fu fondata fra il 1778 e il 1780 da padre Niccolò von Diessbach S.J. (17321798), un militare al servizio di Casa Savoia che si era convertito al servizio del Vangelo. L’impronta era gesuitica e contrastava il forte orientamento giansenista giunto dalla Francia: era un’importante reazione, da parte cattolica, contro la diffusione delle idee scristianizzanti. Gli obiettivi principali erano quelli di avere una buona formazione cattolica e di diffondere la buona stampa che contrastava lo spirito degli enciclopedisti, figli dell’Illuminismo. L’Amicizia Cristiana si sviluppò in Italia e in Europa fra il 1780 e il 1803: Mila- 134 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA no, Friburgo, Parigi, Vienna, Augusta in Baviera, Firenze, Roma, Varsavia… ma la sua capitale rimase Torino. «A Parigi gli Amici si distinsero per la loro attività durante il periodo prerivoluzionario e rivoluzionario, e alcuni aderenti morirono per la fede» 56. Scrisse Diessbach nella sua opera apologetica Le Chrétien Catholique (1771): «Io sono cristiano e cattolico. Vissi, lessi, meditai. Voglio scrivere per avere la soddisfazione di sviluppare a me stesso e ad altrui le tracce dei sentimenti che nati e prodotti dall’uso della vita, dalla lettura e dalla riflessione, contribuirono grandemente a rendermi cristiano e cattolico» 57 . Egli individuò nella stampa l’arma dei nemici della Chiesa, così come aveva fatto papa Clemente XIII (1693-1769) con l’enciclica Christianae Reipublicae Salus del 1766. Ritiratosi in un’abbazia cistercense, raccolse attorno a sé alcuni collaboratori fidati. Proprio da questi amici ebbe origine la Pia Associazione per la Stampa, che localizzò le sue sedi a Torino e Friburgo, e contò, grazie ad amicizie disseminate qua e là, su diversi punti vendita in ben 31 città italiane. Fu così che fra il 1779 e il 1780 venne fondata nella capitale subalpina l’Amicizia Cristiana, destinata ad unire gli amici della Chiesa cattolica, iniziativa che, seppur segreta, ebbe ampia risonanza in tutta Europa. L’eredità di padre Diessbach venne raccolta dal venerabile Pio Brunone Lanteri, confessore di Palazzo Barolo, il quale, contro i seminatori della menzogna e dell’eresia, fece sorgere l’Amicizia Cattolica (1817), che sarà l’humus sul quale si formeranno anime come quella di don Luigi Guala (1775-1848), fondatore del Convitto ecclesiastico, che darà vita alla docenza di san Giuseppe Cafasso (1811-1860), riformatore del clero e maestro, fra tanti altri santi sacerdoti, di don Bosco (1815-1888). Tutti questi uomini vissero l’amicizia come la intende Sant’Agostino: AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 135 Quando ci si vuol bene, e tra chi parla e ascolta c’è una comunione profonda, si vive quasi gli uni negli altri, e chi ascolta si identifica in chi parla e chi parla in chi ascolta. Non è vero che quando mostriamo a qualcuno il panorama di una città o di un paesaggio, che a noi è abituale e non ci impressiona più, è come se lo vedessimo per la prima volta anche noi? E ciò tanto più quanto più siamo amici; perché l’amicizia ci fa sentire dal di dentro quel che provano i nostri amici. 58 A proporre il titolo di Amicizia Cattolica fu il conte Joseph de Maistre e sarà soppressa da re Carlo Felice (1765-1831) nel 1828. Molti amici e conoscenti dei Barolo appartenevano a tale realtà, la cui spiritualità riecheggia in loro: spiritualità di Sant’Ignazio, di San Francesco di Sales e di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Significativa poi la stessa amicizia con Carlo e Cesare Alfieri di Sostegno, fra i più importanti esponenti dell’Associazione. «Potrebbe essere verosimile che lo stesso padre della Marchesa di Barolo fosse un Amico cristiano, perché Bona cita la probabile presenza di una Amicizia cristiana anche in Vandea» 59. I Marchesi, autori loro stessi di libri cattolici, furono solerti nella diffusione della buona stampa e numerose furono le pubblicazioni da loro commissionate agli stampatori a proprie spese. G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., pp. 91-92. Ivi, p. 94. 3 D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico cit., p. 135. 4 Ivi, p. 135 5 A. de Melun, La marquise de Barol. Sa vie et ses oeuvres, Libraire Poussièlgue frères, Paris 1869, p. 136. 1 2 136 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Per una documentata descrizione delle amicizie di Casa Barolo vedasi Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 77-111. 7 Cfr. A. de Melun, La marquise de Barol cit., pp. 134-139. 8 Interessante rilevare che nel castello di Barolo è conservato il volume De la pacification religieuse di Félix-Antoine-Philibert Dupanloup (1802-1878). 9 A. de Lamartine, Nouvelles Mèditations Poétiques, Ed. Pagnerre-Furne-Lecou, Paris 1855. 10 Ivi. 11 Sono rimaste 54 lettere di Lamartine indirizzate a Juliette Colbert di Barolo e scritte fra il 1823 e il 1830; mentre le lettere rimaste della Marchesa sono soltanto 9, di cui 7 al poeta, una alla moglie ed una alla madre. Inoltre si conservano 2 lettere del Marchese al poeta. 12 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 94. 13 Cfr. A. de Lamartine, La France Parlamentaire, oeuvres oratoires et écrits politiques, Librairie Internationale, Paris 1864. 14 P. C. Falletti di Villafalletto, Silvio Pellico e la Marchesa di Barolo, Saggi, Ed. Giannone e Lamantia, Palermo 1885, pp. 10-12. 15 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 96. 16 Ivi, p. 97. 17 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 162. 18 Lettera di Camillo Cavour alla zia Vittoria di Sellon, 11 maggio 1816, in Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., pp. 50-51. 19 Lettera della Marchesa Giulia di Barolo al conte Camillo di Cavour, 1816, Archivio Fondazione Camillo Cavour, Santena (Torino). 20 C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re, la straordinaria vita della Marchesa di Barolo, Gribaudo Editore, Cavallermaggiore 1992, p. 54. 21 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 102. 22 S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert. Memorie cit., p. 61. 23 L’intero arco di tempo che Silvio Pellico trascorse a Palazzo Barolo (18341854) è esaminato in: C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re cit. 24 T. Canonico, Sulla vita intima e sopra alcuni scritti inediti della Marchesa Giulia Falletti di Barolo-Colbert cit., p. 28. 6 AMICIZIE E «PERSECUZIONI» 137 S. Pellico, Epistolario, a cura di G. Stefani, Le Monnier, Firenze 1856, p. 155. 26 M. Preve, Silvio Pellico in Casa Barolo, conferenza tenuta in Saluzzo il 259-1932 in occasione della Giornata Pellichiana, Torino, Tip. Ernesto Arduini, 1932. 27 Ivi, p. 11. 28 Ivi. 29 Ivi, pp. 12-13. 30 Cantiche e poesie varie di Silvio Pellico, Tipografia e libreria dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino 1874, pp. 426-432; anche in C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re cit., pp. 305-308. 31 C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re cit., p. 93. 32 Cfr. S. Pellico, Poesie e lettere inedite (a cura della Camera dei deputati), Camera dei deputati, Roma 1898, pp. 83-84. Lettera a Confalonieri, Torino, 18 novembre 1840. 33 Ivi. 34 S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert. Memorie cit., pp. 59-60. 35 S. Pellico, Piccolo Diario in Marchesa Giulia di Barolo, Viaggio per l’Italia. Lettere d’amicizia a Silvio Pellico (1833-1834), Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 1994, pp. 204-205. 36 S. Pellico, Tancredi, in Lettere di Silvio Pellico a Giorgio Briano aggiuntevi alcune lettere ad altri e varie poesie, Felice Le Monnier, Firenze 1861, p. 122. 37 Cfr. C. Durando, Lettere inedite di Silvio Pellico cit., pp. 265-266. 38 D. Massè, Un precursore cit., p. 35. 39 Ivi. Afferma ancora Massé: «E il debito di riconoscenza verso il Marchese Barolo e la sua degna Consorte lasciato da Silvio Pellico dovrebbe essere raccolto da tutti gli Italiani, perché a tutta la Nazione, per la quale egli tanto aveva sofferto e operato, sarebbe spettato fare verso di lui quel che essi hanno fatto» (Ivi). 40 S. Pellico, La mia gioventù in Poesie, S.E.I., Torino 1855, p. 359. 41 Per un approfondimento della vita di Silvio Pellico in Casa Barolo: C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re cit., cap. XII. 42 Lettera di S. Pellico al conte Francesco Falletti di Villafalletto, 24 febbraio 1852, in P.C. Falletti, Saggi. Silvio Pellico e la Marchesa di Barolo, Palermo 1887, pp. 62-65. 43 Nel 1845 la Marchesa era stata affiliata anche all’ordine dei Frati Minori Cappuccini e dispose nel suo testamento che fossero proprio i Cappuccini del Monte (Torino) ad accompagnare l’ultimo viaggio della sua salma. 25 138 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Poiché l’abito delle Suore di Santa Maria Maddalena era uguale a quello portato dalle Terziarie, ne fu richiesto a loro uno per rivestire la salma di Juliette. Ogni suora avrebbe desiderato dare il proprio, fu così che una donò l’abito, l’altra lo scapolare, una terza il velo, una quarta il cordone e una quinta il Crocifisso. 45 S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo cit., pp. 103-104; G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 58. 46 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 425; cfr. A. de Melun, La marquise de Barol cit., p. 122; G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 58. 47 Testamento, 1848, art. 11. 48 P. Matta, Elogio storico della Marchesa Giulia di Barolo-Colbert, discorso tenuto dall’autore il 30 giugno 1878 a Torino, manoscritto, Archivio Storico Suore di Sant’Anna, 2.3.6.1., p. 24. 49 A. de Melun, La marquise de Barol cit., pp. 175-176. 50 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 426. 51 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 134; A. de Melun, La marquise de Barol cit., pp. 177-179. «Fu forse la convinzione di essere in pericolo di vita a spingere la Marchesa a redigere il suo testamento, che in prima stesura porta la data del 4 luglio 1848» (Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 428). Tuttavia, Silvio Pellico dichiara che già nel 1841 Juliette aveva presentato un testamento al Senato, cfr. S. Pellico, Lettere famigliari inedite cit., pp. 376-377. 52 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 136. 53 G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere alle Sorelle Penitenti di S. Maria Maddalena, Roma 1987, vol. II, p. 221. 54 Agli inizi del gennaio 1864, morirà il giorno 19 gennaio, fece stampare tremila copie dei pensieri del Curato d’Ars. 55 Testamento, 1856, art. 95. 56 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 109. 57 R. de Mattei, Idealità e dottrine delle amicizie, Bibliotheca Romana, Roma 1981, p. 44. 58 Agostino d’Ippona, De catechizandis rudibus. 59 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 111. 44 8 Nelle carceri Grande rispetto reciproco nutrivano l’uno nei confronti dell’altra: Tancredi si interessava degli impegni caritativi di Juliette e Juliette si interessava dell’attività pubblica del marito e delle sue opere benefiche, ma fra loro non c’era quell’interferenza che tarpa il volo… Unico caso di intromissione fu quando Tancredi venne a sapere che la consorte desiderava prendersi personalmente cura delle carcerate: voleva difenderla dai rischi che per la salute poteva avere una tale frequentazione. Entrare nelle prigioni di allora significava respirare aria infetta, circolare in celle luride, essere a contatto con persone malate e portatrici di malattie, ed inoltre essere oggetto di scherno, di insulti, di invidie ed odio. Allora lei, che si sente chiamata a tale missione, ne parla al confessore: Passò qualche tempo, ed io più afflitta del solito, anche perché non poteva soddisfare al mio desiderio, cercava nella lettura dei Libri Santi conforto alla prova […]. Piacevami di preferenza la lettura dei Salmi quali tanto sollevano la mente e parlano al cuore. E quando lessi in uno di quelli: – Farò conoscere la tua legge ai peccatori che non l’osservano, ed essi si convertiranno a Te, io, sospirai, lamentandomi che non mi fosse concessa una 140 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA sorte così invidiata – Che gran ventura sembravami quella di ricondurre a Dio un’anima lontana da Lui. 1 Il confessore, vinto dalle tante insistenze della nobildonna, le consente di compiere qualche visita segreta, all’insaputa del consorte. «Pochi piaceri ho provato nella mia vita che mi dessero una consolazione così piena come quella licenza» 2. In seguito Tancredi e i familiari, presa consapevolezza della gioia che Juliette provava nel servire le detenute e del fatto che la sua salute non ne subisse detrimento, non si opposero più, anzi Tancredi fu suo valido aiuto e sostegno. Un anno dopo la pubblicazione delle Lettere a Silvio Pellico, Giovanni Lanza decise di tradurre dal francese in italiano e di dare alle stampe le Memorie della Marchesa riguardanti la storia dell’opera da lei intrapresa per le detenute delle carceri di Torino, accompagnate da Appunti e pensieri di viaggio. Il volume ha infatti per titolo Memorie, appunti e pensieri e venne edito a Torino da Giulio Speirani nel 1887. Qui viene descritto tutto il suo lavoro speso a favore delle carcerate e per riformare le carceri. Nella relazione che monsignor Iacopo Bernardi tenne all’Istituto Veneto per il III° Congresso Internazionale Carcerario, che si svolse a Roma nel 1884, non dimenticò di porre Giulia Colbert Falletti di Barolo accanto alle figure di Elisabetta Fry e di Marie Gibbert, celebri in Inghilterra e in Francia per il loro impegno in favore delle carcerate. Da sempre Juliette era interessata alla detenzione e quella «antica curiosità», la portava ad osservare il carcere come «un ospedale di anime» 3, curiosità, che era un misto di pietà e di terrore, divenne vocazione la domenica in Albis, l’ottavo giorno dopo Pasqua, del 1814: NELLE CARCERI 141 M’abbattei nell’accompagnamento del Viatico, che veniva portato dalla Parrocchia di Sant’Agostino agli ammalati, i quali non ponno andare in chiesa a far divozioni. Io m’inginocchiai. Or mentre risonavan i devoti cantici, sentissi una voce rauca e scordata gridare: – Non il viatico vorrei, ma la zuppa. – Quella bestemmia ed il tono di voce con cui era proferita, mi fecero trasalire. Alzai gli occhi al luogo donde era partita, e vidi le sbarre nere e arrugginite delle carceri senatoriali. 4 Entrò in quel carcere, visitando sia la sezione maschile, che quella femminile e rimase sconvolta. Parevami che la punizione non fosse loro inflitta, e regolata in modo da produrre il miglior effetto, che essa non fosse appieno secondo le norme della giustizia di Dio […] Non basta castigare chi ha fatto il male, levandogli la possibilità di poter nuocere altrui. Bisogna di apprendergli di fare il bene. E quando la giustizia ha riposto nel fodero la sua spada, devesi lasciar campo alla carità di spiegare il suo ministero emendativo. Nei giovani miei anni io visitai parecchie prigioni, m’informai delle discipline vigenti in altre molte: devo dirlo con dolore, poco o punto trovai che rispondesse al mio desiderio […]. Per l’età e per non conoscere a fondo il male, io aveva fatto nulla per le prigioni; trascorsero anzi parecchi anni, prima che potessi misurare appieno la profondità della piaga. 5 Il suo intento è quello di riconciliare le prigioniere con se stesse e con Dio. Comprende che la punizione non è inflitta in modo da produrre un sano recupero della persona: le carceri, così come sono, non servono né a punire giustamente, né a redimere. Esse sono atte a corrompere ancor più. Edifici malsani e maleodoranti, ozio, abbandono, malattia, alcoli- 142 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA smo, durezza, complicità e corruzione degli stessi carcerieri malpagati, favoriscono il malcostume e la deviazione delle detenute. So di molte prigioni, in cui sono in vigore i regolamenti più severi, dove i medesimi vengono applicati più severamente ancora, ma l’unico risultato che se n’ottiene è di aggiungere nuovi tormenti ai tormentati […]. Costringere a forzata regolarità d’operare un essere depravato, abituato, anzi rotto al vizio, accostumato a tutte funeste sue emozioni, è un metterlo a nuova tortura. Bisogna prima fargli amare l’ordine, fargliene sentire, quanto egli sia guasto e depravato, la necessità, la dolcezza: ed allora è convertito da quello che era. 6 Fra il Settecento e l’Ottocento negli Stati Uniti prevaleva il metodo dell’isolamento, mentre in Europa i prigionieri vivevano in comune. Nel Regno Sardo la situazione era pessima: «Non era stato avviato un progetto organico di miglioramento della condizione dei detenuti, che era disastrosa: stipati in carceri malsane, nella più totale incuria, erano preda del malcostume che vi regnava sovrano, insieme alle malattie e all’alcolismo, grazie anche alla complicità dei secondini mal pagati che accettavano compensi in denaro per “chiudere un occhio” sulle irregolarità» 7. Per accedere nelle carceri Juliette aderisce alla Confraternita della Misericordia. Nel XIX secolo il Consiglio di questo Istituto è formato da personalità di rilievo: senatori, intendenti, notabili, militari. Negli anni 1823-1824 troviamo Tancredi, mentre Juliette sarà governatrice delle consorelle dal 1822 al 1825 e ancora dal 1829 al 1851. Nel governo dell’Associazione maschile, fra il 1837 e il 1849 opera il Marchese Cesare Alfieri di Sostegno. San Giuseppe Cafasso, dal 1842 NELLE CARCERI 143 iscritto all’Arciconfraternita, il 28 dicembre 1859 viene eletto confortatore. Fra Juliette Colbert ed Elisabeth Fry, riformatrice delle carceri londinesi di Newgate, si stabilisce un proficuo contatto epistolare. La pietà tutta cristiana di Juliette è magnifica: «Ah, che l’orrore per la colpa non ci faccia trattare mai con disprezzo il colpevole! Finché gli resta un istante da potersi pentire, il suo destino può essere così bello» 8. Quando, quella domenica in Albis, entrò nelle Senatorie e si trovò di fronte al reparto femminile osservò che mentre gli uomini avevano manifestato un certo contegno e rispetto al suo arrivo, le donne non si vergognavano dei loro pochi stracci addosso, inoltre gridavano. Dunque quelle infelici ed io eravamo membri d’una stessa famiglia, figlie dello stesso Padre, piante per lo stesso celeste giardino! Esse avevano avuto pure un’età d’innocenza! Erano chiamate pure all’eredità degli eletti! Come dunque, Dio mio! Mi sovviene che strinsi le mani sul petto esclamando con queste parole. Mi cadde in quell’atto il denaro che avevo in mano; e, come cani affamati, le sciagurate si avventarono a chi prima afferrasse le monete che probabilmente non avrebbero servito se non a dar loro modi di comprarsi liquori forti, i quali turbando la ragione, loro avrebbero fatto commettere una colpa di più, e dimenticare per un’ora le già commesse, e le tremende loro conseguenze. 9 Ecco che Juliette partecipa alle sofferenze delle carcerate e fa di tutto per stare con loro, per educarle, per sostenerle, per salvarle. Grazie alle mance passate ai secondini riuscì, a dispetto del Regolamento penitenziario, a stare da sola con loro: «S’aprirono dunque le porte di ferro e poco dopo le sentii 144 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA serrarsi alle mie spalle. Quello stridore che anni prima avevami fatto tanto spavento, mi recò contentezza. Ringraziai Dio nel mio cuore, e mi stabilii in mezzo a quelle povere donne» 10. Fu l’inizio di un lungo ed efficace percorso. Juliette divenne insegnante delle analfabete, catechista e maestra di vita. Dapprima non fu facile: veniva oltraggiata, beffeggiata, insultata dalle carcerate e dai secondini le erano ostili. Usò una pazienza infinita, che, soprattutto all’inizio, fu eroica: parlava piano per ottenere il silenzio e la calma; si occupò innanzitutto delle detenute malate; divenne confidente di queste sventurate e così facendo riuscì a conquistarle a sé: Sentivo che dovevo donare me stessa alle infelici detenute, non assumendo un contegno severo, ma come persona che compativa le loro sofferenze e desiderava aiutarle. Iniziai col provvedere loro qualche indumento, e con il prendermi cura, su loro richiesta, dei loro cari abbandonati fuori dal carcere. Poi iniziai a parlare loro della religione, che sempre dicevo essere fonte di consolazione per il presente, e di felicità per il futuro. 11 Nei momenti difficili e critici ella ripeteva fra sé le parole di san Paolo: «Io tutto posso in Colui che mi conforta» 12. Dopo cinque mesi di intenso lavoro rieducativo nella prigione del Senato, la Marchesa fu invitata dalle detenute del carcere Correzionale e anche qui applicò lo stesso metodo, così anche queste detenute impararono a sentirsi amate. Il terzo carcere di Torino erano le Torri, riservato alle donne arrestate per piccoli reati: gli ambienti erano peggiori di quelli delle carceri precedenti a motivo della completa oscurità che impediva addirittura l’istruzione. L’operato di Juliette non poteva arrestarsi: visti i risultati positivi ottenuti, le fu possibile coinvolgere il Governo nel NELLE CARCERI 145 suo progetto, diventando quindi l’ideatrice e la promotrice della riforma degli istituti di pena. Il 10 gennaio 1821 indirizzò al Primo Segretario di Stato per gli Interni, il Conte Prospero Balbo, una relazione nella quale presentava sia l’orribile panorama della situazione presente, sia una serie di proposte per migliorare la situazione. Propose innanzitutto la netta separazione degli uomini dalle donne, con la costruzione di un carcere solo femminile, la cui custodia doveva essere affidata a solo personale femminile. Inoltre: la divisione delle prigioniere in tre categorie, ovvero accusate, condannate e recluse di passaggio; iniziative governative per procurare lavoro alle detenute; destinare alle recluse i primi prodotti del loro lavoro affinché si incoraggiassero nel difficile passaggio da una vita oziosa ad una vita attiva; depositare una parte del loro guadagno perché fosse poi consegnata alle detenute al momento della loro uscita dalla prigione; miglioramento dell’alimentazione e della biancheria in dotazione; assegnazione di un cappellano per ogni carcere. Le proposte furono accolte. I moti rivoluzionari del 1821 crearono molta preoccupazione. Parecchie persone consigliarono Juliette di andarsene perché era pericoloso per la sua incolumità, ma lei, nonostante avesse conosciuto il significato e le conseguenze della Rivoluzione, rimase senza tentennamento alcuno con la sua famiglia a Torino. Una mattina, mentre Juliette si trovava fra le sue detenute, giunsero dalle strada le grida «Viva la Costituzione», ciò venne interpretato dalle donne come un annuncio della loro liberazione. Tutti i carcerati si misero ad urlare, battendo contro le inferriate. Tuttavia la Marchesa si inginocchiò e disse: «Preghiamo perché Dio ci protegga, perché temo che ciò non si risolva senza crimine». Le prigioniere allora le si avvicinarono, assicurandola che l’avrebbero di- 146 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA fesa: «Dunque se mi volete bene, fate che ci trovino qui insieme pregando. Datemi la parola che non mi lascerete, quand’anche v’aprissero le porte; per mia parte vi prometto che farò ogni impegno per ottenere la grazia a molte di voi, se mi date questa prova di sottomissione». Pochi giorni prima Juliette era riuscita a far spostare una povera anziana, altrimenti l’umidità degli ambienti l’avrebbe resa cieca, questo fatto diede fiducia alle detenute, che le promisero di restare. Due giorni dopo, infatti, quando all’esterno si sentì nuovamente il frastuono dei rivoltosi esse esclamarono: «Gridino finché vogliono, noi abbiamo promesso di restare qui, e ci resteremo» 13. I moti durarono 30 giorni, dopodiché il governatore di Torino informò la Marchesa che si stava preparando il trasferimento delle carcerate in una nuova prigione, quella delle Forzate. «Il sommo zelo e la conosciuta di Lei beneficenza verso quelle infelici, troveranno ora un più vasto campo, ed Ella avrà nell’esercizio delle Sue virtù istesse la più dolce riconoscenza» 14. Aveva 35 anni quando fu nominata Sovrintendente del carcere delle Forzate: un edificio più arioso, sano e con un cortile luminoso. Juliette fece sistemare ed abbellire a sue spese l’edificio e qui decise di portare tutte le detenute del Senato, del Correzionale e delle Torri. Le carcerate, però, si dimostrarono restie a lasciare i luoghi di detenzione perché si vergognavano a raggiungere a piedi la nuova destinazione, poiché temevano il pubblico ludibrio, allora, con atto veramente materno, Juliette mise a loro disposizione le carrozze di Palazzo Barolo. E nessuno osò vessarle. Nella nuova prigione le giornate trascorrevano serenamente nella preghiera, nel lavoro, nell’istruzione e nella ricreazione, usufruendo del cortile. Le detenute erano divise NELLE CARCERI 147 fra quelle in attesa di giudizio e le condannate. Nel carcere c’era la cappella, l’infermeria, la lavanderia: «È piccolo, ma più spazioso e salubre di quello precedente», scrive l’infaticabile Juliette ad Elisabeth Fry, «Spero, nel corso dell’estate, di dotarlo di un bagno, costruito in modo che la stessa fornace che scalda l’acqua possa essere impiegata per la sterilizzazione dei capi di abbigliamento che non possono essere lavati. La razione di cibo è la stessa che c’era nella vecchia prigione: una scodella di minestra e venti once di pane. Garantiamo che sia di buona qualità, e le donne possono, con i proventi del loro lavoro, procurarsene una maggiore quantità. C’è un cortile dove alle detenute è consentito fare una passeggiata, accompagnate da una delle dame visitatrici. Per quanto è stato possibile le abbiamo “classificate” e diviso le condannate da quelle in attesa di giudizio. Nel vecchio carcere era inutile raccomandare loro di tenere i vestiti puliti in quanto esse, avendo per letto soltanto un sacco di paglia e nessuna coperta, non si toglievano mai i vestiti di dosso. A questo ora si è posto rimedio, e un fondo di beneficenza, gestito da alcune signore, fornisce molti indumenti, e allo stesso tempo costituisce uno stimolo all’industriosità delle detenute, in quanto non li fornisce tutti. Hanno pertanto richiesto di ricevere in prigione due terzi, invece che metà, dei loro guadagni». 15 Juliette propose alle detenute trasferite nel carcere delle Forzate di redigere un regolamento. Esso fu discusso con le prigioniere, approvato articolo per articolo e affisso nelle celle 16. Coloro che avevano imparato a leggere perfezionavano lo studio del catechismo aiutandosi fra loro compagne. L’opera caritativa e riformativa delle detenute era stata avviata con grande successo, ora occorreva dare stabilità ad 148 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA istruzione, formazione e lavoro: occorrevano le suore. Nel 1825 la Marchesa presentò al Governo un Projet pour l’amélioration et la conservation de quelques oeuvres de charité, in cui proponeva che alcune Suore di San Giuseppe si occupassero dell’istruzione delle carcerate, della distribuzione del lavoro e dell’assistenza alle inferme, recandosi quotidianamente dalle Forzate, dove sarebbe rimasta una Dama come direttrice. Nel 1836 espresse alle autorità civili il desiderio che le Suore di San Giuseppe risiedessero stabilmente nel carcere. Tancredi di Barolo condivideva e approvava tutti i progetti di Juliette, tanto che, insieme e a proprie spese, fecero edificare la porzione edilizia necessaria alla residenza delle religiose; nel gennaio del 1838 il Marchese indirizzò una lettera al Conte di Pralormo, dove illustrava i vantaggi che sarebbero derivati dalla presenza fissa delle suore in prigione, precisando che tale iniziativa era motivata anche «per l’obbligo che la salute sempre più cagionevole di mia moglie mi impone di non più lasciarla dedicarsi colla stessa assiduità che per lo passato alla giornaliera direzione di quelle carceri» 17. I Marchesi diedero un contributo annuo di duemila lire per quattro suore di San Giuseppe. Anche dopo l’insediamento delle religiose alle Forzate, Juliette continuò ad occuparsi delle detenute, interessandosi di loro anche presso le istituzioni. Alfabetizzazione e lavoro erano per Juliette conseguenza della libertà portata da Gesù Cristo: con la Fede, liberatrice della persona, avviene la scoperta del bene, dell’amore autentico e della bellezza. Diceva: Mie figlie quando vi metteste a studiare la prima volta voi eravate ignoranti della religione, e poteva eccitarvi ad essa la spe- NELLE CARCERI 149 ranza del premio, che in qualche modo vi compensasse del tempo, che aveste potuto impiegare a lavorare per voi. Ma ora siete ammaestrate nelle grandi verità, che devono condurvi alla salute, ne comprendete l’importanza. Crederei quindi di farvi torto ripagando la vostra occupazione con un donuccio di cosa passeggera mentre il buon impegno vi merita da Dio una ricompensa eterna. 18 Dopo il catechismo si studiavano i Vangeli e le Epistole. Ognuna aveva un proprio messale. Parlando del nuovo carcere Silvio Pellico dichiara: «Quel luogo di punizione così cristianamente ordinato acquistò l’aspetto d’un savio e dolce monastero, piuttosto che d’una prigione» 19. Scontata la pena uscivano dal carcere sapendo svolgere un mestiere e portavano con sé una somma di danaro. Andavano a fare le domestiche, le lavandaie, le sarte… e se non trovavano una famiglia pronta ad accoglierle, Juliette non le abbandonava. C’era il Rifugio, che le poteva ospitare e che era stato creato per accogliere chi era caduta nella prostituzione o rischiava di cadervi. Durante i suoi soggiorni a Parigi, Juliette aveva avuto modo di conoscere l’opera dell’abate Légris-Duval, che aveva fondato, con la collaborazione di alcune signore, una casa per il ricovero di giovani della malavita. Simile opera ella fondò a Torino. In molti casi era bensì riuscita colla sua prudenza e carità a rompere legami colpevoli, a riconciliare le ree colla famiglia, a richiamare sul sentiero dell’onestà le sviate. Ma dovette poi persuadersi che per guarire quelle anime sì profondamente inferme volevasi un’aria più pura, un tenor di vita più regolare che non quella del mondo, e che prima di rientrare fra le difficoltà 150 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA e i pericoli del vivere comune avevano d’uopo di ritemprarsi colla riflessione, colla preghiera, col lavoro, nel raccoglimento del ritiro. Sorse pertanto in lei il desiderio d’istituire una casa di rifugio per le femmine pentite, ove potessero emendare le loro colpe e rendersi accettevoli a Dio e alla società. 20 Fu così che nel settembre del 1822 la Marchesa presentò al conte Roget de Cholex, Primo Segretario di Stato per gli Interni, la proposta di istituire una casa per «donne pentite». Molte di loro avevano iniziato la «carriera del vizio» già a 12 anni perché i genitori le avevano cacciate di casa e non avevano insegnato loro alcun mestiere. Il Rifugio era una casa di lavoro, sorvegliata da religiose e gestita dalla carità e quando si entrava si doveva firmare una dichiarazione nella quale si affermava di voler correggere i propri vizi e difetti. Il Marchese era sempre presente: «D’accordo con la pia consorte Giulietta Colbert di Maulévrier aveva fondato la casa del Rifugio, un ritiro cioè di giovani, che, dopo aver menato una vita disonesta, volessero, ravvedute, tornare a buon costumi. Di questo filantropico Istituto egli aveva ottenuto l’erezione con R.D. 7 marzo 1822, ed aveva pure ottenuto che il Governo concorresse a mantenerlo con un assegno annuo di £. 33.000» 21. Il Segretario di Stato per gli Interni comunicò alla Marchesa l’approvazione del progetto da parte del Re e la sua intenzione a contribuire alle spese. La casa, posta in zona Valdocco – oggi Via Cottolengo –, fu acquistata dal governo. Fu opera della marchesa Juliette e «del di lei Consorte la scelta del locale e la trattativa a buon termine condotta col Sig.r Gio. Batt.a Filippi per l’acquisto della casa e siti da questo posseduti nella regione di Valdocco che destinavasi a tale utile stabilimen- NELLE CARCERI 151 to […]. Ma al certo non bastava per ottenere compitamente detto scopo l’acquisto del locale: bisognava adattarlo all’uso […], fornirlo delli necessari arredi e mobili e provvedere lo stabilimento delle indispensabili persone di servizio non che l’alloggio per le medesime. A queste spese si accinsero li coniugi Falletti di Barolo, impiegandovi, oltre le loro cure, il proprio denaro in somma eccedente le lire 28/m». 22 Nella proposta al Primo Segretario di Stato, Juliette suggeriva anche di aprire un laboratorio per la filatura del cotone, della canapa e del lino con cui produrre tele che il Governo avrebbe potuto acquistare per l’Esercito e la Marina. Tutto venne favorevolmente approvato sia dal Governo che dal sovrano. L’Istituzione ricevette le regie patenti di fondazione il 7 marzo 1823 e venne denominata Rifugio, perché posta sotto la protezione di Maria SS.ma Refugium peccatorum. Il luogo fu scelto in memoria del sacrificio dei Santi martiri della Legione Tebea, sia per la carità che qui aveva profuso il beato oratoriano Sebastiano Valfré. La direzione fu affidata alle Suore di San Giuseppe. Le ospiti del Rifugio si moltiplicarono in breve tempo e fu reso necessario l’ingrandimento dell’edificio, la costruzione di una Chiesa e l’assunzione di altro personale. Tali realizzazioni che furono rese possibili grazie agli interventi finanziari dei Marchesi di Barolo: Sebbene grandiosa si presentasse questa nuova spesa per cui in que’ tempi protestavansi insufficienti li fondi del Ministero degli Interni, spinti li coniugi di Barolo dalla necessità di tali nuo- 152 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA ve opere e costruzioni vi posero mano coi loro fondi; onde non lasciar deperire sì utile istituto da essi ideato. 23 Nella conclusione del secondo Volume di Ammonimenti, istruzioni ed esortazioni della piissima Marchesa di Barolo, si narra che la giovane Marchesa, spinta a compiere le grandi opere che poi fece, non poteva ottenere subito dal marito quegli aiuti pecuniari di cui aveva bisogno, essendo egli fortemente impegnato in tante altre opere. Perciò la buona Marchesa cominciò le opere sue in piccola miniatura colla scorta del suo spillatico, così ci narrava in seguito Ella stessa. Ma crescendo con rapido corso e benedetto da Dio l’operato della giovane Marchesa lo spillatico più non bastava alle spese di mantenimento e di fabbricazione, ed era costretta a rivolgersi con fiduciosa preghiera al Marchese il quale intanto erasi rifatto dai sostenuti impegni e di buon grado cominciò a farsi compagno nelle opere della Sposa, cioè per la fabbrica del primo Monastero, poi della prima Chiesa e via, via. 24 Fu costruita anche una nuova ala destinata alle ragazze in difficoltà e di età inferiore ai 15 anni, la casa fu chiamata Rifugino. Una nota stilata da Tancredi, scritta mentre sorgeva il nuovo edificio, presenta un quadro completo dell’opera, che nel 1831 ospitava 50 giovani con la prospettiva di portarne il numero a 120 dopo la costruzione 25. Le giovani ospiti potevano lasciare il Rifugio una volta istruite e con un mestiere acquisito. Come Juliette e Tancredi osservavano attentamente tutte le iniziative che si distinguevano positivamente nel panorama assistenziale per trarre ammaestramento per la carità da loro promossa, così osservavano da vicino Congregazioni ed NELLE CARCERI 153 Ordini perché era nei loro disegni creare nuove realtà religiose affinché fossero esse stesse a prendersi cura dei loro istituti educativi e formativi. Caso davvero eccezionale che dei laici si siano adoperati ad erigere case religiose. La Marchesa successivamente, avrebbe anche concepito in cuore il desiderio di dare vita ad una Congregazione di sacerdoti, ma tale progetto non si realizzò. Nel 1829 Juliette aveva già chiesto ed ottenuto dal Papa uno speciale permesso per entrare nei monasteri di clausura 26, al fine di prendere da essi ispirazione. Un giorno del 1831 alcune ospiti del Rifugio manifestarono il desiderio di consacrarsi totalmente al Signore. A Napoli, nel gennaio del 1834, visitò alcuni monasteri per raccogliere «insegnamenti che mi tornassero utili per una delle case a cui ho rivolto in modo speciale le mie cure in Torino. E parmi che qualche partito trarrò dalle molte cose che mi sono appuntate nelle visite» 27. A spese dei Barolo venne fabbricata, in contiguità con la casa del Rifugio, la casa delle «Sorelle Penitenti di S. Maria Maddalena». Le prime quattro postulanti entrarono in clausura il 14 settembre del 1833, festa dell’esaltazione della Santa Croce. Ciascuna aveva con sé l’Imitazione di Cristo, da seguire inizialmente come regola di vita. «Queste suore, che provenivano dal carcere e da ambienti poveri o a rischio, erano chiamate a vivere insieme una vita di preghiera e di penitenza, con lo scopo di riparare i propri e altrui peccati e di impetrare su tutti la divina misericordia, e a educare a loro volta ragazze abbandonate o in difficoltà» 28. Il Marchese di Barolo intervenne in prima persona nella costruzione del monastero: Dimentico di sua grandezza e nobiltà si era costituito architetto ed assistente; per non dire capomastro delle fabbriche volute 154 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA dalla carità della Marchesa; lo abbiamo veduto in abito da camera in compagnia dei muratori con in mano il martello lavorare con essi… si alzava per tempissimo al mattino, andava in persona a svegliare i lavoratori e li conduceva in posto al travaglio, regalandoli o di qualche liquore stimolante e facendosi spesso compagno nel loro lavoro. 29 Ascoltiamo il racconto di una Suora appartenente alla congregazione fondata da Giulia: Un giorno… [Juliette] conduce, caso straordinario, il Marchese in noviziato e là le Postulanti si misero in ginocchio davanti alla Marchesa chiedendo l’abito. Il Marchese domandò il favore alla nostra madre Fondatrice di poter assistere alla funzione; ed ella prontamente: Sì, disse, purché mi dia pietre e calcina per fabbricare il monastero che occorre. Detto, fatto. Era il giugno 1837. Il Marchese mise tosto mano all’opera. 30 Non c’era tempo di dormire, bisognava lavorare, diceva, in «tempissimo» per gli uomini e per la gloria di Dio. Si fece architetto per sovraintendere l’équipe con maggior competenza. Tancredi Falletti di Barolo non provava umiliazione nello stare insieme, fianco a fianco dei manovali, lavorando con loro, così come Juliette non provava alcuna umiliazione nel trovarsi con le prostitute, le ladre, le reiette. La Marchesa, per incrementare le opere da Dio ispirate, in momenti di necessità usò anche il denaro della sua dote, come risulta da una lettera scritta al re Carlo Alberto 31. Dal settembre 1845 al maggio 1846 Juliette si reca a Roma per ottenere l’approvazione degli Istituti e delle Costituzioni NELLE CARCERI 155 delle Sorelle Penitenti di Santa Maria Maddalena e delle Suore di Sant’Anna. Lo spirito delle Suore di santa Maria Maddalena doveva essere di umiltà, di raccoglimento, di penitenza, di zelo per la conversione dei peccatori. Parola ispiratrice era il testo del Vangelo di Giovanni narrante l’incontro di Gesù con Maria Maddalena. Da qui, alcuni aspetti basilari: Riconoscere Gesù come Signore e maestro della vita, come sorgente e fine di tutte le azioni: Maria Maddalena lo riconobbe, ed esclamò Rabbunì! cioè mio Signore che vuol dire mio padrone! «Riflettete, mie care, che a voi pure il generosissimo Gesù […] vi chiamò particolarmente per nome, e allora lo avete riconosciuto e gli avete detto Rabboni! cioè voi siete il mio Padrone, voi sarete il solo Padrone di tutta me, del corpo, dell’anima, dei pensieri, degli affetti; io non riconosco altro Padrone che voi!» 32. Come Gesù ha inviato Maria di Magdala ad annunciare la sua risurrezione, Giulia scrive alle sue Suore: «Care figlie […] andate a dire alle vostre sorelle […] quanto è buono il Dio di misericordia, quanti aiuti avete ricevuti dalla sua Madre Maria SS.ma che si degna di essere anche la nostra […]. Ditele per esperienza che la vita penitente porta con sé la pace dell’anima, ed una speranza sì grande del paradiso, che il cuore pieno di santa allegrezza ha sete della mortificazione che purifica l’anima, e la rende meno indegna dell’unione col suo Dio» 33. Le loro prime Costituzioni trassero ispirazione dalla regola di Sant’Agostino. Guida del neonato Istituto furono le Suore di San Giuseppe nella persona di Madre Scolastica Falco (1807-1838) prima e di Madre Clemenza Bouchet (1801-1861) poi. Nel 1847 venne eletta la prima Madre scelta fra le Suore di Santa Maria Maddalena, Suor Giulia Gerbi. 156 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Il 6 marzo 1846 Papa Gregorio XVI approverà le Costituzioni. Da allora si aprirono diverse Case anche fuori dai confini piemontesi. Scriveva il Vescovo di Cremona alla Superiora del monastero di Torino: «La fama dello spirito di sacrificio, e delle fatiche intorno alle giovani discepole, non sta nei cancelli del chiostro, ma suona anche fuori della città» 34, infatti: «In seguito al buon odore di virtù che si sparse, ed il buon andamento di quella casa di Cremona, ci vennero fatte varie domande per invio di Maddalene» 35. Da Torino, il 23 marzo 1854, partirono cinque suore di Santa Maria Maddalena per la nuova fondazione di Cremona. Fu poi la volta di Piacenza (1869), Vercelli (1869), Crema (1871), Vigevano (1879). Nel primo cinquantennio di vita, la comunità di Piacenza svolse il suo apostolato di redenzione femminile, seguendo le Costituzioni delle Sorelle Penitenti di Santa Maria Maddalena; in seguito emerse l’esigenza di allargare l’attività alla formazione dei bambini, delle giovani e ad altre categorie di bisognosi. Si giunse alla formulazione di nuove Costituzioni che furono approvate dal Vescovo di Piacenza, Monsignor Giovanni Maria Pellizzari (1851-1920). Fu così che l’Istituto divenne di diritto diocesano e si rese autonomo dalla Casa Madre di Torino, pur conservandone lo spirito e l’abito; si stabilì che potevano essere ammesse non solo «penitenti», ma anche persone che «abbiano in tutta la loro vita, anche secolare, dato esempio di soda virtù» 36. Le monache rimasero soggette alla clausura vescovile, ma furono avviate a diverse opere caritative. La riforma fu segnata anche dal cambio di denominazione: da Suore di Santa Maria Maddalena» a «Suore del Buon Pastore». Quando la Santa Sede, con decreto del 27 agosto 1947 mutò l’Istituto in Congregazione religiosa di diritto pontificio, furono nuovamente modificate le Costituzioni, che vennero approvate il 2 febbraio 1948. In NELLE CARCERI 157 seguito le comunità di Cremona, Vercelli, Vigevano e Torino, fra il 1965 e il 1973, si unirono alla Congregazione di Piacenza, costituendo un’unica famiglia religiosa, che nel 1979 assunse il titolo di «Figlie di Gesù Buon Pastore». Fin dall’inizio, accanto alle suore, vivevano otto ragazze in difficoltà, le quali ricevevano una formazione umana e cristiana in un clima di affetto e comprensione. Per ospitarle Juliette fece costruire un edificio adiacente al monastero e il 22 luglio 1843, festa di santa Maria Maddalena, furono accolte altre giovani. Nacque così l’opera delle «Maddalenine». Con il tempo crebbero di numero e venivano mantenute gratuitamente con l’attività delle suore, le quali si guadagnavano da vivere con lavori di cucito e ricamo, con la composizione di fiori finti e la preparazione di medicine erboristiche nella loro spezieria, nonché con le generose offerte di Juliette. Ella manifestava una grande tenerezza sia per le Maddalene che per le Maddalenine e lo faceva con un’abitudine singolare: alle sue figlie faceva una carezza, talvolta prendendo la testa fra le sue mani e diceva: «Il Signore ti benedica e ti faccia sana e santa». È rimasto il vasto epistolario a testimoniare di quale amore fosse capace la sua sollecitudine: «Penso a te così spesso, prego per te così spesso e scrivo a te così spesso, che non potrei credere di farti la minima pena non scrivendoti una parolina»; «ci amiamo, mie care figlie, sì ci amiamo nel Signore teneramente». Ricordava sempre il giorno onomastico di ciascuna con una visita o uno scritto: «Sei proprio una vera birbetta, hai trovato il modo di avere due feste, una sì è celebrata a Cremona il 2 e ieri era la tua festa a Torino, e ti ho fatto un bel regalo: Don Ponte ha detto la Messa per te; quello che val meno sono le preghiere che ho fatto io, sei però sicura che questo poco non ti manca in nessun giorno dell’anno, è un pezzettino di pane quotidiano» 37. 158 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., pp. 5-6; cfr. anche C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re, la straordinaria vita della Marchesa di Barolo, Gribaudo Editore, Cavallermaggiore 1992, p. 173. 2 Ivi, p. 6; cfr. anche C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re cit., p. 174. 3 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 475. 4 Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., pp. 2-3. 5 Ivi, p. 2. 6 Ivi, pp. 1-2. Cfr. anche C. Siccardi, Giulia dei poveri e dei re cit., p. 158. 7 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 189. 8 Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., p. 49. 9 Ivi, p. 5. 10 Ivi, p. 8. 11 Marchesa Giulia di Barolo, Lettera ad Elisabeth Fry, in M. Wrench, Visits to female prisons at home and abroad, London 1852, p. 229; cfr. Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., pp. 196-197. 12 Fil 4,13. 13 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 202. 14 Conte Roget de Cholex, Primo Segretario di Stato per gli Interni, Lettera alla Marchesa Giulia di Barolo, Torino, 30 ottobre 1821, Archivio Patrimoniale Marchesi di Barolo, m. 31, n. 16. 15 Lettera della Marchesa Giulia di Barolo a Elisabeth Fry, 3 maggio 1821, in M. Wrench, Visits to female prisons cit., p. 233 e Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., pp. 203-204. 16 Cfr. Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., p. 31. 17 C.T. Falletti di Barolo, in Minutario, Archivio Storico dell’Opera Barolo. 18 Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., p. 24. 19 S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 47. 20 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 264. 21 P. Baricco, Gli asili d’infanzia, Bona, Torino 1884, p. 8. 22 Memoriale per conto della Serva di Dio al Primo Segretario di Stato per gli Interni sull’opera del Rifugio, AST. Opere Pie Torino, m. 223. 23 Cfr. ivi. 24 Ammonimenti, istruzioni ed esortazioni della piissima Marchesa di Barolo nata Colbert alle sue dilette Maddalene, Cremona, 1881, vol. II, pp. 196. 1 NELLE CARCERI 159 Cfr. C.T. Falletti di Barolo, in Minutario, Archivio Storico dell’Opera Barolo. 26 Lettera del Cardinale Giuseppe Albani (1750-1834), Segretario di Stato di Sua Santità, al Marchese Niccolò Crosa di Vergagni (1794-1854). Incaricato d’Affari del Re di Sardegna presso la S. Sede, 19 giugno 1829, Archivio Storico Famiglia Barolo, mazzi di addizione, m. 25, n. 15. 27 G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere a Silvio Pellico nel viaggio per l’Italia, tradotte dal francese e pubblicate per la prima volta da Giovanni Lanza, Tip. Giulio Speirani e Figli, Torino 1886, pp. 54-55. 28 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 262. 29 P. Baricco, Gli asili d’infanzia, Bona, Torino 1884, p. 198. 30 Ammonimenti, istruzioni ed esortazioni della piissima Marchesa di Barolo nata Colbert alle sue dilette Maddalene, Cremona 1881, vol. II, pp. 196-199, s.a. 31 Cfr. Marchesa Giulia di Barolo, Lettera al re Carlo Alberto, La Vigna, 7 settembre 1840, AST. 32 Giulia Colbert Falletti di Barolo, Lettere alle Sorelle Penitenti di S. Maria Maddalena, vol. I, Roma 1986, p. 3. 33 Ivi, p. 100. 34 Ivi, p. 293. 35 Ivi. 36 Cfr. Regole e Costituzioni delle Suore del Buon Pastore, Quaracchi, Firenze 1914, art. 2, pp. 3-4. 37 G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere alle Sorelle Penitenti di S. Maria Maddalena, vol. I, pp. 154. 76. 77; vol. II, p. 143. 25 9 Matura già da giovane, giovane nella maturità Scrittore lui, scrittrice lei, anche questa passione condivisero. Molto ella scriveva: ché anch’essa, malgrado una vita attivissima, provava i suoi momenti di mestizia, le sue ore di sconforto; ed una delle sue consolazioni era quella di esprimere sulla carta i pensieri, gli affetti reconditi, come era suo uso versarli davanti al Consolatore d’ogni afflitto nella vita. 1 Vasto il repertorio dei generi letterari che Juliette Colbert affronta: racconto, novella, diario, relazioni su temi sociali e di interesse pubblico, meditazioni, preghiere, descrizioni e riflessioni epistolari: Preferiva nella sua giovinezza la forma della novella, del racconto, del romanzo: forma che tanto si presta alle anime fervide, immaginose ed ardenti a mostrare sotto il velo di persone immaginarie la realtà delle arcane lotte, delle angosce, dei palpiti, delle aspirazioni – le virtù, i vizi, le sventure che ne circondano – la mano amorosa ed invisibile che tutti ci guida, vogliosi o renitenti, talvolta inconscii, a far trionfare la verità e la giustizia. 2 162 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Predilige scrivere nella sua lingua madre, il francese, ma anche il consorte scrive molto in francese, la lingua colta del Regno Sardo. Scrive in minuta e poi fa ricopiare i testi in bella copia ai segretari. Lo scrivere era per Juliette una vera e propria vocazione, non ne poteva fare a meno, tuttavia anche le lettere e domande di richiesta, scritte per adempiere i suoi molteplici impegni e responsabilità, dimostrano, la sua abilità nella prosa. Scrisse diverse novelle, che, pubblicate anonime in francese, vennero tradotte in italiano, ed ebbero felice successo nell’una e nell’altra lingua. Non pochi altri scritti lasciò morendo, che per senso di rara modestia, ordinò che venissero distrutti. 3 Grazie al cappellano don Pietro Ponte qualcosa, però, si è riuscito a salvare dal fuoco. Don Ponte era rettore della chiesa di Sant’Anna di Torino, fu per molti anni direttore e confidente di Juliette e «visse in intimità domestica d’affetto […]. Egli, fatto depositario delle memorie più gentili della Marchesa di Barolo e del suo amico Silvio Pellico, le conservò colla religione dell’amicizia, ed ora ne dispose secondo la loro intenzione, a gloria di Dio ed a vantaggio dei poveri» 4. Gli scritti rimasti possono indicarci di quale capacità espressiva, di quale talento poliedrico, di quale intelligenza e profondità spirituale fosse dotata l’autrice. Dirà vent’anni dopo la scomparsa della sua assistita e amica lo stesso Don Ponte: «La Marchesa di Barolo ad una gran fede congiungeva felicissimo ingegno. Di sì gran donna possiedo alcuni manoscritti, che forse consegnerò alle stampe, perché essa, anche morta, possa continuare quel gran bene che fece durante tutta la sua vita» 5. Molte casse di carte e documenti della Marchesa vennero eliminate, ma ciò che è rimasto fa comunque comprendere la MATURA GIÀ DA GIOVANE, GIOVANE NELLA MATURITÀ 163 «perfetta corrispondenza della mente col cuore, per cui il pensiero traducesi in affetto, e chi legge si sente senza nessuno sforzo portato a più spirabil aere, dove tutto gli reca dolcezza perché tutto gli parla d’amore, a Dio e agli uomini» 6. Gli scritti salvati dalla distruzione si possono così raggruppare: – Diari e scritti letterari: Souvenir d’un voyage dans le Nord de l’Italie del 1815; le lettere a Silvio Pellico nel viaggio per l’Italia svolto fra il 1833 e il 1834; Raimondo il proscritto del 1825; Gaetano e la sua banda; Le pauvre de S.ta Croce; – Scritti relativi alle sue opere di carità: le Memorie sull’opera che svolse nelle carceri di Torino; Projet pour l’amélioration et la conservation de quelques œvres de charité; Disposizioni riguardanti l’opera delle Suore di S. Giuseppe nel carcere delle Forzate. – Scritti spirituali: Consacrazione a Gesù Bambino; Rinnovamento dei voti del Battesimo; Brevi istruzioni e meditazioni sopra la Via Crucis d’una Madre alle sue Figlie; Novena in onore di S. Maria Maddalena (1862); Divote suppliche alla nostra Santa Patrona Maria Maddalena (1862); Preghiera all’Angelo Custode (1863). Inoltre il suo epistolario è immenso, infatti mantenne una corrispondenza assidua con familiari, amici, Suore di Santa Maria Maddalena, Suore di Sant’Anna, con altre monache, conoscenti, politici, ecclesiastici e con i suoi segretari. La maggior parte della corrispondenza è andata bruciata o smarrita 7. Juliette ama, e il suo amore è puro ed intenso, trasparente e schietto. L’amore più grande e più forte è per Dio e sente fortemente che la vita terrena è davvero soltanto un esilio e la patria è lassù, con Lui. La preghiera, che fu il segreto della prodigiosa missione caritativa sua e di Tancredi, è oggetto di grande attenzione nei suoi scritti: «Bisogna pregare, e poi sempre pregare. La vita è una continua preghiera. Si variano 164 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA i modi e le parole, ma la preghiera è continua perché non è che l’unione dei nostri cuori con Dio» 8. C’è sempre un velo di malinconia negli scritti di Juliette, una malinconia dettata da un qualcosa che si attende, si desidera, un qualcosa di incompiuto, una brama di pienezza insoddisfatta e che l’autrice risolve nella speranza di una vita futura, dove angosce e dolori non avranno più dimora, ma tutto sarà immerso in Dio. Il cuor mio battea forte al pensiero di quel giorno senza tenebre, e senza notte, in cui ogni lacrima sarà cambiata in un raggio di gloria. Ah! stacchiamoci da questa misera terra, e non mettiamo il cuore nel poco bene, che per brevi momenti abbiamo da godere quaggiù. 9 Spesso utilizza il metro della similitudine per spiegare i suoi stati d’animo, per esempio: Per me la troppa luce mi offende. Quando il giorno è pieno, e tutto abbarbaglia nell’universo, m’immagino che a quello sfoggio di luce debba succedere una rivelazione… L’attendo. Ma inutile… Il giorno dà giù, muore la speranza, e più è stato il bagliore, più la mente mia si confonde ottenebrata. 10 Ma la sua consolazione è il Cielo e contemplandolo riprende a vivere per gli altri con slancio e ardore: Come sono da compiangere quegli infelici che vivono soli sulla terra, che non sentono d’essere, prosperi od afflitti, nelle braccia di Dio! Il mondo, per ampio che sia, non basta ai desideri, ai bisogni della loro anima. 11 MATURA GIÀ DA GIOVANE, GIOVANE NELLA MATURITÀ 165 La natura umana è imperfetta, a causa del peccato originale, essa è corrotta e limitata, ecco che non può esistere una comunicazione perfetta fra i cuori, ma con l’Onnipotente anche questo si risolve: nel solo Dio si ama veramente. Nelle splendide lettere che scrisse a Silvio Pellico nel viaggio che intraprese per l’Italia con Tancredi (Firenze, Roma, Napoli con tappe intermedie) e dove l’autrice fece un resoconto preciso e profondo di ciò che vide e assaporò non solo sensibilmente, ma anche con gli occhi dello spirito, troviamo la grande capacità introspettiva di Juliette e la sua inconfondibile tensione al trascendente e alla vita soprannaturale. Sono 45 epistole dove la protagonista, che sa di essere compresa dall’amico Pellico poiché ne conosce la finezza spirituale, si libra fra descrizioni artistiche e passi autobiografici contemplativi di raffinata bellezza. Il 22 novembre 1833 visita il convento di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi: davanti all’urna della santa, ella si commuove ascoltando il canto angelico delle monache, che le pare un’eco dell’armonia che risuona nei cieli per bocca dei beati, assisi ai piedi dell’Altissimo: «Io non avrei voluto mai partir più di là, ma restarvi fino al momento che la misericordia di Dio mi chiamasse ad unire la mia voce a quella dei celesti Comprensori» 12. C’è in Juliette un sentire mistico, per il quale, nonostante sia spesso immersa negli affanni delle incombenze caritative, ella partecipa quotidianamente alla Santa Messa e dedica tempo alla meditazione e alla preghiera: riesce così a ritagliarsi quello spazio intimo dell’anima, quello che le permette di affrontare e gestire tutto, a volte l’umanamente impossibile. Ella ha sempre avuto un umile cella interiore, che le ha permesso di rifugiarsi lì, con il suo Signore. 166 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA A Terracina commenta la caducità del potere terreno; vede «le rovine del palazzo di Teodorico, che dominò un giorno su tutto, e di cui ora non resta che il grandioso colonnato della base» 13. Mirabile la sua capacità di contemplare il creato e allo stesso tempo di trasmettere al lettore tale ineffabile sentire. Ora si trova a Napoli: Col capo in giro per l’orribile frastuono, col cuore trafitto allo spettacolo di tanta gente così avvilita voi lasciate i quartieri di via Toledo, per respirare un momento a Villa Reale, lungo il lido del mare. Qui ad un colpo d’occhio vi si spiega l’incantevole golfo di Napoli, colle sue colline smaglianti di luce, colle sue isole che sembrano ingrandirsi sotto gli occhi, circondate di nubi leggere e dorate. Che differenza tra il rumore imponente e maestoso del mare che scende all’anima e l’innalza fino a Dio e quello tumultuoso della moltitudine! Come bene in riva ad esso s’ammira l’onnipotenza di lui, che ha segnato il confine ai suoi flutti!… Io non so cessare di contemplare in ammirazione tanta bellezza di natura né vorrei che altri mi facesse esprimere l’ineffabile incanto che ne provo. Sentire tutta e godere entro di noi la sublime bellezza del creato, è come essere in compagnia di una persona amata, di cui si comprende, senza bisogno di parole, l’animo e il pensiero. 14 Sono pagine freschissime di una donna spiritualmente giovane pur nella profondità del pensiero: Juliette era così, matura già da giovane, giovane nella maturità. I Santi non hanno età, perché hanno l’età della loro anima, immersa in Dio, «Io Sono». Ha 47 anni e il suo spirito è smagliante: tutti i limiti della sua umanità sono affrontati con una Fede rocciosa che rende ogni debolezza, come può esserlo per lei la malinconia, un’occasione per immergersi ancor più nell’amore di Dio, come un bimbo fra le braccia della madre: MATURA GIÀ DA GIOVANE, GIOVANE NELLA MATURITÀ 167 «Egli ci accarezza a tal modo che una madre l’unico suo figlio bambino. Ma bambini siamo veramente noi, che ci lasciamo distrarre da altre cure, mentre solo nostro impegno dovrebbe essere quello di corrispondere a tanta bontà di Dio, e renderci ogni giorno più degni de’ riguardi suoi amorosi. Ben si scorge che siamo impastati di polvere! Basta un soffio a conturbarci, a portarci lontani da questo Centro, a cui dovrebbe essere rivolto sempre il desiderio, se pur ci cale del nostro bene» e quindi «Non ci sgomentiamo tuttavia di tanta leggerezza. Quegli che ci ha creati conosce la nostra miseria, e fa più grandi in proporzione di essa le misericordie sue con noi». 15 Il primo gennaio 1834 Juliette è sola a Napoli perché Tancredi è dovuto andare in Sicilia per sei giorni. Pensa ai suoi cari e si sente triste, il suo ristoro è la chiesa, dove trascorre molte ore del giorno per stare alla presenza del «Dio vivente» 16. A Roma, nella basilica di San Pietro, dove i Marchesi assistono ad una Santa Messa di suffragio di Papa Leone XII e pregano per il regnante Gregorio XVI, ha l’occasione per riflettere sulla ragione e sulla Fede: Notai che in quell’oceano di luce del sole poca cosa erano le cento lampade di bronzo dorato che circondano l’altare della Confessione. Esse mi fecero pensare alla pochezza della nostra ragione messa a confronto coi lumi superiori della grazia, la quale, quando entra in noi, quante imperfezioni non ci fa scorgere! Come il fascio dei raggi del sole penetranti dalle sopraddette finestre faceva vedere tanta polvere nel vasto tempio da offuscare lo splendore dei marmi onde smagliano i larghi quadri a mosaico. È stata un’idea felice quella di volere, con tali grandi mosaici, dar campo di spiegarsi al genio, ed insieme perennarlo in omaggio alla Divinità. 17 168 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Sempre a Roma si sofferma sul fatto che anche i più grandi artisti hanno avuto difficoltà nel rappresentare il «Dio di misericordia» e si dà una spiegazione: il Signore della misericordia non parla solamente ai sensi e alla ragione, ma al cuore: Il Dio dei cristiani si indirizza al cuore, la più grande delle nostre facoltà, quella a cui nulla vale a contentare appieno quaggiù: però la carità di un Dio che per amore s’umilia a farsi uomo, non si potrà esprimere mai dal genio di nessun artista… Se non mi mancasse il tempo riuscirei forse a svolgere meglio questo pensiero, sebbene con voi non è bisogno. 18 Di fronte all’Ecce Homo del Guercino, custodito alla Galleria Cordini, si inginocchia e lo contempla, la stessa cosa accade a San Lorenzo davanti al Cristo in croce del Reni, «che sembra confitto non per forza, ma per amore» 19. Un amore che ha sete di anime, quella sete presentata dal Figlio di Dio sulla Croce e i mistici ben comprendono quella sete, come dimostra la stessa Juliette quando medita la X stazione della Via Crucis: Delle anime nostre Egli ha sete. Egli vuole attirare a sé tutte le anime che suo Padre ha create e ancora deve creare. O mio Dio, ricevete almeno la mia, io ve la do pel tempo e per l’eternità. Deh! Vi sia accetta, come una piccola stilla d’acqua lo sarebbe stata allora al vostro inaridito petto. O sete del mio Gesù! […] Degnatevi gradire la mia buona volontà, benedire le mie sollecitudini, ispirarmi quelle che saranno più efficaci. 20 I Barolo ebbero compassione per i peccatori, mai per il peccato, il vero nemico dell’uomo in vita (che abbruttisce le MATURA GIÀ DA GIOVANE, GIOVANE NELLA MATURITÀ 169 persone con il vizio e i delitti) e nell’eternità (destinando la persona al fuoco eterno dell’Inferno) e proprio al peccato dichiararono guerra, offrendo a tutti coloro che incontrarono la possibilità di salvezza in vita (realizzazione della persona) e nell’eternità (Purgatorio e Paradiso). Con la Santa Messa e i sacramenti le anime vengono purificate: «E Dio nel santo Sacrifizio della Messa ha voluto rendere permanente quell’Altare d’espiazione pei nostri peccati, e di soddisfazione per la giustizia celeste» e la riconoscenza di Juliette, di fronte al Dio che versa il suo sangue per lavare i peccati, non conosce misura: «Oh quanto è bello tale destino! Penetratissime di gratitudine pel nostro Redentore, non dimentichiamo giammai che è per mezzo dell’umiltà e dell’obbedienza che quel bel destino sarà il nostro» 21. La presenza di Maria Santissima è costante, come ben si evince nella Via Crucis. La Regina degli Angeli e dei Santi era sempre presente alla vita dell’Emmanuele, dal concepimento fin sotto la Croce, ma è presente anche nella vita di ogni figlio: «Maria, che mi permettete di chiamarvi Madre, abbiate anche pietà di me, quando le piccole Croci destinatemi dalla bontà di Dio sembrano troppo pesanti alla mia debolezza; fatemi trovare il Cireneo che venga in mio soccorso» 22. O Maria! Non dimenticate questo grano di polvere attaccatosi al vostro manto. Son io, o Madre mia; pietà della vostra figlia! Quel grido di Gesù, chiama anche me. Ottenetemi che fedele alla sua voce, io sia di Lui, di Voi, per tempo e per l’eternità. 23 Un’altra donna sta ai piedi della Croce, è Maria Maddalena, la protettrice delle sue figlie Maddalene: 170 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA La Maddalena è inginocchiata, ella abbraccia quella croce, non potendo arrivare ai piedi del Salvatore, i quali vorrebbe innaffiare delle sue lacrime… ella affronta i sarcasmi de’ nemici di Gesù, non vede che lui, non pensa che a lui, non ama che lui; è tutta affanno, tutta amore. 24 Non siamo di fronte ad un sogno, ma ad un ritratto di ciò che accadde sul Monte Calvario: la Maddalena vorrebbe strappare Gesù dai carnefici, ma è impotente. Il suo cuore è tutto un pianto. Già piangeva, riconoscendo la sua colpa, quando aveva incontrato il Suo Signore nella casa del fariseo, là gli aveva lavato i piedi con le sue lacrime e li aveva asciugati con i suoi capelli, li aveva baciati e li aveva cosparsi di olio profumato e Cristo le perdonò i suoi molti peccati, poiché molto aveva amato 25. La Maddalena è il modello che Juliette offre alle sue figlie penitenti e le invita ad essere anche loro tutto affanno e tutto amore per Lui. T. Canonico, Sulla vita intima e sopra alcuni scritti inediti della Marchesa Giulia Falletti di Barolo-Colbert, Tipografia G. Favale E. C., Torino 1864, p. 26. 2 Ivi. 3 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., pp. 80-81. 4 In prefazione di Giovanni Lanza al libro G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere a Silvio Pellico cit., p. VII. 5 Lettera al Direttore dell’Unità Cattolica, 28 gennaio 1884, in Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 470. 6 G. Lanza in: Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 471. 7 Si conservano: 7 lettere ai familiari e 55 agli amici; 26 lettere a uomini di governo (comprese quelle dirette a Re Carlo Alberto); 49 lettere agli ecclesiastici; 354 lettere alle Sorelle penitenti di Santa Maria Maddalena ed 1 alle ospiti dell’Istituto; 27 lettere a suore di diversi istituti; 6 lettere ai segretari. 1 MATURA GIÀ DA GIOVANE, GIOVANE NELLA MATURITÀ 171 G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere cit., vol. I, let. 133, p. 197. Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri cit., p. 82. 10 Ivi, p. 136. 11 Ivi, p. 141. 12 G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere a Silvio Pellico cit., p. 13. 13 Ivi, p. 28. 14 G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere a Silvio Pellico cit., pp. 31-32. 15 Ivi, p. 42. 16 Ivi, p. 87. 17 Ivi. 18 Ivi, pp. 112-113. 19 Ivi, p. 130. 20 G. Colbert Falletti di Barolo, Brevi istruzioni e meditazioni sopra la Via Crucis d’una Madre alle sue Figlie, X stazione. 21 Ivi, XI stazione. 22 Ivi, V stazione. 23 Ivi, XII stazione 24 Ivi, XI stazione. 25 Cfr. Lc 7,38-47. 8 9 10 Le prime scuole per l’infanzia in Italia Tancredi prestò la massima attenzione all’educazione delle nuove generazioni, vedendo in esse la speranza del futuro. Sin dal 1825 il Marchese Tancredi Falletti di Barolo apriva nel suo magnifico palazzo un ricovero per i poveri bambini col medesimo scopo che ebbero poi gli asili introdotti in Piemonte e diffusi per tutta Italia. 1 Con l’inizio del processo di industrializzazione, nelle grandi aree urbane nacque un problema nuovo: i bambini rimanevano soli e abbandonati per la maggior parte della giornata, poiché i genitori erano fuori casa a lavorare, e le loro condizioni di vita, già precarie, peggioravano notevolmente. 2 Anche in questa circostanza la cooperazione fra i coniugi fu unanime. Essi osservarono la realtà, ascoltarono il grido dei poveri e si chinarono su di loro per sollevarli dalle infelicità. L’analisi che Tancredi compie è sempre attuale: 174 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Comunque vogliasi giudicare la quistione cotanto dibattuta, se più la natura o l’educazione influisca sul carattere dell’uomo e sopra ogni suo portamento, non v’ha dubbio che dalle prime impressioni sì fisiche che morali ricevute nell’infanzia dipenda in moltissimi casi il tenore dell’intera vita. Perciocché, mentre l’istruzione dell’anima innegabilmente vi giova per una parte, le cure dirette alla sanità del corpo ed allo sviluppamento delle sue facoltà riescono per l’altra parte migliorare, correggere e quasi rimpastare ne’ primi anni della fanciullezza l’indole fisica avuta dalla natura. Onde si può dire con verità che nella doppia educazione del’età più tenera trovansi accoppiate ambe le influenze sulla preponderanza delle quali si disputa da lungo tempo. Infatti è cosa certa che quella porzione dell’indole umana che si vuole attribuire alla sola natura dee ragionevolmente considerarsi come effetto di una determinata struttura, o piuttosto di una combinata disposizione degli organi sensitivi ed intellettuali; e che questa venendo variata, mentre è ancora recente e flessibile, per via di impressioni esterne sì fortuite che procurate, ha pure da mutare a seconda di essa quell’indole che suole chiamarsi naturale. […] Si badi ancora che in quella età appunto in cui le impressioni fisiche sono per sé più profonde, e quasi indelebili, esse non incontrano opposizione in quelle altre che l’animo è capace di accogliere solo più tardi. 3 E la questione che pone sul tavolo è quella delle povere madri, verso le quali ha uno sguardo tenerissimo, come per i loro figli: Già si sa che i lavori donneschi del basso popolo sono generalmente limitati e di scarsa mercede. Servire nelle case, nelle osterie, nelle botteghe, impiegarsi nelle manifatture, cucire pe’ sarti LE PRIME SCUOLE PER L’INFANZIA IN ITALIA 175 o pei rigattieri, far bucati, lavare ai rivi, o girare di casa in casa rassettando i letti, spazzando camere, e portando acqua su per le scale; ecco la vita di moltissime povere madri di famiglia della città, senza parlare di quelle di campagna, che debbono attendere ai lavori contadineschi. Come si fa da tutte queste a non abbandonare la tenera prole per l’intiera giornata, non che poche ore? Chi gira per le case non può condur seco piccoli ragazzi. Nelle botteghe impicciano, nelle manifatture disturbano, e se per caso qualche persona pietosa li tollera, molte altre li discacciano, o rimandano la madre dal servizio. […] Peggio chi li conduce presso alle acque dove succedono non di rado funestissimi accidenti. Dunque non c’è scampo; o rinunziare al giornaliero lavoro col quale già si vive a stento, o lasciare i fanciullini a casa soli, rinchiusi, abbandonati. […]. Quanti incendi non si contano cagionati da questa fatale imprudenza, o, vogliam dire, sgraziata necessità. Quanti esempi di ragazzini chiusi in casa e trovati malconci, o pesti, o mezzo bruciati, od anche estinti! [… ]. Se ne sono veduti di quelli così barbaramente abbandonati che si è dovuto ricorrere all’Autorità pubblica per far isforzare l’uscio di casa, e sonosi trovati per eccesso di smanie e di patimenti quasi scemi, altri imbecilli. […]. Diranno taluni che la pittura di siffatte particolarità è fastidiosa o stomachevole, altri ch’è esagerata […]. Ah no! Non fia mai che la vera carità si stanchi di rinvangare con amorevole sollecitudine ogni sventura più minuta o più disgustosa della condizione umana. 4 Falletti di Barolo sostiene che il seme che si spande nell’animo dei bambini nel primo stadio della vita ha conseguenze per tutta l’esistenza: in questo tempo viene dato l’indirizzo decisivo, vengono poste le basi dello sviluppo dei loro sentimenti, dunque della loro psicologia, perciò, afferma l’autore, costa assai meno fornire un buon orientamento a cento ra- 176 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA gazzi, piuttosto che riparare i danni di un solo uomo che, non avendo ricevuto il beneficio dell’educazione e dell’istruzione, segue la via del vizio. Un interrogativo assilla la mente e il cuore dei coniugi Barolo: «Ma chi avrà da prendere siffatte cure di cui si è ormai dimostrata la somma importanza? Forse i genitori, i fratelli, le sorelle? Così vorrebbe la natura; Ma con quali mezzi, se tutti mancano a questi meschini? Manca il denaro […]. Manca il tempo […]. Manca la capacità e talora la volontà» 5. Ecco l’intuizione! Essi stessi fondano delle «Stanze di Ricovero» per i figli dei poveri, nella loro dimora. I bambini, dunque, corrono, saltano, cantano, imparano nella maestosa, calda e accogliente casa Barolo e, intanto, imparano a diventare persone. Nel 1839 Carlo Boncompagni asserisce che il Marchese di Barolo «primo in Italia apriva un asilo ai poveri bambini» 6, annotando che la fondazione avvenne nel 1825, mentre l’abate cremonese Ferrante Aporti aprì le porte del suo asilo quattro anni più tardi. Di uguale parere è Pietro Baricco: «Il primo asilo d’infanzia italiano, lo diciamo con vera compiacenza, fu aperto in Torino dal Marchese Tancredi Falletti di Barolo. Questo nobile Patrizio che aveva grande ingegno e, che è più, gran cuore, nel 1825 accolse nel suo palazzo la scuola per gl’infanti, tenendola in conto di una cara famiglia» 7. Così Germano Candido: «Le sale d’Asilo per l’Infanzia, per opera specialmente del Marchese di Barolo, si istituirono in Torino prima della venuta dell’Aporti» 8. Fautore dell’anno 1825 è anche Giuseppe Allievo, autore de La scuola educativa; mentre Monsignor Edoardo Busca, nel suo discorso commemorativo nel centenario della morte di Tancredi Falletti di Barolo dirà: «È dell’1825 l’erezione dell’Asilo Infantile che il Marchese aprì nel proprio palazzo, certamente di mu- LE PRIME SCUOLE PER L’INFANZIA IN ITALIA 177 tuo accordo con la Consorte, il primo che sia sorto in Piemonte e nell’Italia e che prevenne di qualche anno l’opera memorabile dell’Abate Ferrante Aporti» 9. Dapprima furono scelte maestre laiche. Dal novembre 1830 al giugno ’32 furono tre e percepivano dall’istituto 30 lire mensili. Occorreva molta severità nella selezione delle insegnanti (tali le considerava il Marchese e non semplici intrattenitrici dei bambini). Le qualità richieste per l’Asilo Barolo erano diverse: salda moralità religiosa, seguita da un atteggiamento caritatevole, dolce e paziente. Erano preferibili vedove non anziane, prive di figli o giovani educate. Ma la difficoltà a trovare personale laico con tali requisiti e la non sicurezza della continuità del lavoro, indussero i Marchesi a sostituirle con maestre religiose, che poi essi stessi fondarono. Venivano impartite lezioni di catechismo, di lettura dell’alfabeto, di applicazione del primo sillabare. Si pregava, si leggevano le Sacre Scritture, si cantavano le lodi, si passeggiava, si giocava, si manipolava con le mani, producendo dei manufatti. Il fine dei Barolo era quello di «infondere in que’ teneri animi i precetti più essenziali della vera morale, cioè della religione e fra questi il timor di Dio, il rispetto ai genitori, l’ubbidienza, l’amorevolezza vicendevole e la veracità» 10. Nel 1832 Tancredi indica, con estrema chiarezza, le istanze proprie dei figli del popolo, nell’età compresa fra i 2 e i 67 anni: I bisogni principali della prima infanzia nella classe povera, e per conseguenza i punti più essenziali della sua educazione si riducono per la parte fisica al non provare la fame, il freddo, le battiture, allo sfuggire i tanti pericoli che la minacciano, ad aver 178 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA cibo salubre, temperatura discreta, aria buona, pulizia necessaria, libertà di moto salutare, tenor di vita allegro e regolato. Men numerose si posson dire le cure necessarie alla sua educazione morale, sia perché l’intelligenza ancora limitatissima non vuole essere stancata, sia perché queste cure che riescirebbero per lo più inutili si trovano indirettamente compensate da quelle altre date alla parte fisica, come si è dimostrato da principio. L’allontanamento dai cattivi esempi e da ogni impressione del male, l’ubbidienza, l’amorevolezza, la veracità, qualche insegnamento elementare, qualche lavoretto, e più di tutto i principii di religione da inculcarsi per ogni via formano il complesso della parte morale di siffatta educazione […]. Preso adunque di mira il risultamento delle osservazioni generali fatte sulla prima età, conviene applicarsi specialmente ad infondere in que’ teneri animi i precetti più essenziali della vera morale, cioè della religione… Parecchie altre virtù sono ancora da promuoversi ne’ giuovani cuori, e quella della laboriosità particolarmente per la classe povera, ma tutte assai malagevoli ad inculcarsi nella prima infanzia. Nondimeno si ha da cogliere ogni opportunità per mordere e svergognare la pigrizia, potendosi sempre sperare qualche frutto in quelle piccole creature, fra le quali sovente s’incontrano degl’individui precoci ed avanzati oltre l’età loro […]. È cosa certa che la classe indigente trovandosi sempre in una necessaria dipendenza ora diretta, ora indiretta, abbisogna più d’ogni altra d’esservi assuefatta sin dalla tenera età onde sappia soggiacervi senza dispetto, ed anche senza avvilimento. Ma appunto la disubbidienza è il difetto capitale de’ piccoli ragazzi, sia perché non intendono ancora il motivo del comando, né la ragione d’ubbidirvi, sia perché il loro umore mutabile e capriccioso si adatta difficilmente a qualunque contrarietà. Conviene LE PRIME SCUOLE PER L’INFANZIA IN ITALIA 179 pertanto riprenderli con molta dolcezza, insistere con molta pazienza e castigare con molta sobrietà. Le punizioni e le ricompense nell’equilibrio delle quali si fa volgarmente consistere l’arte di educare i fanciulli, e di governare gli uomini, sono da studiarsi con riflessione, e da pesarsi scrupolosamente. Esse formano come una leva morale che appena toccata dalla robusta mano dell’età matura può gravitare immensamente sull’età più tenera. In qualunque caso i castighi corporali devonsi proscriver tutti senza eccezione. 11 Specchio di una Sala d’asilo fu scritto nel gennaio 1838. Tale Sala era preposta per l’accoglienza di 200 fanciulli. L’Asilo era aperto sia ai maschietti che alle bambine e questa decisione fu una delle cause di divergenza fra il Marchese e Antonio Rosmini. Quest’ultimo non concepiva la coeducazione, che, secondo lui, rischiava di vanificare l’operato educativo. Ma il Marchese, in accordo con Juliette, mantenne la scuola mista: i bambini, così piccini, non avrebbero creato problemi di sorta. Tancredi, convinto che le risorse destinate all’istruzione dell’infanzia e dei giovani fossero le più necessarie e produttive, operò in due settori: per la prima infanzia con le «Stanze di ricovero per i fanciulli», e per i giovani dei ceti meno abbienti, con la scuola d’istruzione popolare e professionale. Importante sottolineare che, sostenendo l’istruzione, il Marchese concesse a molti la facoltà di aprire scuole private. Studiò approfonditamente sia il problema dell’analfabetismo dei ceti popolari, sia il lavoro minorile, e sulla base di questi temi scrisse Sull’educazione della prima infanzia, da cui emerge la convinzione che l’ignoranza è la massima e la peggiore delle povertà. Per Falletti di Barolo ognuno è responsabile della propria vita, ma è necessario che venga posto nelle 180 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA condizioni di sapere, di imparare, di apprendere secondo le proprie attitudini. Valutava con cognizione di causa la situazione creatasi nelle città a causa dell’industrializzazione e concludeva affermando che né gli ospedali, né i ricoveri per i ragazzi abbandonati e deviati, potevano eliminare il bubbone della violenza e dell’accattonaggio, proprio perché queste pseudosoluzioni tentavano di arginare e tamponare un problema che tendeva a dilatarsi sempre più. Bisognava invece sperimentare la riunione in un sito [del] maggior numero possibile di ragazzi maschi e femmine incapaci di frequentare le scuole ordinarie, e quivi di custodirli durante il giorno, onde porre in libertà il resto della famiglia, impiegando tale spazio di tempo in tutte le cure d’educazione fisica o morale più adatte alla tenera età. 12 Destinatari preferenziali erano i figli delle persone «viziose e biasimevoli» 13 e per loro si doveva riservare un’istituzione «tutta gratuita». Per iscrivere questi bambini occorreva un’oculata ispezione sulle condizioni delle famiglie: chi erano, dove e come vivevano. Un’indagine accurata, presso parroci e persone fidate, avrebbe dato le risposte necessarie per svelare i falsari, perché «ognun sa che le solite fedi di povertà non sono sempre sufficienti» 14. La prudenza era una virtù ben presente al Padre dei bambini e dei poveri. Il metodo dei Barolo non prevedeva punizioni corporali e si doveva usare «indulgenza somma» nei confronti di chi confessava la verità. La prevenzione, iniziando fin dai primi anni ad instillare valori e buoni sentimenti, costituì il perno pedagogico degli asili dei Marchesi. LE PRIME SCUOLE PER L’INFANZIA IN ITALIA 181 Così Juliette scrive a Loewenbruck il 14 maggio 1832, riguardo alle giovani suore che egli avrebbe inviato all’Asilo Barolo: Ma abbia la bontà di avvertirle che intraprendono un’opera di pazienza, che saranno obbligate a stare con i bambini dalle ore otto del mattino e forse più presto fino alla notte. Ho visto una Suora della Provvidenza, stabilita in campagna, ho seguito la sua scuola ella si serviva della verga per punire i bambini, da noi ciò è assolutamente vietato e da quasi due anni io mi trovo bene con questo regime. Io ritengo che le Suore non debbano cambiarlo affatto. 15 I Barolo consideravano molto importante il ruolo assunto dai genitori dei piccoli, ad essi richiedevano la giusta collaborazione, sia per cercare di far comprendere loro l’importanza dell’educazione, sia per ottenere una continuità formativa affinché «l’effetto ottenuto con tanta sollecitudine nelle ore di scuola non venga distrutto in quelle altre che si passano a casa» 16. Puntualità nell’orario d’ingresso dei propri figli, regolarità nella frequenza e rispetto delle norme igieniche erano i tre punti richiesti alle madri e ai padri. Tancredi guardava ai giovani con fiducia e ad essi consigliava: inserirsi presto nel mondo del lavoro per evitare la pigrizia e per rendersi utili alla «patria» e all’umanità, in qualunque modo, anche più umile o più indiretto 17. Benché esistesse già in Torino il fiorente Asilo d’infanzia dei Marchesi di Barolo di chiara impostazione cattolica, il primo in Italia 18, i liberali proponevano nuovi modelli pedagogici per annientare l’istruzione di Santa Madre Chiesa. Essi sostenevano i metodi d’impronta protestante, inoltre: 182 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Patrocinavano l’erezione di una cattedra, che addestrasse i maestri nell’arte pedagogica. Mons. Dionigi Pasio, Vescovo d’Alessandria, Presidente del Magistrato della Riforma, si lasciò ingannare da questi Signori e servì inavvedutamente ai cupi disegni della setta, la quale lavorava a porre il germe di un perfido insegnamento. Mons. Pasio scrisse a Milano richiedendo il Console sardo di un Professore di abilità distinta, e il Governatore Generale della Lombardia, interpellato, propose l’Abate Aporti, del quale faceva i più grandi elogi, e Monsignore consigliò Carlo Alberto a farlo venire in Torino. Il Re aveva informato di questi progetti Mons. Fransoni, il quale era contrario ai disegni di Mons. Pasio. Infatti il Santo Padre Gregorio XVI nel 1839, con una circolare ai Vescovi dello Stato Pontificio, aveva fatto proibire gli Asili d’infanzia in quanto erano della qualità promossa dal medesimo Aporti. 19 L’arrivo a Torino del docente fu un trionfo per i massoni. La «Scuola di metodo» venne inaugurata in una sala della Regia Università: nessuno sarebbe stato più ammesso nell’anno scolastico 1844-1845 all’esame di maestro di scuola elementare nelle Provincie di Torino, di Pinerolo e di Susa, se non dietro certificato di frequenza a tale scuola di formazione aportiana. Monsignor Luigi Fransoni avvertì il Magistrato della Riforma di essere personalmente contrario all’intervento degli ecclesiastici alla «Scuola di metodo»; inoltre fece esporre nelle sagrestie della capitale una lettera scritta a mano in cui interdiceva al suo clero di frequentarla. Carlo Alberto si indignò. Afferma il biografo di san Giovanni Bosco: Clandestinamente Consiglieri settarii, ai quali Carlo Alberto troppo incautamente dava talora ascolto, soffiavano nuovo ali- LE PRIME SCUOLE PER L’INFANZIA IN ITALIA 183 mento sulla regia indignazione. Una delle arti per meglio tradire il Re era quella di mettergli in malo aspetto Mons. Fransoni e di screditarglielo colla calunnia; perché il senno, la virtù, la rettitudine ferrea di questo gran prelato era un ostacolo ai loro disegni. […] Da quel punto incominciò a frapporsi la discordia tra due personaggi, che sino allora si erano amati sinceramente. L’Aporti entrava tanto nella grazia del Re, che questi lo proponeva a Pio IX perché fosse consacrato Arcivescovo di Genova, e lo nominava Senatore del Regno. Il Sovrano tuttavia era in buona fede, mentre l’Arcivescovo non operava dietro semplici sospetti. Da personaggi bene addentro nelle segrete cose e dallo stesso D. Bosco aveva ricevute disgustose rivelazioni. Il giovane prete, era già intrinseco con varie persone influenti di ogni classe di cittadini. Aveva amici tra gli impiegati del Governo, tra gli ufficiali del palazzo reale e dell’esercito e tra i professori dell’Università. Accadeva pertanto che questi per leale apertura di cuore, quegli per imprudenza nel parlare provocata da accorte interrogazioni, altri per stimolo di coscienza timorata, palesavano il poco o il molto che veniva in loro cognizione o per via di sospetti, o di indizii certi, o di qualche discorso indiscreto di chi aveva notizia da segrete conventicole. Varii insegnanti formavano infatti empia, e occulta congiura per togliere dalle scuole ogni idea di religione rivelata. Con astuzia satanica studiavano progetti e programmi, i quali a poco a poco, insensibilmente, e colla costanza e pazienza usati per molti anni, conducessero, se fosse possibile, all’annientamento della fede nel cuore degli alunni. L’Arcivescovo adunque temeva le insidie che si andavano tramando a danno dell’altare e, per conseguenza, eziandio del trono. La posizione di coloro che avevano ricevute quelle gelose confidenze era delicatissima e pregavano Monsignore a non far conoscere da chi avesse saputo 184 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA ogni cosa. La sua prudenza però era tale, da non compromettere alcuno. 20 Don Bosco venne direttamente incaricato da Monsignor Fransoni di verificare e di riferire ciò che veniva realmente insegnato nella nuova «Scuola di metodo», perciò si fece uditore delle lezioni che Aporti teneva, con grande successo, alla Regia Università. Don Bosco si accorse immediatamente che dalle lezioni venivano subliminalmente esclusi i misteri della religione. L’Aporti non voleva che si parlasse mai ai giovanetti dell’inferno. Una volta esclamò – Ma perché parlate ai bambini dell’inferno? Queste lugubri idee loro fanno del male; sono paure che non vanno bene nell’educazione. – Con ciò toglieva il santo timor di Dio. Vennero poi fuori dalle sue labbra proposizioni che, se non intaccavano apertamente la religione, potevansi però giudicare infette di eresia. Interrogava p. es. i suoi scolari uno per uno: – Chi è Gesù Cristo? – Chi rispondeva una cosa, chi un’altra; dopo molte interrogazioni egli dettava magistralmente la sua sentenza: – G. C., il Verbo di Dio, è la verità eterna soprannaturale. – Dell’uomo Dio, delle due nature perfette in una sola persona non ne faceva cenno. Poi chiedeva: – Chi è Maria SS.? – I giovani davano pure varie risposte, e il maestro non accettandole, concludeva: – Maria SS. è una creatura privilegiata. – Ma taceva per qual motivo fosse privilegiata. D. Bosco, trovandosi in particolare colloquio coll’Aporti, gli chiese perché non spiegasse le sue definizioni. L’Aporti rispose che i giovani non erano capaci ancora di comprenderle. D. Bosco dopo alcune settimane fece adunque relazione all’Arcivescovo in base alla verità. Mons. Fransoni lo ascoltò pensie- LE PRIME SCUOLE PER L’INFANZIA IN ITALIA 185 roso e poi gli disse: – Ora basta: non andate più ad ascoltarlo. – E da quel momento D. Bosco più non vi andò. 21 Aporti, come aveva fatto a Cremona, introdusse il sistema protestante dello scozzese Owen negli asili: vennero stabilite classi miste di maschi e femmine e vennero escluse le immagini della Madonna e dei Santi, tanto dalle pareti, quanto dalle premiazioni… nella scuola venne lasciato il posto soltanto più al Crocifisso, raggiungendo l’obiettivo delle sette liberaleggianti e protestantizzanti del XIX secolo. La scristianizzazione ha poi proseguito la sua corsa ed oggi anche i Crocifissi spariscono dall’orizzonte sociale. Quando il salesiano don Francesco Cerruti (1885-1917), direttore generale degli Studi e delle Scuole salesiane, molti anni dopo presenterà a don Bosco il Regolamento degli Asili d’infanzia per le Figlie di Maria Ausiliatrice, dirà il fondatore: «Vuoi sapere chi allora fosse davvero Aporti? Il corifeo di coloro che nell’insegnare riducono la religione a puro sentimento. Tu ricordati bene che una delle magagne della pedagogia moderna è quella di non volere che nell’educazione si parli delle massime eterne e soprattutto della morte e dell’inferno» 22. Commenta Lemoyne: I settarii avevano nel segreto orditi i loro piani e repentinamente incominciavano ad attuarli, mentre i buoni non erano preparati alla lotta: molti del clero, non avvedendosi della gravità del momento, avrebbero esitato nel por mano ad un’opposizione che sembrava inutile, date le apparenze di religiosità conservate dal Governo: l’essere l’Arcivescovo in iscrezio con Sua Maestà alienava da lui molti del mondo ufficiale, dei quali gli sarebbe stato prezioso l’appoggio: aver la sua sede nella Capitale del regno impacciavalo non poco, perché qui concentravansi tutte 186 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA le mire settarie e con ogni mezzo sarebbero stati osteggiati i suoi provvedimenti. E contro di lui specialmente ardeva nelle Loggie un odio inestinguibile, essendo conosciuta la fermezza del suo petto apostolico. 23 L’Arcivescovo di Torino, dopo aver temporeggiato a lungo, vista la delicatezza della situazione politico-religiosa, mandò a chiamare l’abate Aporti, personaggio divenuto «intoccabile», vista la protezione degli ambienti liberal-massonici. Lo invitò, quindi, a desistere dal tenere lezioni di pedagogia con quell’impostazione pericolosa per la Fede, peraltro contraria a ciò che prescrivevano i regolamenti scolastici dello Stato e giunse all’avvertimento: se avesse proseguito su quella via sarebbe stato costretto a ricorrere a misure disciplinari. Aporti, che per suo volere dopo qualche anno smetterà di celebrare la Santa Messa, non accusò il benché minimo disagio e proseguì con lo stesso tenore di prima i suoi corsi. I liberali quando seppero di quell’incontro entrarono in escandescenza, difendendo Aporti, al fine di salvaguardare la formazione di maestri a-cattolici (dunque di allievi a-cattolici). Il pedagogista Falletti di Barolo, artefice a tutti gli effetti del primo asilo infantile in Italia e fra i primi in Europa, non si occupò soltanto di didattica, ma elaborò un vero e proprio studio approfondito sull’educazione dell’infanzia povera, la quale, non potendo godere di ambienti idonei ad una crescita sana, la ripercussione negativa dell’errata formazione della persona andava ad incidere sull’intera società. Si scemeranno a poco a poco le malattie ereditarie od ingenite fra i poveri, Insomma dalla sola fonte d’una prima educazione LE PRIME SCUOLE PER L’INFANZIA IN ITALIA 187 più accurata nasceranno vantaggi immensi, e tali da abbracciare tutti i rami più fruttiferi della pubblica prosperità. Aggiungasi che, se la robustezza e la buona salute del povero sono condizioni essenziali per quei lavori che a lui procurano il necessario, e ad altri anche il superfluo della vita, non meno vantaggiose riescono queste per la sua moralità, allontanandolo da un ozio forzato e da una mendicità quasi scusabile. Non si può dunque negare, che nell’interesse uguale del ricco e del povero, del pubblico e dei privati, ogni cura presa della prima educazione fisica della classe indigente sia per produrre un bene incalcolabile. 24 La ragionevolezza del suo pensiero è felicemente congiunta al suo spiccato sentire paterno: egli comprende le reali problematiche di bambini che nascono e crescono in famiglie disagiate. Ma il Marchese non è un ideologo, non è un demagogo, non vuole crearsi un consenso fine a se stesso, egli vuole realmente risolvere le questioni: occorre educare i fanciulli in ambienti sani ed accoglienti, dandogli il necessario: vestiti, cibo e istruzione; occorre che vengano sottratti (stando in asilo) alla violenza e ai pericoli 25, così facendo tutti ne avranno beneficio: gli interessati, le loro famiglie, la società intera. La profondità del pensiero di questo esperto delle facoltà e potenzialità del minore rientra a pieno titolo nella storia della pedagogia, la sua estromissione sia in qualità di pioniere degli asili sul territorio nazionale, sia di studioso della scienza dell’educazione è senza alcun dubbio da imputarsi alla volontà della Pubblica Istruzione, caduta nelle mani dei liberali, dei massoni e degli anticlericali sotto il Regno di Vittorio Emanuele II (1820-1878), di occultare l’insigne pedagogista cattolico a favore di Ferrante Aporti e della sua «Scuola di Metodo» e di tutti coloro che si formarono e si aggiornarono a tale Scuola. 188 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Nonostante le difficoltà incontrate e l’oblio da parte della cultura dominante, la realtà dimostra che gli Asili fondati dal Falletti di Barolo hanno continuato a provvedere, secondo i principi evangelici, all’educazione del frammento più debole della società e si sono sviluppati e diffusi in Italia ed anche all’estero. P. Baricco, L’istruzione popolare cit., p. 204. Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 170. 3 C.T. Falletti di Barolo, Sull’educazione della prima infanzia della classe indigente cit., pp. 5-7. 4 Ivi, pp. 16-19. 5 Ivi, pp. 9-10. 6 C. Boncompagni, Delle scuole infantili, Giannini e Fiore, Torino 1839, p. 7. 7 P. Baricco, Gli asili d’infanzia, Bona, Torino 1884, p. 8; Cfr. anche Sulla società delle scuole infantili di Torino (1839-1869), Tip. Vercellino, Torino 1869, p. 1. 8 G. Candido, La istruzione primaria in Italia dal 1830 al 1876, Tip. Antonio Chiorino, Biella 1877, p. 14. 9 E. Busca, Nel centenario della morte del Marchese cit., p. 11. 10 C.T. Falletti di Barolo, Sull’educazione della prima infanzia cit., p. 53. 11 Ivi, pp. 25-26, 53-54, 56-57. 12 Ivi, pp. 22-23. 13 D. Luzzetti, Educazione ed istruzione popolare nell’esperienza del Marchese Tancredi Falletti di Barolo, Tesi di laurea A.A. 1991-1992, Storia del Risorgimento, corso di laurea in Pedagogia, p. 65. 14 C.T. Falletti di Barolo, Sull’educazione della prima infanzia cit., pp. 37-38. 15 In Archivio Storico Istituto della Carità, AG 30. 16 C.T. Falletti di Barolo, Sull’educazione della prima infanzia cit., p. 40. 17 Cfr. C.T. Falletti di Barolo, Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane cit., p. 4. 18 Grazie anche al biografo di san Giovanni Bosco, il salesiano don Giovanni Battista Lemoyne, abbiamo la conferma che il Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo fu il primo, in Italia, ad aprire un asilo, ma la vulgata pe1 2 LE PRIME SCUOLE PER L’INFANZIA IN ITALIA 189 dagogica ha completamente ignorato la primogenitura, in questo ambito, del servo di Dio Carlo Tancredi Falletti di Barolo. 19 G.B. Lemoyne, Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne, vol. II, ed. 1901, capo XX, p. 189. 20 Ivi, pp. 210-211. 21 Ivi, pp. 212-213. 22 Ivi, p. 214. 23 Ivi, pp. 216-217. 24 C.T. Falletti di Barolo, Sull’educazione della prima infanzia della classe indigente cit., pp. 8-9. 25 Cfr. Ivi, pp. 13-19. 11 Le «colombe» Nei primi tempi dopo la fondazione delle Sale d’asilo, la custodia dei bimbi venne affidata a vigilatrici laiche, scelte e seguite personalmente da Juliette. Esse intrattenevano i piccoli, insegnavano loro le prime preghiere e il rispetto reciproco. Tali maestre laiche (benché rette e cattoliche) non assicuravano, tuttavia, quella continuità e dedizione che tale delicata opera educativa richiedeva. Fu così che i Marchesi concordarono con don Giovanni Battista Loewenbruck 1 di affidare la conduzione dell’Asilo alle Suore della Provvidenza di Portieux 2, che il sacerdote lorenese intendeva stabilire a Locarno. Tali Suore appartenevano, in origine, ad una congregazione francese, fondata nel 1763 a Metz dall’abate Gian Martino Moye, ed avevano per scopo l’educazione delle ragazze, specialmente quelle povere dei villaggi. Disperse dalla Rivoluzione francese e riunite nuovamente a Portieux nel 1802 dagli abati Feys e Raulin, esse giunsero in Italia nel 1832. Strumento di questa fondazione fu appunto don Giovanni Battista Loewenbruck, che collaborava con l’Abate Antonio Rosmini alla creazione dell’Istituto della Carità. Quando i Marchesi ottennero, per l’apertura dell’Asilo, l’autorizzazione di Carlo Alberto, Giulia scrisse (e noi cre- 192 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA diamo nella compilazione a due mani di questa missiva) a don Loewenbruk il 14 maggio 1832: J’ai reçu le consentement du roi pour l’établissement des Soeurs de la Providence destinées aux salles d’asyle et aux écoles dans les villages car je l’ai demandé en faisant valoir leur utilité pour ces deux oeuvres de charité. Veuillez donc Monsieur avoir la bonté de les disposer à se rendre ici au plus tôt. Je vous prierai de me prévenir de leur arrivée quelques jours d’avance pour arranger les chambres qu’elles doivent habiter. Je pense qu’il sera bien pendant quelque temps de garder encore les femmes qui dirigent maintenant les sales d’asyle. Cela donera aux enfants plus de facilité pour s’accoutumer aux Soeurs et à elles celui de se reposer et de bien se mettre au courant du projet désiré. Mais veuillez les prevénir qu’elles entreprennent une oevre de patience, qu’elles sont obligées dêtre avec les enfants depuis huit heures du matin et peut être même plus-tôt jusqu’a la nuit… 3 Purtroppo, il Loewenbruck, pieno di zelo ed entusiasmo missionario, badava soltanto a raccogliere e disseminare vocazioni religiose, e non si curava di dare loro una solida formazione. Bastava che fossero docili, mansuete, mortificate, anche se non erano culturalmente preparate per lui poco importava. Anzi, avrebbe voluto chiamarle addirittura «Ignorantine». Delle tre suore (o meglio aspiranti suore) inviate a Torino, Rosmini ne aveva fatte sostituire due (autunno 1832), perché avevano suscitato nei Barolo «giuste lagnanze presso di lui» 4 e presso il cardinal Morozzo, vescovo di Novara. Considerato l’agire precipitoso e poco prudente del Loewenbruck e le esigenze della nascente comunità femmi- LE «COLOMBE» 193 nile, il Rosmini assunse la direzione delle Suore della Provvidenza e ritenne opportuno cambiare le primitive Regole. Tali cambiamenti, in particolare la durata del Noviziato e l’impossibilità per le suore di educare bambini di ambo i sessi, incontrarono difficoltà presso i Barolo, che desideravano le Suore proprio per il servizio nei loro asili che accoglievano bambini e bambine allo scopo di permettere ai genitori di lavorare. Ne seguì un fitto carteggio con proposte da ambo le parti. Rosmini e i Barolo non riuscirono a trovare un punto d’incontro, da ciò sorse nei Marchesi l’intenzione di fondare una nuova Congregazione. Come dalle divergenze di idee fra Giulia e don Bosco ebbero i natali la Società di Don Bosco e le Figlie di Maria Ausiliatrice 5, così dagli episodi intercorsi fra il Marchese e il Rosmini ebbe vita la Congregazione delle Suore di Sant’Anna: nuovo grano, dunque, nella messe di Palazzo Barolo. Le discussioni fra i protagonisti della storia italiana e della storia della Chiesa non sono fini a se stesse, ma vengono volte dalla Provvidenza divina ad un maggior bene. Rosmini e il Marchese di Barolo, così come Juliette e don Bosco, non giungono a nessun accordo, ma non scendono neanche ad alcun compromesso. Tuttavia, non rimane inimicizia o ostilità tra loro. Si intraprendono strade diverse, si realizzano progetti distinti. Ciò mostra con evidenza che l’opera di Dio va avanti anche attraverso il limite umano, anzi lo usa per realizzare progetti ugualmente buoni e voluti da Lui. Lo Spirito Santo si serve della diversità delle persone che si lasciano usare da Lui per suscitare nella Chiesa i Suoi belli e variegati carismi. «Suore destinate all’educazione dei poveri nelle campagne e alle Scuole di Ricovero nelle città»6, imbevute «di quel- 194 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA lo spirito religioso di pazienza, di carità e di ubbidienza che è pur tutto nelle Scuole di Ricovero» 7, questa è la Congregazione che lo Spirito suscita nella mente e nel cuore di Tancredi e Juliette. Le prime giovani aspiranti delle Suore di Sant’Anna della Provvidenza, che Tancredi chiama «colombe», vengono accolte a Palazzo Barolo il 10 dicembre 1834. La loro formazione è affidata dall’Arcivescovo di Torino a Madre Clemenza Bouchet delle Suore di San Giuseppe di Torino. Così il Marchese scrive alcuni mesi dopo: Ben lungi da provare qualche rincrescimento di quanto è successo, ne sono ora troppo contento vedendovi la mano d’Iddio che ha voluto premiare le mie intenzioni sincere ed esenti da qualche impegno, prosperando il nostro nascente stabilimento a segno che già fornito di nove o dieci novizie, devo ricusare il gran numero di altre che si presentano e che nel primo giorno di quaresima potrò aprire una seconda scuola di ricovero ed accogliervi cento altri fanciulli poveri. 8 Raggiunto lo scopo, non si siede a compiacersi del successo, pensa ai progetti futuri. Era un buon conoscitore dell’organismo soprannaturale e dei moti dell’anima umana, grazie al suo personale lavoro di elevazione verso la perfezione della virtù; era uno psicologo e un asceta che intuiva vie nuove e migliori nella formazione morale e intellettuale della persona umana. Tali caratteristiche sono proprie di un carismatico, con doni concessi da Dio per la propria santificazione, ma soprattutto per il bene comune della Chiesa. 9 LE «COLOMBE» 195 Il giorno di Santa Cristina 1835, antivigilia di sant’Anna, Tancredi manifesta a don Carlo Rusca tutta la sua gioia perché le prime sei Novizie dell’Istituto Religioso fanno la vestizione, nella Cappella della “Vigna” di Moncalieri, residenza estiva dei Marchesi. E per «solennizzare questo fausto evento»10, Tancredi acquista a 16.000 lire «di Piemonte» un terreno adiacente «al nostro venerato» Santuario della Consolata «onde erigervi per le suore della Provvidenza una casa con noviziato, giardino ed ogni opportuna dipendenza» 11. Nel febbraio 1836, insieme a Juliette, decide di trasferire il noviziato delle Suore di Sant’Anna da Palazzo Barolo a Borgo Airale in Moncalieri, nella casa di Santa Filomena di loro proprietà, dove fa costruire per loro una piccola chiesa dedicata alla martire. In un libro pubblicato in quell’anno, Tancredi annuncia la prossima apertura di un convitto «per l’educazione di fanciulle della classe popolare» 12. L’apertura avviene nel 1837. Desidera offrire la possibilità alle figlie di genitori di media condizione economica un’istruzione che altrimenti, a causa degli alti prezzi delle rette dei convitti (trenta lire al mese o più), non avrebbero potuto ottenere. Così, dopo aver pensato alle scuole per ragazze, affidate alle suore di San Giuseppe e all’educazione delle giovani di condizione agiata, istruite dalle Dame del Sacro Cuore di Gesù, l’attenzione di Tancredi e di Juliette si sofferma sui bambini e le fanciulle della classe media e povera, perché «tutte le miserie materiali e spirituali trovavano risonanza nel loro animo» 13. A Torino, il territorio occupato da Palazzo Barolo, dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza e dall’Oratorio di Valdocco diventa sempre più quartier generale della Carità, presidiato dal Santuario della Consolata e dal Santuario di Maria Ausiliatrice. 196 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Alla morte di Tancredi le «colombe», «sue figlie predilette» 14, sono appena nate e non sono ancora «spuntate le ali ai grandi voli, e il piccolo nido le raccoglieva nel suo tepore» 15, per tale ragione le lascia alle cure della sposa. Le prime Costituzioni delle Suore di Sant’Anna vengono redatte da Juliette con la collaborazione delle Suore e di alcuni esperti sacerdoti, ed approvate dall’Arcivescovo Fransoni il 7 dicembre 1841. Recita il primo articolo: L’Istituto delle Suore di S. Anna della Provvidenza di Torino si dedica principalmente ad essere (ovunque sarà volontà di Dio espressa per bocca dei loro superiori), come strumento della Divina Provvidenza nel procacciare alla classe indigente l’educazione tanto della prima infanzia che delle figlie adulte nei villaggi e paesi poveri, disponendosi altresì a rendere al loro prossimo qualunque altro servizio di carità conforme allo stato che in caso di necessità venisse loro comandato dai loro superiori. 16 Resta da ottenere l’approvazione pontificia. Quattro anni dopo, la Marchesa si reca a Roma e vi soggiorna per sei mesi; sono giorni intensissimi, durante i quali, insieme a Silvio Pellico, lavora indefessamente per la revisione del testo costituzionale, secondo i suggerimenti provenienti da vari ecclesiastici. Oltre al prezioso apporto derivante da Padre Giusto da Camerino, Consultore della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, di grande aiuto le sarà il Cardinale Luigi Emmanuele Nicolò Lambruschini (1776-1854), conosciuto negli anni addietro, quando era nunzio apostolico a Parigi. La forza e la perseveranza danno il raccolto desiderato, e i Cardinali, dopo le opportune modifiche ed integrazioni, approvano l’Istituto e le Costituzioni delle Suore di Sant’An- LE «COLOMBE» 197 na: è l’8 marzo 184617. Papa Gregorio XVI sancisce la decisione con il Breve pontificio del 3 aprile. Scopo della Congregazione è educare integralmente i fanciulli e le ragazze della classe popolare, consapevoli che l’ignoranza è la peggiore povertà; formarli alla morale cristiana per generare nella fede futuribili madri, che possano essere nella società fermento evangelico per i loro figli. Ambito della missione della nuova Congregazione è, dunque, il campo educativo, in esso, infatti, avranno le suore maggior occasione di mostrare al Signore un amore verace, e di esercitare la pazienza più che in qualunque altro ramo di carità […]. Esso domanda un assiduo sacrificio di tutta la persona, ed un esercizio continuo di carità, di pazienza con ragazzine, e giovanette, le quali molte volte non solo sono rozze, ignoranti e miserabilissime, ma tuttavia ancora saranno state allevate o per le strade, senza disciplina da genitori simili ad esse, nel qual caso per ridurle al bene, le maestre avranno da soffrire fatiche, molestie, rimproveri, strapazzi e qualche volta anche calunnie. Questa però è la messe che costa più cara bensì, ma che rende più frutto, dipendendo dall’educazione ordinariamente la condotta di tutta la vita; e se grande prova d’amore verso Dio si reputa (siccome la reputano tutti i Santi) la conversione de’ peccatori, quanta più dolce sarà prevenire ed impedire i peccati medesimi, prima che succedano. 18 Ciò che le Suore devono avere di mira è accogliere quelle fanciulle come accoglierebbero il nostro divin Salvatore, e formarle tutte per lui, istillando loro una pietà tenera bensì, ma veramente soda, ammaestrandole a poco a poco 198 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA nelle cose della santa fede, invigilando perché s’accostino bene con frequenza, e con frutto ai santissimi sacramenti, in somma facendo loro conoscere Gesù Cristo, giacché egli non è amato perché non è conosciuto. 19 Prima Superiora Generale diventa, nel 1847, Suor Maria degli Angeli. All’interno della Congregazione, negli anni 1857-1858, insorgono alcuni problemi di direzione e di organizzazione, in seguito risolti dalla presenza della Madre Enrichetta Dominici 20, seconda Superiora Generale, dono della Provvidenza alla giovane Congregazione. Ella «rifulse per la santità della vita tutta vissuta nel mistero trinitario, nell’adesione incondizionata alla volontà di Dio» 21. La sua opera fu determinante per sviluppare ed estendere l’Istituto anche fuori dai confini italiani. Interprete fedele e autorevole testimone del carisma dei Fondatori, rinvigorì la vita interna dell’Istituto e diede slancio all’apostolato, aprendo scuole e opere assistenziali. Per redigere le Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice, San Giovanni Bosco si ispirerà a quelle delle Suore di Sant’Anna e chiederà a Madre Enrichetta la presenza di due sue Suore a Mornese per la formazione delle prime Figlie di Maria Ausiliatrice. Le Suore di Sant’Anna riscuotono stima e simpatia ovunque, tanto che vengono ad aprirsi, sotto le loro ali, sale d’asilo, scuole, orfanotrofi, gruppi giovanili, laboratori… e si diffondono in varie regioni d’Italia e, già nel 1871, nella lontana India. LE «COLOMBE» 199 Collaborò con il beato Antonio Rosmini alla fondazione dell’Istituto di Domodossola, da cui si allontanò nel 1835. 2 Le Suore della Provvidenza rosminiane ebbero origine nel 1832, quando don Loewenbruck raccolse a Locarno alcune giovani inviandole per la formazione presso le suore della Provvidenza di Portieux (Francia). Rientrate in Italia, le religiose, non potendo mantenere il legame con la casa madre, chiesero a Rosmini la sua tutela ed egli accettò e diede all’Istituto delle nuove regole. 3 G. Colbert Falletti di Barolo, Lettera all’abate Loewenbruk, in Archivio Rosminiano, Stresa. 4 G. Pusineri, Rosmini, edizione riveduta ed aggiornata da R. Bessero Belti, Tipografia San Gaudenzio, Stresa 1989, p. 88. 5 Quando la Marchesa ebbe modo di conoscere Don Giovanni Bosco intuì immediatamente di essere di fronte ad un santo sacerdote. Al momento di lasciare il Convitto Ecclesiastico, retto dalla sua guida spirituale, san Giuseppe Cafasso, Don Bosco fu inviato a far parte del gruppetto di sacerdoti che curavano pastoralmente le fondazioni dei Marchesi di Barolo. Don Cafasso lo invitò ad affiancare Don Giovanni Borel, divenendo direttore spirituale dell’Ospedaletto di Santa Filomena. Juliette all’epoca aveva 59 anni. Si stimavano, ma le loro personalità erano entrambe forti e le loro strade erano provvidenzialmente destinate a separarsi dopo breve tempo. Il santo restò a servizio 21 mesi: dall’ottobre 1844 al luglio 1846. Era intenzione della Marchesa creare una terza congregazione – dopo le Suore di Sant’Anna e le Maddalene – destinata ai sacerdoti «ai quali avrebbe affidati i suoi stabilimenti perché mantenessero lo spirito della fondazione, e in don Bosco aveva intuito le doti necessarie per realizzare, come direttore, questo suo desiderio» (J. Aubry, Rinnovare la nostra vita salesiana, Elledici, Torino 1981, p. 110). Questa nuova istituzione ecclesiastica pensata dalla Marchesa avrebbe avuto come patrono di riferimento san Francesco di Sales. San Giovanni Bosco trarrà ispirazione, per il nome della sua Società, proprio da questo periodo della sua vita. Attenta al suo lavoro caritativo, Juliette non pensava che Don Bosco potesse essere destinato dalla Provvidenza ad altra strada, come invece compresero sia Don Cafasso che Don Borel. Così quando gli impegni del sacerdote per i suoi ragazzi si fecero sovrabbondanti, il tempo dedicato all’apostolato femminile si ridusse, minando anche la sua salute. La Marchesa, preoccupata della precarie condizioni fisiche del Santo e allo stesso tempo temendo qualche pericolo per i suoi ragazzi che, attendendo il loro Direttore alla porta del Rifugio e poi alla porta dell’Ospedaletto, potevano 1 200 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA incontrare ragazze traviate o pericolanti, pose don Bosco di fronte alla scelta tra l’Ospedaletto e l’Oratorio. In una lettera scritta al teologo Borel, Juliette riportò le ragioni che avevano motivato il suo agire nei confronti di don Bosco, testimoniando la grande stima che ella nutriva per lui. Tuttavia, tra l’assistenza spirituale nelle opere della Barolo e l’impegno con i ragazzi dell’Oratorio, don Bosco scelse quest’ultimo. I due non si persero di vista e quando il padre e maestro dei giovani andava a fare visita alla Marchesa «ella si metteva sempre in ginocchio, chiedendo di essere benedetta» (J. Aubry, Rinnovare la nostra vita salesiana cit., p. 111); fino all’ultimo fece pervenire, anche in incognito, offerte all’Oratorio di Valdocco. 6 C.T. Falletti di Barolo, Lettera al cavalier Antonio Rosmini, 13 luglio 1834, Minutario, ms. in Archivio Storico Opera Barolo, mazzo 216, n. 14. 7 Ivi. 8 C.T. Falletti di Barolo, Lettera a don Rusca, 25 febbraio 1835, Minutario, ms., in Archivio Storico Opera Barolo, m. 216, n. 14 9 M. Peira, Carlo Tancredi di Barolo, Elledici, Torino 1995, p. 13. 10 C.T. Falletti di Barolo, Lettera a don Rusca, 24 luglio 1835, Minutario, ms., in Archivio Storico dell’Opera Barolo, mazzo 216, n. 14. 11 Ivi. 12 C. T. Falletti di Barolo, Cenni diretti alla gioventù intorno ai fatti religiosi più notevoli successi a Torino dal principio dell’era cristiana sino ai nostri tempi, Tip. Giacinto Marietti, Torino 1836, p. 164. 13 G. Colbert Falletti di Barolo, Viaggio per l’Italia. Lettere d’amicizia e Silvio Pellico (1833-1834), Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 13. 14 C.T. Falletti di Barolo, Testamento. 15 M. Peira, Carlo Tancredi di Barolo cit., p. 29. 16 Regole fondamentali dell’Istituto delle Suore di S. Anna della Provvidenza, Giacinto Marietti, Torino 1842, p. 3. 17 Proprio nel 1846 una riforma dell’istruzione pubblica sancì nel regno di Sardegna l’obbligo per tutte le maestre sia laiche che religiose di sostenere un esame di idoneità, il suo superamento dava accesso all’insegnamento. Le rimostranze dei vescovi diedero un risultato pessimo: furono escluse dall’esame le maestre dei convitti di clausura. Tutto questo preoccupò non poco Giulia di Barolo: non desiderava che venissero messi in discussione i principi educativi impartiti nelle sue scuole. Vani furono però i suoi tentativi di evitare alle suore di Sant’Anna l’esame di idoneità. Scrisse al Marchese Cesare Alfieri – allora Magistrato della riforma – ma non ottenne nulla. Allora intervenne presso re Carlo Alberto, il quale si stupì di tanta LE «COLOMBE» 201 apprensione, affermando che si trattava di un semplice esame, da ritenersi quasi una formalità. Le suore dunque, in spedizione, si presentarono agli esaminatori e ottennero il loro ufficiale riconoscimento. 18 Costituzioni e Regole delle Suore di Sant’Anna della Provvidenza, Eredi Botta, Torino 1846, artt. 386-387. 19 Ivi, art. 388. 20 Caterina Dominici, questo il nome originario di Suor Enrichetta (quest’ultimo consigliato da Giulia di Barolo in ricordo di una sua nipote, Henriette), nacque a Carmagnola (borgo Salsasio), in provincia di Torino, il 10 ottobre 1829 e morì 21 febbraio 1894. Venne beatificata da Paolo VI il 7 maggio 1978. 21 M. Peira, Carlo Tancredi di Barolo cit., p. 30. 12 Il «non progredire è sempre un vero retrocedere» Il 27 settembre 1827 Falletti di Barolo aveva ottenuto, con «Biglietto reale», l’approvazione per le scuole elementari superiori destinate a coloro che intendevano terminare la loro istruzione per poter accedere al mondo dell’industria o del commercio. Fra il 1830-1832 il Marchese decide di affidare le scuole elementari superiori di Torino ai Fratelli delle Scuole Cristiane, i quali «cercarono con tutti i mezzi di infondere nei ragazzi fermi principi di religione e di morale, fornendo ad essi un’istruzione adatta alla loro condizione sociale» 1. La sua scelta deriva dalla convinzione che l’istruzione elementare si deve generalizzare, sconfiggendo la piaga dell’ignoranza. Tuttavia, insorgeranno talune difficoltà ed incomprensioni nei primi tempi tra i Fratelli e l’Amministrazione civica e dovranno intervenire la pazienza e le capacità diplomatiche del Marchese per appianarle. Egli «cercò tutti i mezzi per stabilire la pace» 2. Infatti i primi optano per la scuola gratuita, mentre la seconda teme che, abolendo il pagamento delle rette, si rischi di favorire l’abbandono della scuola da parte delle famiglie benestanti. Fra il 1833-1834, almeno per il biennio inferiore, viene creata una scuola popolare uniforme per tutti i ragazzi, cioè quelli benestanti e quelli poveri. Ma 204 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA questa soluzione crea diverse ostilità, risultando controproducente rispetto allo scopo originario, che era quello di potenziare l’istruzione popolare. Molte famiglie abbienti decidono infatti di affidare i propri figli ad insegnanti privati, ritirandoli dalle scuole comunali, degradate ai loro occhi a misere scuole di carità. Per la risoluzione della questione torna in campo Tancredi di Barolo, il quale propone un compromesso: gli allievi orientati al proseguimento degli studi saranno riuniti in scuole «preparatorie alla latinità», affidandole a maestri comunali e gravate da un «minervale» (tassa di frequenza) piuttosto alto. Mentre gli alunni, ben più numerosi, che frequentano la scuola in previsione di un rapido inserimento nell’attività produttiva, sono affidati gratuitamente alle cure dei Fratelli. Massima cura e sollecitudine adoperava Tancredi per i suoi protetti, come testimonia la lettera che indirizzò il 27 novembre 1836, a quell’epoca Segretario della Deputazione decurionale per le Scuole, a Domenico Cravosio, Capo del I «Dicasterio nella Segreteria della Città di Torino» e le cui disposizioni qui prese vennero comunicate ai Fratelli Direttori delle Scuole Cristiane: Avendo già osservato negli scorsi inverni, e maggiormente in questi ultimi giorni di crescente freddo, che molti ragazzi che frequentano le Scuole Comunali Italiane 3, stiano aspettando alla porta di essa l’ora fissata per l’apertura, non posso togliermi dalla mente quanto sia dannoso per ogni riguardo una simile usanza. Imperciocché queste povere creature mandate fuori di casa dai genitori quando essi recansi al lavoro, non hanno più altro scampo, fuorché quello di vagare per le vie con disturbo del pubblico, e grave pericolo di se medesimi sia fisico, sia morale, oppure di rimanersene alla porta delle Scuole ora intirizzi- IL «NON PROGREDIRE È SEMPRE UN VERO RETROCEDERE» 205 ti dal freddo, ora esposti al mal tempo, e sempre oggetti di una compassione ben naturale, talvolta anche sdegnosa per parte dei passeggeri che li osservano. Siccome però si può per nessun verso chiedere che i Maestri incomincino più presto le Scuole, non vedo altro rimedio se non se di farle aprire un’ora prima sì la mattina che al dopo pranzo e di procurare che i bidelli dopo aver aperto quella Scuola che sarà creduta più conveniente per raccogliervi i fanciulli, vi si fermino senza più lasciarli soli sino all’arrivo del Maestro, potendo impiegare tale spazio di tempo nell’adempiere al loro servizio, cioè all’accendimento dei fuochi, spazzatura e nettamento delle Scuole CC. […] mentre procurerò di ottenere dalla Deputazione che tale servizio venga regolarizzato per l’avvenire col giusto 4 corrispettivo agli inservienti, io m’impegno in particolare a non lasciare senza rimunerazione il servizio già fatto quando l’abbiano eseguito con zelo e puntualità. Perciò meglio accertare V.a S.a si compiacerà di pregare per parte mia i Signori Fratelli Direttori ai quali ho già parlato del mio divisamento di voler invigilare quanto più potranno su tale parte del servizio dei bidelli, visitando sovente le Scuole nell’ora susseguente all’apertura, per verificare se essa abbia avuto luogo per tempo, e se i bidelli non si assentano. Dev.mo Di Barolo. 5 La pedagogia proposta da Falletti di Barolo è esaustiva, pochi parlano come lui di orientamento personale e ancor meno si preoccupano di guidare i giovani alla propria vocazione, che il Marchese definisce «divina». «Essa», afferma, si deve abbracciare affine di soddisfare alla propria coscienza, impiegando in bene, secondo la Volontà di Dio, i mezzi che la sua bontà ci ha compartiti unicamente per siffatto oggetto […]. Già si sa non esservi mai vera virtù senza perseveranza […] il 206 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA perseverare nell’impresa, il pugnare contro gli ostacoli, il volerli vincere a qualunque costo, è il più sicuro, se non forse, il solo mezzo di riuscire […] poiché accade in ogni impresa, come in ogni virtù, che il non progredire è sempre un vero retrocedere, sin tanto che non si è arrivati ad un certo grado di perfezione. 6 «Precursore nel campo pedagogico» è il titolo, a pieno diritto, con il quale è stato definito il Marchese di Barolo. Con competenza decide di compilare, molto probabilmente per le scuole elementari superiori (un’anteprima, così potremmo denominarla, di scuola tecnica), un trattato didattico sulla geografia, suddiviso in tre parti, corredato da interessanti letture storiche, artistiche e descrittive. Desidera esprimere la sua vasta cultura geografica, volendo, allo stesso tempo, offrire intuizioni, vie nuove e migliori per la formazione morale e intellettuale non della collettività, ma della singola persona. Ci troviamo di fronte ad un metodo completamente nuovo ed originale di affrontare questa disciplina, che fino ad allora era stata proposta come un elenco nozionistico di nomi e dati. Ora il pedagogista interpone l’interdisciplinarietà, rendendo l’oggetto di studio non solo più ricco di spunti conoscitivi, ma più stimolante e convincente. Alcuni esempi. Nelle letture geografiche Cenni diretti alla gioventù intorno a fatti storici, monumenti notevoli e particolarità naturali del Piemonte, l’autore inserisce nel suo saggio spiegazioni che non hanno nulla a che vedere con la geografia intesa in senso più stretto. Le province dello Stato Sardo erano allora ventidue e l’autore le segue, una ad una, con il sapore di chi è innamorato della propria terra. La Fede cristiana è presente in ogni pagina e non si lascia mai sfuggire l’occasione di spiccare il volo con considerazioni di carattere spirituale. IL «NON PROGREDIRE È SEMPRE UN VERO RETROCEDERE» 207 Quando tratta della Val di Susa, si occupa dell’abbazia benedettina chiamata Sacra di San Michele. Racconta, tra le altre cose, che verso il Mille una fanciulla detta la Bellauta ossia la bell’Alda, per isfuggire le violenze d’un uomo da cui era inseguita, si buttasse giù d’un salto dall’erta rupe e sana giungesse in fondo dell’abisso per protezione di Maria Vergine da lei invocata; ma che avendo voluto per superbia replicare un’altra volta il medesimo salto sfracellata vi rimanesse. 7 Poi, entrato nella chiesa, di cui descrive le caratteristiche stilistiche e architettoniche, al ricordo dei monaci qui salmodianti, è rapito da una commossa considerazione: Si volle fare, ad un tempo, di quel popolatissimo monastero un argine alle barbarie, un fomite all’incivilimento, ed un luogo di gloria pel Signore come di santificazione per gli uomini. Qual sublime concetto non v’era mai in quella lode perenne (laus perennis), in quel canto non più interrotto per tanti secoli, che notte e giorno innalzavasi al cielo, attestando solennemente come in ogni attimo della vita debbasi da noi a Dio di gratitudine e di amore! 8 Incrocio di arte, storia, incanto paesaggistico e naturalistico si riscontrano anche nella descrizione del Sacro Monte di Varallo: «Tornava da Terra Santa in Varallo, verso l’anno 1490, un frate Minor Osservante, detto P. Bernardino Caimo, che poi fu Beato, e colla sua calda eloquenza, infiammò i Varallesi a trasformare il picciol monte che sovrasta la loro Città, in un Calvario, in una “Nuova Gerusalemme”, cioè in una serie di stazioni rappresentanti quelle che si sogliono venerare nei Luoghi Santi…». Ed ecco il susseguirsi delle cap- 208 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA pelle: il gruppo della Pietà, Gesù nell’orto, Maria di fronte alla crocifissione e «non meno riesce l’aspetto magnifico della natura circostante ad imprimere nell’animo una profonda ammirazione e riconoscenza al suo Autore». Quando descrive la provincia di Novara offre diverse notizie sulla bronzea «statua colossale di San Carlo» ad Arona (senza tralasciare alcuni cenni biografici del celebre vescovo Borromeo, 1538-1584), alta 21 metri e posata su di un piedistallo granitico di 15 metri. Poi i laghi di Avigliana, Candia, Viverone, il santuario d’Oropa, i monti Bianco e Rosa, il sacro Monte d’Orta, la battaglia di Marengo, le vicende della città di Asti, il santuario di Vicoforte, il Passo di Tenda, la Badia di Staffarda, il castello di Racconigi, il Monviso, le sorgenti del Po… della capitale dedica un capitolo per ciascuna delle principali chiese. Una lunga carrellata, preziosa per i suoi spunti culturali. È il risultato di una ricca passione per la conoscenza del mondo, che necessita di essere riversata agli altri, con il fermo intento di soffiarvi anche ispirazioni divine. Per i piccoli dell’Asilo, la pedagogia baroliana predispose di intervenire immediatamente sulle primarie necessità fisiche e morali, garantendo: nutrizione, caldo, ambiente sano e igienico, allontanamento delle possibili violenze inflitte sui bambini, libertà di moto salutare, atmosfera gioiosa e regolata, licenziamento di pigrizia, ozio, vizio e peccato. La Chiesa stessa con materna sollecitudine procura d’impedire che i suoi figli vengano presi al laccio dell’errore, alla seduzione del vizio, dell’immoralità e si giova dell’istruzione… la Chiesa, maestra di verità, brama e caldeggia l’istruzione… a patto che serva a preservare dagli errori, ad infrenare le passioni, regolare la volontà. 9 IL «NON PROGREDIRE È SEMPRE UN VERO RETROCEDERE» 209 L’igiene personale è severamente controllata: il bambino che entra nell’Asilo infestato dai parassiti viene invitato a ritornare a casa affinché i suoi genitori imparino a lavarlo (educazione indiretta della famiglia). Proprio perché si tratta di figli di povera gente, i bambini portano con sé un pranzo misero. Per questo il Marchese si adopera nel far preparare loro una minestra calda di riso, o di pasta, oppure di farina di meliga o di patata. Famiglia, scuola e Stato sono, per il Marchese, i tre cardini della persona. Lo si comprende anche dai trattati, attenti ai rapporti fra Stato e famiglia: «Gli affetti della famiglia o la deferenza per l’autorità paterna, sono elementi essenzialissimi d’ordine e di forza nello Stato» 10. Ai piccoli devono essere insegnati rispetto, obbedienza, collaborazione reciproca. Il Marchese è decisamente contrario alle punizioni corporali e i castighi devono limitarsi alla privazione di qualche divertimento o di qualche oggetto. Da incoraggiare, invece, i premi (vestiario, calzature…), le carezze delle insegnanti, gli elogi fatti in presenza dei genitori o dei compagni. Si dimostra poi un ottimo organizzatore, operativo e pragmatico. Tutto è previsto: lavabi per bere e per lavarsi, contenitori per asciugamani, armadi-credenze per riporre scodelle, piatti, posate, bicchieri…, scansie per libri, manufatti, giocattoli…, scaffalature per depositare i cestini dei bambini (i «panierini») – ognuno debitamente contrassegnato – lettini per eventuali riposini dopo pranzo. La stufa che scalda gli ambienti deve essere fornita di una grata sicura per non incorrere in incidenti; la temperatura deve essere gradualmente abbassata a mano a mano che l’ora di uscita si avvicina, evitando così lo sbalzo termico con l’esterno e le povere case non riscaldate delle famiglie degli 210 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA alunni. È inoltre prevista una sala giochi e una palestra per la ginnastica. La cucina deve trovarsi vicino alla sala da pranzo, altrimenti i pasti (dei quali il pedagogista specifica punto per punto la composizione) si raffredderebbero durante il percorso. Giardino o cortile cintato sono indispensabili per il moto all’aria aperta. Servizi igienici e serramenti devono essere periodicamente controllati, mentre i locali necessitano spesso dell’imbiancatura per l’igiene, l’ordine e l’estetica. In sala da pranzo è sconsigliato il pavimento di legno perché poroso (trattiene umidità, odori e polvere) e quindi meno facile da pulire. Da oculato ed esperto amministratore sia pubblico che privato, il Marchese quantifica la spesa annua di ogni fanciullo in ventotto-trenta lire nuove di Piemonte, ma avverte che questo impegno è un semplice seminare per «raccogliere in centuplo». Prevede due suore per ogni sezione e nell’asilo deve essere reclutato personale non docente (due donne) per l’acquisto del materiale e degli alimenti necessari, per provvedere alla pulizia e alla cucina, per accompagnare i bambini ai servizi, per aiutare le maestre quando i fanciulli entrano o escono dalle sale e per controllare che tutto sia sempre in ordine. Uno spazzino è chiamato ai lavori più pesanti: portare legna e carbone, pulire i servizi igienici… Un’altra persona competente deve invece essere incaricata di recarsi all’asilo per i colloqui con i genitori, per iscrivere i bambini. Quest’ultima mansione, per diversi anni, è ricoperta da Silvio Pellico. Lui stesso racconta: Io ho la sorveglianza sulle due prime sale d’asilo che sono state stabilite a Torino, cioè una per i maschi, l’altra per le femmine IL «NON PROGREDIRE È SEMPRE UN VERO RETROCEDERE» 211 (ambedue nel palazzo Barolo); ma ciò non mi dà molta occupazione, tutto già essendo stato bene istituto dal Marchese e dalla Marchesa Barolo, e la cosa sta andando ora come un orologio, grazie alle suore che ivi fanno da maestre. 11 Oltre alla fondazione delle Sale d’Asilo e all’impulso e miglioramento delle scuole elementari inferiori già esistenti, il Marchese si dedicò all’apertura delle Scuole elementari Superiori, che in realtà erano l’abbozzo della futura Scuola tecnica e commerciale, istituita poi dalla riforma Casati, che aveva anche lo scopo di fornire un addestramento all’esercizio del commercio e delle arti meccaniche. Scuole, dunque, professionali. Nell’agosto 1826, grazie al suo intervento, l’Amministrazione comunale trasformò i corsi superiori di belle arti in corsi di tipo professionale, rendendoli gratuiti, accessibili dunque ad artigiani e lavoratori. La «Regia Accademia di pittura», oggi «Accademia Albertina», deriva dalla «Scuola delle arti del disegno e di geometria pratica», riordinata nelle sue sezioni (disegno e geometria pratica ed incisione in rame) dal Marchese. Egli fu, inoltre, membro della «Società d’incoraggiamento per le arti del disegno» di Varallo che aveva lo scopo di incoraggiare i giovani allo studio delle arti applicate per mezzo delle scuole di disegno, di plastica ornamentale, d’intaglio ecc.; il Marchese favorì ampiamente lo studio del disegno e aiutò la Società, donando due pensioni annue a favore di due alunni dotati ma indigenti; successivamente, vedendo i risultati positivi di tale scuola, decise di fare un dono più consistente, offrendo i mezzi per aprire un laboratorio di scultura in legno a cui avrebbero potuto accedere gli alunni promettenti 12. Le sue aspettative non andarono deluse per- 212 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA ché dalla scuola uscirono valenti artisti che non ebbero bisogno di emigrare per trovare lavoro e diedero onore alla città. Nel tempo in cui i Marchesi operarono a Torino esistevano alcuni istituti destinati alle ragazze povere, ma l’educazione che veniva impartita era fondamentalmente di carattere manuale. Un giorno don Domenico Molardi, parroco della zona torinese di Borgo Dora – il quartiere noto con il nome di «Balôn» – chiese un loro intervento in campo educativo. Il «Balôn», primo territorio industriale di Torino, era attraversato da diversi canali che servivano ad alimentare gli opifici. Qui trovarono fissa dimora emarginazione, ignoranza e profonda miseria. Prontamente i Barolo si adoperarono per aprire una scuola elementare destinata alle bambine e per tale ragione furono chiamate le Suore di San Giuseppe di Chambéry. Il 16 luglio 1820 Juliette inviò un resoconto del degrado di Borgo Dora al primo segretario per gli Affari Interni del Regno Sardo, Roget de Cholex, chiedendo l’apertura della scuola femminile. Nel 1837 alla scuola di Altessano Tancredi affiancò una sezione femminile, affidandola alle Suore di Sant’Anna e ricordandola poi nel suo testamento 13. Tale sezione, denominata «Scuola Barolo», è tuttora funzionante. Eccolo anche all’opera con il trattato Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane intorno ai vari stati che da essa possonsi eleggere ed alle disposizioni con cui si devono abbracciare (Marietti, Torino 1837), indirizzato ai giovani che si trovavano di fronte al punto interrogativo: quale professione intraprendere? La volontà di questo abile pedagogista, che progetta non per teorizzare ma per applicare, è quella di mettere a frutto i talenti che Dio ha innestato in ogni persona. Tutti sono chiamati a svolgere nella propria vita un mestiere perché «”L’uo- IL «NON PROGREDIRE È SEMPRE UN VERO RETROCEDERE» 213 mo quaggiù deve mangiare il suo pane al sudor della sua fronte”. Così volle Iddio dopo la caduta del primo che fu creato; e così gl’intimò l’Eterna parola per lui e pe’ suoi discendenti […] l’ozio, l’inerzia, la vita disoccupata e inoperosa sono riprovevoli» 14. La scelta del proprio domani lavorativo non deve, per il Marchese, essere posticipata. Fin dall’adolescenza il ragazzo è chiamato a guardarsi intorno e osservare i settori a lui più congeniali. La decisione non deve essere però affrettata, occorre riflettere, ponderare, consigliarsi e pregare: In sì importante occorrenza, forse la principale della lor vita, si dirigeranno con fervore di preci e sincerità di cuore al loro Padre celeste, che guida amorosa e infallibile vuol essere loro nel breve sentiero sul cui pongono il piede, e da lui imploreranno, chi i lumi bastevoli per eleggere, e chi la grazia necessaria per accettare uno stato, il quale prima d’ogni cosa sia conforme alla sua volontà. Quando […] si dice uno stato non s’intende già parlare dello stato celibe, o del matrimonio, o di quelle altre vocazioni, su cui evvi assai più da pensare e da pregare, poiché ne dipende la santità della vita; ma si vogliono accennare soltanto quelle diverse professioni, od arti, o condizioni, che la gioventù […] può e deve prendere di mira. 15 Ci sono due concetti molto importanti da rilevare in questa citazione: il primo si riferisce alle vocazioni del matrimonio e della vita religiosa, dalle quali dipende l’essenza della vita di ogni uomo e di ogni donna, pertanto il grado di spiritualità, di elevazione e di perfezione a cui la persona vuole o meno tendere; il secondo concetto invece è rivolto al mestiere che ognuno può intraprendere, da esso non dipende la salvezza dell’anima come nei casi precedenti, ma è soltanto 214 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA l’esplicazione del proprio dovere, è la manifestazione evidente delle proprie qualità e capacità. Ciò non significa che la condizione lavorativa non abbia la sua intrinseca serietà, anzi, da come un soggetto svolge la sua mansione si comprendono le sue virtù. In ogni professione poi che non solo richieda un lungo tirocinio, ma appresenti difficoltà di pratica e sia suscettiva di perfezionamento, il perseverare nella impresa, il pugnare contro gli ostacoli, il volerli vincere ad ogni costo, è il più sicuro, se non forse il solo mezzo di riuscire […]. Difficile poi oltremodo è la perseveranza per chi non si compiace nel proprio stato, essendo verità conosciuta, che si fa sempre meglio ciò che si fa volentieri […] evvi un merito assai maggiore nel superar questa […]. Ma ad ottenere questa disposizione interna cotanto desiderabile non basta il chiederla semplicemente a Dio. Egli vuole ancora che adoperiamo da noi ad acquistarla. 16 Osservate, con spiccata criticità, le proprie inclinazioni naturali, fatto tesoro dei consigli familiari o di persone competenti, il giovane deve prendere anche in considerazione gli studi che ha svolto, il bagaglio di conoscenze che possiede, le sue attitudini, la creatività del suo pensiero e del suo agire. Tutti possono e devono contribuire al bene della propria nazione. Il Marchese pertanto dà un ruolo essenziale alla classe popolare che, inserendosi nel processo di ripresa economica avviatosi alla fine degli anni Trenta, avrebbe garantito l’accrescimento della ricchezza dello Stato. Così la costruzione di infrastrutture, come strade, ponti, porti, favorirà l’occupazione di una parte della popolazione e allo stesso tempo acconsentirà una migliore circolazione delle merci. IL «NON PROGREDIRE È SEMPRE UN VERO RETROCEDERE» 215 L’esempio dato dai Marchesi produsse un meccanismo benefico e trascinante, per cui altre persone denunciarono le manchevolezze pubbliche e l’operato privato mobilitò maggiori forze in campo. Juliette nel 1845 creò a Palazzo Barolo l’Istituto delle Famiglie Operaie: le tre Famiglie erano denominate di Maria Santissima 17, di San Giuseppe e di Sant’Anna. Si trattava di una realtà al servizio delle ragazze povere, alle quali si insegnava tanto un mestiere quanto una condotta etica e religiosa. In questi nuclei formati da dodici-quindici giovani, in un’età compresa fra i 14 e i 18 anni (restavano in famiglia al massimo per sei anni) si imparava a vivere cristianamente e onestamente. Le ragazze venivano messe in condizione di affrontare le difficoltà sociali e, formandosi alla scuola della responsabilizzazione personale e della moralità, diventavano coscienti dei propri mezzi. Senza pretese di rivendicazione, uscivano da questi luoghi preparate e qualificate. Le cautele prese da Juliette erano straordinarie: una direttrice si assumeva la responsabilità di prendere le informazioni sulla moralità sia dei datori di lavoro dove le giovani facevano apprendistato, sia delle officine o botteghe dove si sarebbero collocate le operaie. La loro guida era una «madre laica», la cui positiva condotta doveva essere ampiamente riconosciuta. Ella le seguiva nell’educazione morale e cristiana, mentre l’istruzione elementare veniva impartita dalle Suore di Sant’Anna. Inoltre operava una direttrice, che coordinava l’attività. L’andamento che la fondatrice ha saputo stabilire in quest’opera non potrebbe essere meglio inteso. Vi è gara tra i padroni d’opifici e di botteghe ad avere di queste lavoranti, sì ben formate alla virtù; e quando una è in età da prendere marito, l’uomo 216 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA dabbene che la sposa acquista una compagna in cui può fidare, e che, mentre sarà in grado di aiutarlo a regolare la sua casa e i suoi interessi di commercio, se avrà figli, sarà atta a governarli co’ suoi materni insegnamenti. 18 La buona condotta di ciascun elemento, sia formativo che da formare, veniva tenuta immancabilmente sotto controllo 19. I Barolo esercitavano la prudenza nel beneficare: prima di soccorrere un povero o un disadattato si informavano sulla persona da beneficiare, con lo scopo di accertare le reali difficoltà economiche. Agivano solo dopo aver avuto referenze da persone affidabili (soprattutto i parroci) e investigato sulla famiglia del diseredato. Il saggio di Falletti di Barolo sui «vari stati», si chiude sulla figura di chi non ha bisogno di lavorare per vivere: il possidente. Quest’ultimo è invitato a non restare inoperoso, abbandonandosi all’ozio e ai vizi. È invece chiamato alla carità. «Né più sicuro mezzo havvi pure di allietare l’ultima parte di siffatta vita… fra la contentezza di un riposo non già inerte ma frammisto d’utili e religiose occupazioni, essa trascorrerà dolcemente, accompagnata dalle benedizioni dei poveri e da una ben fondata fiducia nelle promesse del loro e nostro comun Padre Supremo» 20. Si appella con forza a chi possiede per sollevare chi non ha. Non si tratta di semplici consigli o suggerimenti, è qualcosa di più. È un uomo che sta vivendo quel che dice. M. Peira, Carlo Tancredi di Barolo, Elledici, Torino 1995, pp. 17-18. Cfr. M.R. Borsarelli, La Marchesa Giulia di Barolo e le opere assistenziali in Piemonte nel Risorgimento, Chiantore, Torino 1933, p. 30. 3 Tancredi Falletti di Barolo parlava nel 1836 di «Scuole Comunali Italiane» 1 2 IL «NON PROGREDIRE È SEMPRE UN VERO RETROCEDERE» 217 a dimostrazione che il concetto nazionale esisteva, a prescindere dalla successiva unificazione istituzionale. 4 Sempre, nell’amministrazione pubblica, il Decurione e Sindaco Tancredi Falletti di Barolo agì secondo giustizia. 5 C.T. di Barolo, Lettera a Domenico Cravosio, Torino, 27 novembre 1836, in Archivio Storico dei Fratelli delle Scuole Cristiane, Torino. 6 C.T. Falletti di Barolo, Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane cit., pp. 4-13. 7 C. T. Falletti di Barolo, Cenni diretti alla gioventù intorno a fatti storici, monumenti notevoli e particolarità naturali del Piemonte in aggiunta alle notizie elementari sopra la geografia dei regii stati già pubblicate ad uso de’ fanciulli, Giacinto Marietti, Torino 1838, pp. 14-15. 8 Ivi, p. 15. 9 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo cit., p. 300. 10 C.T. Falletti di Barolo, Sull’educazione della prima infanzia cit., p. 54. 11 Capineri-Cipriani Laudomia, Lettere di Silvio Pellico alla donna gentile, Soc. Ed. Dante Alighieri, Roma 1901, p. 155. 12 Cfr. C.T. Falletti di Barolo, Lettera alla Società d’incoraggiamento delle arti del disegno di Varallo, 20 aprile 1836, in Minutario, ASFBT, m. 216 n. 14. 13 C.T. Falletti Di Barolo, Testamento ms. 19 maggio 1838, «lire 400 a quella di Altessano», in ASFBT, m. 211, n. 38. 14 C.T. Falletti di Barolo, Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane cit., pp. 3-4. 15 Ivi, pp. 11-12. 16 Ivi, pp. 12-14. 17 Nel Registro delle spese di Casa Barolo, la prima famiglia di Maria Santissima compare il 31 agosto 1845. 18 S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo cit., pp. 89-90; cfr. anche A. de Melun, La marquise de Barol. Sa vie et ses oeuvres, Libraire Poussièlgue frères, Paris 1869, pp. 95-97. 19 Cfr. G. Falletti di Barolo, Disposizioni testamentarie cit., art. 64, p. 32. 20 C.T. Falletti di Barolo, Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane cit., p. 71. 13 Il «mal essere sociale» Il «mal essere sociale», come allora veniva chiamato, era molto diffuso: l’età media della morte, che demograficamente riassume in sé tutti i fattori della vita collettiva, nel decennio 1828-1837 era di 35 anni; l’analfabetismo nel 1848 riguardava il 31,6% dei maschi e il 49,3% delle femmine; un’alta percentuale della popolazione era dedita all’alcol, come si può desumere dalla presenza a Torino (l’attuale centro della città, poiché la periferia non esisteva ancora, essendo aperta campagna) di 500 osterie. Inoltre erano in forte crescita le malattie veneree, a loro volta legate all’aumento delle prostitute, le quali toccarono le duemila unità negli anni Cinquanta; così pure erano in aumento i suicidi; la natalità illegittima era molto forte, con un illegittimo ogni quattro nati, con le sue dolorose conseguenze di abbandoni ed infanticidi (aborti e omicidi dopo la nascita); le epidemie si abbatterono con un’altissima frequenza fra il 1817 e il 1848, basti pensare che oltre al colera, il tifo comparve tre volte e il vaiolo più di cinque. Erano per di più estese, durante gli anni Quaranta, forme di delinquenza tradizionali come il borsaggio, la prostituzione, il furto con scasso, la sofisticazione, la truffa, espedienti utilizzati dagli strati subalterni della popolazione per sopravvivere. 220 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA La popolazione piemontese, sottoalimentata, si sfamava con: pane di grano o di segala, castagne, patate, erbaggi mal cotti, quasi senza sale e niente condimento, latte, poco formaggio, e la carne era un’eccezione, consumata rarissime volte nell’arco di una vita, tanto da essere oggetto di racconti fantastici. L’analfabetismo dilagava (a Torino la situazione era migliore che nei comuni), la percentuale della scolarità non superava il 20-25%. Il fenomeno dell’alcolismo si dilatava in misura considerevole. Accanita era la passione per il gioco del lotto. Le affezioni e malattie più frequenti erano: la pellagra, il tifo petecchiale, la denutrizione, il vaiolo, le febbri influenzali con relative complicazioni bronco-polmonari. In quegli anni si assistette alla manifestazione di una nuova tipologia di delinquenza, caratterizzata da azioni violente e intimidatorie ad opera di gruppi giovanili, le cosiddette «Cocche», le cui gesta furono rievocate dagli scrittori d’appendice. Quel disagio così diffuso era proprio di altre importanti città europee, conseguenza del processo di modernizzazione che il continente stava attraversando, determinato dalla trasformazione dell’economia e dal passaggio da un modello demografico statico ad uno di sviluppo. Le ragioni della crisi sociale torinese erano quindi molteplici, ma due possono essere evidenziate per la loro maggiore incidenza: da un lato lo scarto tra il fortissimo incremento demografico che la città aveva conosciuto dal 1814 in poi e il permanere quasi immutato delle sue disponibilità ricettive e di servizio; dall’altro la mancanza di un vero sviluppo economico. In poco più di tre decenni la popolazione della capitale aumentò del 61,54%, essendo passata dagli 84.230 abitanti presenti nel 1814, al rientro dei Savoia, alle 136.849 persone censite nel 1848. In quell’anno fu rilevato, inoltre, che il 35% degli abitanti di Torino era nato in un’altra provincia, segno evidente IL «MAL ESSERE SOCIALE» 221 che l’imponente crescita demografica fu dovuta ad un altrettanto eccezionale flusso immigratorio, come conferma il confronto tra il saldo nati-morti e l’aumento annuo della popolazione 1. L’inurbamento dalle campagne alla città è un fenomeno tipico della rivoluzione industriale; ma anche della volontà filosofica illuminista e marxista, che vede nella città il progresso e nella campagna la radicalizzazione della tradizione cristiana. Davvero numerosi erano i senzatetto, molti dei quali, in inverno, morivano per assideramento. Il continuo afflusso di persone creava, in mancanza di possibilità lavorative, sacche di popolazione nullafacenti e che spesso venivano inghiottite dalla malavita. Tuttavia, il settore economico-produttivo era in fermento, d’altro canto non poteva essere diversamente: come fervida a Torino era la dinamica culturale, scientifica, intellettuale in genere, così l’attività finanziaria e lavorativa; inoltre, proprio in quegli anni, si formarono nuove realtà produttive (come, per esempio, le tessiture seriche), primi segnali della fioritura industriale della seconda metà dell’Ottocento. Torino divenne sempre più, dalla Restaurazione in poi, un crogiuolo di idee politiche e culturali e la religione cattolica reagì fortemente, con personalità di grande spessore, sia al pensiero illuministico giacobino, sia alle idee liberal-massoniche. Religione-istruzione-lavoro furono gli obiettivi vincenti della forza cattolica che mise in atto, con i suoi Santi, una vera e propria «macchina da guerra» contro la miseria e l’abbandono e si risolsero i problemi alla radice. Educazione, detenzione, assistenza sanitaria furono i tre raccordi che dovevano condurre ad una vita sana e moralmente retta. L’attenzione all’infanzia e alla gioventù attraverso un’appropriata educazione e scolarizzazione diede ri- 222 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA sultati così notevoli che le numerose scuole edificate nel XIX secolo rimasero valide per generazioni e generazioni di scolari; la riforma penitenziaria fu completata con la costruzione, avviata nel 1857, delle nuove carceri giudiziarie di Torino. Anche gli istituti di carità e di beneficienza subirono un’importante riforma, ispirata ai criteri generali di una più corretta amministrazione, di un’azione più capillare e settoriale, di una separazione, per quanto possibile, delle istituzioni sanitarie da quelle assistenziali e di ricovero. L’Ospedale di San Giovanni, il più grande della città, venne riformato positivamente. Un altro nosocomio, il San Luigi, costruito tra il 1818 e il 1824, era il vanto della struttura sanitaria torinese, visitato anche da tecnici e medici stranieri per le importanti innovazioni architettoniche atte a favorire la salubrità e l’igiene. A poca distanza dal nuovo ospedale sorse tra il 1828 e il 1836 un altro edificio, realizzato per accogliere in maniera meno angusta l’antico Spedale dei Pazzerelli, la cui riforma fu stimolata da una nuova sensibilità nei confronti della malattia mentale, attenta alle possibilità di medicalizzazione e di cura e non solo più alle esigenze di internamento. Tuttavia l’opera sanitaria che veramente cambiò la vita dei malati, dei poveri, dei mutilati, dei disabili fu la Piccola Casa della Divina Provvidenza, una vera e propria «cittadella nella città», edificata dal canonico Giuseppe Benedetto Cottolengo nei pressi di Borgo Dora e aperta a tutti i miseri, essa operava soltanto grazie ai proventi che giungevano dalla Provvidenza. La Torino della Carità ebbe nei Marchesi di Barolo un’esplosione di munificenza ed efficienza, la cui azione mise in ombra l’attività svolta dai filantropi laici. Soccorrevano i poveri con distribuzione di cibo, legna, indumenti, medicine, elemosine; con l’autopromozione della persona attraverso IL «MAL ESSERE SOCIALE» 223 l’istruzione culturale e religiosa, la formazione professionale, l’occupazione che da essa scaturiva. Inoltre si servirono del loro prestigio e delle loro amicizie influenti per la creazione di nuovi servizi sociali e per avviare le riforme a favore degli infelici. «Carità sempre e subito» e «Gloria a Dio, bene al prossimo, croce a noi» erano i motti che circolavano in casa Barolo. Ogni lunedì 12 poveri venivano serviti a pranzo dalla Marchesa stessa. Si provvedeva alla distribuzione dei medicinali, di bende, panni e molte volte ella si prestava a medicare le piaghe degli ammalati, che si presentavano a Palazzo Barolo. «Non di rado venivano uomini e donne con piaghe alle gambe, ai piedi, ed essa lavava loro le piaghe con vino caldo, v’applicava cerotti, le fasciava, forniva pannilini, insegnava a curarsi; parecchi di quegli infermi ne traevano risanamento» 2. Inoltre «si compiaceva e si gloriava di lavorare colle proprie dita e lana e lino a sollievo de’ poverelli. Il più delle volte a chi si recava a visitarla avveniva di trovare la pia dama a far calze, o peduli, o camiciole da soccorrerne i bisognosi, e proseguendo il suo lavoro porgeva ascolto e rendeva affabile conversazione» 3. Juliette fondò l’Associazione delle Signore della Carità nella parrocchia di San Dalmazzo e poi in quelle del Carmine e di Sant’Agostino con lo scopo non solo di distribuire aiuti, ma di visitare i poveri e di fare catechismo. I Marchesi accolsero e sostennero i poveri della città 4, ma non va dimenticato che due bambini furono legalmente adottati (probabilmente ci furono altre adozioni) 5. Il primo fu Francesco Degioanni, che abbraccerà lo stato religioso entrando nei Gesuiti. Troviamo traccia di Padre Degioanni nell’epistolario di Silvio Pellico e veniamo a sapere che nel 1844 il religioso predicò gli esercizi alle Suore di S. Maria 224 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Maddalena. Inoltre la Marchesa divenne madre del piccolo Emanuele Maria Giulio Sforza, dopo che la madre naturale, Agostina Giboreau, aveva ufficialmente rinunciato al bimbo. Juliette lo fece battezzare e si incaricò della sua educazione. Nel testamento redatto nel 1848 la Marchesa ricorda Emanuele, lasciandogli la somma di 20 mila lire e nominando suo tutore il cappellano del Rifugio, don Sebastiano Pacchiotti. Cfr. D. Agasso, Dentro la storia, San Paolo, Alba (Cuneo) 2010, pp. 13-15. S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 111. 3 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 158. 4 Cfr. T. Canonico, Sulla vita intima e sopra alcuni scritti inediti della Marchesa Giulia Falletti di Barolo-Colbert, Tipografia G. Favale E. C., Torino 1864, p. 17. 5 Cfr. P. Matta, Elogio storico della Marchesa Giulia di Barolo-Colbert, 30 giugno 1878, Manoscritto cit. 1 2 14 Il «bene comune» nell’azione politica di Tancredi Dopo il Congresso di Vienna, nel 1814, Tancredi, insieme al padre, si era posto al servizio di Vittorio Emanuele I (17591824). Alle fine del 1816 viene nominato Decurione nella pubblica Amministrazione, carica che corrisponderebbe oggi a quella di consigliere comunale. Fedele al trono e all’altare prende assoluta distanza dal liberalismo democratico e dal cattolicesimo liberale. Impegnato nella promozione di una cultura politica fondata sulla concezione cristiana dell’uomo e della storia diventerà Decurione a vita, poi Sindaco, Consigliere di Stato, Segretario del Consiglio degli affari generali e della Pubblica istruzione, nonché membro della commissione sanitaria. Esercita ogni attività come se fosse sempre alla presenza del Signore: ogni mattina egli offre a Dio la sua giornata. Non importa dove si trovi, l’essenziale è per Tancredi agire al meglio, là dove la Provvidenza lo ha chiamato ad espletare le sue funzioni e le sue responsabilità. Per lui sono ideali le parole di san Gregorio Magno (540 ca. - 604): «L’autorità sta bene in mano di chi sappia tenerla e dominarla, ed è un uomo di comando chi sa mantenersi al di sopra delle miserie degli altri, mentre sa avvicinarle con tratto fraterno». 226 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Carlo Alberto lo stima e spesso lo consulta. Nelle risposte al Re 1 emergono la cristallina serenità del suo giudizio e la sua fermezza morale. Non blandisce mai nessuno, non lusinga neppure il sovrano per ottenere favori o piaceri. È sicuro delle proprie capacità e i meriti che ne seguono sono una logica conclusione. Il 31 dicembre 1816 viene accolto, trentaquattrenne, nel Consiglio civico torinese. Scelto su una rosa di tre candidati designati dal Marchese di Cravanzana Chiavario, prende il posto nell’aula dove era stato fino a pochi anni prima suo padre Alessandro Ottavio. È comunque ben diversa la situazione burocratico-politica in cui si troverà a giostrarsi Tancredi rispetto a quella del genitore. Il governo della città è affidato ad un Consiglio di sessanta membri scelti per «conosciuta probità» e «intelligenza», nonché per il «patrimonio notoriamente riguardevole». Sono inoltre ripartiti in due classi: l’antica nobiltà e quella più recente con la borghesia cittadina. Al di là del blasone che rappresenta, doti morali ed intellettuali, serietà, capacità, lungimiranza, consentiranno a Tancredi di conquistare ripetutamente, nel corso dei ventidue anni di servizio come amministratore municipale, il favore dei colleghi. Il Consiglio sceglieva, nel suo seno, i due sindaci, uno per classe, 21 membri di Congregazione «per il maneggio delle cose giornaliere», il Mastro di ragione e i ragionieri per la «particolare ispezione nel governo economico della città». Infine l’archivista, l’avvocato, il segretario e il direttore dei mulini. L’accesso alle cariche più alte era determinato da un complesso meccanismo, in cui entravano in gioco l’anzianità nel decurionato, l’esperienza maturata in ruoli minori o diversi, e non ultimo, il prestigio personale di ciascuno 2. Scorrendo il curriculum decurionale di Falletti di Barolo ci IL «BENE COMUNE» NELL’AZIONE POLITICA DI TANCREDI 227 si accorge come esso sia punteggiato, fin dal principio, di significativi episodi. Il 31 dicembre 1817, ad un solo anno dal suo ingresso nel corpo civico, egli entra a far parte, per la prima volta, del Consiglio di Congregazione e occuperà questo ufficio, annualmente rinnovabile, in ben cinque successive tornate: 1822, 1823, 1830, 1831, 1833. Il 31 dicembre 1824 è nominato ragioniere, incarico che riavrà nel 1828 e nel 1829. A pluralità assoluta di consensi viene chiamato ad occupare la poltrona del Sindaco di prima classe per il 1826 e su diretto interesse del sovrano otterrà nuovamente la nomina l’anno successivo. Nell’agosto 1834 è candidato al prestigioso ufficio di Mastro di ragione, che veniva concesso solo a chi era stato Sindaco. Ma questa volta è costretto a rinunciare all’incarico per «motivi imperiosi di salute tanto mia, quanto di mia moglie» 3. È la prima volta, nella sua luminosa carriera di amministratore, che deve declinare un incarico. In seguito, rinuncia alla funzione di Consigliere di Stato. La ragione è da rintracciarsi nella sua onestà e delicatezza nei confronti dei colleghi: egli, vedendosi impossibilitato ad adempiere il suo dovere con lo stesso zelo che sempre lo ha caratterizzato, in vista delle numerose assenze che sarebbe stato costretto a fare aumentando così il lavoro dei colleghi, decide di rinunciare all’ufficio propostogli. Aveva precedentemente svolto per breve tempo (2 settembre 1831 - 20 aprile 1832) tale delicata mansione affidatagli dal Re. L’istituzione del Consiglio di Stato era stata creata da Carlo Alberto con il Regio editto del 18 agosto 1831. Le decisioni finali spettavano sempre al sovrano, ma il Consiglio di Stato era il suo strumento tecnico per la consultazione circa le scelte politiche e legislative. Questa la formula pronunciata dal Marchese di Barolo per il giuramento di Consigliere: 228 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Giuro a Dio sopra il santo suo Evangelio di bene esercitare la carica che da Vostra Maestà mi è stata conferita nel suo Consiglio di Stato. E giuro che ogni qualvolta io sarò chiamato a discutere gli affari, che, con sua Regia legge del 1° agosto 1831, ha la Maestà Vostra ordinato sieno sottoposti alla disamina di esso Consiglio, darò, secondo la mia coscienza, fedeli ed imparziali i miei consigli, rappresenterò con sincerità e con franchezza tutto ciò che mi parrà utile, o conveniente al bene dello Stato; veglierò al mantenimento della dignità, e delle prerogative della sua Corona, e farò conoscere i bisogni dei popoli, come ancora gli abusi, che si fossero introdotti in qualsivoglia parte di amministrazione. Giuro di non rivelare alcun segreto che da Vostra Maestà, o per parte sua da’ suoi ministri, ed Uffiziali mi fosse confidato; ed altresì di non propagare quelle deliberazioni del Consiglio di Stato che non dovessero divolgarsi. Giuro inoltre di non appartenere, né di ascrivermi in avvenire ad alcuna società segreta, epperciò proibita; e di governarmi sempre ed in qualsivoglia occasione, così come si conviene ad un fedele, obbediente e devoto di Vostra Maestà, disposto a tutto perdere, perfino la vita, anziché mancare al proprio dovere. Così Dio mi aiuti. 4 Il Consiglio era composto da quattordici membri, suddivisi in tre sezioni: Interno (quattro membri), Giustizia, Grazia e Affari ecclesiastici (sei membri), Finanze (quattro membri). A questi si aggiungevano tre «personaggi i più autorevoli e i più distinti dello Stato». Inoltre era previsto un vice Presidente, designato dal sovrano. I consiglieri potevano esprimere pareri, mai decidere. Inoltre si dovevano «occupare dei “conflitti di giurisdizione giudiziaria o di amministrazione”, di problemi generali di politica economica, dell’esame del “bilancio generale dello Stato tanto attivo che passi- IL «BENE COMUNE» NELL’AZIONE POLITICA DI TANCREDI 229 vo”, delle modificazioni da opporre al sistema fiscale ed ai suoi singoli tributi, dei prestiti statali e della situazione del debito pubblico» (art. 23) 5. Non era concesso al Consiglio di occuparsi di affari di politica estera, di guerra, marina o amministrazione della Casa reale, ma l’influenza dei membri appartenenti all’istituzione poteva essere determinante, un «mezzo con cui la Corona era posta in grado di esercitare un certo controllo e sindacato sui suoi ministri» 6. Queste le ragioni per cui i ministri si dimostrano aspramente contrari a tale organo tecnico e non politico. Il Marchese venne destinato alla delicata sezione Interni, insieme al Conte Alessandro Saluzzo di Monesiglio, a Giuseppe Provana di Collegno, al Conte Giuseppe Malaussena ed al Marchese Agostino Lascaris (le competenze venivano retribuite con diecimila lire mensili). Leggiamo quanto scrive Falletti di Barolo, che non voleva accogliere la nomina di Consigliere di Stato. Si tratta di una lettera di risposta al dispaccio, datato 3 settembre 1831, del conte de L’Escaréne, che gli aveva annunciato il nuovo incarico: Io mi trovo nella circostanza di doverla pregare di deporre ad un tempo stesso ai piedi del R. Trono ed i sensi della fedele devozione colla quale io mi procuro mai sempre di corrispondere all’onore che da S.M. mi viene compartito, e le umili mie rappresentanze circa l’attuale impossibilità in cui una salute già alterata da qualche tempo e molto più da pochi mesi mi porrebbe per ora d’applicarmi ad un lavoro di qualche rilievo. Oso perciò supplicare S.M. di volermi concedere all’occorrenza quel congedo che preveggo necessario pel ristabilimento di mia salute, poiché nello stato presente di essa io non potrei adempiere l’o- 230 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA norevole incarico cui S.M. stimò di chiamarmi in modo al mio dovere ed al mio zelo per suo reale servizio. Ho l’onore di rassegnarmi. In Villa presso Moncalieri 7, addì 8 settembre 1831. Tancredi Falletti di Barolo. 8 Tuttavia Carlo Alberto respinge la rinuncia. Il Marchese però non demorde e scrive nuovamente al conte de L’Escaréne il 10 aprile 1832 e in maniera più determinata il 20 aprile: Allorché sua Maestà, avendomi nominato membro ordinario del Suo Consiglio di Stato fece rispondere da S.E. il Signor Conte di Saluzzo Presidente della Sezione cui venni addetto; alle rappresentanze da me fatte sullo stato di mia salute ch’essa vedrebbe con dispiacere la non accettazione per parte mia del sovraccennato impiego, la Maestà Sua degnossi di soggiungere che quando poi la mia salute non venisse a migliorare dopo il concessomi congedo io sarei in tempo di esporre l’ulteriore situazione, e ch’ella avviserebbe allora al mio rimpiazzamento. Ora appunto io mi ritrovo nel capo previsto dalla Reale bontà mentre la mia salute non migliorata pel ragguardevole spazio di tempo già trascorso, come pure il tenore di vita ch’essa necessariamente richiede non possono confarsi colle occupazioni dell’impiego commessomi e coll’adempimento dei doveri che ne fanno parte sostanziale: Confidando adunque nelle venerate espressioni sovrane prego V.S. Ill.ma di voler rassegnare quanto sopra a Sua Maestà ed impetrarmi la dispensa dell’impiego di membro ordinario del Consiglio di Stato con lasciarmi, ove così piaccia alla Maestà Sua, l’esercizio delle funzioni che stimo di affidarmi nella Commissione Sanitaria ultimamente creata. Ho l’onore di rassegnarmi, obb.mo. Torino, lì 20 aprile 1832. 9 IL «BENE COMUNE» NELL’AZIONE POLITICA DI TANCREDI 231 Così Tancredi abbandona la prestigiosa carica, ma in definitiva non fondamentale al bene comune. «[Pensava] che la sua opera potesse esplicarsi meglio e più utilmente altrove, e fu ben contento quando poté ritornare privato cittadino» 10. Non essendo ambizioso, non ama brillare ai posti di comando, che accetta soltanto «dans le vain espoir d’y faire quelque bien» 11 e quando non intravede tali obiettivi, si ritrae per non perdere tempo prezioso al bene comune. Ma che cos’è il bene comune? Il bene comune è davvero bene se si fonda su un ordinamento che travalica quello naturale, ovvero se è dettato dal vero bene di ciascuna persona ed è esattamente il concetto di «bene comune» al quale tendeva Tancredi di Barolo in qualità di amministratore della cosa pubblica. A lui è ascrivibile ciò che spiega il professor Giovanni Turco, dove si riscontra l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino: In una considerazione realistica, il bene per se stesso (quindi anche il bene comune) ha natura essenziale e perfettiva, causale e finale. Ogni bene ne partecipa secondo la propria natura, secondo la propria perfezione e secondo l’ordine degli enti. Il bene, in quanto tale, è comune secondo la proporzione fondata nella natura delle cose, ed è comune per ciò che esse hanno di comune, in rapporto alla causa, alla natura, al fine proprio. Parimenti l’ordine del bene è tale in virtù del bene, e partecipa del bene comune ai diversi beni ordinati, nonché dell’ordine, che per se stesso è un bene. A sua volta, l’ordine del bene è tale in virtù del bene comune ed attua il bene comune, proprio attraverso la retta disposizione degli enti ordinati. L’ordine del bene, quindi, è fondato sul bene comune e dà compimento al bene comune, attuandolo come fine dell’ordine stesso. […] Il bene comune si riferisce alla compiutezza del- 232 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA la bontà nell’agire, in quanto è comune (alla comunità ed ai suoi componenti). […] Il bene comune, quindi, esprime – eminentemente – la compiutezza della bontà della comunità, la quale si attua, sotto il profilo obiettivo, nell’ordine della giustizia, per il quale la disposizione (o l’ordinamento) è conforme al dovuto, così che la giustizia (generale) – secondo l’espressione di Alberto Magno – è «ciò che si deve, in quanto conviene alla natura e ai compiti dell’uomo in quanto uomo» 12. […] Se invece la comunità è pensata come il luogo del conflitto (sia pure istituzionalizzato) o delle scelte convenzionali (sia pure condivise) il bene comune risulta vanificato nella sua obiettività (e suscettibile di assumere qualsiasi contenuto). […] Il bene comune […] è essenziale a tutti i beni particolari ed al loro complesso, e non viceversa. Il bene comune ha una priorità logica e ontologica sui beni particolari, ed al contempo li trascende. Rispetto ad essi è trascendente per perfezione ed è immanente in quanto li fonda e li sostanzia. Di modo che i beni particolari – nel dispiegarsi della socialità umana – partecipano del bene comune, secondo la propria natura e la propria consistenza. In sostanza, senza il bene comune neppure hanno ragion d’essere i beni particolari. Nell’ordine del bene comune tutti i beni particolari trovano la ragione intrinseca della disposizione conforme alla loro natura. Il loro perseguimento razionale si iscrive nel tessuto dei vincoli di giustizia e nella essenziale tensione perfettiva di ciascuno (e di ciascuna comunità) e della comunità politica come tale. Secondo una osservazione tommasiana, il bene dell’uomo come cittadino è il bene comune della città 13. Infatti il bene di ciascuna delle parti (della comunità) va considerato in proporzione al tutto: «Perciò essendo ogni uomo parte di una città, è impossibile che sia buono, se non contribuisce al bene comune» 14. Donde la conclusione secondo la quale «è impossibile che il bene comune di una IL «BENE COMUNE» NELL’AZIONE POLITICA DI TANCREDI 233 città si possa raggiungere, se i cittadini non sono virtuosi, almeno quelli cui spetta governare» 15. 16 In sintesi: se il bene comune è determinato dai principi di verità e giustizia che vengono da Dio, allora questo stesso bene comune (etica politica) seguirà regole precise di comportamento, altrimenti l’arbitrarietà delle diverse ideologie e dei diversi rappresentanti politici detterà quale sia il «bene comune». Tancredi di Barolo operò esclusivamente in virtù dei principi di verità e giustizia divini, vero bene dell’uomo. Peculiare prerogativa di Tancredi di Barolo è la partecipazione responsabile alle attività a cui è destinato. Nei documenti custoditi all’Archivio Storico di Torino è segnalato come deputato «per li viali e passeggi» 17. Nel 1818 infatti si stanno disegnando sul tracciato degli antichi bastioni le caratteristiche strade alberate della città. È deputato per il Catasto nei primi anni Venti; diventa membro delle Deputazioni «per la notturna illuminazione e compagnia guardie fuoco», «per le leve, consegne e stato civile», «per la cassa de’ censi e prestiti». Si occupa anche di infrastrutture, come la costruzione di allacciamenti stradali, come quello tra Germagnano e Viù nelle Valli di Lanzo, a cui destinò più di 120 mila lire 18. Nella sua alacre e solerte attività amministrativa pensò a igienizzare l’ambiente urbano, a progettare nuove vie, piazze più ariose, giardini, viali, ad accrescere l’illuminazione notturna, un mezzo preventivo anche per le molteplici violenze e i delitti che si consumavano nelle ore notturne. Nel gennaio 1838 è deputato segretario per le scuole e in questa veste redige un’interessante «Memoria» 19, che rappresenta, in un certo senso, il coronamento del suo infaticabile impegno a favore dell’istruzione dei ceti popolari. 234 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Una questione gli sta particolarmente a cuore: la riforma delle scuole comunali «del disegno e geometria pratica», già esistenti sotto il Governo francese, ma delle quali gli pare opportuno modificare l’indirizzo e gli insegnamenti. Anziché all’educazione di un nucleo privilegiato e ristretto di aspiranti alla carriera artistica, egli propone di destinare tali istituti «all’immediata applicazione alle arti e ai mestieri», ossia alla formazione professionale della più ampia schiera di giovani da avviare al lavoro, offrendo loro un solido bagaglio di conoscenze teorico-pratiche. Nella relazione datata 1838, egli insiste sull’indirizzo da conferire alla scuola per offrire opportunità concrete di lavoro attraverso una formazione qualificata: «Scuola speciale di disegno geometrico esclusivamente applicato alle arti e mestieri, onde servire anche all’istruzione dei costruttori, o fabbricanti di qualunque macchina, utensile e arredo», e pensa ad un corso speciale che comprenda «gli elementi di figura umana… oltre tutte le derivazioni dell’ornato utile agli artigiani, e così il fogliame e rabesco d’ogni genere applicati al ricamo, alle tappezzerie, all’oreficeria, alle stoffe fioreggiate ed a tanti altri lavori simili» 20. Il primo anno in qualità di Sindaco è caratterizzato da importanti iniziative: elargizioni di denaro in soccorso degli indigenti, distribuzioni straordinarie di legna a favore dei poveri – nel rigidissimo inverno 1825-26 ne fece assegnare seimila razioni – interventi speciali per l’inserimento scolastico dei sordomuti. Si impegna direttamente anche in favore dei carcerati, risanando a sue spese, con opportune ristrutturazioni e riparazioni, l’Istituto penitenziario di Porta Palatina. La sua operosità a favore della città non conosce sosta. Quando ereditò tutto il patrimonio del padre si consultò sia con la madre che con la moglie per decidere di «suffragare la IL «BENE COMUNE» NELL’AZIONE POLITICA DI TANCREDI 235 morte del defunto, invece che con le solite beneficenze con l’offerta alla Città del mezzo per fare il tanto necessario nuovo Camposanto» 21. La sera del 22 febbraio 1828 giunse in Municipio una lettera del Decurione Falletti di Barolo: sulla missiva il Marchese proponeva di coprire egli stesso le spese della costruzione del nuovo cimitero di Torino, conoscendo le difficoltà economiche della civica amministrazione: l’erario municipale si era pressoché esaurito a causa dell’erezione del tempio della Gran Madre di Dio, ex voto della città per il ritorno di Vittorio Emanuele I sul legittimo trono. Uomo concreto e pratico, dalle poche parole e dai molti fatti, Falletti di Barolo parlò subito di cifre. Mai una lamentala, mai un rimprovero a qualcuno per risultati non raggiunti, mai una parola fuori posto, mai una critica, mai una vana polemica: non erano gli altri che dovevano fare, era lui che metteva a disposizione le sue capacità e i suoi mezzi per costruire, per sempre e ancora per creare. I cimiteri a Torino sono due: quello di San Pietro in Vincoli in Borgo Dora e quello antico di San Lazzaro, detto volgarmente della Rocca. La città, quindi, ha urgenza di provvedere in merito, sia per l’aumento demografico (emigrazione dalle campagne e migliori condizioni di vita), sia per ragioni sanitario-igieniche. Questa la somma già preventivata: 300.000 lire (equivalenti ad alcuni milioni di Euro attuali), ponendo alcune condizioni circa le spese d’ipoteca da avviare sul proprio patrimonio e cioè la corresponsione annuale di 15.000 lire a lui e alla moglie. Ma propose anche scadenze, non rimandando mai al domani i suoi impegni: sollecitava l’inizio dei lavori quanto prima. 236 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA La generosa offerta provocò un coro universale di ammirazione e di encomio ed il Municipio, intendendo esprimere al benefattore un pubblico attestato di riconoscenza, diede incarico ad un confidente del Marchese di saggiare in merito il di lui pensiero. La risposta fu pienamente coerente con gli ideali di viva partecipazione al bene della città e di cristiana fede: Tancredi esprimendo riconoscenza per i sentimenti dei colleghi, manifestò un desiderio modesto ma significativo: la collocazione nel nuovo cimitero, alla sua morte, di una lapide che invitasse i visitatori del luogo sacro ad una preghiera di suffragio per lui stesso, i genitori e la sposa. 22 Questo era Tancredi Falletti di Barolo, per il quale contavano essenzialmente la salvezza dell’anima e la riconoscenza a Dio. Il Camposanto fu progettato dall’architetto Lombardi che lo disegnò secondo il pensiero del Marchese. Lo scopo era quello che ogni cadavere giacesse separatamente dagli altri «e più non fossero come prima i corpi de’ non facoltosi accatastati nei pozzi comuni» 23. Il dono alla città è ricordato ad ogni generazione con un’epigrafe latina, scolpita nella grande lapide marmorea posta nell’atrio a ponente della chiesa dello stesso cimitero. Il gesto del Marchese desta nell’intero corpo amministrativo, «sentimenti della più sincera ammirazione e della più profonda riconoscenza» 24. L’offerta vuole essere, come egli stesso spiega ai sindaci neo designati, segno di gratitudine ed espressione della sua «devozione» alla città. Il Collegio decurionale deliberò pertanto di esternare il ricordo del generoso collega con un segno duraturo all’interno della necropoli, ove con l’esborso di 600 lire il Marchese, nell’ottobre del 1829, si assicurò un sito di sepoltura privata. IL «BENE COMUNE» NELL’AZIONE POLITICA DI TANCREDI 237 Il 23 ottobre 2013 le sue spoglie sono state esumate 25 per essere trasferite nella chiesa neogotica di Santa Giulia in borgo Vanchiglia, dove è sepolta Juliette dal 19 gennaio 1899 (la prima sepoltura aveva avuto luogo accanto al consorte nel Cimitero monumentale), chiesa che lei fece erigere 26. Le spoglie sono state deposte in un sarcofago che è stato collocato su una lastra di marmo nel lato destro del transetto. Il secondo anno del suo mandato di Sindaco (1827) è volto soprattutto allo «stabilimento di una cassa di risparmio», alla riorganizzazione degli uffici municipali e alla riforma delle scuole. Uomo deciso e risoluto, attivo e geniale nei progetti che conduce al traguardo, nella primavera di quell’anno, dà impulso all’edificazione del tempio votivo d’oltre Po, la Gran Madre. Nel 1814 infatti il Consiglio civico aveva deliberato la realizzazione di una chiesa, quale segno di manifesto ringraziamento per il ritorno di Vittorio Emanuele I sul trono dei Savoia. Grazie all’interessamento del Marchese (e alla cospicua somma elargita da re Carlo Felice) l’impresa va a compimento, superando difficoltà economiche ed ostacoli. La consacrazione del tempio in onore della Gran Madre di Dio, «ob adventum regis», avrà luogo nel mese di maggio del 1831. Leggendo i verbali municipali, si può constatare come il Marchese fosse sempre presente, anche nell’ordinaria amministrazione pubblica: non è stato membro attivo soltanto nei momenti più rilevanti e innovativi della vita cittadina, ma si è distinto nell’assiduo e costante interesse alla realtà circostante, senza clamori, senza eccessi di sorta. Ed ecco che la sua intelligente capacità di mediazione, il suo equilibrio, i suoi gesti misurati gli meritarono sempre, nel corso del lungo laborioso cammino, l’ammirazione e il rispetto dell’assemblea. 238 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Pensò anche ai disoccupati ed ogni sua opera lo presenta nell’umile atto di chinarsi verso la classe popolare e dotarla non solo di aiuti provvisori, oggi presenti e domani chissà, bensì di soluzioni decisive e risolutive. Il «bene comune» era per il Marchese un dovere ed una responsabilità da espletarsi davanti a Dio e davanti agli uomini. Nel 1988 Andrea Maria Erba scrisse sull’«Osservatore Romano»: Torino non finisce di stupire… ecco spuntare fra tanti piemontesi illustri la singolare figura di un laico «santo», sposato, fondatore di una Congregazione di Suore… che ha il torto di non essere conosciuto in tutta la sua grandezza. Si tratta di una personalità di eccezione che, tra Settecento ed Ottocento, si muove autorevolmente nel mondo dell’aristocrazia, tra politica e cultura, con la mente e il cuore e le mani unicamente tesi a Dio e al prossimo… Ma quale fu… il segreto del suo zelo apostolico e dell’efficacia della sua multiforme attività? La risposta non ammette dubbi: fu la solida formazione cristiana e l’altissima spiritualità. Alcune sono conservate nel suo Minutario all’Archivio Storico della famiglia Barolo e all’Archivio di Stato di Torino. 2 Per ulteriori approfondimenti: R. Roccia, Mutamenti istituzionali e uomini «nuovi» nell’amministrazione municipale, in Ville de Turin 1798-1814, a cura di Giuseppe Bracco, Archivio Storico della Città di Torino, 1990, I, pp. 15-54. Oppure: R. Roccia, Gerarchia delle funzioni e dinamica degli spazi nel palazzo di Città tra XVI e XIX secolo, in Palazzo di Città a Torino, Archivio Storico della Città di Torino, 1987. Sull’accesso alle cariche cfr. D. Balani, Torino capitale nell’età dell’assolutismo: le molte facce del privilegio, in Dal trono all’albero della libertà. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di 1 IL «BENE COMUNE» NELL’AZIONE POLITICA DI TANCREDI 239 Sardegna dall’antico regime all’età rivoluzionaria (1789-1802), Atti del Convegno, Torino, 11/13-IX 1989, pp. 285-284. 3 Tancredi Falletti di Barolo, Lettera ai Sindaci, 25 agosto 1834, ASCT, Ordinati, vol. 350, p. 390. 4 A.S.T., sez. I, Materie giuridiche, Consiglio di Stato. 5 Ivi. 6 S. Romano, Le funzioni e i caratteri del Consiglio di Stato, «Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario», Roma 1932, p. 7. 7 La villa di Moncalieri era quella di villeggiatura dei Marchesi. 8 C.T. Falletti di Barolo, in Minutario, ms, Lettera dell’ 8/IX/1831 al dispaccio del conte de L’Escaréne; ASFBT. 9 C.T. Falletti di Barolo, in Minutario, ms, Lettera del 20 aprile 1832. Archivio Storico Opera Barolo. 10 R. M. Borsarelli, Nuovi documenti intorno alla rinascita del Consiglio di Stato nel 1831, «Rassegna storica del Risorgimento», anno XXIII, fasc. 10, ottobre 1936. 11 Cfr. R.M. Borsarelli, Giulia di Barolo e le opere assistenziali in Piemonte, nel Risorgimento, Chiantore, Torino 1933, p. 30. 12 Alberto Magno, De bono, V, q. 3, a. 2 in A. Magno, Il bene, introduzione, traduzione e note di A. Tarabochia Canavero, Rusconi, Milano 1987, p. 620. 13 Cfr. Tommaso d’Aquino, De Car., a.2. 14 Tommaso d’Aquino, Summa Theologie, I, II, q. 92, a. 1, ad 3 («Bonitas cuiuslibet partis consideratur in proportione ad suum totum»). 15 Tommaso d’Aquino, Summa Theologie, I, II, q. 92, a.1, ad 3. 16 G. Turco, La politica come agatofilia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2012, pp. 199-208. 17 Leggiamo in E. Busca, Nel centenario della morte del Marchese Tancredi cit., nota p. 10: «Il Capo dell’Ufficio Tecnico del Municipio, Ing. Ghiotti, ebbe a dire a un amico che parecchi lavori di rimodernamento e di abbellimento della città, fatti assai tempo dopo la morte del Marchese di Barolo, erano stati da lui ideati e progettati». 18 Monsignor Edoardo Busca parla di 125.000 lire. 19 Archivio Storico della Città di Torino, Collezione IX, vol. 194, «Carte relative alle Scuole del disegno». La Memoria reca la data del 15 gennaio 1838. 20 Archivio Storico della Città di Torino, Ordinati, vol. 342, pp. 262-266 e 313-317, verbali del 28 e 30 agosto 1826. 21 D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico cit., p. 14. 240 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA D. Luzzetti, Educazione ed istruzione popolare nell’esperienza del Marchese Tancredi Falletti di Barolo, Tesi di laurea A.A. 1991-1992, Storia del Risorgimento, corso di laurea in Pedagogia, p. 24. Cfr. anche Archivio Storico della Città di Torino, Ragionerie, 1828, vol. 26, pp. 383-384; Ragionerie n. 8 del 21 febbraio 1828, pp. 395-397. 23 Cfr. G. Baruffi, Il camposanto di Torino: passeggio nei dintorni dei torinesi, G. Favale, Torino 1863, p. 87. 24 Archivio Storico della Città di Torino, Ragionerie, 1828, vol. XXVI, pp. 383-384. 25 Il primo assenso alla traslazione delle spoglie del Marchese di Barolo era stato dato nel 2003 dal Cardinale Severino Poletto. 26 Nel 1862 iniziarono i lavori di edificazione e la prima pietra venne posta il 22 maggio 1863, festa di Santa Giulia, ma Juliette, per umiltà, non prese parte alla cerimonia; voleva, infatti, che fosse unicamente a gloria del Signore, come dimostra il motto che fece scrivere intorno al rosone: «Absit gloriari nisi in cruce Domini nostri Jesu Christi». I lavori terminarono nella primavera del 1866 e la chiesa venne aperta al culto il 23 giugno; sarà ufficialmente eretta a parrocchia il 1° settembre del 1866. 22 15 Committente e mecenate Nel 1837 il Marchese di Barolo incaricò Pietro Ayres di eseguire una pala d’altare con L’angelo custode da destinare all’altare della Confraternita degli Angeli Custodi di cui era membro, nella chiesa di San Francesco d’Assisi di Torino, dove ancora si trova. A quel tempo il nobiluomo si trovava a Firenze, dunque a fargli da mediatore fu l’incisore Pietro Palmieri junior. Questi era direttore della Scuola municipale di disegno e geometria pratica, oltre ad essere Custode dei disegni e stampe della Reale Galleria. Probabilmente fu la sua prima carica a metterlo in contatto con il Marchese, noto organizzatore e sostenitore a Torino come a Varallo di scuole d’arte professionali, membro d’onore dell’Accademia Albertina, nonché collezionista d’arte e proprietario di una raccolta antica e moderna di dipinti e sculture, fra le più prestigiose della capitale subalpina. Tramite Palmieri, consulente molto apprezzato dal Marchese, l’artista gli inviò un bozzetto dell’opera da realizzarsi. Venne approvato con alcune modifiche, come l’aggiunta iconografica, secondo quanto si legge sulla lettera datata 2 febbraio 1837, di «serpe minaccioso, spini pungenti, aspri sassi», per rendere evidente il «conforto dell’angelo che addita 242 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA il Paradiso». Ma questi accorgimenti vennero indicati da Tancredi con estrema garbatezza ed umiltà, come era suo solito fare. Infatti così si esprime: «Si potrebbe senza mutare il gruppo rappresentarlo sulla falda d’un monte scosceso con sentiero ripido che sale verso la cima… il che indicherebbe i pericoli e disagi di questa vita, spiegherebbe il venir meno dell’anima scoraggiata e il conforto dell’Angelo che addita al Paradiso» 1. Dalla corrispondenza baroliana, apprendiamo che Ayres, già nel 1832, era in relazione con il Marchese, il quale in quell’anno aveva pensato di commissionargli un Gesù tra i fanciulli, tema particolarmente caro a Tancredi e oggettivamente mirato alle opere benefiche di cui egli era protagonista. Scrive Falletti di Barolo al Professore Palmieri (Firenze 8 gennaio 1832): Si tratta di far lavorare un giovine ch’ella ama e protegge [Ayres dal 1829 al 1838 insegnò figura umana nella scuola comunale di disegno diretta dal Palmieri 2]… Io bramerei far eseguire da Ayres un quadro che figurasse Gesù Cristo nell’atto in cui accogliendo i fanciulli che gli vengono presentati, dice quelle memorande parole sinite parvulos venire ad me… L’argomento è già stato trattato… da Thorvaldsen in un basso rilievo che si vende inciso da tutti li mercanti di stampe, e di cui ho fatto fare una cattiva copiarella in colore, ch’ella può farsi rimettere dalle Maestre della scuola [così chiama il suo Asilo, poiché i minori non venivano solo raccolti, ma formati ed educati] di ricovero pei ragazzi esistente al pian terreno di mia casa… il Salvatore dovrebbe essere seduto ai piedi d’una palma o d’altro albero in Palestina, in mezzo di alcuni discepoli, ed a far contrapposto a costoro, il gruppo che spinge innanzi i fanciulli dovrebbe essere principalmente composto di donne. 3 COMMITTENTE E MECENATE 243 Queste testimonianze epistolari documentano in parte, oltre che il mecenatismo artistico del Marchese, anche i suoi gusti collezionistici. Qualcuno arriverà a definirlo la persona più esperta del suo secolo. Due cose sono evidenti nel binomio Marchese-arte: una capacità di definizione oggettiva del bello di questa o quell’opera, di questa o quella costruzione, ed una vasta memoria storica, che abbraccia tutto l’arco degli eventi che la compongono. Più volte i Barolo svernano a Firenze, quasi sempre per ragioni di salute (per molto tempo alloggiarono in albergo, poi, dal dicembre 1836, in casa Ceretani, sulla piazza vecchia di Santa Maria Novella): in questa città dove tutto parla di storia ed arte cristiana, Tancredi è felice. Amante della scultura, oltre a parlare lodevolmente di «giovani scultori» fiorentini, possiede nella sua collezione due importantissimi pezzi neoclassici: l’erma di Saffo 4, commissionata ad Antonio Canova e acquistata nel 1820, e un rilievo su disegno di Thorvaldsen del 1828, eseguito da Bogliani, allievo dello scultore danese a Roma. Un’altra commissione venne fatta nel 1833 al pittore Migliara, si trattava di eseguire un quadro storico: Guglielmo Falletti di Barolo e Luigi XI nell’atrio del castello di Plessis-La-Tour 5. Nel testamento Juliette lascerà scritto che la collezione pittorica del consorte andrà in dono alla Pinacoteca Reale di Torino con l’obbligo di essere pubblicamente riconosciuta come proprietà originaria del Marchese. Per testimoniare il suo costante compito di esprimere il volere del coniuge, Juliette puntualizza: «Come in vita ho eseguito… i manifestatami desideri, così mi accingerò a farli eseguire dopo morte» 6. Con una lettera del 30 gennaio 1864, undici giorni dopo la morte della Marchesa, l’ispettore della Reale Pinacoteca di 244 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Torino, Luigi Gandolfi, informò il ministro dell’Istruzione Pubblica di questo legato testamentario, chiedendo l’autorizzazione per avviare le pratiche di esecuzione. Vittorio Emanuele II affidò a Massimo d’Azeglio (1798-1866), esperto di arte antica e direttore della stessa Pinacoteca, l’incarico di oltrepassare il portone di via delle Orfane per effettuare la scelta dei quadri. Il direttore si trovò di fronte ad una collezione favolosa. Qualche esempio: La Beata Vergine col Bambino e angeli di Giotto, La Beata Vergine col Bambino, San Giovanni ed un angiolo di Botticelli, Sacra Famiglia di Andrea del Sarto, Suonatore di chitarra di Caravaggio, Il Redentore del Guercino, Madonna col Bambino del Sassoferrato, Deposizione di croce di Tintoretto, Ritratto dello Spagnoletto, Sacra Famiglia dell’Albani, Giuliano de’ Medici del Giorgione, Autoritratto di Rembrandt, Il Salvatore del Guercino, Ritratti di Famiglia di Van Dyck. Le opere che lasciarono il Palazzo per destini pubblici furono in tutto quarantacinque. Alcuni dei quadri della collezione erano stati ereditati da Tancredi sia dalla famiglia Provana di Druent che dai Falletti di Barolo e in particolare dal colto e dotto padre Ottavio. Ma la maggior parte del patrimonio era frutto dei suoi interessi. Le tele giungevano soprattutto dalla Toscana e dalla Francia, e risalivano ai secoli XVI-XVII-XVIII con prevalenza di soggetti religiosi. La raccolta Barolo, che voleva anche essere modello per la sensibilità artistica dell’epoca, era conosciuta ed ammirata negli ambienti specializzati di tutta Europa. La Marchesa, finché rimase in vita, non si volle separare dalla quadreria che il marito aveva realizzato lungo gli anni e lei sapeva con quanto amore artistico il marito aveva acquistato quei dipinti. Accompagnato da Luigi Gandolfi e Carlo Arpesani, d’Azeglio svolse il suo compito e i dipinti gli furono consegnati COMMITTENTE E MECENATE 245 il 28 aprile del 1864. Inventario e relazione del sopralluogo furono sottoscritte dai tre ispettori e d’Azeglio aggiunse che «sarà sua cura acciò sia operata la destinazione loro fissata dalla testatrice, cioè la loro esposizione nel Reale Museo di questa città coll’indicazione che essi provengono dalla successione del Sig. Marchese di Barolo» 7. Purtroppo, per la noncuranza, quando la quadreria Barolo entrò in Pinacoteca, la memoria inventariale della loro provenienza, a poco a poco, si affievolì fino a rendere l’identità della donazione al 50 per cento delle opere. Il Fondo Barolo resta comunque la seconda acquisizione più ampia, dopo la collezione Gualino, della Galleria Sabauda. F. Dalmasso, Lettere di un filantropo amante dell’arte. Un contributo alla storia della committenza nell’Ottocento, «Studi Piemontesi», marzo 1978, vol. II, fasc. I, p. 147. 2 Cfr. Archivio di Stato di Torino, «Carte relative alle Scuole del Disegno – 1823-1838», collezione IX, numero 194. 3 C.T. Falletti di Barolo, Lettera al Professor Pietro Palmieri, Firenze, 8 gennaio 1832, in F. Dalmasso, Lettere di un filantropo amante dell’arte cit., p. 145. 4 Ora l’erma di Saffo si trova alla Galleria civica d’arte moderna di Torino. 5 Questo dipinto è conservato alla Galleria civica d’arte moderna di Torino. 6 D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico cit., p. 10. 7 Archivio Storico della città di Torino, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione generale di antichità e Belle arti, 1° versamento, busta 344, fasc. 227, sott. 5. 1 16 Al loro passare nulla resta come prima I Marchesi agivano sostenuti perpetuamente dalla Santa Messa, dalla pratica dei sacramenti, dalla preghiera e dal consiglio dei confessori. Il portone del loro Palazzo era varcato da sacerdoti come il venerabile Pio Brunone Lanteri o come il teologo Luigi Guala (1775-1848), il cardinale Giuseppe Morozzo della Rocca 1, San Giuseppe Cafasso e San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Purtroppo sono scarsissimi i documenti riguardanti gli incontri fra i Marchesi e le loro personali guide spirituali, ma il loro benefico influsso ha senz’altro giovato su spiriti già maturi per loro natura. Sia Lanteri che Guala si fecero portavoci dell’antigiansenismo teologico e si preoccuparono di proporre ai loro assistiti una carità né occasionale, né facoltativa, ma indicandola come via privilegiata per la remissione dei peccati e per la salvezza eterna. Tancredi e Juliette cercano il profitto spirituale ed etico in ogni operazione e al loro passare nulla, spiritualmente, eticamente, materialmente, resta come prima. Non si accontentano della solidarietà fra i membri della società civile, ma cercano di instaurare il Regno sociale di Gesù Cristo. Accumulano ricchezze, attraverso una scrupolosa amministrazione mobile ed immobile, avendo sempre presenti le richieste del 248 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA prossimo: moltiplicano i beni per il bene del prossimo. È l’opera di Dio, a cui nulla è impossibile. Il loro «cammello» passa nella cruna dell’ago 2. Il Marchese è convinto, come la moglie, che occorra andare alla radice dei problemi per risolverli; pensa, per esempio, che, con una sana istruzione infantile, oltre all’incremento della moralità pubblica, si sarebbe contribuito a migliorare la robustezza fisica della classe indigente, quindi: Un soccorso ben ordinato a favore della prima infanzia serve in seguito a risparmiare tante altre limosine a pro di madri senza lavoro, di giovani senza mestiere, di persone inette o traviate, e d’altre indisposte, deboli o malaticce», contribuendo «per direttissime vie all’abolizione della mendicità, al miglioramento della morale pubblica ed alla vera prosperità dello Stato. 3 Lavorano continuamente, santificando ogni occupazione. Non importa se sono chini sulla scrivania a fare conti, a scrivere lettere; se sono al Palazzo Civico lui, in carcere lei; con le Suore di Sant’Anna lui o le Suore Maddalene lei; oppure sono intenti a preparare relazioni amministrative, sanitarie, carcerarie, scolastiche… Nel piccolo o nel grande di ogni giorno essi tengono lo sguardo fisso in Dio. Insegna san Girolamo: Anche nelle piccole cose si dimostra la grandezza d’animo. Il Creatore, effettivamente, non lo ammiriamo soltanto in considerazione del cielo e della terra, del sole e dell’oceano, degli elefanti, dei cammelli, dei cavalli, e dei buoi e leopardi e orsi e leoni, ma anche degli animali più piccoli, come le formiche, le zanzare, le mosche, i vermiciattoli e insetti del genere che noi conosciamo più di vista che di nome; e in ognuno di questi esseri noi 249 AL LORO PASSARE NULLA RESTA COME PRIMA veneriamo un’identica ingegnosità divina. Così, un’anima votata a Cristo porta la sua attenzione, senza differenza, tanto alle cose grandi quanto alle più piccole. 4 Tancredi e Juliette, moltiplicatori di Carità, si ingegnarono per realizzare opere atte a soccorrere i bisognosi. Il Marchese si concentrò a promuovere iniziative socialmente rilevanti e utili all’intera collettività cittadina, al fine di dotare la classe popolare di «mezzi acconci a elevarsi a condizione migliore» 5, armonizzando le diverse realtà sociali, mediante l’elevazione spirituale, morale, culturale della popolazione. Pur agendo sempre in mirabile armonia, i coniugi Barolo realizzarono e portarono avanti opere diverse e distinte, come risulta dai documenti in nostro posseso. Dopo la scomparsa di Tancredi, tutti gli Istituti passarono sotto la responsabilità di Giulia, «la quale li fece procedere con la sua ben nota intelligenza, energia ed attività. Questa fu la ragione per cui in seguito essi furono considerati tutti di sua esclusiva creazione da quelli che per tanti anni la videro occuparsene da sola» 6. Le varie opere realizzate possono essere così elencate: COMUNITÀ RELIGIOSE CHIAMATE A TORINO PER INTERESSAMENTO DIRETTO DI JULIETTE: – Suore di San Giuseppe di Chambéry. – Dame del Sacro Cuore per l’educazione delle giovani dell’aristocrazia e dell’alta borghesia. – Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento. OPERE ECCLESIALI: – Istituto delle Sorelle Penitenti di Santa Maria Maddalena (oggi Figlie di Gesù Buon Pastore) fondate da Juliette, con la 250 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA finalità di espiare il peccato e di educare adolescenti già avviate al vizio della strada. – Istituto delle Suore di Sant’Anna, fondate dai coniugi Barolo, con lo scopo di educare la fanciullezza e la gioventù delle classi meno abbienti. – Oblate di Santa Maria Maddalena fondate da Juliette per il servizio all’Ospedaletto di Santa Filomena. OPERE EDUCATIVE: – Scuola Borgo Dora (su interessamento di Juliette): per dare istruzione elementare ed adeguata educazione alle figlie di famiglie con gravi difficoltà economiche. – Scuole comunali di italianità promosse da Tancredi, il quale ottenne che la direzione delle medesime fosse affidata ai Fratelli delle Scuole Cristiane. – Asilo Barolo, fondato dai coniugi per i figli delle famiglie povere operaie. – Educandato di Sant’Anna: scuola e collegio tenuti dalle Suore di Sant’Anna per ragazze della piccola borghesia. – Orfanotrofio voluto dai Marchesi ed affidato alle Suore di Sant’Anna per istruire ed educare le bambine rimaste orfane a causa del colera. – Scuole Cattoliche nella diocesi di Pinerolo: sovvenzionate dalla Marchesa per dare un’educazione cristiana alle ragazze di quelle valli, dove le scuole erano gestite prevalentemente dai valdesi. – Collegio Barolo: realizzato nel castello di Barolo dopo la morte di Tancredi, con lo scopo di offrire un’istruzione e una formazione tecnica ai giovani capaci, ma con scarse possibilità economiche. – Oratorio della parrocchia di Santa Giulia, voluto da Juliette accanto alla Chiesa da lei fatta costruire. AL LORO PASSARE NULLA RESTA COME PRIMA OPERE 251 SOCIALI DESIDERATE E REALIZZATE IN PARTICOLARE DA JU- LIETTE ED ASSECONDATE DALLO SPOSO, FINCHÉ FU IN VITA: – Associazione delle Signore della carità: operante nelle parrocchie torinesi di San Dalmazzo, del Carmine, di Sant’Agostino, con l’impegno non solo di distribuire elemosine, ma di visitare i poveri e di diffondere l’istruzione cristiana. – Educazione cristiana all’interno delle carceri femminili di Torino: istruzione, catechismo, lavoro. Promozione della riforma carceraria. – Rifugio: luogo di educazione preventiva e redentiva, accoglieva giovani «pentite» ed ex-carcerate. Annesso vi era il Rifugino per ragazze a rischio. – Maddalenine: il collegio, annesso al Monastero delle Maddalene, accoglieva quaranta ragazze, dai 7 ai 14 anni, pericolanti o già cadute nel vizio. – Ospedaletto di Santa Filomena: offriva cure mediche e riabilitative, compresa l’educazione, a bambine dai 3 ai 12 anni, povere e disabili. – Laboratorio di San Giuseppe: annesso all’Ospedaletto di Santa Filomena. Nel laboratorio convenivano le ragazze dai 10 ai 18 anni per imparare a svolgere lavori retribuiti, ricevendo, contemporaneamente, istruzione cuturale e religiosa. – Famiglie di operaie: le ragazze vivevano insieme, lavorando nelle botteghe artigiane e venendo istruite cristianamente. Amministrare l’immenso patrimonio Barolo e sovraintendere l’organizzazione interna delle estese tenute agricole, significava per Tancredi e Juliette occupare diverse ore al giorno. Ma era un impegno che li entusiasmava: con le entrate derivanti da vigneti, campi, cascine, poderi e quant’altro, fu possibile coprire le spese provenienti dalla 252 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA fondazione, organizzazione e manutenzione di tutti i loro Istituti e quello che avanzava veniva dato in offerta ad altre realtà benefiche. Quando Tancredi iniziò ad occuparsi del patrimonio ereditato dal padre «a tutt’uno si diede all’amministrazione della propria casa, riordinando, riparando, riformando» 7. I redditi venivano riversati nella costruzione e nella ristrutturazione di «ospizi, chiese, scuole, incoraggiava le belle arti, favoriva quanto fosse utile al paese» 8. Instancabili di fronte alle occupazioni che sostenevano senza posa, questi sposi fuggirono ogni tipo di onore. Tancredi si fece promotore di nuove tecniche di coltivazione per migliorare la produzione agricola e agì direttamente per offrire migliori condizioni di vita ai suoi contadini. Profondamente convinto che l’istruzione dei giovani fosse il perno su cui maggiormente bisognava insistere, aprì scuole d’istruzione popolare e professionale, destinate a quei ragazzi del popolo che, terminata la frequenza delle classi elementari intendevano intraprendere un mestiere. Nel settembre 1831 il Marchese donò una Cascina e i beni detti del Casino di Torino alle Dame dell’Istituto del Sacro Cuore di Gesù: «Siccome essenzialmente utile alle loro allieve». Nella donazione incluse il giardiniere, preoccupandosi del suo futuro: «Sarà pure a carico delle Dame donatarie dal 1° marzo prossimo il pagargli il suo solito stipendio e lasciargli l’alloggio, ed orto ed altri vantaggi di cui egli gode attualmente…». Tutto secondo giustizia. Pensò ai disabili e precisamente ai ragazzi audiolesi, predisponendo alcuni posti per loro, a spese del Comune, nella scuola Scagliotti per sordomuti, uno dei primi istituti fondati a Torino a tale scopo: si trattava di minori le cui famiglie si trovavano in scarse condizioni economiche 9. AL LORO PASSARE NULLA RESTA COME PRIMA 253 La sua amministrazione vide l’apertura di due scuole elementari, con approvazione del Regio Biglietto datato 25 settembre 1827. Inoltre, pensò a fornire il mezzo per agevolare il lavoro dei poveri contadini delle valli di Lanzo: Non mi sembra oggetto di minor importanza il poter procurare, con por mano quanto prima alla suddivisata strada, un competente lavoro pei miseri abitatori di quei monti affinché esauriti quali si trovano dai sacrifici fatti per campar vita durante la passata dura stagione e contemporanea lunga carenza di viveri essi possono guadagnarsi per venturo inverno quel vitto che più non potrebbero procacciarsi altrimenti… 10 Tancredi fu membro dell’Accademia delle Scienze di Torino. Le lettere patenti di fondazione dell’Accademia vennero firmate da Vittorio Amedeo III il 25 luglio 1783. Il 30 novembre dello stesso anno fu accettato, per il collegio dei soci, il motto «Veritas et utilitas». Nel 1784 il re indicò come sede dell’Accademia la sala del teatro nel palazzo del Collegio dei Nobili, retto dai Gesuiti. Quando il Marchese di Barolo aveva 44 anni venne accolto dall’istituzione. La prima volta che il suo nome compare sul registro dei soci è il 30 novembre 1826. La sua presenza, nei dodici anni di iscrizione, fu molto rara. La sua parola non si udì mai, tranne il 25 giugno 1829, quando propose la nomina di Cesare Balbo ad accademico. Fra il 1827 e il 1835 divenne membro aggiunto del Consiglio di amministrazione per un sessennio con Luigi Provana e per un triennio con Giuseppe Manno. Nonostante la sua ottima conoscenza geografica, il suo gusto narrativo e memorialistico, le sue ampie conoscenze artistiche e tecniche, il Marchese non si occupò granché delle 254 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA vicende dell’Accademia: per un uomo d’azione come lui, sarebbe stato tempo sprecato il frequentarla. Grandi meriti si fece anche nel campo finanziario. Le istituzioni creditizie private erano già state avviate e collaudate lungo il corso del XVIII secolo. Tuttavia i capitali venivano spesso gestiti da banche svizzere. Il fallimento della banca Morris nel 1751, che ebbe pesanti ripercussioni, fu un fatto determinante per costituire un banco subalpino di consistenti proporzioni, che avrebbe dovuto emancipare il territorio dall’egemonia di banche straniere e la fiorente industria della seta innescò un processo positivo in questo senso. Nello Stato sabaudo la svolta avvenne nel 1827 e vide protagonista, ancora una volta, Tancredi Falletti di Barolo. Egli non pensò ai grandi capitali, ma a quelli piccoli, per migliorare le condizioni economiche della povera gente. Ideò pertanto la fondazione della Cassa di Risparmio di Torino, diretta alla tutela delle persone meno facoltose, dando loro la possibilità di consolidare o innalzare la loro condizione sociale. Nella cosiddetta «notificanza» 11 istitutiva della Cassa di Risparmio vengono alla luce le realistiche preoccupazioni umanitarie di Tancredi e non si tratta di apprensioni infondate: la povertà mieteva vittime nelle città, nelle campagne e nelle zone montane, molte delle quali erano costrette, per i loro pesanti indebitamenti, a mettersi nelle mani degli usurai, i cui tassi di interesse erano molto elevati, raggiungendo persino il 60% annuo. La delibera della Giunta decurionale 12, resa pubblica il 4 luglio 1827, stabilì l’apertura presso l’Ufficio dei censi e prestiti di una Cassa volta a «conservare ed accrescere il tenue risparmio dei giornalieri guadagni». L’iniziativa venne accolta con grande favore dal Governo sovrano come dimostra la corrispondenza intercorsa fra l’Amministrazione civica ed AL LORO PASSARE NULLA RESTA COME PRIMA 255 il Primo segretario delle Finanze, il quale predispose l’esenzione, dell’istituenda Cassa, dal diritto di bollo su registri, libretti e documento cartaceo burocratico. Chi erano i primi clienti della Cassa creditizia? Domestici, chiamati «servi» (47,20%), operai (16,13%), negozianti (2,26%), studenti (2%), militari (0,94%), impiegati (4,27%), sacerdoti (0,80%) e persone «senza professione» (26%; percettori di piccoli redditi). Tutti potevano accedere alla Cassa, purché depositassero non meno di duecento lire. Per la prima volta nel Regno di Sardegna qualcuno pensava ai piccoli risparmiatori e sull’esempio di questa fortunata istituzione, nel 1844 fu fondata la Banca di Genova, seguita nel 1847 dalla Banca di Torino, al fine di appoggiare la crescita del settore agricolo e dell’industria. Le due realtà vennero poi fuse insieme, dando vita alla Banca nazionale sarda. Un’altra attività dell’instancabile Tancredi fu in campo sanitario. Nel 1832 fu chiamato, in virtù delle sue note capacità e della sua irreprensibilità, ad amministrare l’Ospedale di Moncalieri; in una lettera del 3 maggio indirizzata al Conte de L’Escaréne, primo segretario per gli Affari Interni, egli ringrazia il Re dell’alto onore concessogli. Più tardi la cittadinanza di Moncalieri, riconoscendo i suoi servizi di soccorso ai poveri, formulò un encomio in onore del Marchese che venne reso pubblico con un manifesto al Palazzo civico. Accanto all’Ospedale, con la collaborazione di Juliette, Tancredi stava per adattare una casa di sua proprietà all’accoglienza dei bambini infermi poveri, bisognosi di una lunga degenza. Non riuscì a completare il lavoro e, dopo la sua morte, la moglie decise di trasferirlo a Torino, dove nel 1845 sorse l’Ospedaletto di Santa Filomena. 256 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Il cardinale Giuseppe Morozzo (1758-1842), vescovo di Novara (1817) contribuì a risolvere la vertenza tra Chiesa e Stato per la restituzione dei beni incamerati in epoca napoleonica. 2 Cfr. Mt 19,23-24. 3 C.T. Falletti di Barolo, Sull’educazione della prima infanzia della classe indigente. Brevi cenni dedicati alle persone caritatevoli, Chirio e Mina, Torino 1832, p. 60. 4 San Girolamo, Epistolae, 60,12. 5 In «Luce centenaria», periodico delle Suore di Sant’Anna, maggio-giugno 1950. 6 D. Massè, Un precursore nel campo pedagogico cit., p. 10. 7 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 38. 8 Ivi. 9 Cfr. Archivio Storico dell’Opera Barolo, mazzo 216, n. 13; Consiglio generale 4 agosto 1826; cong. IX, par. II; A.B.T., m. 216, n. 13; Consiglio generale 4-30 agosto 1826; cong. IV, par. 16 e cong. IX; A.B.T., m. 216, n. 13; Consiglio generale 30 aprile 1826, cong. I, par. 12 e cong. II, par. 12. 10 C.T. Falletti di Barolo, in Minutario, Archivio Storico dell’Opera Barolo, mazzo 216, n. 14, giugno 1837. VNotificanza concernente lo stabilimento della Cassa di Risparmio ossia l’impiego a moltiplico presso la Cassa dei Censi e Prestiti della Città di Torino, Eredi Botta, Torino, 4 luglio 1827. 12 Ordinati, Consiglio Generale VI, 30 giugno 1827, vol. 343, pp. 334-335, ASCT. 1 17 Il «Cholera Morbus» e il pianto dei poveri Una mattina dei primi di settembre del 1831, re Carlo Alberto di Savoia-Carignano, da poco salito al trono del Regno di Sardegna, si recò a Borgo Dora, quel sobborgo continuamente immerso in un’atmosfera umida e fredda, impregnata di esalazioni fetide. Da alcuni giorni era giunta al Governo la notizia che tra gli abitanti di quelle case, sorte intorno alle manifatture che sfruttavano l’energia prodotta dai salti d’acqua del fiume Dora, serpeggiava un’epidemia di «febbri intermittenti», con punte di 900 malati. L’episodio, che sembra ricalcare il ritratto lasciato da Vittorio Bersezio (1828-1900) su Carlo Alberto, ovvero quello di un sovrano che avrebbe voluto veder tutto, sapere tutto, conoscere tutto del suo popolo, permise al Re di vedere personalmente come vivevano le persone di quel luogo, ossia in mezzo ad ogni sorta di immondizia e di sudiciume, causa principale delle malattie epidemiche. Grazie a quella visita il sovrano provvide ad elargire in Borgo Dora vino, carne, brodo e pane, mentre al vicario di Polizia fu dato l’ordine di far rimuovere i mucchi d’immondizia. Le «febbri» erano provocate e alimentate dalla miseria, dal numero eccessivo delle malattie, le quali, oltre a provocare la morte, fin dalla più tenera età, privavano individui e famiglie di ogni via al lavoro, quindi di ogni mezzo a procurarsi una sussistenza. 258 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA All’epoca il Borgo Dora contava 11.584 persone e con il Borgo di Po era la zona più degradata di Torino. La prima grande epidemia di colera dilagò in India fra il 1817 e il 1840 procurando la morte a quasi diciotto milioni di persone. Nel 1823 il morbo si estese alla regione del mar Caspio, propagandosi progressivamente all’Europa centroorientale. Nel settembre 1830 fece la sua comparsa a Mosca e le truppe russe la trasportarono in Polonia e in Slesia. Poi via via ad oriente: Germania, Austria, Ungheria, e da Amburgo, per mare raggiunse, l’ Inghilterra. Da Calais a Parigi nel 1832: dalla capitale francese dilagò in 52 dipartimenti, causando la morte di centomila persone. Sembrò che il colera avesse perso la sua virulenza, ma nel gennaio del ‘35 colpì Madrid, ricomparendo a Marsiglia: in sole 72 ore morirono 1.500 individui. Dalla Francia del Sud la malattia giunse nella città di Genova, in seguito a Cuneo e poi nella capitale subalpina. Il cholera a Torino era atteso e scoppiò il 23 agosto 1835. La prima vittima fu il trentottenne Luigi Summo che viveva in Borgo Po: morì il 24 all’Ospedale di San Giovanni. Altri casi si registrarono nella zona del Moschino «il più lurido sito del Borgo Po» 1. Dal quartiere del Moschino il colera infierì nelle contrade di Porta Nuova e Porta Susa, raggiungendo tutti i quartieri di Torino, colpendo particolarmente le regioni del Lingotto, di Madonna di Campagna, di Borgo Dora. Si erano già intrapresi i giusti provvedimenti, istituendo una Giunta superiore di Sanità Pubblica e dettando norme di igiene e di comportamento. Venivano anche effettuati scrupolosi controlli soprattutto sulle merci e le persone provenienti dai diversi Paesi europei. Queste le manifestazioni cliniche della malattia (dal suo insorgere alla morte trascorrevano circa 48 ore): la forma eu- IL «CHOLERA MORBUS» E IL PIANTO DEI POVERI 259 ropea simile, ma più mite di quella asiatica, esordiva generalmente di notte e nei mesi estivi; il paziente accusava vomito, diarrea, prostrazione, forti dolori addominali, meteorismo, sete intensa, febbre, polso rigido, accelerato e aritmico, disidratazione, collasso, convulsioni, spasmi dolorosi agli arti inferiori, perdita di coscienza, deplezione idrica, decesso. Fatta il colera la sua apparizione anche in Torino, «I Marchesi Barolo, che con Silvio Pellico villeggiavano sulle colline di Moncalieri, appena ricevuta la notizia, mentre altri si affrettavano a fuggire dalla città infetta, vi ritornarono immediatamente» 2, offrendo il loro aiuto e la loro concreta e personale collaborazione. La Giunta superiore di Sanità era composta dai primi due segretari di Stato, dal primo segretario di guerra o marina, dal primo presidente del Senato del Piemonte e dall’ispettore generale di Carabinieri reali. Strade, abitazioni, arredi, oggetti che in qualche modo erano venuti a contatto con i malati, venivano disinfettati con il cloro. Furono addirittura istituite delle lavanderie pubbliche a pagamento e fu emanata un’ordinanza che stabiliva, per ragioni d’igiene, di trasferire tutte le bancarelle del mercato che si trovava di fronte il Municipio, in piazza delle Erbe 3, «fuori le mura», ovvero a Porta Palazzo, dove da allora continua ad esistere il mercato più grande di Torino. In un volume del 1835, edito a Torino e conservato nella farmacia della Piccola Casa della Divina Provvidenza, fondata dal Cottolengo, sono elencate 55 istruzioni sanitarie dei professori Martini e Berruti, fra le quali: 1. I precipui mezzi preservativi sono tre: tranquillità d’animo; temperanza; evitare le vicissitudini dell’aria. 2. Egli sembra difficile, che in sì grave pericolo si possa serbare 260 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA tranquillità d’animo: eppure, se raccogliamo un istante i nostri pensieri, troveremo giusto ogni sbigottimento. 5. Non è ragionevole di abbandonare gl’infermi perocché, oltre a’ vincoli del sangue e a’ più sacri doveri di Religione, dobbiamo riflettere, che a contrarre le malattie contagiose basta il contatto mediato: vale a dire il contatto di oggetti stati tocchi da un ammalato, e che le occasioni di contatto mediato sono innumerevoli. Dunque dobbiamo cercare altra via di preservarci dalla malattia, e non la fuga vile e inutile. 15. La temperanza è un gran mezzo per conservare la sanità, e preservarci dalle malattie. Senza di questa tutti i farmachi sarebbero affatto vani. 4 Il morbo si fermò dopo 111 giorni. L’ultima vittima fu lo spazzino Giovanni Pietro Mazzucchi (2 dicembre ‘35): morì nella sua casa a Valdocco. Torino fu la città italiana che pagò il minor tributo al colera, grazie alle misure di sicurezza adottate. Su una popolazione di 125.000 abitanti, solo 233 si ammalarono e di questi 162 perirono (0,13% della popolazione totale e 69,5% dei contagiati). L’apparato di assistenza era funzionato alla perfezione con i suoi lazzaretti, i locali adibiti alle quarantene, i cordoni sanitari manu militari e gli efficaci strumenti di disinfezione, nonché le sanzioni predisposte per coloro che non rispettavano le regole. Juliette visitava ogni giorno, mattina e sera, i ricoverati presso l’ospedale San Luigi, di cui il marito era direttore, come riferisce in una commovente testimonianza il dottor Gioachino Valerio operante nello stesso ospedale: Fin dal primo giorno dell’apertura dell’ospedale di San Luigi, una donna, altamente locata per nome e per fortuna, veniva nelle sale dei malati nel mattino e nella sera per lunghe ore. Es- IL «CHOLERA MORBUS» E IL PIANTO DEI POVERI 261 sa si adoperava a pro di quegli infelici con un’abnegazione di persona e una cortesia di modi che era rara quanto ammirabile. Essa in vigilava su ogni cosa con attenta cura; con miti parole confortava i sofferenti; con pressa affettuosa sollecitava appo quegli i soccorsi e i mezzi. Lieta d’ogni speranza che si suscitava nella malattia, ne divideva le doglie e le lagrime nei momenti del pericolo. Questo io posso affermare, che nissuna di quelle sventurate vittime del cholera si dipartì dalla vita, senza che da lei le fosse detto: «Se qualche cosa vi cruccia quaggiù, abbiate per me vostra confidente; io terrò le vostre raccomandazioni come testamento, e vi do fede che adempierò alle mie promesse». Ed accadde sovente che quelle affidassero alla mano protettrice ora la cura di un bambino, ora la sorte di una figlia, ora l’avvenire d’un nipote, ora il sostentamento di un vecchio padre; altra volta era un debito di coscienza; ella accettò la missione ed adempì scrupolosamente alla fidata parola. Inginocchiata poi a’ piedi del povero letto, ella recitava le ultime preghiere dell’agonia, cosicché non fuvvi alcuno che là morendo non abbia avuto suffragio di orazioni e di compianto di quella pia ed eccelsa donna, la quale, sdegnando il vivere di corte, s’era fatto della carità un altare ed un culto. […] I medici dell’ospedale dei cholerosi di S. Luigi rammenteranno sempre le tue opere di beneficenza, e non saranno i soli a rendere degno omaggio alle tue virtù; hanno essi comune la memoria e la gratitudine coi poveri da te sollevati. 5 Tancredi confida al Pellico la sua preoccupazione nel vedere la moglie sollecita e premurosa con i colerosi, teme un possibile contagio e un giorno, venuto a sapere che Giulia era corsa da un malato senza prendere alcuna precauzione (aveva ricevuto mille raccomandazioni da parte del marito per essere prudente nel suo contatto con i malati, non di- 262 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA menticando le fumigazioni di cloro) prega: «Mio Dio… ve la raccomando, difendetela voi» 6. «È inutile credere che anime simili camminino con piede cauto nelle vie della carità, vi si slanciano con ardore, accada quel che Dio vuole» 7. Pare di vederlo e il Pellico ci illustra il suo stato d’inquietudine: «S’assise un istante, ma non trovava calma» 8. Tancredi fa parte della Commissione Superiore Sanitaria di Torino, presieduta dal governatore barone De la Tour e si mette subito all’opera, contribuendo «alla delimitazione dell’epidemia con l’intelligente, incessante lavoro svolto a palazzo di Città, favorendo le misure igienico-preventive e promuovendo numerosi pubblici ricorsi all’Altissismo» 9. Il piano naturale procedette parallelamente al piano soprannaturale. Cessato il pericolo del morbo, i Barolo decidono di accogliere nel loro palazzo le bambine rimaste orfane a causa del colera e le affidano alle cure delle Suore di Sant’Anna, anch’esse all’inizio ospiti a palazzo Barolo e a Moncalieri. Nel 1846 quando Suore e bambine sono già nella casa di via Consolata, con il gruppo delle orfane – distinte dalle altre educante – nasce la cosiddetta opera delle «Giuliette» 10. Tale nome deriva dall’appellativo con cui vengono affettuosamente chiamate le orfanelle presentate alle Suore dalla stessa Fondatrice. Le Suore di Sant’Anna provvedono alla loro educazione integrale e ogni «Giulietta» riceve, prima di allontanarsi dall’orfanotrofio per ritornare in famiglia, una dote di 500 lire per poter affrontare dignitosamente la vita. L’orfanotrofio «costituent un petit internat ou elles retrouvent la maison paternelle et l’atelier, la meré e la mâitresse» 11. Per accogliere le «Giuliette», la Marchesa fece costruire un edificio, dove le orfane rimanevano fino a 24 anni. Il Marchese, al tempo del colera, viene nominato relatore della Commissione formata dalla civica amministrazione il IL «CHOLERA MORBUS» E IL PIANTO DEI POVERI 263 30 agosto 1835 per offrire alla Consolata un voto solenne a nome della cittadinanza torinese con lo scopo di ottenere la liberazione dal colera. Il voto è presentato – il 3 settembre, su pergamena arrotolata in un astuccio d’argento – dai sindaci e dai decurioni all’Arcivescovo Luigi Fransoni, durante l’offertorio della Messa, celebrata al santuario della Consolata. Esso consiste nell’impegnarsi a far restaurare la cappella sotterranea del santuario; a far erigere una colonna di granito, sormontata dalla statua della Consolata nella piazzetta, a sinistra della chiesa e nell’iniziare le «quarantore» perpetue, da celebrare alla fine di agosto nell’anniversario dell’emissione del voto stesso. Perciò Tancredi viene chiamato ad «accompagnare i due sindaci, con altri pochi colleghi di decurionato, alla solenne funzione della consegna del voto, raffigurata nel dipinto dell’Augero che orna tutt’oggi la sala rossa delle adunanze, a palazzo Civico» 12. Il Marchese si occuperà anche di altri lavori a favore del santuario torinese, contribuendo economicamente e attraverso le sue consulenze a restauri ed abbellimenti, come l’artistica cancellata che separa il tempio dalla chiesa di Sant’Andrea. Tali benemerenze sono sottolineate nell’epigrafe latina che si trova, sotto il suo busto marmoreo fatto fare dagli Oblati di Maria Vergine (a quell’epoca reggevano la Consolata), nella parete a sinistra della gradinata che dalla chiesa di Sant’Andrea dà accesso allo stesso santuario. Il 28 maggio 1836 sarà posta la prima pietra della colonna votiva sul sagrato: sopra il capitello della colonna in stile corinzio, progettata da Ferdinando Caronesi, il 18 giugno 1837 sarà collocata la statua della Vergine con il Bambino. Un’iscrizione sul basamento ricorda ai torinesi l’intervento misericordioso della Vergine per la vittoria sul cholera. 264 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Per i servigi resi a Torino in quel tempo, Carlo Alberto conferisce al Marchese la dignità di commendatore dell’Ordine Mauriziano, mentre Juliette riceve la medaglia d’oro dal Governo. Tre anni dopo i medici consigliano a Tancredi un periodo di riposo nel Tirolo. Tancredi e Giulia partono, accompagnati dal medico. La febbre lo colpisce a Verona e il viaggio deve interrompersi. Gli vengono somministrati i sacramenti. Ripresosi, dopo alcuni giorni di convalescenza, il suo dottore gli consiglia di far ritorno a Torino. Ma, giunti a Chiari, nel bresciano (Stato Lombardo-Veneto), pensano che il Marchese si sia appisolato, in realtà era entrato in agonia. Alcuni, come Pierluigi Barbero 13, ipotizzano un infarto del miocardio o un ictus, conseguenza di uno stato di ipertensione arteriosa. È martedì 4 settembre 1838. Tancredi riceve l’estrema unzione e accanto a lui c’è Juliette. Spira tra le sue braccia. In quell’occasione Camillo Benso di Cavour scrive una lettera (San Martino Tanaro, martedì mattina, settembre 1838) a Cesare Alfieri di Sostegno: Mio caro Cesare, mi affretto a rispondere con due righe alla vostra lettera di ieri affinché abbiate oggi stesso notizie di Giulietta. Vi perverranno i dettagli della morte dell’eccellente Tancredi. È partito abbastanza in buono stato da Verona, sebbene debole, si è sentito male a Desenzano, ma non ha voluto che ci si fermasse ed ha insistito affinché si arrivasse fino a Chiari. Aveva perso la parola molto tempo prima di scendere dalla carrozza in modo che non è stato possibile curarlo; gli fu dato l’Olio Santo e, tre ore dopo il suo arrivo è spirato nelle braccia di Giulietta. I medici che gli hanno fatto l’autopsia dissero che venne soffocato da un’ostruzione formatasi nel canale alimentare, che l’ha IL «CHOLERA MORBUS» E IL PIANTO DEI POVERI 265 soffocato. Giulietta, in questa dolorosa circostanza, ha dato prova della forza d’animo che è una delle sue più preziose qualità. Ha fatto imbalsamare il corpo del marito che ha voluto trasportare con lei a Torino. Al confine i nostri stupidi gendarmi le hanno fatto ogni sorta di difficoltà per lasciare entrare i resti di suo marito, che dovrebbero essere sacri a tutti i piemontesi, poiché, come voi ben dite, era un grande, ammirevole cittadino. Infine la povera Giulietta ha ottenuto l’autorizzazione a procedere dal governatore ed è arrivata qui l’altro ieri, domenica, alle due del mattino. Il conte Sonnaz, che le era andato incontro, la mancò andandola a cercare a Sesto, mentre lei passava per Boffalora, così che si è fatta tutto il viaggio da sola, non avendo per compagnia che un vecchio prete di Chiari il quale pregava accanto al corpo di Tancredi. Da quando è arrivata Giulietta ha ricevuto solo gli amici intimi; l’ho trovata molto addolorata, ma in uno stato d’animo che non permette ancora al suo dolore di manifestarsi completamente. Il medico le ha trovato un po’ di febbre, però non si può giudicare la sua condizione finché i suoi nervi resteranno così tesi. Ritornerò da lei oggi e non mancherò di dirle quanto prendete parte al suo dolore e del rimpianto che sentite per l’eccellente amico che avete perso… Ecco, caro Cesare, i lunghi e tristi dettagli di un evento che deploreremo ancora per molto. Forse voi li conoscevate già e malgrado ciò non vi annoierete, poiché voi amate sentir parlare di un uomo del quale avevate tanta stima quanto affetto… 14 La salma, che subì un procedimento di imbalsamazione per volere della moglie a motivo dell’impossibilità di seppellire il consorte in breve tempo, giunse a Torino nella notte tra 266 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA l’8 e il 9 settembre. Giulia è febbricitante, eppure dignitosa e forte nel suo dolore. Sulla prima pagina della «Gazzetta Piemontese» di venerdì 14 settembre appare un lungo articolo firmato da Silvio Pellico: Una vera calamità pubblica che, nel nostro paese, ha gettato il lutto in ogni cuore, è stata la morte del Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo… Quest’illustre uomo, insigne per la sua grande beneficenza come pe’ suoi natali… oltre a dispensare egregia parte delle sue molte ricchezze, in elemosine a persone e famiglie di non dubbia povertà, ed in sostegno ad artisti ed altri studiosi, diedesi a stabilire istituzioni di tal natura che giovar potessero eziandio alle generazioni successive. Pellico dichiara di essere confuso «di pagare un così debole tributo di gratitudine ad un uomo veramente superiore ad ogni lode», ma lo conforta la certezza di non poter essere tacciato di esagerazione «da quelli che hanno conosciuto l’amico e benefattore» che lui stesso piange. Disse la studiosa e archivista Rosanna Roccia durante il convegno organizzato per il 150° anniversario della morte del Marchese: La morte prematura di quest’uomo di mente e di cuore nobilissimi lascerà nel 1838 un gran vuoto nel decurionato torinese. Egli sopravviverà nella «felice ricorrenza» del collegio e attraverso tanti segni tangibili della sua presenza attiva e generosa nella città. 15 Il 27 settembre 1838 così sarà annunciata all’Amministrazione civica la morte del Marchese: IL «CHOLERA MORBUS» E IL PIANTO DEI POVERI 267 Mi duole l’animo nel dover rattristare la Congregazione coll’annunziarle la morte del Signor Decurione Marchese di Barolo, Commendatore dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, socio della Real Accademia delle Scienze, avvenuta nella città di Chiari in Lombardia il 4 settembre. La memoria di quest’illustre personaggio durerà sempre mai nel cuore dei Torinesi e particolarmente di noi tutti che avevamo la sorte di averlo collega. 16 E proprio da un collega (la cui identità resta ignota) il 22 settembre ebbe parole di immensa ammirazione per l’indimenticabile Sindaco: … Infirmus, et visitastis me… Quanto fece questo grand’uomo a sollievo degl’infermi, è tema per un volume; lo ammiriamo per talento, cuore ottimo, e fortezza nella calamità del colera quando esso in niente più pensò alla cura di sé. E tutto si diede a serivire a’ suoi concittadini; spendeva e spandeva; i n queste urgenze, diceva esso, si spende sin che ce n’ha. Umile rassegnato invocò la Madre dei Torinesi di cui egli era devotissimo. Il Padre degli uomini perdona alla città in grazia dei Santi. … In carcere eram, et venistis ad me… Che non pochi prigionieri abbiano avuto sollievo e conforto dal magnanimo cuore e dalla attività di Tancredi, è cosa che si sa. Per quel molto che questo nobile Decurione spese a decoro dei templi ed in sacri arredi a venerazione del sacrosanto Altare, gli si puonno accomodare le parole… mercatus sindonem… involvit… corpus Jesu… sindone… munda. La vita di Carlo Tancredi Falletti di Barolo è argomento copioso a molti scrittori; splendido esempio a seguire; rimprovero ed onta a tanti ricchi miserabili che idolatrano l’oro contro sé stessi ed i loro simili, e contro Dio che è la Carità. Visse pensando al transito; l’amore increato non lasciò que- 268 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA st’uomo pio fosse tocato dal tormento della morte. Si addormentò in pace col Divino Maestro il 4 settembre 1838. Trafitto dal dolore, udii d’intorno a me voci ripetute che chiamano il consigliere, il confortatore, il visitatore, il fratello, il padre. Tancredi non sei più! Siamo a mille a mille che ti piangiamo come vedova piange sulla tomba dell’unigenito. Da umana filosofia non vogliamo essere consolati. In tanto duolo generale, scendi ti dal Cielo sacra filosofia consolatrice unica. Tunc dicet rex his, qui vobis regnum a constitutione mundi. S. Matt. XXV, 43. La memoria di così prezioso collega tengo sempre per fede unita alle parole del Re Messia che sono di tutta gioia; Vieni benedetto dal Padre mio, prendi possesso del regno preparato a te sin dalla fondazione del mondo 17. 18 Le esequie, svolte senza sfarzo per volontà di Tancredi, sono presenziate da una folla immensa di poveri, rivela la «Gazzetta Piemontese», che seguirono il feretro 19 piangendo, fino al Cimitero Monumentale, quello che lui aveva fatto costruire a sue spese. U. Levra, L’altro volto di Torino risorgimentale 1814-1848, Pubblicazioni dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, L’Artistica di Savigliano, Torino 1988, p. 66. 2 D. Massé, Un precursore nel campo pedagogico: Il Marchese di Barolo cit., p. 8. 3 Nella piazza, infatti, vi erano numerosi venditori di erbe medicinali. 4 Istruzioni sanitarie sul Cholera-morbus de’ professori Martini e Berruti, Tip. Cassone, Marzorati, Vercellotti, Torino 1835, cfr. gli art. 1-55. 5 Igiene pubblica delle cause che favorirono lo sviluppo del Cholera morbus in Piemonte ed il Liguria. Studi medici di Gioachino Valerio Dottore in Medicina, e Deputato al Parlamento Nazionale, Tipografia Ganfari, Torino 1851, p. 96. 1 IL «CHOLERA MORBUS» E IL PIANTO DEI POVERI 269 S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., Tip. San Giuseppe degli Artigianelli, Torino 1914, p. 75. 7 Ivi, p. 76. 8 Ivi. 9 P. L. Barbero, L’epidemia di colera a Torino nel 1835 e il contributo del Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, Atti del convegno 150° anniversario della morte del Marchese di Barolo, Torino, 23-24 novembre 1989, datt., p. 14. 10 L’opera delle Giuliette sorgerà nel 1847. 11 A. de Melun, La marquise de Barol. Sa vie et ses oeuvres, Libraire Poussièlgue frères, Paris 1869, p. 95. 12 Cfr. A.S.C.T., Il palazzo di Città a Torino, Torino 1987, dipinto e A.S.C.T., Ordinati, 1835, vol. 22, Consiglio Generale VI, 1 settembre 1835. 13 Cfr. P. L. Barbero, L’epidemia di colera a Torino nel 1835 cit., p. 8. 14 D. Berti, Lettera a Cesare Alfieri, Roma 1877, p. 53, oppure in «Giulia di Barolo Carità sempre subito», rivista di collegamento e di informazione per promuovere la causa di canonizzazione della serva di Dio Giulia di Barolo, Anno terzo, n. 1 - 1 semestre 1993, pp. 29-30. 15 R. Roccia, Tancredi Falletti di Barolo, Decurione di Torino, Atti del convegno, «150° anniversario della morte del morte del Marchese di Barolo», Torino, 23-24 novembre 1989, datt., p. 6. 16 A.S.C.T., Ordinati, vol. 354, Congregazione IX, 27/9/1838. 17 Nel testo qui riportato appare una nota che recita: «I giusti sono debitori della loro felicità alla benedizione del Padre, e a quella amorosa elezione eterna, che fu per essi la sorgente d’ogni benedizione, Prendete possesso del regno. In qualità di figliuoli del Padre mio, e i suoi eredi, e coeredi miei entrate in possesso del regno paterno come vostro proprio regno preparato a voi ab eterno. Questa frase dalla fondazione del mondo è usata a significare l’eternità. Matt. XII, 35; Hebr. IV, 5 e IX, 26; Apoc. XIII, 8 e altrove». 18 Anonimo, Alla memoria di Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Pochi cenni di un collega, Torino 22 settembre 1838. Archivio Storico dell’Istituto delle Suore di Sant’Anna. 19 «Ha fatto del bene a molti e molto avrebbe voluto farne a tutti. Anime cristiane fategli il bene delle vostre orazioni», questo il testo che Juliette fece apporre sulla lapide della tomba di Carlo Tancredi Falletti di Barolo. 6 18 Vita di austerità La morte di Tancredi fu per Juliette una durissima prova, la più pesante della sua esistenza. Non trovò neppure la forza di informare personalmente familiari ed amici; fu incaricato Silvio Pellico di comunicare la triste notizia agli intimi. Pochi giorni dopo si ammalò. Scrive Pellico all’amico Federico Confalonieri: La salute di lei ne fu sconvolta, e quindi a Torino le si spiegò una grave malattia, da cui a stento si rimise. Donna fortissima, ma giustamente amantissima di suo marito, si sottomette al volere di Dio, ma non può ancora gustare consolazione. 1 Juliette si riprese, ma la sua vita fu inesorabilmente segnata e si votò, con ancora più incisiva determinazione, alla sola Carità. «Giulia intensificò la sua carità, considerandosi semplice amministratrice dei beni di cui Tancredi l’aveva lasciata erede universale» 2. Scriverà nel proprio Testamento: La Provvidenza avendo voluto, nella sua sapienza, contro ogni probabilità apparente, e malgrado i voti del mio cuore, farmi sopravvivere al mio diletto Marito, ed avendomi poi tolto il Pa- 272 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA dre, io dispongo della mia fortuna che m’è stata lasciata da coloro ch’io amava, e la cui perdita m’è stata così dolorosa. Io considero piuttosto questa fortuna come un deposito che come una proprietà. Conosco perfettamente le pie intenzioni del mio defunto Marito, il quale me le ha tante volte comunicate, relativamente all’impegno de’ suoi beni, perciò volendo soltanto adempiere la volontà di Dio e del marito: Tale si era l’ultimo linguaggio del migliore degli uomini, secondando i suoi voti, io non miro che al solo pensiero del dovere e dell’obbedienza. Perciò dimandando i lumi dello Spirito Santo, spero di riceverli per fare in ogni cosa la volontà di Dio e la volontà di colui che, ora in Cielo, mi otterrà, spero, la grazia di finir di fondare e stabilire le cose in questo mondo, in modo da riempire le sante intenzioni c’egli aveva durante la sua vita e che fanno ora la sua felicità eterna. 3 Juliette, che si considerava semplice amministratrice dei beni di cui Tancredi l’aveva lasciata erede universale, intensificò la già alacre missione caritativa. Dacché il marito era mancato di vita, la carità di lei s’era palesata più indefessa, più ansiosa di estendersi, giudicando essere quello, oltre le preci, un modo a lei imposto di suffragare l’anima di esso; né mai le pareva d’aver fatto abbastanza. 4 Alla Marchesa giunsero molte e lusinghiere proposte di matrimonio, ma ella non ne volle sapere. Prese a vestire modestamente e scelse un regime di vita povero e austero. Così, sulla sua mensa, c’era lo stesso cibo che veniva servito ai VITA DI AUSTERITÀ 273 duecento poveri che ogni giorno venivano accolti a Palazzo Barolo. La sua fede, il suo zelo, la sua carità, anzi che rallentarsi, toccarono il colmo. Per suffragare l’anima dello sposo si diede più che mai a largheggiare in opere di beneficenza. Ella, siccome persona esperta nell’assumere l’amministrazione dei suoi averi, studiossi di introdurvi tutta la regolarità possibile; di conoscere a fondo lo stato del suo patrimonio, liberarlo da antiche passività, assicurarne la retta gestione. E quest’accuratezza e vigilanza la praticava tutta la vita, riguardandola come uno degli oneri imposti dalla Provvidenza ai ricchi, affinché sieno in grado di maggiormente beneficare i miseri. 5 Stesse considerazioni espone il biografo de Melun: Elle attacha à tout ce qu’elle faisait de bien le souvenir de celui qu’elle avait perdu. Son zèle s’accrut encore par cette consolante pensée, que dans chacun de ses actes, dans chacun de ses sacrifices, il y avait une part de mérite appliqué à l’âme de son mari, et qu’ainsi leur association se continuait encore au delà de la tombe. 6 Grazie a Silvio Pellico sappiamo che Juliette, ogni anno, nell’anniversario del marito, trascorreva alcuni giorni nella sua villa di campagna a Moncalieri «in silenzioso ritiro, a pregare» 7. La sua giornata iniziava molto presto: preghiera, Santa Messa, prolungato ringraziamento dopo la Comunione «per immergersi nell’onnipotente bontà di Dio» 8. Con l’anima nutrita, passava poi ai compiti pratici controllando l’operato dei suoi collaboratori e dando disposizioni amministrative, che venivano compiute con grande oculatezza per far fruttificare 274 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA il «deposito» a beneficio dei poveri. Poi visitava le carcerate, si recava negli Istituti delle Maddalene e delle Suore di Sant’Anna, ascoltava le sue figlie, istruiva e consolava, vivificando la carità ed il fervore delle suore. Nel pomeriggio si recava nelle chiese dove era esposto il Santissimo Sacramento per l’Adorazione. Quando andava a riposarsi per brevi periodi alla «Vigna» di Moncalieri nei mesi estivi, le giornate si svolgevano ugualmente fra preghiera e lavoro: colazione, passeggiata, visita al Santissimo Sacramento. Nel pomeriggio ricamava paramenti sacri oppure cuciva indumenti per i poveri, intanto il cappellano di Palazzo Barolo don Pietro Ponte o Silvio Pellico le leggevano libri edificanti. Poi tutte e tre si riunivano in cappella per l’Adorazione Eucaristica fino all’ora di pranzo, che era alle 5 pomeridiane e dopo una pausa di riposo si recavano nuovamente in cappella per la recita del Santo Rosario e per le preghiere della sera9. In Juliette, come era stato per Tancredi, la preghiera vocale non poteva stare senza l’adorazione. Nel 1834 la Marchesa conobbe a Roma le Adoratrici Perpetue del SS. Sacramento (Sacramentine) e rimase colpita dalla loro vita religiosa: Adorazione Eucaristica giorno e notte, a turno. «Ella amava la “sua” città e si dava continuamente premura del suo bene morale. Considerando che Torino porta il nome di città del SS. Sacramento, ella pensò di introdurvi il culto di adorazione perpetua a Gesù, esprimendo questo suo desiderio ai sovrani del Piemonte» 10. Carlo Alberto, sempre molto sensibile alle indicazioni dei Marchesi di Barolo, diede l’assenso, impegnandosi ad aprire un monastero di Sacramentine a Torino. Era il 1839 e il Conte Solaro della Margarita (1792-1869), ministro degli Esteri, venne incaricato di occuparsi della questione. Juliette contribuì alla realizzazione dell’impresa mettendo a disposizione delle suore una rendita perpetua annua di 5000 lire 11. VITA DI AUSTERITÀ 275 Altra importante opera che i Marchesi edificarono fu l’Ospedaletto di Santa Filomena che, come detto sopra, all’inizio del progetto, sarebbe dovuto sorgere a Moncalieri in un edificio da loro acquistato vicino all’Ospedale, del quale, nel 1832, Tancredi fu Direttore amministrativo. Tuttavia alla sua morte, Juliette decise di trasferire il progetto a Torino dove era più urgente l’esigenza di un’assistenza sanitaria di giovani disabili. L’Ospedaletto di Santa Filomena venne edificato nel 1845 in una casa adiacente al Rifugio e al monastero delle Suore di Santa Maria Maddalena, allo scopo di ospitare 60 ragazze handicappate dai 3 ai 12 anni, che qui avrebbero potuto rimanere fino a 18 anni. L’Ospedaletto fu inaugurato il 10 agosto di quell’anno e la direzione fu affidata alle suore di San Giuseppe, mentre l’assistenza infermieristica alle Oblate di Santa Maria Maddalena, che la Marchesa aveva istituito nel 1846 per rispondere all’esigenza spirituale di chi non era chiamata alla vita monacale delle Maddalene, ma desiderava dedicare la propria vita alla preghiera e alla carità. Proprio alle Oblate la Fondatrice chiedeva che trattassero le bimbe inferme come se avessero di fronte Gesù Cristo. S. Pellico, Epistolario di Silvio Pellico, Libreria Editrice Internazionale, Torino 1919, p. 180. 2 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 370. 3 Testamento, 1848. 4 S. Pellico, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert cit., p. 92. 5 P. Matta, Elogio storico della Marchesa Giulia di Barolo-Colbert cit., p. 6. 6 A. de Melun, La marquise de Barol. Sa vie et ses oeuvres, Libraire Poussièlgue frères, Paris 1869, p. 127. 7 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 371. 1 276 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Ivi, p. 371. Cfr. S. Pellico, Lettere famigliari inedite cit., vol. II, pp. 173-174. 10 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago cit., p. 373. 11 Circa 14.962 euro; cfr. ivi, p. 373. 8 9 19 La loro trappola chiamata libertà Tormentati dall’impellente necessità di fare il bene, Tancredi e Juliette pongono in cima ai propri pensieri il timor di Dio: «Ecco, temere Dio, questo è sapienza e schivare il male, questo è intelligenza» 1. Vivevano dunque la formula segreta della Verità: «a che giova all’uomo conquistare il mondo, se poi perde se stesso?» 2. Insieme a sant’Agostino recitano: «Stabile e inafferrabile, giustissimo e lontanissimo, mai nuovo, mai vecchio, sempre attivo, sempre quieto […]. Dimmi: Io sono la tua salvezza. Fammi sentire la tua voce e ti raggiungerò. Non nascondermi il tuo volto. Che io muoia affinché non muoia e possa vederti!» 3. La morte è vista da Agostino quasi come la voce dello Sposo del Cantico dei cantici, che risuona dietro il graticcio di una finestra: «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!» 4. Sublime prosa quella agostiniana, dove intelligenza e poesia si intrecciano: morendo l’uomo diviene immortale. Sete di gloria celeste per sé, ma anche per gli altri: i coniugi Barolo, nel loro frenetico bisogno di fare il bene, nella loro urgenza di far camminare con le proprie gambe i disagiati, pensavano, soprattutto, alla salvezza delle anime. Sfamavano, vestivano, istruivano, redimevano per forgiare persone degne di essere creature umane, degne di essere chiamate figli di Dio. 278 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA I riferimenti di Tancredi al Padre, a Iddio o Signore sono frequentissimi e questi suoi continui appelli li trasmetteva ai giovani, invitandoli a ricorrere con fiducia in Dio, agendo in conformità della sua volontà e per la sua maggior gloria 5. La strada ascetica che Tancredi e Juliette percorsero fu una continua salita, tesa alla perfezione, nella consapevolezza che la forza del cammino viene da Dio: Non sento io forse il desiderio, il bisogno d’una felicità, che nessuna cosa mi può dare? Forse è più giusto dire che non provo più tanta pena, come una volta, a distaccarmi da alcune cose. Se l’anima mia comincia a rompere le sue catene, siete Voi, mio Dio, che a ciò mi avete dato forza. 6 È vero che nella Torino risorgimentale esistevano molti benefattori laici, come la famiglia d’Azeglio, per esempio, ma il loro lodevole operato in favore degli altri, attraverso una generosissima carità, non ebbe mai la scintilla di grazia che cadde su Palazzo Barolo, perché qui si esercitavano tutte le virtù teologali e cardinali. E pur non avendo la gioia di essere genitori, accettarono con grande rassegnazione questa condizione e «l’affetto divenne tra essi [i coniugi Barolo, ] più puro e più forte perché fondato sulla fede» 7. Juliette e Tancredi amavano moltissimo la Madonna. Una suora della Congregazione di Santa Maria Maddalena, testimone oculare, ci lascia detto che il Marchese, facendosi compagno dei muratori nella costruzione del loro monastero, arricchiva il lavoro «colla sua pietà e devozione a Maria SS». E aggiunge che, nelle difficoltà e nei momenti di pericolo, Tancredi «s’inginocchiava a recitare l’A- LA LORO TRAPPOLA CHIAMATA LIBERTÀ 279 ve Maria e tutti gli operai rispondevano a coro in modo edificante» 8. Come educatore dei giovani Tancredi si rivelò uomo di grande e aperta Fede, mai gretta, mai bigotta, bensì schiusa ad orizzonti immensi ed infiniti. Nelle opere pedagogiche, rivolgendosi agli insegnanti e ai giovani, egli insiste più e più volte sull’importanza della formazione cristiana e sulla pratica delle virtù. Stessa cosa si può dire di Juliette, educatrice a tutto tondo, madre, maestra, amica, sorella… delle carcerate, delle religiose, dei bambini, dei giovani ed anche degli amici e nemici che Dio pose sul suo cammino. La speranza non li abbandonò mai: difficoltà, ostacoli e impedimenti erano per loro eventi da prendere sempre come volontà di Dio, da rispettare ed amare. Ecco perché, pur così indaffarati, mantennero sempre equilibrio e serenità. Mai nulla era per loro causa di turbamento. E, quando le loro intenzioni e i loro progetti giungevano in porto, dimostravano immediatamente riconoscenza a Dio per l’aiuto ricevuto. Tancredi era estremamente convinto che educare i giovani alla frequenza dei Sacramenti, all’esercizio delle virtù, all’obbedienza dei precetti divini era «fonte d’ogni bene per questa vita e per l’altra» 9. Perciò invitava costantemente i ragazzi ad avere gli occhi ben aperti verso l’alto, rivolti all’eternità. Entrambi i coniugi erano fiduciosi della salvezza portata da Nostro Signore, grazie all’intervento di Cristo sulla terra e al suo sommo sacrificio: «No! Iddio non vuol perder l’opera uscita dalle sue mani, perciò in una seconda creazione più sublime della prima, egli fa riviver l’uomo alla grazia» 10. La gratitudine per questo mistero dell’Incarnazione non aveva limiti. E questo stesso mistero insegna che la via della croce è la sola che conduce alla salvezza e che «il dolore e le 280 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA fatiche sono necessari alla nostra eterna salute, quanto l’aria alla nostra fuggitiva esistenza» 11. Per espiare i propri peccati, affermavano che fosse necessario unirsi a Gesù crocifisso. Si racconta che il Marchese abbia un giorno sognato la Vergine, la quale lo incitava a far costruire presto il monastero delle Maddalene. Perciò, spinto dal sogno e dalla sua forza interiore, iniziò i lavori ornando «con la sua pietà e devozione a Maria» 12 le ore lavorative. Risulta, inoltre, che nei momenti difficili o di pericolo, il Marchese «s’inginocchiava a recitare l’Ave Maria e tutti gli operai rispondevano a coro in modo edificante» 13. L’edificio fu in breve portato a termine, ma Carlo Tancredi non vide l’opera compiuta. Più cresceva il loro amore verso Dio e più si accendeva il desiderio di pregare e di compiere la volontà divina, vedendo negli altri le richieste di Cristo: «Ho avuto fame e mi hai dato da mangiare, ho avuto sete e mi hai dato da bere, ero forestiero e mi hai accolto, malato e sei venuto a visitarmi, carcerato e sei venuto a trovarmi» 14. Giunti fin qui, compresero che la vita e i beni non appartenevano più a loro, ma dovevano servire alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio. «Ognuno», diceva Tancredi, nella sfera delle sue possibilità fisiche o morali deve col suo operato rendersi utile al prossimo, alla patria, all’umanità, in qualunque modo, anche più umile e indiretto. E ciò il deve non solo pei vantaggi che può ritrarne su questa terra, poiché sovente gli sembreranno assai poco proporzionati alle sue fatiche, ma per ubbidire al suo Celeste Fattore, e per servire come prescelto, ancorché debole, istrumento della Provvidenza ai fini mirabili di lei durante questa vita. 15 LA LORO TRAPPOLA CHIAMATA LIBERTÀ 281 È rarissimo, oggi, ascoltare una Fede piena come questa, quella Fede capace di smuovere le montagne e di produrre quei frutti straordinari di grazie come avvenne nella loro esistenza. La virtù teologale della Carità divenne sorgente di ogni loro azione. Un’altra prova della Fede, della Speranza e della Carità di Tancredi era la religiosa riverenza e pietà che nutriva per le anime dei defunti: per esse fece costruire il camposanto di Torino. Fu uomo di grande prudenza: ha mai agito impetuosamente o impulsivamente. Le idee ingegnose che ebbe venivano valutate, soppesate, vagliate con altri, soprattutto con i suoi confessori e con sua moglie. Pur ricoprendo incarichi pubblici si mantenne integro da ogni eccesso e da ogni clamore: era alieno da qualsiasi applauso e i risultati che riusciva ad ottenere per il bene dei cittadini li reputava successi di Dio. Per quanto concerne la virtù della giustizia si può tranquillamente asserire che Carlo Tancredi fu giusto e saggio. La sua vita fu un continuo sforzo per dare al Signore e agli uomini quello che a ciascuno è dovuto. E dovere di giustizia era portare a termine le proprie responsabilità, adempiere in ogni circostanza al proprio dovere, fino a congiungersi al sacrificio di Cristo: Per l’uomo caduto e ricomprato col sangue di Dio, ella è giustizia non che necessità il camminare sopra una via dolorosa. Perciò, mentre l’uom vile e sensuale ripugna all’immutabile oracolo, il fedele si slancia con giubilo sulle orme del suo Redentore, invocando colle sue brame i tormenti anche più acerbi che devono per lui schiudere le porte eternali. 16 282 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Come mezzo di comunicazione utilizzava la buona stampa e le sue pubblicazioni erano immancabilmente anonime: il suo interesse «è commovente», scrive don Francesco Gastaldi, «vedere come non lasciasse occasione di richiamare i lettori a pensieri superiori edificanti» 17. E ciò che suggeriva agli altri lo metteva in pratica lui stesso. Tancredi e Juliette difesero sempre i più deboli, i soggetti più vulnerabili, i poveri, i bambini, le carcerate. Tancredi addirittura difendeva intere categorie, come nel caso dei contadini, poco o nulla considerati dagli abitanti delle città. Di fronte ai poveri essi si inchinavano e ai benestanti proponevano ciò che Gesù chiese al giovane ricco. «Chi ama il denaro, mai si sazia di denaro e chi ama la ricchezza, non ne trae profitto… questo è vanità. Con il crescere dei beni i parassiti aumentano e qual vantaggio ne riceve il padrone, se non di vederli con gli occhi?» 18. Ciò che è detto nell’Antico Testamento viene ribadito dal Nuovo: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» 19. Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, dice ancora Gesù, non può essere suo discepolo 20 . A questo ambirono Tancredi e Juliette. Dormivano lo stretto necessario e lodavano il digiuno. «Gesù, fattosi Uomo per noi, non solo ci diede l’esempio della rigida astinenza onde il nostro digiuno non è che lieve imitazione, ma quello ancora delle debolezze cui va soggetta l’umanità dopo il peccato di Adamo» 21. Entrambi dominavano timori e paure, mostrandosi quieti e tranquilli anche nei momenti più difficili, persuasi di essere assistiti dalla luce di Dio, attraverso la presenza dell’Angelo custode. Così si esprime Tancredi: LA LORO TRAPPOLA CHIAMATA LIBERTÀ 283 Io più non provo il funesto scoraggiamento dell’animo. Il mio pensiero lo dico al mio Angelo; i miei patimenti glieli confido, gli racconto le mie pene, gli mostro le mie lagrime affinché le asterga; gli confesso i miei interni combattimenti acciocché mi dia la forza di trionfare. 22 E Juliette, non solo si affida costantemente alla protezione degli Angeli, ma insegna anche alle sue figlie a chiederne la protezione per loro e per quanti incontrano. Questa la sua preghiera: Mio buon Angelo Custode, fedele compagno, guida e consigliere dell’anima mia, intendetevela, vi prego, con l’Angelo Custode di tutte le persone che meco avranno quest’oggi qualche rapporto, affinché tutto ciò ch’io tratterò con esse sia sempre senza la minima offesa di Dio, anzi diretto alla maggior gloria sua. 23 Tancredi nei suoi scritti esorta ad implorare ed essere grati nei confronti di questi spiriti celesti: Dedichiamo un culto di gratitudine ai celesti protettori che salvan noi anche inconsapevoli di tanto favore. Avvezziamoci a conversare con quegli amici fedeli che non hanno altro desio, altro intento, altra cura se non se la nostra felicità eterna. Salutiamo sovente il nostro Angelo custode, quello dei nostri conoscenti. Imploriamoli in tutte le azioni di nostra vita, e non imprendiamone alcuna senza chiedere il loro consiglio affinché ci ispirino un retto operare, affinché ci ottengano da Dio quell’ajuto senza il quale ogni impresa della scienza umana crolla come l’edifizio innalzato sulla mobile arena. 24 284 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Si sente protetto, accompagnato, consolato dall’Angelo custode «ed in ogni tempo, in ogni luogo ci parla al cuore colle più tenere ispirazioni» 25, ma chissà quante «volte ei dovette fremere di doglia e d’indignazione per essere da me reso testimonio delle mie colpe» 26. La semplicità di questo aristocratico signore, nel professare al mondo la sua Fede, ci stupisce e ci meraviglia. Con l’animo del fanciullo, di chi vede e conosce la Verità, palesa il suo credo cristiano. Il pellegrino, che si trova di fronte alle tre stazioni «insigni» – di cui parla nel suo Gesù, Maria e gli angeli – è lui stesso: lui con Gesù al Santo Sepolcro, lui con Maria a Nazareth, lui con gli angeli al Monte dei quaranta giorni. Chiama Gesù «mio diletto», quel Gesù che «sol viveste per patire e pregare, per insegnar verità immutabili, poi per patire ancora e bere sino alla feccia il calice degli opprobrii, e dei dolori!… voi dormite nella sepoltura ritolto ai tormenti del più atroce martirio!… La vostra eterna ed onnipotente divinità non dorme giammai» 27. Alla Madre «del Suo Signore», dedica parole commoventi e traboccanti di tenerezza: Ed ecco incarnarsi […] quel Salvatore del mondo nel seno di una Vergine concepita senza macchia, di una Vergine che per così dire non avea della fragile umanità, se non se le corporee apparenze […]. Innocente e tenera pecorella voi non foste pietosamente allontanata nel momento crudele che svenar vide l’Agnello immacolato! Quel Gesù sì provvido per voi vi abbandonò al più doloroso strazio. Ei volle che, nella sublimità del vostro amore, seco lui divideste l’acerbità, come la gloria del suo supplizio. 28 LA LORO TRAPPOLA CHIAMATA LIBERTÀ 285 Poi esorta i peccatori a rivolgersi a Maria: «Digli le tue colpe e il tuo pentimento, e sentirai scendere nel tuo cuore affannato la consolante certezza che per te intercede la Regina degli Angeli, ch’ella otterrà il tuo perdono» 29. Il pellegrino chiede allora la sua protezione, affinché m’otteniate qualche mitigazione delle pene che io soffro, e più di tutto una rassegnazione umile e cristiana. Quando poi finalmente verrà l’ora di mia morte, io vi supplico di assistermi negli ultimi momenti, di accompagnare l’anima mia tutta trepidante al Tribunale supremo. 30 Identica e commovente tenerezza ha la Marchesa Juliette nei corfronti della Madonna. Ce lo conferma un grazioso episodio accaduto nel santuario della Consolata, dove la Barolo si recava quotidianamente a pregare. Un giorno udì una bambina che, per vedere la statua di Maria Vergine, insisteva con la sua mamma in dialetto piemontese: Mama, piime an bras! Mamma prendimi in braccio! La Marchesa prese quella simpatica frase come giaculatoria che ripeteva in seguito frequentemente a Maria, e raccomandava anche alle sue figlie 31. Juliette ricordava spesso alle religiose da lei fondate di pregare la Madonna per lei. Esortava a mettersi con fiducia nel suo cuore materno e ricorrere a lei, mediatrice di tutte le grazie, per imitarla: «Raccomandatevi soprattutto a Maria SS.ma, pregatela di prendervi per mano, di condurvi ai piedi del suo divin Figlio. Da Lei si ottiene misericordia, e con Lei si va a Dio» 32. Una memoria di sapore agostiniano si fa avanti nel pellegrino Tancredi, la consapevolezza di non essere arrivato subito nelle braccia di Dio, provando un turbamento fatto di amaro assenzio, ma ad un certo punto, sazio di 286 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA quella bevanda che alletta ed uccide io ho fuggito il mondo. Nondimeno la mia ragione sempre ancor vacillante odiava il male senza abbracciare il bene; pertanto Iddio impietosito dalla mia debolezza mi mandò gli affanni ed il dolore, terribili ma fruttuose riprove che c’insegnano come la vita sia un barlume fugace cui il menomo soffio può spegnere, che ci guidano ad innoltrare un profondo sguardo nel vortice dell’eternità pronto ad ingojarci. 33 Persuaso della presenza continua dell’Angelo, inviato celeste, egli non prova più paura. Tuttavia ci sono anche gli angeli caduti nell’abime, i quali «giurano odio implacabile all’uomo», dedica alcune pagine. Satana si traveste di voluttà, di gloria, di ricchezza e l’uomo resta affascinato, carpito dal «fantasma di felicità». Ma che importa? […] l’uom virtuoso sostiene lietamente la vita, mentre non desidera con meno ardore il termine del suo esilio; simile al pellegrino il qual gode mirando i luoghi ameni ch’egli incontra per via, ma non allenta giammai il passo che lo deve portare alla desiata meta. 34 Mortificava sensi interni ed esterni, spogliandosi della materia: La vita non è un bene se non quando si considera come la via che conduce al Signore, come il deserto ond’io da queste cime discopro le biancheggianti linee all’estremo orizzonte… Nel deserto come nella vita soffronsi gli ardori del sole e i tormenti della sete; poi talvolta ancora è d’uopo combattere contro avventurate fiere. Ma che importa? Il fedele muove innanzi animosamente, ben persuaso che la vittoria deve essere il premio della perseveranza. 35 LA LORO TRAPPOLA CHIAMATA LIBERTÀ 287 Nell’«Orazione funebre» composta per Falletti di Barolo, lo scrittore saluzzese ne tesse le lodi e afferma che tutti i suoi concittadini rammentano i lumi e l’operosità che lo distinsero nella sua carriera amministrativa – che definisce «carica paterna» – e considera la sua morte prematura una vera «calamità pubblica», che nel regno di Sardegna «ha gettato il lutto in ogni cuore» 36. Pellico lascia scritto: «Io aveva… un… amico prezioso, un angelo di bontà nel Marchese di Barolo. Sono inconsolabile della sua perdita; ed è perdita per tutto il Paese» 37. Don Francesco Gastaldi è molto chiaro nel suo giudizio: Ricco «di censo, di attività, d’ingegno, da rasentare il genio come quello di tutti i precursori, di santità […]. Che cos’è la santità se non la doppia carità, verso Dio e il prossimo, nella custodia dell’umiltà? Eccolo il nostro Marchese! La mente assorta nei pensieri di Dio, la mano tesa a profondere beni al prossimo, coll’una e coll’altra fa ancora l’apostolato della buona stampa e gloria di Dio e a beneficio del prossimo, ma si nasconde nell’anonimo». 38 Ma c’è dell’altro: ogni cosa, sia per Tancredi che per Juliette, li rimandava a Dio e, istintivamente si sentivano attratti dall’apostolato religioso e all’adempimento della loro missione: Il Medico non vuole che mi approssimi al letto delle colerose, ma in questo caso io amo meglio mancare all’obbedienza che mancare alla carità, che il dovere di madre e l’amore mi incombono verso le mie figlie. E non dubito che il buon Dio mi proteggerà e mi assisterà. 39 288 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Alle figlie Maddalene, Juliette, «povera peccatrice», come firmava molte lettere a loro dirette, diceva che avrebbe preferito prendere su di sé il loro male per sollevarle… «offerite anche parte del vostro patire a Dio in sconto delle mie colpe» 40 . Mai Tancredi e Juliette si allontanarono dai disegni della Provvidenza, «in unione perenne di pensiero e di cuore a Dio» 41. E quando Juliette sarà costretta a letto per lunghi mesi non venne mai meno in lei il coraggio e la pazienza, affermando: «è indifferente compiere la volontà di Dio, orizzontalmente nel proprio letto o perpendicolarmente sui piedi. E dal suo letto continuava sulla strada della dedizione alle sue figlie e ai suoi poveri con immutata abnegazione» 42. Juliette morirà il 19 gennaio 1864 a 77 anni. Don Ponte scrisse che la sua agonia durò tre giorni e fu assai dolorosa, anche se lei rimase «in tutto quel tempo in perfetta unione con Dio aspettando con fede forte e calma la morte a cui era preparata da moltissimi anni» 43. Essi furono fra i «pochi cattolici che, in tempi burrascosi, vissero in fedeltà l’appartenenza alla Chiesa e allo Stato» 44. A Juliette Silvio Pellico, che definiva Tancredi «anima rara», rivolgeva parole ammirate e commosse: Voi siete, e voi sarete, per tutta la vostra vita, incorreggibile, quando si tratta di carità! Ah! Che Dio non vi faccia espiare questa colpa con le sofferenze! Visitatemi ancora – misticamente – insieme con il nostro Divin Salvatore e la Sua Santa Madre. Quanto a me, io vi vedo accanto a loro, e quando non so pregare, io dico Amen alle vostre preghiere. 45 Afferrati da Cristo, Tancredi e Juliette furono sempre liberi, interpreti di quella libertà portata dal Redentore e furono collaboratori del piano della Salvezza 46. LA LORO TRAPPOLA CHIAMATA LIBERTÀ 289 Il matrimonio sarebbe la trappola per le ambizioni di perfezione cristiana? In un ambiente come quello claustrale, dove preghiera e meditazione sono le attività privilegiate della giornata, la ricerca della virtù può essere favorita. Viceversa all’interno di una casa, dove le preoccupazioni, gli affanni, le questioni pragmatiche tendono prepotentemente a prevalere sulle questioni più profonde dell’anima, risulta decisamente difficile esercitare e praticare l’ascesi e l’affinamento dello spirito. Difficile, ma non impossibile per coloro che in Dio e per Dio operano con pensieri, parole e azioni, e dunque si propongono di santificare ogni atto, ogni gesto. La Chiesa non è un esercito in cui tutti hanno la stessa uniforme, né un prato all’inglese, ma espressione della Santissima Trinità: è il Padre che vuole le diversità ed è il Figlio accolto che crea l’unità, perché lo Spirito Santo agisce come l’amore autentico, il quale non pretende che l’altro sia diverso, ma brama per la sua vera realizzazione. Questa la comunione dei Santi. 1 Gb 28,28. 2 Mt 16,26. 3 S. Agostino, Le Confessioni, 1,4.4-5.5. 4 Ct 2, 9-10. 5 Cfr. C.T. Falletti di Barolo, Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane, op. cit., p. 11. 6 Marchesa di Barolo, Memorie, appunti e pensieri, op. cit., p. 141. 7 G. Lanza, La Marchesa Giulia Falletti di Barolo nata Colbert, op. cit., p. 30. 8 G. Falletti di Barolo, Ammonimenti, istruzioni ed esortazioni, vol. II, Cremona, Tip. San Giuseppe, 1880, p. 198. 9 C.T. Falletti di Barolo, Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane, op. cit., p. 64. 10 C.T. Falletti di Barolo, Il primo uomo e l’Uomo-Dio, Giacinto Marietti, To- 290 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA rino, 1838, p. 10. 11 Ivi, p. 29. 12 Cfr. La Marchesa di Barolo colle sue Maddalene, Cremona, Tip. San Giuseppe, 1880, Vol. II, pp. 198-199. 13 Ivi, p. 198. 14 Mt 25,35-36. 15 C.T. Falletti di Barolo, Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le scuole italiane, op. cit., p. 4 16 C.T. Falletti di Barolo, Il primo uomo, op. cit., p. 16. 17 F. Gastaldi, in «Luce centenaria», periodico delle Suore di Sant’Anna, Torino, anno XIV, maggio-giugno 1948, p. 18. 18 Qo 5, 9-10. 19 Lc 12, 33-34. 20 Cfr. Lc 14,33. 21 C.T. Falletti di Barolo, Gesù, Maria e gli Angeli ossia il Pellegrino a tre stazioni insigni di Terra santa, Torino, Giacinto Marietti, 1838, pp. 94-95. 22 Ivi, pp. 102-103. 23 Giulia Colbert Marchesa di Barolo, Scritti Spirituali, stampato in proprio pro-manoscripto, Milano, 1994, p. 56. 24 C.T. Falletti di Barolo, Gesù, Maria e gli angeli, op. cit., pp. 121-122. 25 Ivi, p. 98. 26 Ivi, pp. 98-99. 27 Ivi, pp. 32-33. 28 Ivi, pp. 56; 58. 29 Ivi, pp. 64-65. 30 Ivi, pp. 77-78. 31Cf. Marchesa di Barolo, Lettera a Sr. Maddalena Matilde, 17 agosto 1863, in G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere alle Sorelle Penitenti di S. Maria Maddalena, op. cit., vol. II, p. 236. 32 Marchesa di Barolo, Lettera alla comunità delle sorelle Maddalene, 27 agosto 1847 in G. Colbert Falletti di Barolo, Lettere alle Sorelle Penitenti di S. Maria Maddalena, op. cit., vol. I, p. 16. 33 Ivi, pp. 100-101. 34 Ivi, pp. 113-114. 35 Ivi, pp. 112-113. 36 Ivi, p. 1. 37 S. Pellico, Lettera al Sig. Conte Luigi Porro, in Epistolario di Silvio Pellico, Milano, Libreria Editrice di educazione e d’istruzione di Paolo Carrara, 1874, p. 99. LA LORO TRAPPOLA CHIAMATA LIBERTÀ 291 38 F. Gastaldi, I nostri grandi fondatori, art. cit., p. 18. 39 Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago, op. cit., p. 430. 40 G. Lanza, p. 62. 41 F. Gastaldi, I nostri grandi fondatori, art. cit. , p. 18. 42Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago, op. cit., p. 430. 43 Ivi, p. 436. 44 Cfr. Atti del Consiglio generale nel 150° anniversario di morte del Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, n. 97, Roma, Casa generalizia, 1° gennaio 1989, pp. 154-155. 45 Lettera di Silvio Pellico alla Marchesa Giulia Colbert di Barolo, senza data, in S. Pellico, Lettere famigliari inedite, op. cit., vol. II, pp. 783-784, a sua volta in Congregazione Figlie di Gesù Buon Pastore, Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri, a cura di Suor Ave Tago, op. cit., p. I. 46 Fil 1,5; 4,3. Cronologia 26 ottobre 1782 C. Tancredi Falletti di Barolo nasce a Torino da Giuseppe Ottavio Alessandro e da Maria Ester Paolina Teresa d’Onxieu de la Bâthie e de Chaffardon. 3 novembre 1782 Viene battezzato nella Parrocchia di San Dalmazzo a Torino con i nomi di Carlo Ippolito Ernesto Tancredi Maria. 26 giugno 1786 Juliette Colbert nasce nel castello di Maulévrier, in Vandea (Francia), secondogenita del conte Édouard Colbert e della contessa Anne-Marie-Louise Quengo de Crénolle. Lo stesso giorno è battezzata con i nomi di Juliette-Françoise-Victurnie. 1790-1792 Juliette con la famiglia risiede abitualmente a Bonn in Germania, poiché il padre dal 1784 era Ministro Plenipotenziario del Re di Francia presso l’Elettore di Colonia. 1793 A causa delle guerre di Vandea, i Colbert si trasferiscono ad Arnhem (Olanda), poi a Bruxelles (Belgio). Il 3 ottobre a Bruxelles muore la madre di Juliette. In seguito, il Conte Colbert con i figli rientra in Germania, ad Essen (1794-1796) e poi a Münster (1796-1800). 294 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA 26 luglio 1794 A Parigi viene ghigliottinata la nonna paterna di Juliette, Charlotte-Jacqueline-Françoise de Manneville. 1799-1803 Tancredi è Guardia Nobile presso il Re di Sardegna. 1801 La famiglia Colbert rientra in patria. 1803 Tancredi viaggia con il padre in Europa. 1804 Tancredi viene chiamato alla corte di Napoleone a Parigi, in qualità di Guardia d’onore a cavallo e in seguito di Ciambellano e Conte dell’impero. A Parigi anche Juliette frequenta la corte imperiale come damigella. Qui avviene l’incontro fra Tancredi e Juliette. Luglio-agosto 1805 Tancredi viaggia per motivi culturali in Svizzera, Svezia, Olanda e Belgio, nonostante le guerre in corso. Dic. 1805 - gen. 1806 Tancredi viaggia in Germania al seguito dell’Imperatore. 18 agosto 1806 A Parigi si celebra il matrimonio tra Tancredi e Juliette. 1806-1814 Gli sposi alternano come dimora Parigi e Torino. 21 aprile 1812 Il padre di Juliette si risposa con Pauline-Jeannne-Henriette Le Clerc de Juigné. CRONOLOGIA 295 1814 Con il ritorno dei Savoia in Piemonte, i coniugi Barolo si stabiliscono definitivamente a Torino, a Palazzo Barolo, in via delle Orfane. La domenica in Albis (17 aprile) Juliette visita le carceri del Senato. Estate 1816 I coniugi Barolo compiono un breve viaggio a Londra e dintorni. 31 dicembre 1816 Tancredi è eletto Decurione della città di Torino. 31 dicembre 1817 Tancredi entra nel Consiglio di Congregazione, ufficio rinnovabile annualmente, che ricoprirà in cinque successive tornate: 1822, 1823, 1830, 1831, 1833. 1818 Juliette inizia la sua attività indefessa nelle carceri femminili di Torino. 31 dicembre 1818 Tancredi è nominato Deputato «per li viali e passeggi». Nov. 1819 - mag. 1820 I coniugi Barolo compiono un lungo viaggio attraverso l’Italia. 16 luglio 1820 Juliette inoltra al Ministro degli Interni la richiesta di aprire una scuola per ragazze povere nel quartiere di Borgo Dora. 31 dicembre 1820 Tancredi riceve la nomina a Deputato «per il Catasto». 10 gennaio 1821 Juliette presenta al Governo una lunga relazione sulla deplorevole condizione in cui si trova la realtà carceraria, con proposte di riforma. 1821 Tancredi, in veste di Decurione, firma, con altri 22 membri, la petizione in cui si chiede al reggente Carlo Alberto di Savoia di promulgare la Costitu- 296 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA zione spagnola. Accetta di far parte della Consulta di governo istituita subito dopo dallo stesso Reggente. Dopo i moti liberali di marzo, Juliette ottiene dal Governo di trasferire tutte le detenute del Senato, delle Torri e del Correzionale nel più salubre edificio delle Forzate. Il 30 ottobre è nominata Sovrintendente del nuovo carcere femminile. Luglio-agosto 1821 Viaggio in Tirolo e in Austria. 1° settembre 1821 Giungono a Torino da Chambery (Francia) le Suore di San Giuseppe, chiamate dalla Marchesa di Barolo per aprire la scuola di Borgo Dora. 1822 Tancredi pubblica Elza, novella del secolo XII (Chirio e Mina, Torino). Mag. - lug. 1822 Juliette compie un viaggio in Francia, dove si recherà anche nel 1824 e nel 1829, insieme al marito. 1823 Tancredi pubblica I Sabbioni di Trufarello (Chirio e Mina, Torino). I coniugi avviano a Palazzo Barolo, in maniera informale, una forma di assistenza per i bambini del ceto popolare e operaio, come confermano due lettere di Alfonso de Lamartine alla Marchesa del 1823 e 1824. Juliette, su richiesta del Re, chiama a Torino le Dame del Sacro Cuore per occuparsi dell’educazione e dell’istruzione delle giovani nobili e dell’alta borghesia. 7 marzo 1823 Con le regie patenti di approvazione, nel quartiere Valdocco a Torino, sorge il Rifugio, una casa di educazione preventiva e riabilitativa per giovani a rischio ed ex-detenute. 31 dicembre 1824 Tancredi è nominato Ragioniere, incarico che riotterrà nel 1828 e nel 1829. Pubblica il romanzo La pittrice e il forestiere: raccolta tratta dalle memorie inedite d’un viaggiatore in Italia (Giuseppe Bocca Libraio, Milano). CRONOLOGIA 297 Novembre 1825 Juliette con il marito trascorre l’inverno a Pisa perché debilitata. 31 dicembre 1825 Tancredi è eletto Sindaco di prima classe. 1826 Pubblica L’Elenco degli alberi principali che possono servire all’ornamento dei giardini coll’indicazione del modo più conveniente di collocarli (Chirio e Mina, Torino). 30 novembre 1826 Il Marchese di Barolo è nominato membro dell’Accademia delle Scienze. 31 dicembre 1826 È riconfermato Sindaco di prima classe. Primavera 1827 Si fa promotore, a nome del Consiglio Comunale, della costruzione della Chiesa della Gran Madre di Dio. 4 luglio 1827 La Giunta Comunale delibera l’apertura della Cassa di Risparmio, promossa da Tancredi. 30 dicembre 1827 Tancredi predispone ordinamenti per procurare lavoro alla classe indigente durante la stagione invernale. 30 gennaio 1828 A Torino muore il marchese Ottavio, padre di Tancredi. 21 febbraio 1828 Il Sindaco dà lettura della lettera dove Tancredi offre al Comune di Torino un’ingente somma (300.000 lire) per la realizzazione del nuovo Cimitero. 31 dicembre 1828 Tancredi è nominato membro della Deputazione generale provinciale. 298 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA 1825 I coniugi aprono, in forma più organica, le «Sale di ricovero» a Palazzo Barolo. Ottobre 1829 Il Marchese si adopera perché l’Amministrazione comunale affidi la gestione di tutte le scuole comunali torinesi ai Fratelli delle Scuole Cristiane. 31 dicembre 1829 Tancredi ricopre le cariche di Deputato (fino al 1831) per la notturna illuminazione e di Consigliere d’amministrazione della Compagnia operai-guardie del fuoco; diviene membro della Deputazione Generale (fino al 1833) e membro della Giunta della Cassa dei censi e dei prestiti. È Deputato per le leve provinciali, consegne e stato civile (fino al 1833). 31 dicembre 1830-32 È Deputato per Cassa, censi, prestiti. 2 settembre 1831 Viene nominato dal Re Carlo Alberto Consigliere di Stato. Dona la villa del Casino con annesso giardino al Pensionato delle Dame del Sacro Cuore in Torino. Ott. 1831 - feb. 1832 Juliette e Tancredi trascorrono l’inverno in Toscana. 1832 Tancredi pubblica Sulla educazione della Prima infanzia nella classe indigente: Brevi cenni dedicati alle persone caritatevoli (Chirio e Mina, Torino). 7 febbraio 1832 Juliette invia al Governo una lunga relazione sulle carceri presentando il suo metodo rieducativo fondato su istruzione, lavoro ed educazione religiosa. 28 aprile 1832 Tancredi riceve dal Re la nomina di Presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale di Moncalieri. CRONOLOGIA 299 23 giugno 1832 Giungono da Domodossola a Palazzo Barolo le prime candidate delle Suore della Provvidenza per occuparsi dell’Asilo. 5 novembre 1832 Silvio Pellico conosce a Palazzo Barolo i Marchesi, con i quali si legherà di santa amicizia. Dicembre 1832 Tancredi riceve l’incarico di Segretario della deputazione per l’istruzione. Appoggia i Fratelli delle Scuole Cristiane e si impegna per la riforma della scuola. Luglio 1833 Juliette si reca in Francia per visitare il padre malato. 14 settembre 1833 Nasce la Congregazione delle Sorelle Penitenti di Santa Maria Maddalena (oggi Figlie di Gesù Buon Pastore), fondata da Juliette Colbert Falletti di Barolo, assecondata dal consorte. 21 novembre 1833 La madre di Tancredi si ammala improvvisamente e muore. Da Firenze Tancredi si reca immediatamente a Torino. Ott. 1833 - mag. 1834 I coniugi Barolo svernano in Toscana, a Napoli e a Roma. Di questo viaggio, come degli altri, Tancredi lascia un dettagliato e interessante Diario. Gennaio 1834 Juliette e Tancredi offrono a Silvio Pellico l’impiego di bibliotecario a Palazzo Barolo. 28 agosto 1834 Tancredi è invitato ad assumere il prestigioso incarico di «Maestro di Ragione», al quale rinuncia per motivi di salute. 300 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA 10 dicembre 1834 Tancredi e Juliette fondano nel loro palazzo la Congregazione delle Suore di Sant’Anna. Aprile 1835 La Marchesa si reca a Parigi presso la sorella Elisabeth, che muore il 19 aprile; poi passa a Maulévrier per visitare il padre. 1835-1836 Tancredi pubblica le Lezioni sopra la Geografia Patria ad uso della gioventù piemontese (Marietti, Torino). 29 giugno 1835 Tancredi aderisce alla «Società d’Incoraggiamento per le arti del disegno», finalizzata a rivitalizzare a Varallo Sesia una scuola di disegno gratuita. Agosto 1835 Scoppia il colera in Piemonte. I Marchesi di Barolo, che si trovano a Moncalieri, tornano a Torino. In qualità di Decurione e come membro della Commissione sanitaria, Tancredi organizza ospedali, infermerie ed «Uffici di soccorso». Juliette visita ogni giorno i colerosi. 1° settembre 1835 Tancredi propone alla Deputazione del corpo decurionale di fare voto solenne alla Consolata per ottenere dalla Divina Misericordia la liberazione dal colera. Il 3 settembre, con la stessa Deputazione si reca alla Consolata per la solenne funzione della consegna del voto alla Vergine. 1836 I Marchesi aprono uno Stabilimento delle Suore di Sant’Anna a Santena per dare inizio ad una scuola comunale per ragazze. Tancredi pubblica Cenni diretti alla gioventù intorno ai fatti religiosi successi nella città di Torino dal principio dell’era Cristiana ai tempi nostri (Marietti, Torino). 20 aprile 1836 Tancredi offre alla Società d’Incoraggiamento di Varallo la somma di 10 mila lire per l’apertura di un laboratorio di scultura in legno. CRONOLOGIA 301 Nov. 1836 - apr. 1837 A causa di problemi di salute, i coniugi Barolo soggiornano in Toscana. 1837 Tancredi promuove e sovvenziona la costruzione di una strada che va da Germagnano a Viù, nelle Valli di Lanzo. Pubblica Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le Scuole italiane intorno ai vari stati che da essa possonsi eleggere ed alle disposizioni con cui si debbono abbracciare (Marietti, Torino). 8 ottobre 1837 Tancredi e Juliette fondano ad Altessano (Torino) una scuola elementare per fanciulle, diretta dalle Suore di Sant’Anna. Entrambi presenziano all’inaugurazione. 15 dicembre 1837 Tancredi riceve dal Re Carlo Alberto la nomina a Commendatore effettivo dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. 1838 Pubblica: Gesù, Maria e gli Angeli ossia il Pellegrino a tre stazioni insigni di Terrasanta (Marietti, Torino); Morte e Giudizio ossia il Pellegrino alla Valle di Giosafat (Marietti, Torino); Il primo uomo e l’Uomo Dio (Marietti, Torino). I Marchesi, a proprie spese, fanno innalzare di un piano il carcere delle Forzate, perché vi si possano stabilire le Suore di San Giuseppe, impegnate da alcuni anni presso le detenute. Gennaio 1838 Tancredi è rinominato Deputato Segretario per le scuole. Redige due relazioni: Carte relative alle scuole del disegno e Specchio di una Sala d’Asilo per 200 fanciulli, di cui 100 maschi e 100 femmine. Maggio 1838 I coniugi Barolo offrono, nel proprio Palazzo, ospitalità stabile a Silvio Pellico, in seguito alla morte dei genitori. 19 maggio 1838 Tancredi redige il testamento, dove nomina l’amatissima moglie Juliette sua erede universale. 302 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Settembre 1838 Su indicazione dei medici, per motivi di salute, Tancredi parte per il Tirolo insieme alla consorte. A Verona viene colpito dalla febbre. 4 settembre 1838 Sulla strada del ritorno, a Chiari (Brescia), si aggrava. Riceve l’estrema unzione e muore fra le braccia della sua desolata sposa. 10 settembre 1838 Nella parrocchia di S. Dalmazzo si celebra il funerale con la semplicità e austerità da lui richiesta, ma reso solenne dal pianto dei poveri. È sepolto nel Cimitero monumentale di Torino che egli stesso aveva fatto edificare. 1838-1840 Juliette finanzia la fondazione di scuole cattoliche nella diocesi di Pinerolo (Torino), dove la popolazione è perlopiù valdese. Apre anche una scuola per la formazione di maestre cattoliche. 18 agosto 1839 A Maulévrier muore il padre di Juliette. 1839-1840 Viene fondato a Torino, su proposta di Juliette, un monastero delle Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento. 28 agosto 1841 Nella Casa adiacente alle Suore di Santa Maria Maddalena sorge l’opera delle Maddalenine, dove vengono accolte 40 ragazze a rischio, ospitate gratuitamente ed educate dalle suore. 10 agosto 1845 Si inaugura l’Ospedaletto di Santa Filomena per ospitare bambine disabili, situato in un edificio adiacente al Rifugio. Per la loro cura, Juliette istituisce le Oblate di Santa Maria Maddalena. Sett. 1845 - mag. 1846 Juliette si reca a Roma per ottenere l’approvazione degli Istituti e delle Costituzioni delle Sorelle Penitenti di Santa Maria Maddalena e delle Suore di Sant’Anna. CRONOLOGIA 303 1845-1846 Costituisce a Palazzo Barolo tre «Famiglie di operaie»: gruppi di 12 ragazze che di giorno vanno a lavorare presso artigiani e commercianti. La direzione di ogni famiglia è affidata ad una «madre» laica. 23 gennaio 1847 Fa edificare, accanto al monastero delle Suore di Sant’Anna, un’ala per 30 orfane, chiamate «Giuliette». Maggio 1847 È colpita da una gravissima malattia. Riceve il Viatico e l’Unzione degli Infermi. Gennaio 1850 Cessa la sua attività nel carcere femminile delle Forzate, che il Governo trasforma in prigione delle inquisite. Ott. 1851 - mar. 1852 Compie un viaggio a Napoli per trattare la fondazione, poi non realizzata, di una casa delle Suore di Santa Maria Maddalena. 22 settembre 1856 Conclude la redazione del testamento (95 articoli); in seguito compilerà otto aggiunte e una nota testamentaria, in cui rinnoverà la sua professione di Fede. 1857 Annesso all’Ospedaletto di Santa Filomena, Juliette istituisce il laboratorio di San Giuseppe per ragazze povere dai 10 ai 18 anni. Giu. - 13 ago. 1860 Compie l’ultimo viaggio in Francia. 1862 Finanzia la costruzione della chiesa neogotica di Santa Giulia in Borgo Vanchiglia con annesso oratorio. Inoltre lascia un generoso contributo per stabilirvi una comunità di sacerdoti. 304 MATRIMONIO, QUEL VINCOLO CHIAMATO LIBERTA Ottobre 1863 Inizia l’ultima dolorosa malattia. 19 gennaio 1864 Alle ore 23 circa muore. 22 gennaio 1864 Si svolgono i funerali e viene sepolta accanto al consorte, nel Cimitero monumentale di Torino. 19 gennaio 1899 La salma della marchesa di Barolo viene trasferita nella chiesa di Santa Giulia. 21 gennaio 1991 Si apre a Torino il Processo Canonico di Beatificazione e Canonizzazione di Juliette. 8 febbraio 1995 Si apre a Torino il Processo canonico di Beatificazione e Canonizzazione di Tancredi. 23 ottobre 2013 I resti mortali di Tancredi vengono esumati e traslati nella chiesa di Santa Giulia a Torino. Bibliografia AA.VV., Felicità - Verità - Bellezza, I volti della Carità di Carlo Tancredi di Barolo (1782-1838), Atti del Convegno, Torino 14 novembre 2008, a cura della Congregazione delle Suore di Sant’Anna, CLS Arti grafiche, Carmagnola (TO) 2009. 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Il «non progredire è sempre un vero retrocedere» 13. Il «mal essere sociale» 14. Il «bene comune» nell’azione politica di Tancredi 15. Committente e mecenate 16. Al loro passare nulla resta come prima 17. Il «Cholera Morbus» e il pianto dei poveri 18. Vita di austerità 19. La loro trappola chiamata libertà 295 305 Cronologia Bibliografia