La riforma del codice di procedura penale del 1988 è stata salutata

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La riforma del codice di procedura penale del 1988 è stata salutata
LA CROSS EXAMINATION
1. Introduzione. - La riforma del codice di procedura penale del 1988 è stata salutata
come un vero mutamento epocale. Infatti, l’intenzione dichiarata della Legge Delega, era
quella di adeguarsi: “alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e
relative ai diritti della persona” e di “attuare nel processo penale i caratteri del processo
accusatorio”.
È stato ineccepibilmente sottolineato che la differenza sostanziale tra il sistema inquisitorio
e quello accusatorio risiede nel metodo di accertamento dei fatti, incentrato in un caso
attorno alla figura del Giudice, nell’altro sul contrasto dialettico tra accusa e difesa davanti
al Giudice, che ha il compito di decidere.
Ora, noi sappiamo che le riforme, per essere tali, non solo devono rappresentare una rottura
con il passato, ma i soggetti coinvolti devono peraltro essere disposti a mettere in
discussione anche le più radicate convinzioni.
Ed è forse per tale ragione che si spiegano le iniziali resistenze manifestate sotto varie
forme (ricorso alla Consulta, interpretazioni restrittive…) da coloro che erano chiamati a
dar vita alla riforma.
Tuttavia, la irreversibilità della scelta legislativa si è inequivocabilmente manifestata con la
modifica costituzionale dell’art. 111, che ha costituzionalizzato i principi del giusto
processo esaltando la centralità del dibattimento, fondato sul principio del contraddittorio
nella formazione della prova.
Pertanto, in un sistema processuale penale a tendenza accusatoria, qual è il nostro, così
come il dibattimento è il centro del processo, l’esame incrociato costituisce il cuore
pulsante del dibattimento.
E ciò vale nonostante la presenza di deroghe a tale principio, quali ad esempio l’esistenza
della categoria giuridica degli atti irripetibili, e nonostante la presenza di varie difficoltà
oggettive della nostra realtà giudiziaria, quali ad esempio le udienze sovraccariche e i rinvii
a mesi o a semestri.
Le norme ci sono, sono poche, ma se applicate scrupolosamente in ossequio alla ratio che
le connota – ovvero consentire alle parti, equidistanti dal Giudice, di sottoporre a verifica e
confutazione le prove introdotte dalle stesse, secondo l’assioma triangolare che prevede: la
necessità della prova, la possibilità della controprova e l’imparzialità del Giudice –
potranno garantire al Giudice, terzo ed imparziale, di valutare il più correttamente possibile
se sia veritiera o meno l’ipotesi accusatoria.
Oltreoceano non si è mai dubitato di tale istituto: Wigmore nel suo famoso trattato “On
evidence” non esitava a definire la cross examination la più grande macchina legale
inventata per scoprire la verità!
Sembra tutto ineccepibile, poi giriamo per le nostre aule di udienza e constatiamo sempre
la stessa cosa: l’ingerenza del Giudice nella formazione della prova.
2. Il Giudice italiano e la cross examination. – Non ci si riferisce certamente a quei
poteri residuali, di impulso e suppletivi, che il codice comunque concede al Giudice con gli
artt. 506 e 507 c.p.p.
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Ci si riferisce a quelle situazioni che quotidianamente accadono in udienza, ove il Giudice
interrompe le parti o si intromette o in cui addirittura, conduce direttamente l’esame
testimoniale, frustrando in tal modo non solo il dettato normativo che disciplina l’istituto,
ma anche e soprattutto la sua ratio, ovvero quella di strumento formativo della prova ad
opera delle parti, così alterando inevitabilmente la sua terzietà, requisito anch’esso
necessario per il funzionamento dell’istituto.
Ciò avviene per un duplice ordine di ragioni.
Il primo può certamente farsi risalire alla tradizione culturale, retaggio di un secolare
processo inquisitorio che talvolta ancora permea l’attività giudiziaria; tuttavia è inevitabile
che queste radici siano destinate con il tempo a dissolversi.
In realtà è sul secondo ordine di ragioni che occorre spendere qualche parola in più, perché
ci riguardano direttamente.
Si è infatti dovuto constatare che l’ingerenza del Giudice nel momento formativo della
prova è anche motivata dalla scarsa preparazione e dalla poca professionalità di troppi
avvocati e pubblici ministeri; ciò induce la magistratura giudicante a “fare tutto da sé”:
non solo giudicare, ma anche assumere il ruolo di principale protagonista della
acquisizione probatoria.
Ora, è innegabile che le norme sulla cross examination, che analizzeremo nello specifico,
assegnino alle parti processuali, e in particolare all’avvocato difensore ,un ruolo di vero
protagonista del momento formativo della prova, ma è altrettanto evidente che occorre
assumere la piena consapevolezza che tale ruolo comporta ed agire di conseguenza.
Più elevata è la qualità professionale dell’avvocato, e conseguentemente la sua
autorevolezza, meno spazio ci sarà per le ingerenze del Giudice: è un’equazione certa.
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Infatti, tale pratica è spesso considerata legittima dal Giudice in quanto giustificata
dall’inerzia delle parti: più queste ultime dimostrano di conoscere le norme e ne
pretendono il rispetto, più approfonditamente conosceranno la causa, così da essere in
grado di centrare le questioni essenziali, meno il Giudice si vedrà “costretto” ad intervenire
a tutela dell’accertamento della verità.
3. Le norme che disciplinano la cross examination. – Le norme sono poche, forse
anche perché l’istituto è prettamente pratico, di “tecnica processuale”, ma comunque sono
tali da esprimere chiaramente il significato e lo scopo della cross examination.
Le modalità di assunzione della prova testimoniale sono scandite agli artt. 498 e 499 c.p.p.
Vi sono quindi altre norme strumentalmente collegate, quali: l’art. 468, che reca la
disciplina circa le liste testimoniali; l’art. 496, per l’ordine di assunzione delle prove; l’art.
500, per le contestazioni e, infine, gli artt. 506 e 507, regolatori dei poteri residuali di
impulso e supplenza del Giudice.
L’incipit dell’art. 498 dice quasi tutto: le domande sono rivolte direttamente dalla parte che
ha chiesto l’esame del testimone. La parte che ha introdotto il testimone conduce
direttamente il suo esame con la serie di domande ritenute opportune e necessarie al fine di
comunicare al Giudice quella parte di verità che intende introdurre nel processo: è bene
ricordare che l’esame è uno strumento finalisticamente orientato alla persuasione del
Giudice, che realizza il suo risultato probatorio nella sua complessità.
È pertanto evidente che si vanificherebbe la sua ratio se si consentissero intromissioni
delle parti o del Giudice per la formulazione, senza ordine, di domande da rivolgere al
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teste, esercitando così la pratica del “fare domande” ben diversa, anzi antitetica, dalla
tecnica dell’esame.
La riprova l’abbiamo nel II comma dell’articolo in esame: terminato l’esame, la parte che
non ha chiesto l’esame può formulare altre domande.
È il controesame, che: 1) spetta esclusivamente alle parti, non al Giudice, che solo
successivamente avrà il suo spazio di azione; e 2) avrà luogo solo eventualmente, se la
parte riterrà di procedere al controesame. A tal proposito non si può non stigmatizzare
quella sciatta prassi alla quale assistiamo spesso nel momento della ammissione delle
prove, quando viene verbalizzata la richiesta di controesame del teste ammesso, a volte
aggiungendo pleonasticamente le parole “come per legge”: si ammettono le prove
richieste, non le modalità acquisitive!
Il terzo comma disciplina la parte conclusiva dell’esame testimoniale, anche questa
eventuale: il riesame, ovvero la facoltà della parte che ha introdotto il teste con l’esame, di
formulare - sempre che il controesame abbia avuto luogo - nuove domande. Con tale
termine ci si riferisce a quelle domande che si formulano per la prima volta, in relazione a
quanto dichiarato dal teste durante il controesame.
L’articolo si chiude poi con le prescrizioni per l’esame del testimone minorenne, che dovrà
svolgersi attraverso il filtro del Giudice.
L’art. 499 c.p.p. statuisce, in positivo ed in negativo, le modalità acquisitive della prova
testimoniale.
Il primo comma fissa perentoriamente il “raggio di azione” dell’esame testimoniale:
domande su fatti specifici; c’è quindi un richiamo alla norma di cui all’art. 468, che
prescrive la necessità che la lista testimoniale contenga la indicazione delle circostanze su
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cui deve vertere l’esame: frustra la ratio della norma, l’interpretazione che se ne è data sino
ad oggi nelle nostre aule, laddove si ritiene sufficiente un generico richiamo “ai fatti di cui
all’imputazione”, violando pacificamente il dettato normativo.
Il capoverso dell’art. 499 c.p.p. pone poi la regola generale, che vieta a tutte le parti di
formulare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte: sono le domande
nocive, quelle cioè che possono trarre in inganno il testimone, premettendo alla domanda
vera e propria delle informazioni errate, tali da poter compromettere la sincerità della
risposta.
Il III comma, poi, vieta, alla parte che ha introdotto il testimone e a quella che ha un
interesse comune, le domande suggestive.
Sono suggestive le domande che suggeriscono le risposte, ovvero quelle che danno quelle
informazioni utili all’esaminato per indurlo a rispondere secondo quanto desiderato
dall’esaminatore.
Questa norma conferma altresì che la modalità di formazione della prova avviene nella
contrapposizione delle parti, le quali portano innanzi al Giudice terzo le loro verità, con la
reciproca facoltà di sottoporle a confutazione e verifica: infatti, in sede di controesame, al
fine di consentire la verifica di attendibilità del teste o della testimonianza, tale divieto non
sussiste.
Le ultime disposizioni dell’art. 499 c.p.p. confermano definitivamente qual è il ruolo del
Giudice durante l’esame del teste: suo compito è quello di sovrintendere allo svolgimento
dell’esame testimoniale al fine di assicurare la lealtà dello stesso, la pertinenza delle
domande, la correttezza delle contestazioni e la genuinità delle risposte.
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I poteri residuali di impulso o di supplenza potranno essere esercitati al termine dell’esame
testimoniale inteso nella sua interezza (esame, eventuale controesame ed eventuale
riesame).
4. Il rispetto delle regole dell’esame testimoniale: violazioni e sanzioni. Il ruolo
dell’avvocato. – È certamente il Giudice che deve dirigere l’udienza, imporre il rispetto
delle regole, impedire o comunque non ammettere condotte che violino i precetti stabiliti
dalle norme. Tuttavia l’avvocato deve agire nel processo quale “sentinella delle regole”,
pretendendo il rispetto delle stesse finanche dallo stesso Giudice, il quale, a prescindere
dall’esistenza di sanzioni, è comunque generalmente tenuto ad osservare le norme
processuali, ai sensi dell’art. 124 c.p.p.
Le opposizioni formulate dal difensore provocano l’immediato intervento del Giudice, che
deve decidere senza formalità, ai sensi dell’art 504 c.p.p. La decisione del Giudice deve
essere riportata nel verbale di udienza in modo integrale, come prescrive l’art. 481, cpv.
c.p.p.
In dottrina si ritiene che, ove una domanda venga ammessa in violazione di uno specifico
divieto, si verifichi l’inutilizzabilità della relativa risposta (cfr. Frigo, sub artt. 498-499, in
Chiavario, Commentario al nuovo cod. proc. pen., Torino, 1991).
Deve segnalarsi poi una rara pronuncia in sede di legittimità, in cui si è statuito che “la
questione relativa alla proposizione di domande vietate deve essere prospettata
direttamente al Giudice innanzi al quale si forma la prova; nei successivi gradi di giudizio,
invece, può essere oggetto di valutazione solo la motivazione con cui il Giudice abbia
accolto o rigettato l’eccezione e, pertanto, non può essere eccepita per la prima volta con i
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motivi di impugnazione l’inutilizzabilità dell’atto assunto in violazione dell’art. 499 c.p.p.”
(Cass. pen., Sez. I, 31.05.2005, n. 22204).
Non è certamente agevole per l’avvocato il compito di pretendere dal Giudice, ovvero da
colui che ha in mano le sorti dell’assistito, il rispetto di norme che egli dovrebbe ben
conoscere, ma il difensore deve essere consapevole che la legalità è dalla sua parte; egli,
qualora riterrà di avere un interesse specifico ad opporsi ad una determinata domanda, non
esiterà dal formalizzare la sua opposizione ed in caso di rigetto, dovrà reiterare le
doglianze anche innanzi al Giudice altior, così da provocare, peraltro, un incremento
giurisprudenziale che sia ispirato al rispetto della lettera della legge e delle finalità di
questo fondamentale istituto processuale.
A tal proposito degna di nota e di lode è l’iniziativa del Laboratorio Permanente Esame e
Controesame (LA.P.E.C.) fondato e presieduto dall’illustre Avv. Ettore Randazzo, che ha
dato mandato ad un’autorevole commissione, composta di un magistrato giudicante (il
Presidente dott. Giovanni Canzio), un pubblico ministero (il dott. Bruno Cherchi) e un
avvocato (Avv. Carmela Parziale), di redigere le linee guida per l’esame incrociato nel
giusto processo.
A tal fine appare utile riportarle: 1) La lista testimoniale deve contenere l’indicazione
specifica delle circostanze oggetto dell’esame. 2) La domanda vietata e non ammessa non
può essere riproposta dalla parte che l’ha formulata, anche se correttamente riformulata.
3) Nel caso in cui sia reiterata la formulazione di domande vietate, benché espressamente
censurate,ovvero siano proposte opposizioni che suggeriscono la risposta alla persona
esaminata, il Giudice ammonisce la parte dandone atto a verbale. 4) Ai periti e ai c.t. non
è rivolto l’invito alla dichiarazione di impegno a dire la verità in merito alle valutazioni di
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loro competenza, se non limitatamente ai fatti appresi durante la loro attività. 5) I periti e
i c.t. possono partecipare ad ogni udienza del processo, sia prima che dopo il loro esame.
6) Il Giudice non può intervenire durante l’esame condotto dalle parti, al di fuori dei casi
espressamente previsti dalla legge. 7) Il Giudice non può formulare domande che tendono
a suggerire la risposta alla persona esaminata.
5. Le regole generali dell’arte della cross examination. – Arte, sì. Così viene definita
nei Paesi che da secoli coltivano questa nobile tradizione, rappresentata dai barristers, in
Gran Bretagna, e dai trial lawyers negli Stati Uniti d’America. Non viene insegnata nei
manuali, semmai tramandata in raccolte di cases; altro non è infatti che pura tecnica
processuale appresa sul campo, quindi udienza dopo udienza.
Con molta efficacia un grande avvocato anglosassone del passato, Francis Wellman, ha
definito un buon cross examiner come il risultato di una generazione di testimoni,
sottolineando che per acquisire l’esperienza necessaria a scoprire il punto debole di una
deposizione “bisogna aver avuto a che fare con un enorme varietà di testimoni, chiamati a
deporre su un infinito numero di circostanze diverse: il che equivale a confrontarsi con
tutte le sfumature e con tutti gli aspetti della complessità umana nelle sue più svariate
accezioni, morale, passionale o intellettuale.” ( The Art of Cross Examination, 1903).
Certo, quando invece assistiamo nelle nostre aule di giustizia a quell’accavallarsi e
intrecciarsi di domande provenienti da tutte le parti senza, peraltro, che il Giudice riesca a
contenere alcunché, comprendiamo quanto siamo lontani dalla meta.
Ciò è parzialmente comprensibile, se pensiamo che questo difficile e complesso strumento
formativo della prova è stato introdotto nel nostro ordinamento da poco più di un
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ventennio: il futuro del controesame nel nostro processo penale è certamente legato alla
definitiva assimilazione della ratio di tale istituto che dovrà quindi essere interpretato ed
applicato in ossequio alle norme costituzionali e ordinarie che già sono in vigore,
recuperando un maggiore equilibrio tra poteri delle parti e poteri del Giudice, oggi, di fatto,
ancora troppo sbilanciati a favore di quest’ultimo.
Proviamo ad indicare, senza presunzione di completezza, alcune regole generali che
andrebbero sempre osservate dall’avvocato chiamato a difendere in giudizio il proprio
assistito:
I.
Non ci sono alternative alla preparazione.
È evidente che qualsiasi decisione strategico-difensiva l’avvocato difensore sia
chiamato a prendere, lo possa e lo debba fare soltanto dopo un meticoloso studio
del fascicolo del procedimento ed, eventualmente, delle risultanze delle indagini
difensive espletate in ordine al fatto oggetto di causa e/o i soggetti collegati allo
stesso, quindi anche riguardanti i testimoni.
Soltanto in tale condizione il difensore sarà in grado, nel corso del giudizio, di
prendere le decisioni che maggiormente gioveranno al suo assistito.
Non poche volte si è chiamati a prendere decisioni nel pieno svolgimento del
dibattimento, ad es. se formulare o meno una determinata domanda dopo l’esame
diretto del testimone.
La presa ferrea su ogni elemento della causa consentirà al difensore di scegliere
tempestivamente l’idonea condotta difensiva nel corso dell’assunzione della prova.
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Grave errore sarebbe quello di affidarsi soltanto al “mestiere” e attendere la fine del
dibattimento per procedere allo studio delle risultanze e prepararsi la discussione:
infatti il primo e più importante momento di comunicazione persuasiva nei
confronti del Giudice lo si ha con la formazione della prova nel contradditorio delle
parti; con la discussione si tireranno solo le somme.
In effetti in Italia, ancora oggi, la statura di un penalista, nel comune sentire
dell’opinione pubblica, la si commisura soprattutto in relazione alla sua capacità di
argomentare con efficacia e incisività nella discussione finale, senza prestare alcuna
considerazione alle doti necessarie a dare forma alla prova testimoniale. In realtà
tali comuni convinzioni sono destinate a venir meno, nella misura in cui si prenderà
atto che le sorti dei processi, nella stragrande maggioranza dei casi, si decidono nel
momento formativo della prova.
II.
Procedere o meno al controesame. È una decisone delicatissima che il difensore
deve valutare con grande ponderazione.
Emory Buckner, un grande avvocato statunitense del secolo scorso, usava dire:
“spesso il controesame è più micidiale per colui che lo conduce che per colui che
lo subisce: assomiglia più a un suicidio che ad un omicidio”( in The Art of Cross
Examination, F. Wellman).
Effettivamente non bisognerebbe mai procedere al controesame senza uno scopo
chiaro e ben definito.
Terminato l’esame del testimone, il difensore, rilevato che è stato arrecato un
nocumento alla posizione del suo assistito, e ritenuto possibile attenuare o elidere
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tali danni, procederà al controesame. In caso contrario viceversa, sarà opportuno
non controesaminare il testimone ed attendere l’immancabile intervento del
Giudice, ai sensi dell’art.506 c.p.p., per rivalutare la decisione.
Deve essere comunque ben chiaro che, alzarsi e procedere al controesame senza
uno scopo ben preciso, facendo domande alla cieca o, peggio, facendo ribadire le
dichiarazioni negative già riferite dal teste in sede di esame diretto, nella vana
speranza di ottenere qualcosa di favorevole, significa arrecare ulteriori danni alla
propria posizione.
Pertanto se nessun obiettivo appare praticamente raggiungibile sarà opportuno,
come consiglia simpaticamente il Prof. Hegland dell’Università dell’Arizona (Trial
and Practice Skills, West Publisching, 1994) prendere in considerazione “la
scrollata di spalle”: ovvero manifestare il proprio disinteresse per il testimone, in
ossequio alla vecchia massima secondo la quale ignorare la prova ne minimizza
l’importanza, mentre farne oggetto di controesame la esalta.
III.
Scegliere la strategia da adottare.
Le valutazioni saranno prese all’esito dell’espletamento dell’esame diretto.
In linea generale tre sono le strategie adottabili: a) la limitazione dei danni; b)
screditare il testimone per svilire la deposizione; c) confutare la storia per annullare
la deposizione.
Limitare i danni di un testimonianza significa focalizzare l’argomento o gli
argomenti da affrontare (ad es. un orario, una descrizione di un evento
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apparentemente marginale) e restringere il campo di azione a quel singolo
argomento, enfatizzando quella particolare circostanza ritenuta favorevole ovvero
facendone ribadire tale aspetto.
Non appena ottenuta la risposta desiderata si dovrà prontamente smettere il
controesame o cambiare argomento. Mai formulare la famosa “domanda di troppo”
nella speranza di rafforzare subito l’efficacia di quella risposta, anziché richiamarla
unitamente alle altre prove nella discussione: è quello il modo per mandare in
frantumi il risultato ottenuto, offrendo al testimone la possibilità di precisare o
peggio di ritrattare.
Screditare il testimone significa muoversi su un terreno molto scivoloso
costantemente sotto stretta vigilanza del Giudice, pertanto appare superfluo
ammonire che tale tattica sarà praticabile soltanto quando si è in possesso di
elementi obiettivi tali da consentire l’attacco alla credibilità o attendibilità
personale del testimone. Le indagini difensive possono essere uno strumento
prezioso per tale scopo.
Stesso discorso vale per l’attacco diretto alla deposizione resa in sede di esame
diretto. Andrà preliminarmente compreso se il testimone sia falso o in errore, al
fine di scegliere la tattica migliore per far emergere l’errore o la falsità: infatti, in
presenza di testimone in buona fede ma in errore, sarà tendenzialmente conveniente
stabilire con lui un rapporto amichevole, da mantenere possibilmente nel corso
dell’intero controesame, allo scopo di assicurarsi la sua collaborazione così da
ottenere l’ammissione di contraddizioni, incoerenze o inverosimiglianze.
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In presenza di falso testimone, si opterà per la tattica più opportuna, valutando se
metterlo subito dinanzi agli elementi che ne confutano la versione fornita o le
motivazioni a rendere la falsa deposizione, oppure celando inizialmente l’obiettivo
prefissato, sino al momento in cui si passerà alla contestazione aperta di mendacio.
Quale che sia la strategia adottata, deve comprendersi che il fondamento strategico
di ogni efficace cross examination risiede nell’impostazione della sequenza delle
domande formulate sulla falsariga di una argomentazione: ogni singola domanda
dovrebbe costituire il progressivo svolgersi della comunicazione persuasiva che il
difensore rivolge al Giudice, sapendo infine trovare il punto giusto dove fermarsi.
IV.
Saper formulare le domande.
È il punto centrale dell’arte della cross examination.
In estrema sintesi, ma con grande efficacia, Hegland indica le prescrizioni da
seguire in proposito come segue: a) formula solo leading questions; b) non
chiedere mai “perché” al teste ; c) non formulare mai una domanda afferente un
argomento cruciale, se non sei ragionevolmente sicuro della risposta.
Le c.d. leading questions (letteralmente “domande guidanti”) appartengono alla
famiglia delle domande suggestive, ovvero quelle domande che suggeriscono la
risposta in quanto contengono l’evocazione di un fatto non ancora direttamente
narrato dal teste: “ieri sera, quando ha udito gli spari, era già uscito dal ristorante
X?”.
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Le “domande guidanti”, più che vere domande, sono delle dichiarazioni fatte
seguire da un punto interrogativo (così Hegland, Trial and practice skills, pag.
159). Costituiscono l’arma più efficace nella cross examination perché consentono
un altissimo grado di controllo sul testimone, lasciandogli praticamente
l’alternativa tra il sì e il no.
È ovvio che domande di questo tipo implicano il fatto che il controesaminatore
abbia conoscenze tali che gli consentano di prevedere le risposte.
Ogni singola “domanda guidante” dovrà essere priva di premesse o proposizioni
subordinate, ed essere caratterizzata da una struttura sintattica elementare, tale da
contenere un solo fatto o un solo concetto. Il fatto storico oggetto di testimonianza
quindi sarà scomposto in tanti segmenti interrogativi: “ieri sera era al ristorante X?
Terminata la cena è uscito? Solo allora ha udito gli spari?”.
Tale tipo di domande poste “a catena” producono un potente effetto globale, che
consente di sfruttare al massimo un argomento vincente invece di esaurirlo in fretta
con un paio di domande.
La raccomandazione di non chiedere mai “perché”, vuole sintetizzare il concetto
che, in sede di controesame, le domande aperte sono rischiose in quanto consentono
al testimone di spaziare nella risposta con argomentazioni incontrollate.
Corollario di ciò è la nota massima secondo la quale non deve mai formularsi una
domanda, quantomeno su un argomento centrale, se non se ne conosca la risposta; a
tal proposito vasta e divertente è l’aneddotica anglosassone, tra le tante si riporta
quanto narrato da Peter Brown nel suo The art of questioning (Clark, N.J., 2007):
durante la cross examination di un testimone in un processo per omicidio, ad un
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famoso barrister fu insistentemente richiesto dal solicitor dell’imputato di
formulare una determinata domanda. Il barrister acconsentì e formulò la domanda
che provocò una risposta esiziale per la sorte dell’imputato (all’epoca in Inghilterra
l’omicidio era punito con la pena di morte). Non appena ricevuta tale risposta il
difensore si avvicinò al solicitor e gli sussurrò: “ora vai a casa e tagliati la gola,
quando poi all’inferno incontrerai il tuo cliente, chiedigli perdono!”.
V.
Esercitare il self control.
Spesso nel corso del dibattimento, durante la cross examination, la tensione in aula
sale in modo vertiginoso: in questi momenti il difensore deve dare prova di avere il
massimo controllo delle proprie emozioni.
Contravvenendo a tale raccomandazione, si corre il serio rischio di provocare danni
irreparabili alla posizione del proprio assistito: sappiamo che i Giudici non
tollerano attacchi smodati o peggio, maleducati, rivolti al testimone.
Ne consegue che non è mai consentito polemizzare con il testimone; al contrario il
contegno dell’avvocato sarà ispirato sempre al garbo ed alla cortesia, ma al
contempo egli mostrerà irremovibile fermezza nell’evidenziare al teste eventuali
incongruenze, contraddizioni o falsità. Ugualmente dovranno evitarsi polemiche e
battibecchi con le altre parti: se vi sono obiezioni o proteste da formulare dovranno
essere rivolte unicamente al Giudice.
Così agendo, il difensore guadagnerà in autorevolezza e conseguentemente
arrecherà giovamento alla propria posizione.
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Inoltre eviterà, in qualsiasi modo, di manifestare la propria soddisfazione per la
risposta ottenuta: solitamente il Giudice non apprezza tale atteggiamento,
interpretando l’esibizione di compiacimento come ostentazione di certezza
sull’esito del processo.
Infine, il bravo difensore eviterà di manifestare il proprio disappunto in caso di
risposte pregiudizievoli: tale atteggiamento potrebbe indurre il Giudice, la cui
conoscenza degli atti è limitata rispetto a quella delle altre parti, a valorizzare
particolarmente tale prova con nocumento per l’interessato.
VI.
Correttezza e lealtà.
Queste due categorie deontologiche dovrebbero sempre ispirare l’agire del
difensore nel corso del processo. Appare quindi superfluo sottolineare che mai
dovranno essere introdotti testimoni che si sa essere falsi.
Eviterà di formulare domande inammissibili o di interrompere l’esame di un’altra
parte per porre una domanda, ma soprattutto eviterà di fare opposizioni
accademiche con le quali scorrettamente si vorrebbe suggerire la risposta che il
teste è chiamato a dare. Questo genere di comportamento oltre a danneggiare
irrimediabilmente l’immagine del difensore agli occhi del Giudice, si rivela,
conseguentemente, causa di grave nocumento alla posizione di colui che si assiste,
situazione che l’avvocato dovrebbe cercare sempre di evitare.
Concludendo le brevi riflessioni su questo fondamentale istituto processuale, non può
esservi migliore sintesi che riportarsi a ciò che nel 1903 scrisse Francis Wellman nel suo
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“The art of cross examination” e constatarne la attualità: “La cross examination è
generalmente considerata la più ardua fra le molteplici attività in cui un avvocato possa
impegnarsi […] richiede grandissima abilità; naturale propensione alla razionalità;
pazienza infinita e controllo di se stessi; acuta intuizione. Impone di saper giudicare un
carattere dalle espressioni del viso; di valutare in modo appropriato i comportamenti
umani. Esige perizia per agire con determinazione e precisione; assoluta conoscenza
dell’oggetto della causa; attenzione estrema e, soprattutto, istintiva predisposizione a
scoprire il punto debole del testimone che viene interrogato”.
Avv. Vincenzo Dresda.
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