Non è sempre facile che musica e teatro vadano d`accordo

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Non è sempre facile che musica e teatro vadano d`accordo
Non è sempre facile che musica e teatro vadano d’accordo. Entrambi fieri e possenti solisti, rischiano come
niente di accavallarsi, pestandosi i piedi e a volte tentando, magari con qualche arguto trucco, di emergere
l’uno al di sopra dell’altro. Eppure tutto questo non è accaduto ieri sera, per la “prima” del Festival dei
Mondi, che si svolgeva nell’incantevole cornice dei giardini di Villa Recalcati, a Varese.
La kermesse dedicata al maestro Gian Carlo Menotti, il grande musicista e librettista di Cadegliano che
diede lustro – fra le tante cose – alle bellezze di Spoleto, esordiva con l’insolito spettacolo “Sur”, fra le
accattivanti note e i brani del noto cantautore Eugenio Bennato, e i monologhi degli attori Silvia Priori e
Roberto Gerbolés.
Di fronte a un pubblico entusiasta (lo dimostra il lunghissimo applauso tributato al maestro Bennato, ai
musicisti che lo accompagnavano e ai due attori), teatro e musica hanno fuso tutta la loro potenza per
raccontare a tutti la storia oltraggiata e troppo spesso dimenticata di un Sud immaginario. Un Sud non
geografico, ma metaforico. Un Sud che corre dalle colline della Basilicata e in un lampo raggiunge
l’altopiano argentino. Passa attraverso gli occhi nerissimi e lucenti dei giovani studenti di Teheran, per poi
toccare la Tunisia e infine il Sudafrica dell’apartheid e di Mandela.
Un Sud che rappresenta la ribellione degli umili ai più vigliacchi soprusi del potere. La rivolta dei
disobbedienti, di chi è ostinatamente “onesto contro vento e marea”. Di chi sa che il potere “non perdona
chi lo combatte, ma non combatterlo sarebbe peggio”.
E allora via alla toccante storia di Michelina di Cesare, la bellissima brigantessa lucana che negli anni
dell’Unità d’Italia combatté con la “schioppetta” le angherie dell’esercito piemontese. All’epica rivolta del
Chacho Peñaloza, il 70enne che – con un “esercito di straccioni” – si oppose nel 1863 alla tirannia del
governo di Buenos Aires.
Via alla giovane iraniana Neda, uccisa nel 2009 a Teheran durante un corteo di protesta contro i brogli
elettorali, a Mohamed Bouazizi, che tre anni fa si diede fuoco per denunciare i soprusi delle forze
dell’ordine contro i poveri commercianti della Tunisia, a Hebe De Bonafini, che ogni giovedì (all’età di 87
anni) marcia in Plaza de Mayo per ricordare i propri figli uccisi dalla dittatura.
E, infine, alla commovente storia di Rolijlahla (“colui che provoca guai”), l’uomo che accettò 26 anni di
prigionia pur di non cedere agli oltraggi razzisti del governo sudafricano. L’uomo che oggi tutti conosciamo
con l’indimenticabile nome di Nelson Mandela.
In mezzo a tutto questo, con un ineffabile mix di dolcezza e potenza, le note della chitarra di Eugenio
Bennato raccontano le amare vicende del brigante Ninco-Nanco, il quale “deve morire, perché si campa
putesse parlare, e si parlasse putesse dire qualcosa di meridionale”. Di un mondo che “corre, ed io vado
troppo, troppo, troppo lento”. Di “quell’onda che non smette mai”, l’onda del Mediterraneo (“Che il
Mediterraneo sia”). E di quel Sud che “dal suo ghetto / sta sfidando tutto il mondo / col suo ritmo
maledetto / sta sfidando anche l’inferno” (“Ritmo di contrabbando”).
Perle di un repertorio, quello del cantautore napoletano, che non ha perso una virgola della propria
efficacia e della propria potenza, espresse impeccabilmente anche dalla prova dei musicisti (Ciro Radice,
Norberto Cutillo, Nicola Zuccalà, Igor della Corte e Virgilio Monti) e della cantante Francesca Galante, la cui
voce sa essere affilata quando serve, ma è anche in grado di accarezzare come seta le guance di chi ascolta,
per poi scivolare via con grazia, facendo finta di nulla.
Il finale è tutto per Eugenio, che concede anche la rarissima canzone arabeggiante “Kifaya” (per la prima
volta in un concerto), il canto cinquecentesco “Tu sai che la cornacchia” (uno degli apici più emozionanti di
tutta la serata) e conclude – a grande richiesta – con il cavallo di battaglia “Brigante se more”, la poesia che
racconta la guerra dei combattenti di Carmine Crocco. Un canto di guerra, che accomuna tutti i “Sud” del
mondo. E che punta dritto al cuore di ognuno di noi.