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Obiettivo 3. LA RISOLUZIONE AMICHEVOLE DEI CONFLITTI
Giudice e conciliatore.
L’esperienza del nuovo articolo 185-bis cpc
di Luciana Razete
Accanto all’esame della norma per gli aspetti relativi al suo ambito di applicazione, ai tempi ed alle modalità di formulazione della proposta, l’articolo analizza i profili del rapporto del giudice con le parti ed
i loro difensori, delle tecniche persuasive, finora affidate all’iniziativa spontaneistica ed alla sensibilità
individuale del singolo magistrato, della cumulabilità con altri istituti mediaconciliativi, della potenzialità e degli effetti della conciliazione ex art.185-bis cpc sulla durata ragionevole del processo in una
prospettiva di ampio respiro, sotto il profilo programmatico e formativo.
Premessa
La legge 9 agosto 2013 n. 98, di conversione del
DL 21 giugno 2013 n. 69 ha apportato varie modifiche
non solo al testo originario del DLGS 4 marzo 2010,
n. 28, ma anche al nuovo art. 185-bis cpc, intitolato
«proposta di conciliazione del giudice», che ora cosi
recita «il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a
quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove
possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al
valore della controversia e all’esistenza di questioni
di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta
transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o
astensione del giudice».
L’art. 185-bis cpc è norma applicabile ai processi
pendenti in applicazione del principio tempus regit
actum: infatti l’art. 77 del decreto legge 69/2013, che
introduce la proposta di conciliazione del giudice,
non contempla disposizioni transitorie e il suo regime
di efficacia temporale discende dalla norma finale, art
86, per cui il decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione (21 giugno 2013
data di pubblicazione in GU).
Con la novella 69/2009, ma ancor più con il decreto legislativo 28/2010 sulla mediazione civile e commerciale, il legislatore pare aver inteso dare un forte
impulso a tutti i mezzi di soluzione delle controversie alternativi al giudizio, sebbene i diversi interventi
normativi che si sono succeduti al fine di realizzare
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tale obiettivo si siano ispirati a principi non sempre
coerenti .
L’art. 185-bis cpc si inserisce a pieno titolo nella
predetta categoria di interventi sebbene, la norma sia
stata notevolmente modificata rispetto alla sua prima
versione.
In presenza di una pluralità di sistemi conciliativi,
pur con le peculiarità proprie di ciascuno di essi, talora in rapporto di concorrenzialità, appare possibile
un loro impiego combinato o in sequenza nell’ambito
dello stesso contenzioso.
Non deve trascurarsi che la proposta conciliativa
di cui all’art. 185-bis cpc, specie nei processi la cui
durata ha superato il termine ragionevole di tre anni
(previsto per il giudizio di primo grado, dall’art. 55,
comma 2 bis, del DL 22 giugno 2012 n.83 -cd. decreto sviluppo – convertito dalla legge 7 agosto 2012
n. 83) – se anche non servisse a definire la lite – potrebbe conseguire l’effetto di escludere la possibilità per le parti che l’avessero rifiutata di richiedere
l’indennizzo per irragionevole durata del processo,
stante il disposto dell’art. 2, comma 2 quinques della
legge 24 marzo 2001 n.89 (cd. legge Pinto), come sostituito dall’art. 55, del DL 83/2012, convertito nella
legge 134/2012 che prevede che: «Non e’ riconosciuto alcun indennizzo: … b) nel caso di cui all’articolo 91, primo comma, secondo periodo, del codice di
procedura civile; …» cioè quando la domanda è accolta in misura non superiore all’eventuale proposta
conciliativa.
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Obiettivo 3. LA RISOLUZIONE AMICHEVOLE DEI CONFLITTI
1.Ambito di applicazione
La collocazione sistematica dell’art. 185-bis cpc
indurrebbe a ritenere che esso possa trovare applicazione solamente nei giudizi di cognizione ordinaria in
cui si controverta di diritti disponibili. In realtà non
vi sono ostacoli, sotto il profilo teorico, ad ammettere la formulazione di proposte conciliative, sempre
a discrezione del giudice, anche in altri giudizi come
nel procedimento camerale o nel giudizio sommario
di cognizione ex art. 702-bis cpc o in quello cautelare che possa concludersi con un provvedimento
destinato ad acquistare una relativa stabilità (e con
una condanna alle spese – art. 669-septies,, comma
2 e art. 669-octies, terz’ultimo comma, cpc). La durata solitamente contenuta di procedimenti del genere comporterebbe però un minor effetto persuasivo
connesso alla prospettiva del rifiuto della eventuale
proposta conciliativa, ma tale ragionamento andrebbe ribaltato nell’ipotesi di procedimenti – specie in
tema di art. 700 cpc e di azioni di nunciazione – che
richiedono indagini tecniche necessariamente complesse e dispendiose, in termini di costi e di tempo, e
nel caso di periculum in mora fortemente rappresentato (si pensi al caso di temuti cedimenti strutturali di
un immobile di eziologia incerta e contestata che richiedano sondaggi ed indagini idrogeologiche) in cui
la proposta conciliativa, con esecuzione immediata di
opere provvisionali, consentirebbe un significativo risparmio di tempo e costi .
In realtà sia un giudizio che risulti definibile prontamente in punto di fatto, ad esempio per mancata
specifica contestazione dei fatti dedotti dalla controparte o per la sua natura documentale, sia quello che
involga questioni complesse in punto di fatto (la norma impone questioni di facile e pronta soluzione “in
diritto” ma non “in fatto”) potrebbero predisporre il
giudice ad assumere una simile iniziativa e le parti ad
aderirvi, sia pure per ragioni opposte nell’uno e nell’altro caso.
Nel primo infatti potrebbero essere indotte ad accettare la proposta dalla prospettiva di evitare una
decisione che, presumibilmente, sopraggiungerà in
tempi brevi mentre nel secondo dall’alea sull’esito del
giudizio – per gli incerti risultati dell’accertamento
dei fatti – e dal rischio conseguente che il contenzioso
si articoli in tutti i gradi di giudizio possibili.
2. Tempi di formulazione della proposta
L’originario testo dell’art. 185-bis , introdotto dal
DL 69/2013 prima della conversione testualmente
recitava:«Il giudice alla prima udienza ovvero fino
a quando è esaurita l’istruzione, deve comunicare
alle parti una proposta transattiva o conciliativa. Il
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rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del
giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio». Tale versione della norma si ritenne in contrasto
con due principi essenziali della funzione giudicante:
il principio dell’imparzialità e della terzietà del giudice
e il principio del divieto di anticipazione del giudizio
da parte del magistrato. La norma era stata formulata
in termini imperativi nel senso che il giudice “deve”
avanzare alle parti una proposta conciliativa, ma non
era chiaro se doveva farlo comunque a prescindere da
ogni circostanza processuale.
Per il momento nel quale il giudice deve formulare questa proposta transattiva o conciliativa due le
alternative: immediatamente alla prima udienza oppure fino a quando non sia conclusa la fase istruttoria; la formulazione della proposta alla prima udienza
appare prematura in quanto l’istruttoria non è ancora
iniziata e, come è evidente, le ragioni di fatto e di diritto delle parti si chiariscono ulteriormente almeno
al deposito della seconda o terza memoria istruttoria ex art.183 comma 6 cpc. Potrebbe non rivelarsi
prematura per le cause di natura documentale ove i
documenti sono allegati agli atti introduttivi (ovvero
siano stati prodotti in precedenti fasi processuali, ad
esempio nella fase monitoria o nel procedimento cautelare ante causam).
La formulazione della proposta «sino a quando è
esaurita l’istruzione» inciso mantenuto dalla legge di
conversione, non è quindi del tutto esente da criticità: parrebbe indicare un riferimento dell’ultimo atto
istruttorio, escludendo l’udienza fissata per la precisazione delle conclusioni (per il rischio, di un’anticipazione, nella proposta, del convincimento del giudice
in relazione alla futura decisione ed in cui la proposta
formulata si atteggerebbe verso le parti – che possono
o no accettarla – come una minaccia per la futura decisione, tenuto conto che le parti non hanno l’obbligo
di conciliare).
Una proposta conciliativa formulata in sede di
precisazione delle conclusioni tenuto conto dei termini di cui all’art 190 e dei tempi di redazione della sentenza non sortirebbe poi apprezzabili economie sulla
durata del processo
Può quindi concludersi che la proposta conciliativa/transattiva possa trovare spazio nella fase della
trattazione (prima udienza) o nella fase dell’istruzione, e che esaurita e chiusa l’istruttoria, non sussista
più per il giudice il potere-dovere di formulare una
ipotesi conciliativa o transattiva, ai sensi e con gli
effetti di cui all’art. 185-bis cpc. Questa lettura della
norma discende sia dalla sua formulazione letterale
(«sino a quando è esaurita l’istruzione» indica esplicitamente come limite dell’attività del giudice di formulare i termini della transazione o della conciliazione
quello della fase istruttoria) sia dall’interpretazione
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logico sistematica, in quanto stabilire il potere dovere
del giudice di formulare (non potendo ciò avvenire se
non in termini sufficientemente specifici e dettagliati)
alle parti una ipotesi conciliativa o transattiva della
controversia, in una fase in cui è già chiusa l’attività
istruttoria e non resta che rimettere le parti alla decisione, significherebbe imporre al giudice di anticipare
– esplicitando il contenuto della ipotesi transattiva/
conciliativa – la sua probabile decisione finale, senza
che possa sopravvenire alcun nuovo elemento istruttorio utilizzabile per la decisione.
Nessun ostacolo pare quindi esservi alla formulazione della proposta nel caso in cui, dopo essere stata
posta in decisione, la causa ritorni sul ruolo per integrazione di attività istruttoria.
3. Modalità di formulazione della
proposta
Il legislatore, in sede di conversione del DL
69/2013, ha omesso di disciplinare le modalità di formulazione dell’eventuale proposta di soluzione conciliativa.
Ancorché la norma nulla disponga sul modus procedendi di norma, sia che la proposta sia contenuta in
un ordinanza riservata che formulata in udienza sarà
assegnato alle parti termine fino alla data dell’udienza
per il raggiungimento di un accordo amichevole sulla
base di tale proposta; all’udienza fissata le parti potranno anche non comparire, ove abbiano ritenuto di
accordarsi sulla base della proposta stessa; viceversa,
in caso di mancato accordo, potranno in quella sede,
fissare a verbale quali siano state le rispettive posizioni, anche al fine di consentire la eventuale valutazione
giudiziale della loro condotta processuale ai sensi degli artt. 91 e 96, co. 3, cpc.
La nuova disposizione non prescrive che la formulazione della proposta conciliativa si collochi
all’interno di un tentativo di conciliazione. Se può
pertanto ammettersi che il giudice formalizzi una
ipotesi di soluzione amichevole anche al di fuori dell’udienza, ad esempio a scioglimento di una riserva
(in questo caso le parti potranno aderire con differenti modalità a quella iniziativa): è indubbio che
essa potrà più facilmente realizzarsi se l’iniziativa
sarà stata preceduta da un tentativo di conciliazione, in quanto tale incombente consente al giudice di
rendersi conto di quali siano le compiute ragioni del
conflitto sostanziale tra le parti e quindi di acquisire
le notizie utili ad elaborare una proposta rispondente ad esse.
Non è affatto necessario che la proposta di definizione amichevole o il tentativo di conciliazione vengano sollecitati dalle parti, atteso che il giudice istruttore, ai sensi dell’art. 185, primo comma, seconda parte,
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cpc ha facoltà, in ogni stato e grado del processo, di
fissare l’udienza di comparizione personale delle parti
per procedere al loro libero interrogatorio ed, in tale
occasione, può esperire per la prima volta o rinnovare
il tentativo di conciliazione già esperito e all’esito di
esso formulare la proposta dopo aver verificati, attraverso i difensori delle parti ,la disponibilità delle stesse ad una soluzione amichevole della lite.
A differenza dell’attività che il giudice svolge nell’ambito del più generale tentativo di conciliazione
delle parti ex art. 185 cpc (che si estrinseca nell’attività del giudice di stimolare le parti affinché si
scambino, nell’ambito della loro autonomia privata, proposta e accettazione di accordi convenzionali
transattivi o conciliativi) – la norma in esame configura in capo al giudice – il potere dovere di porre
in essere una specifica attività consistente nel farsi
promotore del contenuto di una ipotesi conciliativa o transattiva. Ed in tale ricerca di equilibrio tra
i contrapposti interessi dei contendenti condivisibilmente, il potere del giudice di rivolgere alle parti
proposte conciliative può tenere conto anche del più
ampio eventuale contenzioso cioè delle questioni di
lite esistenti tra le parti, che non siano oggetto dello
specifico processo pendente, anche se siano connesse con lo stesso, di modo che l’assetto conciliativo
vada a comporre il conflitto nel suo complesso non
limitandosi a definire la singola controversia (v.
Trib. Milano, sez. IX civ., decr. 14 novembre 2013;
Trib. Roma, 23 settembre 2013, in Osservatorio Mediazione Civile n. 74/2013).
Un serio disincentivo all’utilizzo dell’istituto in
esame, quantomeno dopo il momento dell’ammissione delle richieste istruttorie, può derivare dall’ art.
81-bis, primo comma, cpc sul calendario del processo
che impone al giudice, quando provvede sulle richieste istruttorie, di fissare, nel rispetto del principio di
ragionevole durata del processo, il calendario delle
udienze successive.
Il giudice che ha già calendarizzato tutte le udienze in cui si svolgerà l’attività istruttoria delle cause
che tratta che si determini a formulare proposte di
definizione bonaria di una o più di esse, dovrebbe riprogrammare le udienze successive a quel momento
sia nell’eventualità in cui le parti aderissero alla proposta sia nel caso in cui chiedessero un termine per
esaminarla
Nella norma non esiste una previsione per cui la
proposta conciliativa debba essere motivata, bastando che in essa siano indicate alcune fondamentali direttrici che potrebbero orientare le parti nella riflessione sul contenuto della proposta e sulla opportunità
e convenienza di farla propria, ovvero di svilupparla
autonomamente.
Una proposta generica va necessariamente integrata, tenuto conto dell’art. 91, comma 1, secondo
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periodo cpc, cosicché, solo se il rifiuto di essa sarà
sorretto da un giustificato motivo non vi saranno conseguenze per la parte che lo abbia opposto mentre,
in caso contrario, essa sarà condannata alla rifusione
delle spese maturate dopo la formulazione della proposta, salvo che non sussistano i presupposti per la
loro compensazione parziale o integrale
Anche il rifiuto della proposta giudiziale (che di per
sé non comporta alcuna sanzione) dovrà essere adeguatamente motivato, al fine di ridurre il rischio di incorrere in condanne ex artt. 91 e 96 cpc e alla luce di
questo principio emergente in varie pronunce, sarà opportuno che tale motivazione sia comunque esplicitata
dai legali delle parti anche in assenza di un esplicito
invito del giudice in sede di redazione della proposta.
Il rifiuto senza giustificato motivo di una delle
parti condurrà il giudice a valutare la scelta ai fini
del giudizio assumendo rilievo endoprocesuale sul
regolamento delle spese ed extraprocessuale – in via
eventuale e mediata – ai fini d esclusione dell’ indennizzo ex legge Pinto.
4. Soluzione amichevole: possibile
sinergia di vari strumenti
mediaconciliativi a disposizione del
giudice. Conciliazione mediazione
La Proposta conciliativa si differenzia in modo
netto dall’altra previsione (introdotta dalle sovracitate norme) secondo cui «il giudice, anche in sede
di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle
parti, può disporre l’esperimento del procedimento
di mediazione…». Questa previsione fa riferimento, comunque, ad un vero e proprio procedimento
di mediaconciliazione autonomo e distinto dal giudizio in essere, anche se delegato dal giudice, che si
differenzia nettamente dall’istituto regolato dall’art.
185-bis che fa riferimento ad una mera conciliazione
giudiziale di cui il legislatore ha inteso incentivare le
potenzialità applicative; è peraltro prevedibile un più
frequente ricorso da parte del giudice all’istituto di
cui all’art. 185-bis cpc piuttosto che alla media-conciliazione delegata: appare improbabile che il giudice
possa delegare a terzi l’esperimento del tentativo di
conciliazione, qualora si avveda, autonomamente o su
segnalazione dei difensori, di una disponibilità conciliativa delle parti, cui dedicare un’apposita udienza,
necessariamente in tempi brevi.
Per Trib. Milano, sez. IX civile, ord. 29.10.2013,
la modifica normativa ha previsto la possibilità per il
giudice (anche di appello) di disporre l’esperimento
del procedimento di mediazione (cd. mediazione ex
officio) a prescindere dall’elenco delle materie sottoposte alla cd. mediazione obbligatoria di cui all’art.
5 comma 1-bis (e quindi può ricadere anche su controversie aventi ad oggetto il recupero di un credito
rimasto insoddisfatto). Anche per la mediazione ex
officio è vincolante la previsione di cui al novellato
art. 4 comma III DLGS 28/2010: la domanda di mediazione, pertanto, va presentata mediante deposito
di un’istanza presso un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia,
disposizione, secondo il giudice, derogabile con l’accordo delle parti (che pertanto potranno rivolgersi
con domanda congiunta ad altro organismo scelto di
comune accordo).
Le parti, assistite dai rispettivi difensori, possono
trarre utilità dall’ausilio, nella ricerca di un accordo, e
anche alla luce della proposta del giudice, di un mediatore professionale, sicché è possibile prevedere,
anche all’interno dello stesso provvedimento che contiene la proposta del giudice, un successivo percorso
di mediazione demandata dal magistrato che potrebbe
risultare vantaggioso per entrambe. Un’applicazione
per così dire simultanea dei due istituti comporterebbe
l’assegnazione alle parti un termine fino ad una certa
data per il raggiungimento di un accordo amichevole
sulla base della proposta giudiziale prevedendo, dalla
eventuale infruttuosa scadenza del suddetto termine,
il decorso un ulteriore termine di quindici giorni per
depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima
vi proceda, la domanda di mediaconciliazione, con il
vantaggio di poter pervenire rapidamente ad una conclusione, per tutte le parti vantaggiosa, anche da punto di vista economico e fiscale, della controversia in
atto. Interessante in quest’ottica l’ordinanza del Trib.
Roma, 30 settembre 2013, dott. Moriconi (in G.dir.,
2013, 45), che rappresenta un’ulteriore applicazione
del nuovo art. 185-bis cpc, in tema di proposta transattiva o conciliativa formulata dal giudice in pendenza
della lite ed esempio pratico di applicazione della cosiddetta mediazione delegata, ovvero di proposta conciliativa del giudice e successivo invito a rivolgersi ad
un organismo di mediazione1.
Appaiono invece improbabili i risultati positivi
della mediaconciliazione delegata da attuarsi in uno
stato avanzato della lite, in una fase in cui l’istruttoria
1
Così la motivazione: «Si ritiene che in relazione all’istruttoria fin qui espletata ed ai provvedimenti già emessi dal giudice, le parti ben potrebbero pervenire ad un accordo conciliativo. Una tale soluzione, che va assunta in un ottica non di preconcetto antagonismo giudiziario,
ma di reciproca rispettosa considerazione e valutazione dei reali interessi di ciascuna delle parti, non potrebbe che essere vantaggiosa per
entrambe. Invero la controversia non ha fatto emergere questioni di diritto complesse, e dubbi tali da richiedere approfondite analisi e
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Obiettivo 3. LA RISOLUZIONE AMICHEVOLE DEI CONFLITTI
– seppure non esaurita – sia ormai pervenuta ad esiti
dirimenti (si pensi all’esito di una CTU grafica o alla
confessione giudiziale) in quanto essa si insinua in
una causa già ormai avviata alla decisione e quindi in
cui si può prescindere ben poco dallo stato degli atti.
Deve anche segnalarsi la prassi (sempre più diffusa, in svariati tribunali) di conferire incarico al consulente tecnico d’ufficio, oltre che di rispondere a specifici quesiti tecnici, di cercare una soluzione bonaria
della vertenza anche alla luce delle risultanze peritali,
prassi che si ricollega anche al disposto dell’art. 696bis cpc, regolante la consulenza tecnica preventiva
finalizzata alla composizione della lite. È certamente
prassi virtuosa: il CTU dispone degli strumenti per ipotizzare una definizione della vertenza basata su dati
oggettivi, il che ha una fondamentale importanza in
cause “tecniche”, quali quelle edilizie o simili: in esse,
certamente, è molto più agevole per il CTU, che per il
giudice, delineare i termini di una proposta ex art.
185-bis (v ad es. Trib. Nocera, sez. I, Giudice-Levita, 27 agosto 2013, in Dir.&Giust., 2013, 2). Resta un
margine di dubbio se la proposta del CTU possa avere
lo stesso valore, ai fini di cui all’art. 185-bis cpc, di
quella fatta dal giudice (questione che potrebbe essere esplicitata in sede di redazione del quesito e di
conferimento dell’incarico per fugare ogni dubbio).
Molteplici dunque gli strumenti a disposizione del
giudice, volti ad incentivare la composizione bonaria delle vertenze sulla base, però (e a differenza da
quanto accade nella mediaconciliazione preventiva),
di una situazione processuale ed istruttoria più avanzata, più definita e delineata nei suoi termini, tale pertanto da rendere anche più agevole una valutazione
completa delle rispettive posizioni delle parti e quindi
della convenienza od opportunità di chiudere la lite
prima della decisione del giudice.
5. Rapporti tra giudice parti e difensori
nella proposta ex art. 185-bis cpc
La possibilità per il giudice istruttore di formulare la proposta in qualunque momento del giudizio
purché non sia ultimata la fase istruttoria rende differente tale potere/dovere per il giudice civile ordinario
rispetto a quello che detiene il giudice del lavoro. Nel
rito del lavoro, infatti, il giudice può formularla solo
ed esclusivamente alla prima udienza, ai sensi dell’art.
420 cpc e la rivolge non agli avvocati difensori (come
accade nell’art. 185-bis), ma alle parti, comparse personalmente in udienza. Le parti potranno accettare
formalmente la proposta, a mezzo dei rispettivi difensori, purché essi siano muniti di procura speciale, o
comparendo di persona davanti al giudice per concludere una conciliazione giudiziale o per rinunciare agli
atti del giudizio o lasciando estinguere il giudizio.
La direzione della proposta ex art.185-bis ai difensori ne potrebbe senza dubbio limitare la concreta
operatività pratica, sminuendo l’incisività della proposta, sicuramente maggiore se rivolta direttamente
alle parti in giudizio (il legislatore avrebbe potuto ben
modificare il già presente art. 185 o, diversamente,
ritornare al vecchio art. 183 cpc, ricorrendo ad un interrogatorio libero delle parti disposto dal giudice a
seguito del quale il giudice stesso avrebbe potuto formulare la proposta.) In tale senso l’art.185-bis cpc , al
di là dell’apparente novità, in realtà è apparso ai primi
commentatori una rivisitazione di istituti già esistenti
e riesumazione di istituti non più in vigore, Il giudice formula la proposta ai difensori delle parti poiché
queste non sono obbligate a comparire personalmente. I difensori hanno così l’obbligo di riferire alle
parti la proposta conciliativa formulata dal giudice.
Una proposta formulata da un terzo, preclude, però,
difficili interpretazioni dei testi normativi. La condizione postulata dall’art.185-bis (come introdotto dall’art.77 del DL 21.6.2013 n.69 conv.
nella l. 9.8.2013 n. 98) della esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, trova il suo fondamento logico nell’evidente dato
comune che è meno arduo pervenire ad un accordo conciliativo o transattivo se il quadro normativo dentro il quale si muovono le richieste,
le pretese e le articolazioni argomentative delle parti sia fin dall’inizio sufficientemente stabile, chiaro e in quanto tale prevedibile nell’esito
applicativo che il Giudice ne dovrà fare. Anche la natura ed il valore della controversia in un accezione rapportata ai soggetti in causa, sono
idonei a propiziare la formulazione di una proposta da parte del giudice ai sensi della norma citata. Trattandosi di norma processuale,
in applicazione del principio tempus regit actum, è applicabile anche ai procedimenti già pendenti alla data della sua entrata in vigore.
… Benché la legge non preveda che la proposta formulata dal giudice ai sensi dell’art.185-bis cpc debba essere motivata (le motivazioni
dei provvedimenti sono funzionali alla loro impugnazione, e la proposta ovviamente non lo è, non avendo natura decisionale); tuttavia si
indicano alcune fondamentali direttrici che potrebbero orientare le parti nella riflessione sul contenuto della proposta e nella opportunità
e convenienza di farla propria, ovvero di svilupparla autonomamente vale a dire la possibilità che le parti, assistite dai rispettivi difensori,
possano trarre utilità dall’ausilio, nella ricerca di un accordo, ed anche alla luce della proposta del giudice, di un mediatore professionale di
un organismo che dia garanzie di professionalità e di serietà, è possibile prevedere, anche all’interno dello stesso provvedimento che contiene la proposta del giudice, un successivo percorso di mediazione demandata dal magistrato. Alle parti si assegna termine fino alla data
del … per il raggiungimento di un accordo amichevole sulla base di tale proposta. Dalla eventuale infruttuosa scadenza del suddetto termine, decorrerà quello ulteriore di gg. 15 per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella
che per prima vi proceda, la domanda di cui al secondo comma dell’art. 5 del decreto; con il vantaggio di poter pervenire rapidamente ad
una conclusione, per tutte le parti vantaggiosa, anche da punto di vista economico e fiscale (cfr. artt. 17 e 20 del decr.legisl. 4.3.2010 n. 28),
della controversia in atto. Viene infine fissata un’udienza alla quale in caso di accordo le parti potranno anche non comparire; viceversa, in
caso di mancato accordo, potranno, volendo, in quella sede fissare a verbale quali siano state le loro posizioni al riguardo, anche al fine di
consentire al giudice l’eventuale valutazione giudiziale della condotta processuale delle parti ai sensi degli artt. 91 e 96 III cpc».
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Obiettivo 3. LA RISOLUZIONE AMICHEVOLE DEI CONFLITTI
alla parte che si trova a doverla valutare, la possibilità
di cogliere una serie di sfumature ed orientamenti che
sicuramente traspaiono dall’invito proveniente direttamente dal giudice. Per quanto la proposta venga
riportata al proprio cliente dal difensore con intento
di imparzialità, è tuttavia inevitabile che risenta del
giudizio e dell’interpretazione personale dello stesso
senza contare la frequente ipotesi in cui il difensore
delega altri colleghi a comparire in udienza in sua
vece ed in questo caso, la proposta potrebbe subire
ulteriori filtri ed interpretazioni e, potrebbe risultare
falsata rispetto all’intento originale. Non va sottovalutato il rapporto tra difensore e cliente e il fatto che
non è facile far collimare gli incentivi del rappresentante con quelli del rappresentato.
Nella mia esperienza, nel formulare la proposta,
ho sempre preferito disporre la comparizione personale delle parti privilegiando un loro contatto diretto
con il giudice che evita quel possibile travisamento
delle sfumature della proposta – da parte dei difensori e dei loro sostituti di udienza – fondata su delicati
equilibri, ma anche per sollecitare, attraverso il loro
libero interrogatorio, l’emersione delle ragioni profonde del contrasto attraverso un dibattuto diretto
nel quale fondamentale appare la comunicazione tra
giudice e parti, scevra da eccessivi tecnicismi.
6. Come il giudice perviene alla
proposta conciliativa. Un’analisi basata
sull’esperienza
La proposta conciliativa si fonda su ciò che emerge
dall’istruzione probatoria (o dai fatti non contestati
e quindi non bisognosi di prova) e sulle reciproche
eventuali rinunce di entrambe le parti.
Il giudice, in qualità di promotore, dovrà sviluppare una particolare sensibilità nel cogliere la possibilità di conciliazione sin dalla prima udienza (si
imporrebbe un percorso di formazione per magistrati
e avvocati: i primi con lo scopo di potenziare le capacità conciliative, i secondi con quello di migliorare
le capacità di valutazione di proposte transattive). Se
è vero che la ragione della scarso successo della mediazione è legata sia ad una radicata resistenza della
classe forense verso l’ADR sia ad una certa diffidenza
delle parti nei confronti di un soggetto che non ritengono tecnicamente attrezzato, risulta chiara la ratio
legis che si fonda sull’ importanza, in tale veste conciliativa, di un soggetto terzo e neutrale che, però, a
differenza del mediatore professionale, ha la potestas
decidendi, e sul cui prestigio ed autorevolezza le parti
confidano (nonostante le tristi campagne di delegittimazione della magistratura non arginate dalla classe
politica di qualsiasi colore). Il giudice – negoziatore
efficace nel processo interattivo di comunicazione tra
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due litiganti – è soggetto che ha piena contezza delle
rispettive pretese e delle emergenze processuali che,
in alcuni casi, lo stesso ha raccolto.
Se, come sarà opportuno, sarà stata disposta la
comparizione personale delle parti, il giudice dovrà
prestare speciale attenzione alla comunicazione con
persone che hanno difficoltà di approccio al linguaggio
giuridico ed ai meccanismi processuali anche nei casi
di soggetti non illetterati e con discreto livello di scolarità. La comunicazione deve essere del tutto scevra da
tecnicismi ed adeguata al livello culturale ed al profilo
delle parti (si pensi a soggetti di età avanzata seppur
pienamente capaci) nella consapevolezza che, specie
in contesti territoriali connotati da forte depressione
economica e culturale, i contendenti hanno talora difficoltà a destreggiarsi con l’italiano adoperando come
normale canale di comunicazione il dialetto.
La realtà che affronto quotidianamente è proprio
quella di un contesto provinciale con livello culturale
non elevato – in un territorio inesorabilmente e costantemente all’ultimo posto della classifica per qualità della vita – una realtà in cui il substrato economico
produttivo di tipo industriale è praticamente assente e
che – nonostante l’immenso patrimonio artistico e naturalistico, gravemente sfregiato dall’abusivismo edilizio – vive di agricoltura, di poco turismo, di terziario ed
anche di assistenzialismo, caratterizzata da emigrazione fortissima dove comunque intenso rimane il legame
con il territorio e la proprietà fondiaria. Questi profili
si riverberano sul contenzioso nel senso che le vicende
giuridiche ruotano intorno alla gestione di immobili, a
questioni di rapporti vicinato, di diritti reali, di successioni ed, in minor misura, di rapporti commerciali con
elevato ricorso al patrocinio a spese dello Stato (per le
modeste soglie di reddito dei litiganti).
Nonostante l’espresso inciso dell’articolo 185-bis,
nel suo ultimo comma, cpc – che pone la proposta al
riparo dalla ricusazione – quale che sia il livello di scolarità dei nostri interlocutori, per favorirne il successo,
sarà comunque indispensabile chiarire alle parti che
la proposta prescinde del tutto da una valutazione del
merito della causa, dalla ragione e del torto rispettivi
si da chiarire che il giudice in definitiva non parteggia per le posizioni di alcuno dei contendenti e mira
soltanto ad una definizione della causa che consenta
ad entrambi di raggiungere un risultato concreto, soddisfacente, conveniente e vantaggioso in tempi brevi e
soprattutto più economici nell’ottica di un risparmio
anche delle spese di giustizia; è evidente che questa
premessa metodologica attiene al momento del contatto o meglio del primo contatto tra il giudice le parti
(colmando eventuali lacune informative dei procuratori che non abbiano ben chiarito le finalità della proposta) e dovrebbe indurre le parti ad una condizione
di maggiore affidamento e serenità nella percezione in
dettaglio della proposta; questa fase sarà accompagna-
143
Obiettivo 3. LA RISOLUZIONE AMICHEVOLE DEI CONFLITTI
ta dal cosiddetto adeguamento al registro comunicativo dei contendenti e preceduta da un attento esame
preliminare degli atti volto ad individuare non solo il
thema decidendum (i fatti effettivamente controversi)
ma anche le questioni giuridiche di facile e pronta soluzione. Il dibattito orale, in sede di comparizione delle
parti, consentirà l’emersione delle ragioni “naturalistiche” di contrasto, ad esempio,la presenza di forti e radicati contrasti personali tra le medesime parti, magari
per precedenti controversie insorte tra le stesse o tra le
rispettive famiglie (ad es per ragioni di intolleranza nei
rapporti vicinato), come nella materia successoria, la
presenza di sentimenti di rivalsa per ataviche ragioni
familiari personali o, di contro, l’esistenza di condizioni ostative di tipo obiettivo come illiquidità della società debitrice nei rapporti commerciali. La piena cognizione delle ragioni profonde del contrasto consentirà
di calibrare al meglio quelle che sono le tecniche della
moral suasion e cioè il cosiddetto potere di attrattiva
dei risultati a seconda della natura delle ragioni stesse.
A tale dibattito processuale sarà opportuno dedicare
abbastanza spazio con udienza ad hoc o con destinazione di apposita fascia oraria.
Gli incentivi sono di norma rappresentati: a) dall’accorciamento dei tempi di attesa; b) dall’eliminazione del rischio: di accordi frettolosi sotto la spinta
magari di una esecuzione; degli alti costi degli accertamenti tecnici; della cattiva pubblicità sul mercato per
tutta la durata del processo; di opportunità perse ed affari sfumati con altri soggette (ad esempio una vendita
immobiliare ostacolata dalla presenza della trascrizione della domanda giudiziale di esecuzione in forma
specifica di un preliminare); dell’intervento di misure
cautelari limitative della disponibilità del bene (come
un sequestro giudiziario con nomina di un custode
esterno ); di interruzione di relazioni d’affari durante
la pendenza delle lite; dello stress emotivo e psicologico per l’esasperazione dei rapporti interpersonali specie tra stretti congiunti e soggetti legati da relazioni di
vicinato o societarie, in quest’ultimo caso, con ripercussioni negative sulla vita aziendale e sulla gestione
del bene comune. Indispensabile per il giudice: la capacità di ascolto che agevoli il confronto ed infonda
alle parti maggior fiducia con domande aperte volte
a far emergere le ragioni reali del conflitto, emozioni,
risentimenti intensi, ostacoli emotivi ed i prodromi
della controversia, le aspettative e finalità perseguite, i
timori e quel che le parti ritengono effettivamente negoziabile, pregressi relazioni e rapporti economici che
impongano di mantenere un rapporto di cooperazione
per i vantaggi personali e squisitamente economici che
ne derivano (ove le parti – nonostante la controversia
– siano obbligate a materne rapporti economici come
ad esempio nel contratto di agenzia) ovvero il sopravvenuto disinteresse al mantenimento del rapporto che
possa condurre ad una sua risoluzione consensuale
Questione Giustizia 1/2015
con un equa compensazione pecuniaria (o ad esempio con restituzione dei beni oggetto della transazione
commerciale) o ancora l’interesse al pagamento pur
con dilazioni e scansioni temporali nel caso il creditore
sia in condizioni di temporanea difficoltà economica,
reversibile nel breve periodo. Si impone quindi la concentrazione su interessi prioritari e sulle aspettative
delle parti e sulle ragioni del conflitto reale, su interessi
profondi, timori, ostacoli che hanno impedito di accordarsi autonomamente utilizzando la rappresentazione dei rischi di cui sopra come strategia per superare
tali remore, analisi che impone la preliminare raccolta
di informazioni specie sulla genesi concreta del conflitto, sulla sua storia ed anche su altri procedimenti
pendenti e tentativi di conciliazione e cause di interruzione dei precedenti negoziati. Necessario un percorso
di condivisione alla soluzione della contesa oltre alla
rappresentazione della irragionevolezza di una diversa
opzione. In tale prospettiva è fondamentale adottare
un registro comunicativo adeguato, anche attraverso il
comportamento non verbale, sviluppando una formulazione neutrale della proposta e l’elaborazione e sviluppo di una soluzione partecipata in cui i contendenti
abbiano un ruolo attivo ed, a loro volta, propositivo. Un
esempio: in una controversia ereditaria in cui pacifico
il valore frazionario delle quote legittime (o delle quote
di riserva) la controversia attenga esclusivamente alla
stima dell’immobile da dividere (specie ove, in realtà,
le ragioni della mancata divisione amichevole risiedano in risalenti rancori tra i condividenti legati da vincoli di stretta parentela) sarà ben convincente l’argomento economico relativo alla risparmio nei costi delle
CTU e dei tempi del processo che terrebbe in qualche
modo legate le parti in un contenzioso persistente oltre
a quello della concretezza e maggiore immediatezza ed
economicità dei risultati soprattutto ove si rappresenti
la enorme difficoltà di vendita di beni non divisibili o
non comodamente divisibili (destinati a restare invenduti specie nell’attuale situazione di stasi e declino delle transazioni immobiliari) e la più agevole soluzione
offerta dai conguagli in danaro, ancor più agevolmente
praticabile nel caso di azione di riduzione per lesione di
legittima in cui la rinuncia all’azione con il conguaglio
pecuniario consentirebbe anche un maggior risparmio
fiscale. Lo spauracchio della prolungata tensione derivante dalla durata del processo non è di poco momento
soprattutto quando uno dei contendenti sia più desideroso di definire i rapporti con la controparte anche
a costo di qualche maggior sacrificio economico. In un
caso abbastanza recente di scioglimento di comunione (di beni mobili) tra ex coniugi, privi di prole, a tra
i quali era già stata pronunciata, da tempo, sentenza
di cessazione degli effetti civili del matrimonio, dopo
la loro comparizione personale, ha trovato immediato
accoglimento una proposta conciliativa da parte dell’ex
coniuge detentore dei beni con pagamento di una com-
144
Obiettivo 3. LA RISOLUZIONE AMICHEVOLE DEI CONFLITTI
pensazione pecuniaria, tenuto conto della antieconomicità del protrarsi del processo, in termini di tempo e
di costi della procedura – per le contestazioni esistenti
sulla provenienza di arredi e suppellettili oggetto di
un lungo elenco (contestando l’acquisto in costanza
di matrimonio ed in regime di comunione legale e la
provenienza da donazioni, circostanze bisognose di
prova): la parte detentrice dei beni – evidentemente
più desiderosa di troncare ogni tipo di relazione con
l’ex coniuge – offrì banco iudicius e senza dilazione,
una consistente somma di denaro, forse superiore al
probabile valore della metà dei beni, quale si evinceva sommariamente dagli atti e che la controparte non
poté fare a meno di accettare. Evidentemente il disagio
derivante dalla pendenza del processo e dalla permanenza del contrasto, più che la rappresentazione dei
costi, in quel caso, ebbe una valenza preponderante
sul sacrificio pecuniario che la soluzione conciliativa
comportava: in altri termini il “costo” psicologico del
processo superò il suo profilo economico.
Talvolta quindi la tensione derivante dalla permanenza del processo è un punto favorevole alla soluzione transattiva ove questa sia suscettibile di determinare la cessazione di ogni tipo di contrasto (e forse
anche di contatto) con la controparte. In un altro caso
di lite, sempre tra ex coniugi, l’attribuzione patrimoniale dei beni in contesa alla prole – la cui tutela era
di comune interesse – ha eliminato un variegato contenzioso in sede di cognizione ordinaria ed esecutiva
(con vari procedimenti incidentali) oltre ai procedimenti penali innescati da querele poi rimesse.
Talvolta, al contrario, la soluzione transattiva consente il mantenimento del rapporto tra le parti ed
il ripristino delle normali relazioni commerciali; ad
esempio, nel caso di rapporti di fornitura abituale tra
due soggetti imprenditoriali – produttore e fornitore
– la soluzione del contrasto, in sede conciliativa, consente una serena ripresa della relazione commerciale
nel lungo periodo a differenza dell’intervento giudiziale che rappresenta sempre una cesura più radicale
del rapporto tra le parti; analogamente in materia di
beni comuni la soluzione transattiva consente una gestione più razionale ed economica delle res.
Un altro esempio: a causa dell’ostruzione e danni ad un canalone di scolo che attraversava diversi
fondi, in sede cautelare ex art. 700 cpc, erano contestate le ragioni dell’avaria e del malfunzionamento
dell’impianto con reciproci addebiti di responsabilità.
L’accoglimento della proposta conciliativa, con interventi comuni di rimozione di detriti e manutenzione
del canale con ripartizione delle spese in misura approssimativamente proporzionale all’estensione delle
rispettive proprietà fondiarie, evitò una complessa
e non breve indagine tecnica sulle cause dell’intasamento del canale e sulle rispettive responsabilità e
sugli interventi da effettuare così consentendo una
Questione Giustizia 1/2015
rimozione immediata degli inconvenienti lamentati, una ripresa della funzionalità dell’impianto con
beneficio immediato per i fondi allagati, un miglior
rapporto di collaborazione tra i proprietari confinanti, suscettibile di evitare future tensioni (che qualche
volta si traducono in attività ritorsive).
Le materie possessoria e cautelare, fortemente
connotata da tali caratteristiche di tensione personale, come quella ereditaria, dei rapporti vicinato, della comunione e condominio meglio si prestano alla
ricettività di una proposta conciliativa, di immediata
operatività, nell’ottica di una rapida soluzione della
controversia. Qualche volta invece in materia di relazioni commerciali l’attuazione di una soluzione conciliativa non è istantanea come nel caso in cui le ragioni
di inadempimento siano da ricondurre a una transitoria crisi di liquidità dell’onerato o ad una difficoltà
di produzione o ad un cambiamento degli standard
produttivi che mal si presta a una soluzione immediata ed a cui meglio risponde una dilazione ragionevole
di pagamenti ovvero una graduale revisione condivisa
degli accordi commerciali che consenta di mantenere
il rapporto di fiducia tra gli operatori.
In tal caso la proposta impone una ponderazione
più accurata dei contrapposti interessi economici in
gioco, della situazione patrimoniale dei contendenti
e la ricerca di un punto di equilibrio che non è solo
una media aritmetica delle reciproche pretese ma un
punto di convergenza che tenga conto di molteplici
fattori, suscettibili di valutazione economica ma non
quantificabili in termini meramente aritmetici, quali
l’avviamento, la durata dal rapporto commerciale, la
penetrazione del prodotto nel mercato, la posizione
del consumatore finale.
Sull’attività conciliativa ex art. 185-bis cpc pesano
due grandi interrogativi: se, in una situazione in cui,
per espressa previsione della norma, le questioni giuridiche sono di facile e pronta soluzione, sia corretto
rappresentare alle parti – per definizione digiune di
diritto – alcuni effetti giuridici per così dire scontati e
costituenti “diritto vivente”; ad esempio l’impossibilità della prova tra le parti della simulazione relativa in
assenza di una controdichiarazione, l’inammissibilità
di una prova orale di contratti per cui sia richiesta la
firma scritta, ad substantiam, l’impossibilità di circolazione di beni edificati senza concessione e non sanabili (in tema di richiesta di sentenza costitutiva ex art.
2932 cc), o, in materia di rapporti bancari, il computo
della commissione di massimo scoperto ai fini del tasso soglia dell’usura (si pensi al proliferare del contenzioso bancario per rilievi che hanno trovato soluzioni
giurisprudenziali univoche, confortate dalle pronunce
delle sezioni unite della Cassazione ed in cui la quantificazione, da parte del CTU contabile delle poste indebite, dà talora risultati prossimi al costo delle indagini
peritali (liquidate con compenso a scaglioni sul valore
145
Obiettivo 3. LA RISOLUZIONE AMICHEVOLE DEI CONFLITTI
della controversia: saldo negativo dei conti). Ritengo
che tale scelta, in presenza di principi che costituiscono “diritto vivente” (quadro normativo di riferimento e
interpretazioni giurisprudenziali del tutto univoci) appaia legittima onde sgombrare il campo da questioni
su cui vi è ormai certezza legislativa e/o orientamenti
giurisprudenziali consolidati. L’ultima comma dell’art.
185-bis cpc eviterà che una sostanziale anticipazione di
giudizio o meglio dei principi di diritto applicabili alla
fattispecie determinino una ricusazione.
Altro interrogativo – che attiene a profili di politica giudiziaria – è la ponderazione degli sforzi del decidente per l’elaborazione e la realizzazione di una proposta conciliativa in rapporto a quelli, talora minori,
che richiederebbe la redazione di un provvedimento
decisorio, redatto magari con richiamo ai precedenti
pacifici e con ricorso a precedenti motivazioni analoghe ed ai risultati di una CTU pienamente condivisibili
e non oggetto di rilievi specifici: qualche volta questo
sbilanciamento si verifica ma non va trascurato che
anche la soluzione conciliativa rappresenta un momento alto di affermazione della giurisdizione, nella
prospettiva di una sollecita e soddisfacente risposta
di giustizia e della salvaguardia del tessuto economico
produttivo, senza le lacerazioni che qualche volta la
pronuncia giudiziale inevitabilmente produce e perciò
merita di essere perseguita nonostante un apparente
sbilanciamento del rapporto immediato sforzo/beneficio isolatamente considerato, in vista delle potenzialità espansive del contezioso insite nella pronuncia ed
in un ottica deflattiva di più ampio respiro.
La pendenza del processo è suscettibile di ingenerare, a parte le impugnazioni, possibili richieste di misure
cautelari ed anticipatorie in corso di causa e reclami ex
art. 669-terdecies cpc per le prime; la pronuncia della
sentenza è seguita da procedimenti esecutivi e relative
opposizioni ex art. 615 e 617 cpc , nelle quali trovano
frequente spazio le sospensioni dell’esecuzione ex art.
624 cpc ed i relativi reclami ex art. 66-terdecies, a parte
i costi per l’Erario dell’ammissione a gratuito patrocinio cui si fa frequente ricorso nella aree economiche
depresse (e relative liquidazioni e possibili opposizioni
ex art. 170 DPR 115/2002 e 15 DLGS 150/2011). Quindi
la soluzione conciliativa – ancorché laboriosa ed impegnativa – oltre ad eliminare il contrasto tra le parti
in lite evita la non rara insorgenza di questa filiera di
ulteriore contenzioso che appesantisce il sistema giustizia e genera costi non indifferenti per l’Erario.
7. La proposta conciliativa in
una dimensione programmatica
organizzativa della gestione del
contenzioso
Ardua una progettualità dell’incidenza sui procedimenti definiti nell’ambito dei programmi di gestione dell’arretrato civile ex art.37 DL 98/2001, convertito nella legge 111/2011, delle proposte conciliative
– affidate finora all’iniziativa individuale del singolo
magistrato senza una precisa metodologia e rilevazione statistica – specie nel rapporto percentuale tra
numero delle proposte ed esito positivi (in base agli
attuali format ex art. 37 gli esiti positivi delle proposte
conciliative ex art.185-bis cpc si collocano tra i procedimenti “altrimenti definiti“ cioè non definiti con sentenza ma senza una loro autonoma evidenza statistica
che consentirebbe di misurare il tasso della litigiosità
sul territorio).
L’ elaborazione dei cd. carichi esigibili, nell’ambito
dei programmi di cui al citato art.37, non è certo una
scienza predittiva ma si basa su una prognosi che parte dalla diagnosi dei risultati del periodo precedente
tenendo conto, in tale proiezione, di diverse variabili
(indici relativi all’ufficio ed al ruolo giudiziario) tra
le quali il tasso di litigiosità dovrebbe trovare spazio
cosi come potrebbe trovare collocazione sistematica
nel programma Strasburgo 2 il cui avvio il 14 gennaio
corrente ha avuto ampia eco negli organi di stampa e
che si ispira al principio cd. FIFO2.
Programma Strasburgo 2 è il nome del progetto
del Ministero della Giustizia che ricalca da vicino il
progetto organizzativo del Tribunale di Torino, risalente al 2001, preso a modello anche in altri uffici giudiziari, da Marsala, a Genova e Prato. Una prima fase
del piano ministeriale si è già concretizzata con l’acquisizione delle statistiche aggiornate dell’arretrato
civile esistente; ora, seguendo il principio ‘Fifo - first
in, first out’, ossia la prima causa che entra è la prima
ad uscire, si punta all’azzeramento in tempi brevissimi di parte dell’arretrato: smaltire quindi entro 6
mesi gli affari contenziosi (in totale 86.283) iscritti a
ruolo fino all’anno 2000, ed entro 9 mesi quelli (ben
127.146) iscritti fino all’anno 2005.
Altra fase consisterà nella gestione ordinaria
dell’arretrato residuo (835.190 affari iscritti a ruolo
negli anni 2006-2010), nonché delle giacenze infratriennali (2.692.504 affari iscritti a ruolo negli anni
2
Il termine FIFO è un acronimo inglese di First In First Out (primo ad entrare, primo ad uscire). Meccanismo mutuato dal mondo aziendale è usato per la gestione del magazzino secondo cui le cause più vecchie vanno gestite per prime. Il termine ha origini informatiche ed
esprime in ambito informatico il concetto di una coda, ovvero la modalità di immagazzinamento di oggetti fisici in cui il primo oggetto
introdotto è il primo ad uscire. La modalità LIFO (Last In-First Out: ultimo arrivato primo uscito) è alternativa alla FIFO in quanto è l’ultimo
oggetto inserito ad essere estratto per primo; in questo modo l’ordine di uscita è invertito rispetto a quello di entrata.
Gli aziendalisti definiscono ironicamente FISH (First In, Still Here) la tecnica usata nelle pubbliche amministrazioni: la pratica più vecchia,
cioè la prima entrata è ancora qui!
Questione Giustizia 1/2015
146
Obiettivo 3. LA RISOLUZIONE AMICHEVOLE DEI CONFLITTI
2011-2013). L’obiettivo è portare la durata effettiva di
ogni singolo processo sotto i 3 anni, tendenzialmente
verso il biennio, con l’ambizione di ridurre la durata
a 12 mesi.
Il progetto presentato al Ministero sarà «di tipo
esclusivamente organizzativo – ha spiegato il capo
della DOG – non vi sarà nessuna imposizione di regole
per gli uffici giudiziari ma piuttosto un invito a dotarsi
di un metodo»; potrà essere realizzato sia seguendo il
decalogo già applicato a Torino sia una delle best pratictes censite dal CSM (anche attraverso l’esperienza
degli Osservatori). Il programma non porterebbe, ad
aggravare il lavoro dei magistrati nella stesura delle
sentenze: «spesso, infatti, le parti in causa in processi
troppo lunghi, hanno voglia di concludere e quindi la
via risolutiva diventa la conciliazione».
Il progetto organizzativo è fondato su un decalogo
di “prescrizioni e consigli”:
- programma di esaurimento delle cause civili con
il metodo FIFO (First In, First Out) e non più LIFO
(Last In, First Out);
- precedenza assoluta per le cause di anzianità ultra-triennale, eventualmente con udienze appositamente riservate;
- rilevazione periodica con la “targatura dei processi”.
Impostato con la seguente tecnica:
a) individuazione di un obiettivo comune (vision del
problema irrisolto);
b) sforzo congiunto per realizzarlo (mission);
c) coinvolgimento anche emotivo dei protagonisti,
giudici e personale amministrativo (condivisione
della mission).
Ridurre a un anno la durata massima delle cause
civili commerciali ed a meno di tre anni le altre cause
di primo grado, dando priorità processuale alle cause
di imprese e famiglie, dimezzando così l’arretrato – il
“fardello” più pesante della giustizia civile italiana – è
quindi l’ambizioso obiettivo del piano straordinario
messo a punto dal Guardasigilli, insieme con il capo
del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria. Un
progetto di carattere «organizzativo», che, parallelamente alle riforme legislative in atto ed in cantiere,
punterebbe a raggiungere l’obiettivo di una giustizia
più rapida ed efficiente con una maggiore competitività delle imprese in Europa e con un rilevante beneficio economico per l’Erario sotto il profilo della riduzione del cd. “rischio Pinto”.
Si propone di affrontare l’emergenza dell’arretrato
ultratriennale, con misure organizzative però a costo
zero, puntando ad azzerare il fardello di vecchi procedimenti che condiziona i tempi del lavoro negli uffici
giudiziari con progetto che prevede tre fasi:
Questione Giustizia 1/2015
1) Prima fase: acquisizione delle statistiche aggiornate dell’arretrato esistente, fase già esaurita con
il Censimento speciale di tipo selettivo sulla giustizia
civile, realizzato dal Dipartimento dell’organizzazione
giudiziaria tramite la Direzione generale di statistica
utilizzando un programma informatico apposito (il
data-warehouse); che ha permesso l’identificazione,
in ogni tribunale e corte d’appello, della reale entità
di cause fisiologicamente giacenti, distinguendole dal
patologico arretrato ultratriennale.
2) Seconda fase: azzeramento in tempi brevissimi
di parte dell’arretrato, secondo il cosiddetto principio
FIFO (First In First Out) in cui è consigliato il cosiddetto decalogo Strasburgo o altra best practice analoga:
- entro 6 mesi, gli affari contenziosi iscritti a ruolo
fino all’anno 2000 (86.283 affari);
- entro 9 mesi, gli affari contenziosi iscritti a ruolo
fino all’anno 2005 (127.146 affari).
3) Terza fase: gestione ordinaria dell’arretrato
residuo (affari iscritti a ruolo negli anni 2006-2010,
835.190 affari) nonché delle giacenze infra-triennali
(affari iscritti a ruolo negli anni 2011-2013, 2.692.504
affari): nel rispetto del principio Fifo, con l’obiettivo
di portare la durata effettiva di ogni singolo processo sotto i tre anni, tendenzialmente verso il biennio,
con l’ambizione di ridurre la durata a 12 mesi (quantomeno per le cause commerciali) Il sistema della
marcatura o targatura dei fascicoli (con bollini di diverso cromatismo o altri segni che diano immediata
evidenza visiva della loro progressiva “anzianità”) è
stato adottato in quasi tutti i Tribunali
Per le cause risalenti iscritte a ruolo prima del
2005 o addirittura del 2000 – precipuo obiettivo del
programma – stante l’inapplicabilità della mediazione preventiva, l’art. 185-bis cpc può rappresentare un
fondamentale strumento di definizione non decisoria,
unitamente ai nuovi istituti di ADR, introdotti dal DL
132/2014, convertito nella legge 162/2014 (arbitrato
e negoziazione assistita).
Alla conciliazione il piano straordinario assegna un
ruolo fondamentale che tuttavia sarebbe riduttivo limitare alle cause più anziane, ben potendo funzionare
per quelle alle quali lo stesso programma Strasburgo
2 assegna una corsia privilegiata (imprese e famiglia
anche se a quest’ultima materia, paiono attagliarsi meglio gli strumenti della negoziazione assistita e quelli di
semplificazione – accordi ricevuti dall’ufficiale di stato
civile – introdotti dal citato DL 132/2014) ed anche per
la materia cautelare e possessoria.
È evidente che il successo di tale strumento non
può prescindere da una sua analisi con metodo statistico e da una adeguata progettualità che passa attraverso il percorso formativo del giudice conciliatore
per ora, pare, scarsamente incentivato.
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