Istituto MEME: Omicidio al femminile

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Istituto MEME: Omicidio al femminile
UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET
ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF
BRUXELLES - BELGIQUE
THESE FINALE EN
“SCIENCES CRIMINOLOGIQUES”
OMICIDIO AL FEMMINILE:
IL GENTIL SESSO DA VITTIMA A CARNEFICE
Relatore: Vincenzo Monittola
Specializzando: Alessandra Abatelillo
Co-Relatore: Raffaele Dell’Anna
Matr. 3186
Bruxelles, ottobre 2013
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
ALESSANDRA ABATELILLO - SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE - TERZO ANNO A.A. 2012 - 2013
Indice dei Contenuti
Introduzione ................................................................................... pag.
5
CAPITOLO 1
Il delitto passionale: analisi del fenomeno
1.1. Morire per “amore” .............................................................. pag. 6
1.2. Perché si uccide il partner .................................................... pag. 8
1.3. Omicidio tra uomini e donne: differenze e statistiche ......... pag.
9
1.4. Il percorso della violenza: quando l’amore diventa
criminale............................................................................... pag.
15
1.5. Amore per sé stessi .............................................................. pag.
16
CAPITOLO 2
Delitto al femminile: la donna protagonista del crimine
2.1. Amore e psicanalisi ............................................................ pag.
17
2.2. Indagini sul delitto femminile ............................................ pag.
18
2.3. Perché e come uccidono le donne ...................................... pag.
22
2.4. Chi uccidono ...................................................................... pag.
23
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2.5. La donna serial killer……………………………………… pag. 29
CAPITOLO 3
Caso pratico: l’assassinio del giovane amante
3.1. Intervista ad Adele M ........................................................... pag. 36
3.2. La vicenda giuridica ............................................................ pag. 40
3.3. La sentenza ........................................................................... pag. 41
3.4. La posizione giuridica .......................................................... pag. 49
3.5. Relazione di osservazione ed ipotesi di trattamento ............ pag. 50
3.6. Il caso M. a “Donne vittime e carnefici”.............................. pag.
54
CAPITOLO 4
Il delitto d’impeto: crimine dell’impulso irresistibile
4.1. Quando la mente è colta da raptus .................................... pag.
56
4.2. La nascita della monomania e i suoi sviluppi.................... pag.
58
4.3. Il meccanismo emozionale nella commissione del
delitto................................................................................. pag.
64
4.4. Imputabilità e colpevolezza nel sistema penale italiano...... pag.
69
4.5. Imputabilità e colpevolezza nel sistema penale tedesco e
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inglese.................................................................................. pag.
72
4.6. Il valore di malattia e il vizio di mente ................................ pag.
76
4.7. La graduabilità del vizio di mente: quadri psicopatologici e
incertezze definitorie ............................................................ pag. 80
4.8. Delitto in preda al raptus e omicidio passionale .................. pag.
82
Conclusioni ....................................................................................... pag. 87
Bibliografia ......................................................................................... pag. 88
Sitografia ............................................................................................ pag. 90
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INTRODUZIONE
“Perché tu possa correre dal tuo nuovo amante... La catena che ci lega ci legherà fino
alla morte... Tu non mi ami più, che importa, dal momento che ti amo ancora, io.
Questa mano è abbastanza forte per rispondere di te. Io ti tengo, e ti costringerò a
subire il destino che inchioda la tua alla mia sorte".
(Opera Carmen di Georges Bizet)
La stabilità degli affetti non è un’esclusiva di nessuno, ci ricorda che la fragilità umana
va oltre ogni contorno e classificazione perché investe una natura profonda dell’anima e
dei suoi mali che va al di là delle differenze di genere. La gelosia ossessiva, il bisogno
di possesso combinato al timore dell’abbandono, la tendenza violenta e psicologicamente adolescenziale tendono a distruggere e annientare l’oggetto del desiderio
quando si ha la sensazione di averlo perduto o comunque di non poterlo integralmente
controllare. Queste pulsioni non sono monopolio della psicologia maschile, ma possono
esprimersi anche in quella femminile.
È proprio il cocktail di tutte queste condizioni nella mente di una donna che ha destato il
mio interesse, dando vita al mio lavoro di tesi.
Avendo svolto tirocinio presso la Casa Circondariale di Lecce, il project work tratta il
delitto al femminile in tutti i suoi aspetti psicologici e criminologici, volgendo in
particolare l’attenzione su un caso di omicidio d’impeto compiuto da una donna in
danno del suo giovane amante.
L’elaborato si propone di indagare gli aspetti più oscuri e celati della psiche femminile
che conducono la donna, da sempre nella storia stereotipo di amore, comprensione e
perdono, a commettere un gesto così efferato nei confronti della persona amata.
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CAPITOLO 1
IL DELITTO PASSIONALE: ANALISI DEL FENOMENO
1.1 Morire per “amore”
A volte si può morire per amore. Certo è una forma d’amore distruttiva e maligna, in
grado di trasfigurare il nostro “oggetto d’amore” al punto tale da trasformarlo nel nostro
peggior nemico giorno dopo giorno.
I delitti passionali sono delitti diversi, psicologicamente più drammatici perché chi
uccide ama la sua vittima, la ama anche nel momento in cui la sta uccidendo. E se di
amore si tratta è un amore estremo, egoistico e ossessivo, che conduce fino alla follia; è
la rabbia dopo un tradimento, la depressione dopo un abbandono, un sentimento
incontrollabile che spingono ad uccidere. Quello che domina non è l’amore per l’altro,
ma il bisogno dell’altro, l’appropriazione della sua vita e dei suoi sentimenti.
Quattro violenze su cinque avvengono all’interno di una relazione sentimentale, mentre
solo una su 100 ad opera di sconosciuti. A subirle sono soprattutto le donne di età
compresa tra i 35 e i 44 anni, sposate con figli; la violenza si consuma spesso in casa: il
61% delle volte, infatti, essa è invisibile proprio perché avviene all’interno delle mura
domestiche. Quella violenza diventa sinonimo di morte1.
L’omicidio del partner è uno dei crimini più diffusi a livello nazionale ed internazionale
(dal 35 al 70%): le percentuali più elevate le riscontriamo nei paesi di matrice islamica,
anche se i paesi occidentali non sembrano di meno. Secondo la NOW (National
Organization of Women) americana ogni giorno negli Stati Uniti 4 donne vengono
assassinate del proprio partner, per un totale di circa 1400 l’anno. Un dato allarmante!
Ciò sembra essere in linea con quanto si verifica nel nostro Paese: in Italia in media
ogni 3 giorni una donna viene uccisa per mano di un uomo, il proprio uomo.
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La drammaticità di questi crimini sta nel fatto che chi li compie, oltre all’orrore di aver
ucciso, ha il terribile rimpianto della persona uccisa; ecco perché la maggior parte degli
omicidi si conclude con il suicidio dell’assassino.
Egli parte con l’idea di minacciare e spaventare il partner, poi la reazione dell’altro fa
precipitare l’evento. Allora il ruolo della vittima sembra cambiare, in molti casi non è la
vittima innocente ma la vittima carnefice.
L’assassinio amoroso appare l’estremo rimedio per sventare la minaccia del distacco,
quel distacco voluto solo da una parte e che crea nell’altro dei dubbi sulla sua infedeltà.
Dubbi laceranti che tormentano, che contengono tanto le sofferenze della privazione
quanto quelle dell’amor proprio ferito e che esplodono in una gelosia ossessiva.
Dietro la paura dell'abbandono c'è la paura della solitudine, ma anche qualcosa di più
profondo: la paura di non esistere. Quando siamo amati da qualcuno abbiamo anche la
conferma della nostra esistenza: la persona che ci ama ci fa sentire importanti ed amati,
ma prima di tutto ci fa sentire che ci siamo. Nel momento in cui questo amore viene a
mancare ci sentiamo smarriti e proviamo un senso di vuoto.
Non è così per tutti ma per alcuni la perdita dell'amato ha a che fare con la perdita di sé
stessi.
Con l’abbandono non si perdono soltanto la stabilità, la sicurezza e la fiducia, si perde
anche una parte importante di sé. Separarsi diventa un’intollerabile mutilazione: viene
scardinata quella parte della personalità costruita nel corso degli anni insieme al partner.
Quando ci innamoriamo sopravvalutiamo l'altro, che ci sembra perfetto.
Nel momento in cui un rapporto finisce ci ritroviamo piccoli e di poco valore, ci sembra
di non esistere o di non valere.
La paura dell'abbandono, della perdita dell'altro ha anche un’altra faccia: la paura che
l'amore emerso dal nostro inconscio possa andare via così come è arrivato.
Quindi perdita non intesa come perdita dell'altro, ma perdita dell'amore che si prova.
Oltre alla perdita dell’amore si soffre per il rovinoso dissesto a cui vanno incontro i
progetti, i desideri; la delusione riattiva un sentimento d’inferiorità inconscio, che
spinge al disperato tentativo di riappropriarsi della persona amata. E se non si può
riaverla si ricorre a gesti estremi.
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1.2 Perché si uccide il partner
Non è certo semplice entrare nel merito delle motivazioni poste alla base di questa
categoria di omicidi. Il proposito omicidi ario può innescarsi a causa di un’esperienza
traumatica per l’uomo come la perdita di lavoro o una crisi di carattere finanziario che
vengono riversate in maniera disfunzionale all’interno della coppia, spesso attraverso
una serie di comportamenti violenti di crescente potenziale lesivo. La coppia o la
famiglia diventa così una sorta di ultima spiaggia per mantenere il controllo sulla
propria esistenza2.
Nella maggioranza dei casi comunque si ha a che fare con moventi di matrice affettiva
come la gelosia e la possessività, che diventa progressivamente sempre più morbosa e
pervasiva al punto da far riconoscere ovunque segni tangibili del tradimento da parte del
partner o della sua volontà di troncare la relazione, fino a maturare nell’assassino il
voler riscuotere il suo letale tributo di morte.
Quando il movente è la gelosia, la morte del partner arriva dopo l’ennesima lite
violenta, in altri casi invece il movente del partner attinge copiosamente dalla sua
psicopatologia o da carenze a carico della sua struttura di personalità. Qui l’omicida
presenta già da tempo dei gravi disturbi psichiatrici dell’umore, ansia o depressione;
l’abbandono da parte del partner, reale o presagito che sia, diventa una condizione
sufficiente per decidere di uccidere. Solitamente si parla di “cortocircuito abbandonico”,
generato dall’incapacità di pensarsi da soli ad affrontare un futuro che improvvisamente
non si è più sicuri di desiderare senza l’altro/a, in grado di fagocitare sia la vittima che il
carnefice, vittima a sua volta della propria letale fragilità3.
Ciò che siamo stati, che siamo e che saremo dipende molto da come abbiamo vissuto le
nostre esperienze di perdita a partire dal momento in cui abbiamo lasciato il grembo
materno, e naturalmente anche il nostro modo di entrare in relazione con l’altro è
collegato in primis a tale aspetto. La dipendenza affettiva così come l’anaffettività
sembrano attingere a piene mani proprio da un precoce fallimento della nostra capacità
di metabolizzare il sentimento di perdita.
2
3
Ibidem.
Ibidem.
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1.3 Omicidio tra uomini e donne: differenze e statistiche
A seconda del sesso a cui appartenga l’esecutore di un delitto, esso e le sue motivazioni
intrinseche cambiano radicalmente.
Quando una donna arriva ad uccidere il proprio partner o ex partner solitamente ha alle
spalle una serie di abusi fisici, psicologici e/o sessuali subiti dalla vittima per molti anni:
si tratta spesso di donne che hanno già avuto modo di sperimentare in diverse occasioni
la paura di morire per mano del loro compagno. Per alcuni versi possiamo considerare
la donna come una sorta di esecutore materiale di un omicidio che in realtà ha
“commissionato” giorno dopo giorno proprio la vittima con le sue violenze, con i suoi
soprusi siano essi fisici, psicologici, sessuali o un mix letale di tutti e tre. Non a caso in
America di discute ormai da anni sulla possibilità di concedere alle donne che si
macchiano di tale delitto dopo un percorso di abusi e maltrattamenti l’attenuante della
“legittima difesa” dal momento che lo stato di grave pericolo per la propria incolumità
sarebbe da considerarsi continuato oltre che sistematico.
Nella maggior parte dei casi esse arrivano ad uccidere durante la notte o nelle
primissime ore del mattino in seguito all’ennesimo litigio, quasi a voler approfittare del
torpore della vittima quale strategico elemento di vantaggio. La donna che riveste i
panni dell’assassina solitamente sferra il suo attacco nella camera da letto o nel salotto
di casa.
Naturalmente solo una parte ridotta delle donne che vivono una condizione di regolare
abuso da parte del proprio uomo arrivano a maturare la decisione di liberarsi di
quest’ultimo attraverso l’omicidio.
Gli uomini che uccidono sono generalmente avvezzi a commettere atti violenti
all’interno della coppia: molte volte si comportano in modo violento nei confronti della
compagna come valvola di sfogo di tutta una serie di eventi stressanti che egli
sperimenta nella sua vita quotidiana all’esterno della coppia. E allora un problema sul
lavoro o una crisi finanziaria possono diventare un ottimo pretesto per far perdere il
controllo.
Per tali uomini, che hanno perso potere sugli aspetti esterni alla vita di coppia, il
controllo totale della loro donna rappresenta l’ultimo baluardo nella loro misera
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esistenza per conservare ancora un briciolo di autostima; l’abbandono da parte della
compagna è considerato inaccettabile e quindi uccidono perché non riescono ad
abdicare dal ruolo di dominatori incontrastati della vita dell’altra, spesso disprezzata per
la passività che essi stessi hanno generato dopo anni di continue percosse ed
umiliazioni.
Tuttavia rispetto agli anni passati (seconda metà del 1900), gli eventi omicidiari nel XXI
secolo sembrano più contenuti. Soffermandosi sull’analisi delle statistiche elaborate in
materia, il primo dato che emerge, infatti, è la diminuzione netta nei tre bienni degli
omicidi o tentati omicidi (260 nel 1960-61, 106 nel 2002-03): tale diminuzione si
riscontra sia per i crimini compiuti dagli uomini sia per quelli compiuti dalle donne
(Grafico 1: per gli uomini si passa da 228 casi nel 1960-61 a 110 casi nel 1985-86 e 93
casi nel 2002-03; per le donne invece si passa da 32 casi nel 1960-61 a 17 casi nel 198586 e 13 casi nel 2002-03).
Grafico 1: casi in cui l’aggressore è un uomo o una donna nei tre bienni.
250
200
150
Uomini feriti/uccisi da donne
100
Donne ferite/uccise da
uomini
50
0
1960-61
1985-86
2002-03
Come si può spiegare questa riduzione? L’ipotesi è che essa sia avvenuta in
concomitanza dei cambiamenti sociali e legislativi relativi alla condizione della donna,
in particolare l’abrogazione della diminuzione di pena per il delitto d’onore avvenuta
nel 1961 nonché l’introduzione della disciplina sul divorzio datata 1970.
A questi avvenimenti si accompagna la teoria del “processo di civilizzazione” della
società, proposta in quegli anni dal sociologo Elias: secondo tale studioso in questo
periodo vi è stato un mutamento della struttura degli affetti provocato dalla trasformazione parallela della struttura della società. Nella società medievale, gli impulsi e le
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emozioni erano espresse in modo libero e senza freni, al contrario nei secoli a venire la
situazione cambiò e gli individui impararono a gestire e dominare se stessi e la propria
aggressività. Fu proprio grazie a questa “autocostrizione di origine sociale” che secondo
Elias il numero di omicidi e la loro natura mutò4.
Va rilevato, inoltre, che si osserva una diminuzione del tasso di omicidio negli ultimi
decenni anche negli Stati Uniti: ciò vale soprattutto per gli omicidi che coinvolgono
maschi come autori o come vittime, diminuzione minore invece per gli omicidi che
vedono le donne come vittime5.
Altro risultato emergente dalle statistiche è che le caratteristiche di questi delitti si sono
modificate, in particolare cambiano le motivazioni che spingono ad uccidere.
Dagli anni ’60 ad oggi (Grafico 2) è aumentata la percentuale di crimini commessi
perché l’aggressore non sopporta di essere stato abbandonato (si passa dal 13,1% al
22,6% dei casi), mentre quasi del tutto sparisce il motivo della gelosia (dal 12,7% al
1,9%). Il crimine per onore è presente nel 10% dei casi negli anni ’60 e successivamente
sparisce di fatto nel 2002-03.
Grafico 2: motivo del crimine secondo il sesso dell’aggressore.
80
Non sopporta l'abbandono
70
Depressione
60
Sesso passione
50
Difesa dalla violenza
40
Vendetta
30
Lite,futili motivi
20
Gelosia
10
Motivi economici
Onore
0
Uomini
4
5
Donne
Liberarsi della vittima
BARBAGLI M.,COLOMBO A.,SAVONA E., Sociologia della devianza, Il Mulino, Bologna, 2003.
www.opj.usdoj.gov/bjs/
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Si modificano anche le relazioni tra aggressore e vittima. Dagli anni ’60 ad oggi gli
uomini uccido più spesso, in proporzione, la ex-partner e meno spesso la partner attuale
(Tabella 1A); per quanto riguarda le donne è difficile identificare tendenze chiare
essendo esiguo il numero di delitti da loro commessi (Tabella 1B).
Tabella 1A: vittima principale quando l’aggressore è un uomo.
1960-61
1985-86
2002-03
(N)
%
(N)
%
(N)
%
98
43,0
38
34,5
30
32,3
49
21,5
22
20,0
30
32,3
39
17,1
29
26,4
15
16,1
30
13,2
15
13,6
9
9,7
Prostituta
10
4,4
1
0,9
0
0,0
Sconosciuta
2
0,9
5
4,5
9
9,7
100
110
Moglie/partner
Ex moglie/ex partner
Madre o altro fam.
Altra donna conosciuta
TOTALE
228
100
93
100
12
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Tabella 1B: vittima principale quando l’aggressore è una donna.
1960 - 61
(N)
Marito/partner
%
1985 - 86
(N)
%
2002 - 03
(N)
%
13
40,6
13
76,4
8
61,5
9
28,1
1
5,9
3
23,1
2
6,3
0
0,0
2
15,4
7
21,9
2
1,8
0
0,0
1
3,1
1
5,9
0
0,0
32
100
Ex marito/ex partner
Padre o altro fam.
Altro uomo conosciuto
Cliente/sfrutt.
TOTALE
17
100
13
100
Negli Stati Uniti si osserva una tendenza simile: dagli anni ’70 ad oggi infatti
diminuiscono nettamente gli omicidi che avvengono tra marito e moglie mentre quelli
tra ex mariti ed ex mogli restano costanti.
In sintesi, nel contesto dei cambiamenti sociali e legislativi avvenuti in Italia negli
ultimi 40 anni, si riscontrano quindi delle modificazioni nella frequenza e nelle
caratteristiche dei crimini: il delitto d’onore è abrogato, le coppie trovano modalità
meno cruente per risolvere i conflitti e si separano e divorziano più frequentemente,
aumentano le risorse disposizione delle donne vittime di violenza che decidono di
lasciare il partner invece di continuare a subire. Ma se la frequenza dei delitti
diminuisce, aumenta tuttavia la proporzione di donne uccise o aggredite dopo
l’abbandono del compagno violento.
Ciò che emerge con forza dai nostri dati è come la vittima principale di tali delitti sia
proprio la donna: nei tre bienni analizzati, le donne ferite o uccise da un uomo sono 498
a fronte dei 143 uomini feriti o uccisi da donne.
Altre differenze possono rilevarsi osservando la tipologia degli omicidi o tentati omicidi
secondo il sesso dell’autore: le donne commettono molto meno spesso degli uomini
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omicidi plurimi (rispettivamente 4,8% contro 22%) e in nessun caso si suicidano o
tentano di farlo, mentre il 30,4% degli uomini lo fa o tenta subito dopo il delitto
(Tabelle 2 e 3).
Tabella 2: omicidi/tentati omicidi singoli o plurimi secondo il sesso dell’autore del
crimine.
Uomini
Donne
(N)
%
(N)
%
Omicidi/tentati omicidi singoli
336
78,0
59
95,2
Omicidi/tentati omicidi plurimi
95
22,2
3
4,8
TOTALE
431
100
62
100
Tabella 3: omicidi/tentati omicidi con o senza suicidio/tentato suicidio secondo il
sesso dell’autore del crimine.
Uomini
Donne
(N)
%
(N)
%
Senza suicidio/tentato suicidio
300
69,6
62
100,0
Con suicidio/tentato suicidio
131
30,4
0
0,0
TOTALE
431
100
62
100
Come ultimo aspetto da considerare vi è il luogo dove avviene il crimine: qui non si
riscontrano sostanziali differenze tra uomini e donne in quanto in entrambi i casi la casa
è il luogo scelto nel maggior numero dei delitti (quasi il 70%)6.
6
SERRAN G., FIRESTONE P., Intimate Partner Homicide: a Review of the Male Proprietariness and the
Self-defense Theories, Aggression and Violent Behavior, 2004.
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1.4 Il percorso della violenza: quando l’amore diventa criminale
Secondo gli studiosi di criminologia all’interno di queste coppie disfunzionale, prima di
agire compiendo l’atto estremo, la violenza segue alcune fasi:

fase della minaccia: qui l’uomo comincia a minacciare verso la donna una
serie di atti violenti (senza compierli), tentando così di rafforzare il suo
dominio e controllo sulla propria compagna;

fase della violenza: egli agisce violenza direttamente sulla partner sia sotto il
profilo fisico che psicologico e sessuale;

fase delle scuse/giustificazioni: in questa fase l’uomo manifesta il suo
pentimento alla partner per quanto commesso, promettendo che non accadrà
mai più una cosa simile. La compagna continua a perdonarlo volta dopo
volta, anche se teme di venire ferita o uccisa durante la prossima aggressione
in quanto consapevole che la violenza dell’uomo non si fermerà7.
I segni premonitori di una relazione di coppia che può degenerare in tragedia sono:
-
numero e gravità delle ferite inferte alla partner;
-
abuso continuato e prolungato nel tempo di sostanze stupefacenti e/o alcol da
parte dell’uomo;
-
abuso fisico e sessuale nei confronti della partner;
-
minaccia e/o tentativi di suicidio da parte della donna;
-
minaccia di omicidio da parte dell’uomo;
-
stalking (presente in circa il 50% dei casi che sfociano nell’omicidio della
partner).
Procedendo a delineare il profilo potenziale dell’autore di un delitto passionale, egli
sembrerebbe avere nella maggior parte dei casi le seguenti caratteristiche.
Solitamente è un uomo che rientra in una fascia d’età compresa tra i 35 e i 40 anni e che
conviveva ancora con la vittima all’epoca dell’omicidio; egli diventa violento quando
sente a rischio il suo potere sulla partner e tende a sviluppare verso di lei una forte
dipendenza emotiva, confondendola con una forma d’amore incondizionato. In molti
casi si tratta di un soggetto con un disturbo borderline di personalità contrassegnato da
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ambivalenza affettiva, rabbia esplosiva, tendenza alla manipolazione, inaffidabilità e
una ridotta autostima. Per questo tipo di soggetti l’aumento dell’autostima dipende
molto dal progressivo annullamento dell’autostima della loro vittima/partner che quindi
tende ad indebolirsi dal punto di vista psicologico giorno dopo giorno, alimentando così
il legame perverso con il proprio carnefice fino al momento in cui non sarà più possibile
scindere l’amore dal più profondo disprezzo. Egli tende ad agire da solo8.
Il livello socio-economico è tendenzialmente medio-basso così come la sfera occupazionale: in molti casi l’autore di un omicidio passionale ha alle spalle una famiglia
d’origine problematica caratterizzata dalla separazione dei genitori, da alcolismo o da
una situazione economica precaria.
1.5 Amore per sé stessi
Ma davvero si può arrivare ad uccidere “per amore”?
La risposta a questa domanda è si, ma per amore di se stessi. Un amore perverso,
dannoso che riduce l’altro a mero oggetto da esibire per dimostrare a noi stessi e agli
altri che valiamo qualcosa nella nostra esistenza. Questo tipo di “amore”, fragile, può
essere in grado di uccidere: si tratta, infatti, di persone che dovrebbero amarsi ma
purtroppo qualcosa non ha funzionato, e questo qualcosa ad un certo punto ha generato
una grande confusione all’interno di questo legame, trasformando l’amore in odio verso
se stessi.
Sotto l’etichetta di “delitto passionale o affettivo” si nascondono i peggiori demoni di
chi arriva a commettere questi atti, una sorta di affettività maligna e possessiva che
distorce l’importanza e la visione dell’altro agli occhi dell’assassino riducendo l’unione
ad una simbiosi asfittica ed irrealizzabile9.
Non amore dunque, ma un cocktail letale di fragilità, immaturità e dipendenza alla base
di tali omicidi perché non esiste amore, degno di tale nome, che affermi il proprio diritto
ad esistere attraverso la violenza, l’umiliazione e la costrizione.
8
9
Ibidem.
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16
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CAPITOLO 2
DELITTO AL FEMMINILE: LA DONNA PROTAGONISTA DEL
CRIMINE
2.1 Amore e psicanalisi
Nella dottrina psicanalitica, l’amore è per Freud saldamente ancorato al narcisismo: amo
me stesso nell’altro, tanto che la sopravvalutazione dell’oggetto amato costituisce una
sorta di risarcimento del danno per la perdita della libido legata all’Io.
Svuoto me stesso ma, contemporaneamente, investo l’oggetto amato di quello che in me
stesso amo. L’amore si configura così come una “cecità logica”10, una passione
narcisistica che prevede l’idealizzazione del predetto oggetto, pertanto quando esso
viene meno si scatena la ferita narcisistica ed emerge la componente dell’odio:
l’osservazione clinica ci mostra come l’odio è invariabilmente l’inatteso accompagnatore dell’amore; spesso precorre l’amore nelle relazioni fra gli uomini, ma in qualche
occasione l’odio si trasforma in amore e l’amore in odio (ambivalenza)11.
La matrice narcisistica che determina la scelta amorosa ne delinea dunque anche l’esito
contrario nell’odio che Freud chiama “pulsione di morte”, forza disgregante e
dissolutrice contrapposta a quella di Eros che ha, invece, funzione di sintesi e
riunificazione.
Protagonista di queste, per così dire, anomalie e distorsioni è la donna nella duplice
posizione di donna e madre.
Il versante femminile dell’erotomania si occupa dell’amore, della passione dell’amore e
della passione dell’odio; il delirio erotomane si articola in tre stadi: stadio della
speranza, del dispetto e del rancore. La certezza delirante ordina e comanda il sistema
“non sono io, è lui che ama me”, così l’oggetto di amore si trasforma in oggetto di odio
portatore della colpa di non amare. Il mondo si limita a quella passione, ma non si tratta
10
11
FREUD S., “Introduzione al narcisismo”, in Opere, vol. VII, Boringhieri, Torino, 1975.
FREUD S., “Io e Es”, in Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino, 1977.
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di amore: nell’erotomania c’è il deserto dell’amore e regnano, al contrario, la
pietrificazione e la morte dell’altro.
Ogni donna, per la sua specificità strutturale, mantiene una sua singolarità rispetto
all’universo simbolico che designa l’uomo. La diversità femminile riguarda due
versanti: l’amore e il godimento. Freud considerava il godimento solo in quanto fallico:
per la donna era riconducibile al figlio come oggetto d’amore poiché lui possiede
l’organo che a lei manca, e nel fantasma edipico, è lei la bambina che dona figli al
padre, sostituendo la madre.
Lo psicoanalista francese Lacan individua nella donna un “plus-de- jouissance”, un
godimento particolare, specifico e supplementare che la distingue. Tale godimento in
più è per la donna quoad matrem (in quanto madre) ed è sconosciuto all’uomo; esso non
è legato al sesso di appartenenza del bambino, ma è esteso sia al figlio che alla figlia12.
La donna è più vicina all’essere e, l’essere supremo per eccellenza è il Supremo Amore.
A questo punto la domanda è: è ipotizzabile nella donna una specificità che la
contrassegna anche nel campo del crimine? Esiste una “pousse”, una spinta al crimine in
versione femminile?
2.2 Indagini sul delitto femminile
La spinta al crimine nell’universo femminile esiste: le donne che uccidono
rappresentano il 10-15% della totalità degli assassini; il numero maggiore si registra
negli Stati Uniti (15%).
Come spiegare questi dati?
Innanzi tutto per la mancanza di studi. La maggior parte dei dati sul delitto si sono
concentrati sempre sugli uomini, in quanto ci si basava sull’idea che i maschi sono più
aggressivi, violenti e portati alla criminalità rispetto alle donne; l’atto violento è in
completa antitesi con il delicato, riservato e protettivo ruolo del sesso femminile.
Inoltre gran parte degli studiosi e dei ricercatori e criminologi erano uomini, e quindi è
sempre stato difficile per loro ammettere l’esistenza del crimine femminile.
L’omicidio femminile era considerato un’aberrazione: tradizionalmente le donne non
sono educate all’aggressività bensì alla passività, infatti erano vittime della violenza
12
LACAN J., “Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia, in Scritti, vol. I,
Einaudi, Torino, 1960.
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maschile. Per molto tempo si è ritenuto che la donna fosse incapace di uccidere; il corpo
femminile, predisposto ad accogliere e dare la vita, non poteva essere in grado di
toglierla13.
È chiaro che molte interpretazioni sulla violenza femminile siano state condizionate
dalla proiezione di come si pensava fossero le donne più che su quello che erano, e si è
poco studiato quanto i cambiamenti nelle condizioni sociali abbiano modificato la loro
personalità.
I dati risultano esigui anche per la diversa posizione della donna nella società: lei è
sempre stata meno attiva dell’uomo nelle attività relazionali, ha avuto un ruolo più
appartato e questo ha comportato una minore partecipazione al comportamento
delittuoso perché meno esposta agli stimoli ambientali.
Con questo però non si può dire che aumentando la partecipazione della donna alla vita
sociale ci sia stato un conseguente aumento della criminalità femminile; è quindi
cambiata negli anni la posizione sociale della donna, mentre il ruolo e la sua funzione
specifica di donna di famiglia e nei riguardi dell’uomo è rimasta pressoché immutata.
Si viene poi a parlare di “numero oscuro”. In passato accadeva che le donne uccidevano
utilizzando il veleno, quindi per molto tempo non è stato possibile distinguere i sintomi
da avvelenamento da quelli di una grave intossicazione.
La criminalità femminile viene anche detta “mascherata” o “dietro le quinte” poiché un
comportamento femminile frequente ancora oggi è l’istigazione o il favoreggiamento,
un modo quindi di non esporsi in prima persona. Secondo molti studiosi le donne
commettono lo stesso numero di delitti degli uomini ma vengono raramente scoperti o
perseguiti. Tuttavia se tale cavalleria è esistita in passato, oggi non esiste più: le donne
ricevono le stesse condanne inflitte agli uomini.
Anche l’inferiorità fisica media delle donne avrebbe come effetto psicologico quello di
farle astenere da azioni violente14.
La donna tende a tradurre in senso nevrotico con ansia, depressione e instabilità emotiva
la conflittualità provocata da fattori disturbanti ambientali laddove l’uomo risolve la
tensione con l’azione. La fragilità predisponeva la donna all’astuzia: la sua forza stava
13
14
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nella finzione e nel calcolo, e metteva in opera i suoi misfatti dietro la maschera
dell’innocenza, dell’amore e della pietà.
Per Cesare Lombroso, padre della moderna criminologia, la donna criminale ha
caratteristiche fisiche che la avvicinano agli uomini. Essa riproduce alcuni tratti
maschili e a questi caratteri virili si aggiungono le qualità peggiori della psicologia
femminile: inclinazione alla vendetta, astuzia, crudeltà, menzogna, rancore, inganno.
Egli riteneva che le donne fossero più crudeli dell’uomo e portate ad essere feroci e
vendicative; se lei decide di uccidere è capace di giustificare l’atto a se stessa e ad
inventare una propria moralità.
Utilizzando il metodo antropometrico basato sulla misurazione della struttura corporea,
Lombroso confrontava la struttura corporea dell’uomo e della donna al fine di
dimostrare l’inferiorità di lei come un dogma da cui è necessario partire per postulare
qualsiasi teoria e riflessione riguardante l’universo femminile, nel bene e nel male. Egli
afferma: “in complesso la donna è più infantile dell’uomo: nella statura, nel peso, nella
scarsezza del pelo al volto, nella maggior lunghezza del tronco in rapporto agli arti
inferiori, nel volume e nel peso dei visceri, nella maggior ricchezza di connettivo e di
grasso, nel minor numero e peso specifico dei globuli, nel maggior peso del siero, nella
minor quantità di emoglobina, nel minor peso e volume del cranio, della mandibola e
del cervello; l’infantilismo si estende poi alle funzioni, alla circolazione, al respiro e
alla capacità respiratoria, alla minor quantità di urea, alla forza minore, al maggior
mancinismo, ecc. (...). La sensibilità della donna presenta notevoli differenze da quella
dell’uomo. Già nella conformazione anatomica degli organi esse si accennano.
L’occhio è più piccolo e più a fior di testa; il naso e l’orecchio più corti (...).
La donna quindi non è altro che un uomo arrestato nello sviluppo, è un essere inferiore
fisicamente ma anche intellettualmente e moralmente; le poche donne di genio hanno
caratteristiche maschili, lei non è geniale e se lo è c’è qualcosa che non va. Per lui infatti
“la donna normale ha molti caratteri che l’avvicinano al selvaggio, al fanciullo e
quindi al criminale (irosità, vendetta, gelosia e vanità), e altri diametralmente opposti
che neutralizzano i primi, ma che le impediscono di avvicinarsi nella sua condotta
quanto l’uomo a quell’equilibrio tra diritti e doveri, egoismo e altruismo che è il
termine dell’evoluzione morale”.
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Quest’impossibilità ad evolversi fino all’età adulta era dimostrata mediante l’osservazione di una sessualità passiva e indifferente, tesa unicamente alla gravidanza che
rendeva la donna sposa-madre degna di attenzione15.
Ma la maternità rivela anche la sua negatività: la sopportazione delle doglie e i dolori
connessi al parto dimostrano per lo studioso quanto la donna sia ottusa al dolore così
come sono insensibili i delinquenti nati.
I delitti di cui in prevalenza si macchiavano le donne erano legati alla loro condizione
biologica quali la prostituzione, l’infanticidio, l’aborto o l’adulterio, considerato reato in
Italia solo se commesso dalla moglie in quanto comportamento abnorme da parte di un
essere naturalmente frigido e monogamico: “essendo la donna naturalmente e
organicamente monogama e frigida, si comprende come le leggi dell’adulterio abbiano
colpito la donna in quasi tutti i popoli, e non l’uomo, che troppe volte vi si doveva
sottrarre; e si spiega, se non giustifica, l’eterna ingiustizia con cui la legge ed il
costume trattano la donna ad eguale condizione, in confronto dell’uomo, nei rapporti
patrimoniale. È inutile ricordare che quello che non è nemmeno una contravvenzione
nel maschio, nella donna è un crimine gravissimo”.
Non meraviglia allora che l’inferiorità statistica della criminalità femminile venisse
interpretata come la conseguenza logica di alcune caratteristiche bio-psichiche date per
certe: debolezza, scarsa coscienza e incapacità di scelta.
Nei casi rari che vedevano una donna autrice di reato, la spiegazione era affidata alla
presenza di una qualche patologia, ad un’alterazione della personalità o ad una tendenza
mascolina a cui consegue la perdita o la diminuzione della fertilità.
Per Lombroso, in conclusione, la donna normale è una “semicriminaloide innocua” ma
più criminale dell’uomo normale perché più atavica, meno differenziata e meno evoluta;
la prostituta è una regressione della donna normale; infine la donna criminale è
incomprensibile, è un mostro: mostruosità e malvagia sono categorie non razionalizzabili, non riconducibili a spiegazione, sono soltanto disordine e caos.
Uno studio compiuto nella metà del 900 rilevò che l’84% dei crimini violenti commessi
dalle donne avvenivano durante il periodo premestruale e mestruale: la sindrome
premestruale infatti comporta depressione, irritazione e ostilità nella donna e la rende
quindi più aggressiva.
15
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Ma i tempi sono cambiati e vi è stata un’evoluzione del delitto femminile. I delitti
commessi dalle donne cambiano con la loro emancipazione: l’omicidio non è più la via
di fuga per la donna che vuole sfuggire ad un padre autoritario o perché costretta dalla
famiglia a sposare uno sconosciuto16.
Oggi le motivazioni alla base del crimine femminile somigliano sempre di più a quelle
maschili; le donne infatti uccidono per rabbia, rivalità, gelosia ed impulso e con gli
stessi mezzi, pistola e coltello.
2.3 Perché e come uccidono le donne
I motivi dei delitti commessi dalle donne di solito sono state le grandi passioni.
Per amore di un uomo uccidevano il padre tiranno o il marito, per vendetta e odio
riversavano la loro collera sull’amante che le tradiva o le abbandonava. La donna era
pienamente consapevole delle conseguenze penali a cui andava incontro se scoperta ma
non rinunciava, la passione era più forte di qualsiasi altra cosa; preferiva l’idea della
morte all’idea della rinuncia.
Il racconto della vita delle donne omicide dimostra che gran parte di loro non sono
affatto donne comuni, alcune hanno avuto un’infanzia drammatica, altre hanno ucciso
perché provocate per lungo tempo, altre ancora soffrivano di sdoppiamento della
personalità o ancora erano succubi di passioni indomabili.
Non essendo forti come gli uomini, le donne hanno dovuto ricorrere a maniere di
uccidere più originali e tortuose; l’arma preferita era il veleno.
L’arsenico è un elemento chimico diffuso in natura, di solito associato a minerali
metalliferi: esso veniva mescolato alla minestra o versato nel caffè, impossibile
distinguerne il gusto se la bevanda è calda. Utilizzato in grandi dosi uccide in qualche
ora ma i dolori sono terribili; la vittima soffre di mal di stomaco e dissenteria, è piegato
in due da intense convulsioni e a volte gli si paralizzano gli arti. Oggi l’arsenico non si
trova più così facilmente, ed al suo posto si usa il cianuro.
Nel consumare un omicidio, le donne criminali tendevano ad usare una minore forza
fisica; difficilmente la donna affrontava direttamente la sua vittima in uno scontro alla
16
Ibidem.
22
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pari, ad esempio erano meno inclini degli uomini assassini a colpire ripetutamente la
vittima per provocarne la morte. Ecco perché utilizzavano metodi per così dire più
distanti.
Se prima uccidevano con il veleno, oggi usano anche la pistola o il coltello e spesso si
accaniscono con efferatezza sul corpo della vittima, soprattutto quando è la passione che
si amalgama nell’anima ad armare la mano della donna, al culmine della disperazione.
2.4 Chi uccidono
Le donne uccidono soprattutto membri della loro famiglia.
Il godimento supplementare identifica la madre nel suo rapporto con il figlio, la pone in
questa posizione particolare che connota strutturalmente la sua specificità di donna; ma
insieme alla passione d’amore che ordina la relazione con il figlio, si annida quella
dell’odio che può manifestarsi in modo feroce e violento. Ed ecco che diventano “madri
che uccidono”.
I crimini verso i figli hanno diverse motivazioni e si possono così distinguere:
1. delitti contro i figli per colpire l’uomo;
2. delitti contro i figli che trovano la loro origine in una posizione narcisistica;
3. delitti contro i figli messi in atto per il disgusto della vita.
Uccidere il proprio figlio per colpire il padre è la motivazione più diffusa e comune. Si
tratta di donne tradite, deluse nelle loro attese d’amore che colpiscono il figlio per
colpire l’uomo nella sua funzione di trasmettere la vita. Nel delirio dell’odio, questa
appare la vendetta più raffinata17.
Appartengono alla seconda categoria quei delitti, purtroppo così numerosi ai nostri
giorni, motivati dalla mancanza di un’identificazione immaginaria narcisistica tra figlio
e madre: le vittime sono figli che nelle loro inadeguatezze fisiche o psichiche tradiscono
e svelano le carenze della madre. È il caso di madri che non possono, non vogliono
riconoscersi in un figlio diverso da come lo avrebbero voluto, di un figlio che marchia
con l’impurità della sua presenza, con la colpa della malattia la vita della madre. In
17
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23
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questi casi la donna è ferita, oltraggiata nel proprio narcisismo e non sopporta la vista
del figlio come riproduzione inaccettabile e distorta della sua immagine18.
Attualmente tali delitti sono abbastanza frequenti e trovano, nella comune opinione, se
non una giustificazione almeno una certa comprensione.
La terza categoria infine vede madri avvolte e prese dalla malinconia che, prede del loro
delirio, compiono il crimine contro se stesse e contro il figlio. Spesso il delitto avviene
in modo repentino, la madre ad esempio si butta dalla finestra insieme al bambino in
modo così rapido che nessuno può fermarla. Esse stabiliscono che la sorte migliore per
il figlio sia quella della morte.
In merito ai crimini compiuti sui bambini giuridicamente si distingue l’infanticidio,
quando l’atto è compiuto su un bambino appena nato, ed il
figlicidio, quando il
bambino è uscito dalla fase delle prime ore dopo il parto in cui è ancora neonato.
Tratto comune a tutte queste madri che compiono tale gesto inspiegabile è la negazione
dello stesso: quel momento decisivo e tragico non può essere assimilato dalla memoria
poiché essa impedirebbe la continuazione della vita e perfino della sopravvivenza, la
sola cosa da fare è respingerlo e relegarlo nel fondo cieco della follia per eliminarne
l’orrore19.
Accade poi che siano le figlie ad uccidere, in particolare i padri. Quei padri che ripetutamente e per tanti anni hanno abusato di loro e quindi l’omicidio e la loro distruzione
rappresentano l’estremo tentativo di sottrarsi alla violenza sessuale.
Talvolta poi le figlie uccidono il padre come emblema di un potere vuoto, di norme e
consuetudini che esse non accettano più; oppure uccidono un padre colpevole di non
reggere con sufficiente credibilità la scena o un padre inconsistente e prepotente20.
Da recenti studi emerge che il nucleo scatenante dell’uccisione del padre attualmente è
l’eliminazione dell’uomo che blocca e ostacola la relazione madre-figlia: la figlia ama
sua madre e vuole difenderla dal padre per averla tutta per sé.
Se la famiglia è l’ambito del crimine che la donna predilige, è noto che la sua passione
omicida si scateni molto frequentemente sul suo uomo, marito o amante che sia. La
maggior parte dei crimini commessi da donne sono infatti crimini da letto.
18
KANTZA’ G., Come uccidono le donne. Una lettura psicoanalitica, Edizioni Magi, Roma, 2005.
COSNIER J., Destini della femminilità, Borla, Roma, 1990.
20
KANTZA’ G., op cit.
19
24
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In passato come oggi le donne uccidevano i mariti violenti, mariti che non avevano
scelto, che le trascuravano, che trascorrevano la giornata fuori di casa e che pretendevano da loro fedeltà e abnegazione; esse erano considerate pazze, isteriche o in preda a
qualche tensione mestruale.
Spesso le donne uccidevano i mariti imposti dalla famiglia quando amavano un altro
uomo: poteva essere un precedente fidanzato oppure qualcuno conosciuto dopo il
matrimonio. Certi matrimoni inscindibili portavano necessariamente al delitto come
unica via d’uscita21.
La vendetta può anche riversarsi nei confronti dell’amante; l’abbandono non
rappresenta soltanto la perdita dell’oggetto amato, ma il disprezzo dell’amante e
l’umiliazione agli occhi di tutti. La morte della persona amata è per la donna meno
crudele dell’abbandono, che riassume tutte le sofferenze morali: perdita dell’amore,
disprezzo della sua bellezza, preferenza accordata ad una rivale, timore di vedere la
rivale ridere del proprio dolore. Per la donna delusa nella sua passione l’omicidio appare
un prezzo modesto da pagare per la sua libertà poiché la passione coinvolge la sua intera
vita.
Dal versante maschile, il delirio di gelosia è attestato sull’asse dell’avere, teso alla
difesa dell’oggetto da preservare, la donna appunto, da ogni inopportuno contatto; esso
vede l’organizzazione e lo sviluppo degli inganni, delle trame che, nonostante i
controlli, la donna può mettere in atto con subdola sagacia.
Sul versante femminile invece la gelosia delirante è indirizzata all’altra donna vista
come rivale, come l’altra: è lei che interessa, lei ritenuta come manipolatrice dell’uomo
che, incapace di scegliere, si fa scegliere. La sfida mortale è con l’altra, essendo l’uomo
solo la posta in gioco apparente22.
La gelosia è un sentimento che parte dall'idea che ciò che io ho di più "caro" potrei, da
un momento all'altro, perdere; essa si lega al concetto di possessività, alla possibile
perdita di ciò che si ritiene proprio. Entrambi i sentimenti pretendono l' "altro", vogliono
la sua presenza in termini esclusivi e personali: pretendere l'altro perché lo si considera
un "oggetto" piuttosto che un "soggetto". Spesso chi ne è affetto manifesta la sua
21
22
KAISER G.., Criminologia, Giuffrè, Milano, 1985.
NIKLES C.C., DUBEC M., Crimini e sentimenti, Il Saggiatore, Milano, 1994.
25
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gelosia in assenza di qualunque fatto, di qualunque circostanza che possa giustificare un
vissuto del genere.
Nella gelosia è presente una o entrambe delle seguenti componenti:

paura dell'abbandono, della perdita, della separazione, di ciò che si ritiene
proprio e necessario al proprio benessere;

gelosia ed invidia dell'altro che potrebbe condividere ciò che è nostro; gelosia
delle caratteristiche che il rivale ha e noi non abbiamo. In questo caso la gelosia
non è rivolta tanto al proprio partner ma è gelosia del terzo e quindi si muove ai
confini dell'invidia.
E' importante distinguere fra gelosia "normale" e gelosia "patologica".
La gelosia normale è inseparabile dal'amore per il partner, ed è sempre presente a livelli
accettabili, anzi se non ci fosse si potrebbe addirittura dubitare se è vero amore; inoltre
serve a far sentire l'amato veramente amato perché attraverso la gelosia manifestiamo la
paura di perderlo. Invece si parla di gelosia "patologica" quando essa assume le seguenti
caratteristiche:

paura irrazionale dell’abbandono e tristezza per la possibile perdita;

sospettosità per ogni comportamento relazionale del partner verso persone
dell'altro sesso;

controllo di ogni comportamento dell' "altro";

invidia ed aggressività verso i possibili rivali;

aggressività persecutoria verso il partner;

sensazione d' inadeguatezza e scarsa autostima di noi stessi.
La gelosia, quella patologica, è dunque il timore di perdere qualche cosa che si ritiene
essenziale per il proprio benessere e che di questo qualcosa, che si ritiene essenziale,
altri possano impossessarsene. Essa si manifesta anche in assenza di qualsiasi motivo
valido. Spesso proprio la gelosia è in alcuni casi la causa della rottura di una relazione.
Anzi si teme tanto che una relazione possa finire che, senza volerlo, la si fa finire per
davvero.
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La gelosia patologica prende origine da sospetti o circostanze infondate, affondando la
sua vera natura in un'angoscia che prende forma nella mente senza nessun riscontro
nella realtà. Quest'angoscia produce delle vere e proprie rappresentazioni mentali in cui
si "costruisce" il "rivale" e le "prove d'infedeltà" e la realtà effettiva viene interpretata
erroneamente23.
La gelosia patologica, il più delle volte, affonda le sue origini nell'infanzia in una cattiva
relazione che il geloso ha instaurato con i propri genitori: quest'ultimi non hanno
adeguatamente rinforzato il bambino nella fiducia per sé stesso e nell'autostima
contribuendo così a determinare un adulto geloso perché non conscio delle sue
possibilità e del suo valore, profondamente insicuro. Ciò porta a pensare che il proprio
partner potrebbe amare un altro perché più degno, a non essere sicuro del suo amore.
Ma la gelosia patologica può tradire anche un desiderio di possesso assoluto del partner.
Ciò avviene, anche in questo caso, per una cattiva relazione affettiva costruita con i
propri genitori, sopratutto quello di sesso opposto: c'è la presenza di un'affettività che
non ha trovato corresponsione durante l'infanzia e si pensa di riscattarla da adulti,
attraverso il possesso assoluto dell'altro.
Freud afferma che la gelosia è inevitabile e assidua compagna dell’amore: anch’egli
distingue quella normale, che ben conoscono gli innamorati mai tranquilli per la sorte
dell’amato, dal delirio proprio della psicosi. Se nella prima l’insidia è data dalla
presenza dell’altro e dall’interesse che ne può derivare, e gli innamorati sanno che è un
nonnulla a muovere il gioco, nella seconda non è l’altro ma il Grande Altro, il nemico
che trama, organizza e spia ad avere il comando.
La gelosia normale si manifesta principalmente con dolore, ansia, angoscia, causati dal
vissuto cognitivo-emotivo di aver perduto la persona amata, da sentimenti ostili verso il
rivale, da un atteggiamento autocritico volto ad attribuire a sé stessi la responsabilità
della perdita affettiva e dalla ferita narcisistica.
La gelosia delirante è determinata da tendenze al tradimento che sono state rimosse ma
gli oggetti di queste fantasie sono dello stesso sesso del soggetto che le pone in essere.
Per Freud la gelosia delirante corrisponde ad una forma di omosessualità latente che
preme per manifestarsi. Come tentativo di difesa contro un impulso omosessuale troppo
23
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forte essa può essere descritta mediante la formula: “Non sono io che lo amo è Lei che
lo ama”. E' come se oggetto della gelosia diventasse l'altro, il rivale o la rivale.
Fra questi due tipi di gelosia esiste uno stacco profondo: nella prima l’altro amato
mantiene la sua soggettività per l’amante geloso, è insomma costituito e accettato in
quanto altro da sé, mentre nella seconda la minaccia e il pericolo provengono dalla
soggettività negata all’altro, come a dire che è l’altro in quanto tale ad essere oggetto di
odio e di gelosia per il suo essere comunque sfuggente e refrattario al soggetto geloso24.
Vi è poi un altro tipo di gelosia, quella proiettata.
La gelosia proiettata proviene, per entrambi i sessi, dai tradimenti già esperiti nel corso
della vita affettiva o da spinte inconsce verso il tradimento.
Nei rapporti di coppia bisogna resistere a continue tentazioni per evitare di tradire. Colui
che avverte in sé 1'esistenza di queste tentazioni attuerà un meccanismo inconscio per
alleviare il proprio disagio: proietterà sull'altro le proprie tendenze al tradimento.
Il vero obiettivo di quando una donna ammazza un uomo quindi è la donna che è dietro
di lui, “cherchez la femme”; ucciderlo mirando all’altra che lui occupa, per impadronirsi
del segreto che la fa donna. Perché le donne amano, e per loro tutto ruota intorno a
quell’amore25.
Fin dall’adolescenza, le ragazze mostrano il desiderio di essere ammirate, di avere lo
sguardo puntato su di loro che come un faro le illumina, le isola da tutte le altre: è lo
sguardo che riconosce ognuna di loro unica, diversa.
Il desiderio di ammirazione non termina con l’adolescenza, ma accompagna la donna
per tutta la sua vita: quello sguardo è un gioco di completezza, lei esiste ed è l’oggetto
del desiderio dell’altro. A volte pur vedendo chiaramente l’inconsistenza dell’altro
vanno avanti e perseverano perché lo hanno costruito con dedizione e sacrificio; hanno
lavorato, vivendo per l’altro, chiedendo l’amore che non c’è stato. Ma gli uomini in
quanto a dare amore sono sempre restii… Meritano una punizione perché colpevoli di
indifferenza.
Ecco allora che il delitto contro gli uomini mantiene integra e rappresenta la ribellione
alla miseria in cui la donna si trova e chiede, con la disperazione definitiva dell’atto, che
infine almeno uno la ami.
24
25
Ibidem.
KANTZA’ G., op. cit.
28
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2.5 La donna serial killer
La definizione di serial killer26, applicata in senso stretto, non appare adattarsi molto
alle donne: ciò è dovuto in primo luogo da differenti tipologie di vittime, di moventi, di
modalità d’azione.
Per comprendere tali differenze si è abbandonata la convinzione che l’uomo sia più
aggressivo e violento, per seguire due linee di studio ben separate l’una dall’altra.
La prima attribuisce la predisposizione ad un comportamento più aggressivo ad
anormali livelli di testosterone e di altri ormoni come estrogeni e progesterone, o
rilevati durante la vita dell’assassina od assunti per esposizione intrauterina del feto.
L’altra linea di studio invece riguarda la prospettiva dell’apprendimento sociale: in altre
parole il profilo della serial killer donna sarebbe profondamente condizionato da quelli
che sono i modelli culturali trasmessi dalla tradizione, dai genitori dai media ecc… E
sono proprio questi modelli a darci un immagine di violenza che meglio si adatta al
maschio.
Inoltre, al di là dagli aspetti culturali e biologici appena riportati, è da tenere in
considerazione l’aspetto psicologico.
Analizzando quest’ultimo, infatti, si è scoperto due realtà importanti: la prima riguarda
la maggiore capacità della donna di elaborare con rapidità, in situazioni critiche,
strategie che non implichino l’uso della violenza; il secondo riguarda la diversa risposta
da uomo a donna ad una violenza subita nell’infanzia: l’uomo tende per lo più
a scaricare le esperienze traumatiche all’esterno, diventando a sua volta violento, mentre
la donna è più predisposta a rivolgere verso di sé la rabbia e la colpa con comportamenti
autolesivi quali la prostituzione, la tossicodipendenza, se non addirittura il suicidio27.
Le serial killer donne si classificano in:
 le vedove nere, che iniziano di solito la loro carriera criminale dopo i 25 anni
uccidendo mariti, partner, familiari, ma anche persone con le quali hanno
sviluppato un rapporto di conoscenza diretta. Di solito colpiscono 10-15 anni
prima di essere identificate, con un numero di vittime che oscilla da 6 a 8.
26
27
Con il termine si intende un omicida plurimo, di natura compulsiva, che uccide con una certa regolarità
nel tempo e un caratterisitico modus operandi, persone spesso a lui totalmente estranee.
La natura compulsiva dell'azione, in genere del tutto priva di movente, è spesso legata a traumi nella
sfera emotiva e/o sessuale.
www.convivere.eu/criminologia
29
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L’arma preferita è il veleno, che viene utilizzato con accortezza, in modo da
indurre sintomi riconducibili a malattie diagnosticabili.
Il successo conduce l’assassina a impossessarsi dei beni della vittima, oppure a
incassare i premi assicurativi previsti;
 gli angeli della morte, che iniziano ad uccidere solitamente poco dopo i
vent’anni in luoghi dove la morte costituisce un evento naturale: ospedali
cliniche case di riposo. Qui l’omicidio può facilmente essere occultato e
l’assassino può sperimentare il potere di decidere a chi concedere la vita o dare
la morte: è sufficiente aggiungere un farmaco in terapia, raddoppiarne la dose,
interrompere il flusso di ossigeno.
Una sciagurata inclinazione a vantarsi della propria onnipotenza conduce gli
angeli della morte ad una “breve carriera”: uno, due anni con un numero di
vittime intorno a 8; l’identificazione appare più difficile nel caso di assassine
mobili, capaci di licenziarsi per essere poi riassunte in altre strutture sanitarie: in
questo caso il numero di omicidi può raddoppiare;
 le predatrici sessuali, le quali rappresentano una situazione estremamente rara;
come il loro corrispettivo maschile, nel momento in cui iniziano a uccidere
hanno un età compresa tra i 30 e i 50 anni, sono geograficamente mobili e
agiscono sotto la spinta di fantasie compulsive di tipo sadico-sessuale; in tre
anni di carriera criminale media sono responsabili della morte di almeno sei
innocenti;
 le assassine per vendetta, donne che uccidono ripetutamente motivate da un
sentimento di vendetta sono rare, più facilmente esse colpiscono una sola volta.
Ciò che rende particolare la figura delle vendicatrici è la “qualità” della rabbia,
un’ostilità profonda e diffusa, al confine con la patologia, sono affascinate da
una sorta di ossessiva attrazione per le qualità più oscure della vendetta e
uccidono senza alcun periodo di raffreddamento emozionale fra un delitto e il
successivo.
Negli studi epidemiologici questo genere di serial killer comincia la sua carriera
criminale a un’età di circa 22 anni e colpisce sia membri della propria famiglia
sia soggetti identificati simbolicamente con un contesto che l’ha danneggiato,
maltrattato o umiliato.
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Tre o quattro sono le vittime in un periodo di due anni, sebbene in alcuni casi ne
trascorrano anche cinque prima dell’identificazione e della cattura. Benché le
vendicatrici siano sufficientemente capaci di controllare le emozioni per
condurre in porto con successo i proprio criminali propositi, talvolta si rivelano
poco accorte e capaci di un accurata pianificazione; paradossalmente, quando
vengono catturate, possono mostrare un profondo rimorso per i loro crimini in
un tentativo di compensazione per l’intensità della loro ostilità;
 le assassine per profitto, assassine intelligenti capaci di pianificazione e abili
nell’esecuzione dei delitti, come pure nell’evitare l’identificazione e l’arresto.
Possono essere assunte come serial killer a contratto, per eliminare il coniuge,
rivali in affari, familiari con ricche polizze assicurative.
Iniziano ad uccidere dai 25 ai 30 anni, la loro carriera può durare un decennio o
anche di più, e non sempre si conclude con la cattura; utilizzano un’ampia
varietà di mezzi lesivi per uccidere e l’omicidio avviene in un contesto di totale
indifferenza per la vittima;
 killer team, che rappresentano circa un terzo delle donne serial killer, e possono
uccidere in complicità con un uomo, con una donna, oppure fare parte di un vero
e proprio team familiare.
La coppia uomo-donna è certamente la più comune e gli omicidi sono tipicamente di natura sessuale; la donna ha circa 20 anni e la carriera criminale dura
uno o due anni al massimo. Nel caso in cui siano due donne a costituire un team,
l’età media è di circa 25 anni è l’attività omicida è più prolungata, dai due ai
quattro anni.
Il team familiare ha una vita più breve, meno di un anno e la componente
femminile è più giovane; non vi è un mezzo lesivo preferito e l’età della vittima
varia mediamente dai 9 ai 15 anni;
 le assassine mentalmente disturbate. Raramente nell’omicidio seriale viene
riconosciuta la presenza di un disturbo psichiatrico di importanza tale da
compromettere totalmente la capacità di intendere e di volere dell’assassino.
Sono solitamente i legali degli angeli della morte che propongono una strategia
difensiva sul concetto di “insanity”; ciò tuttavia non esclude che il serial killer,
in alcuni casi, possa effettivamente essere affetto da una grave malattia mentale;
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 le assassine spinte da movente incomprensibile, che sono serial killer che
agiscono senza alcun motivo decifrabile; né loro stesse né le autorità inquirenti
riescono a dare spiegazione comprensibile delle loro azioni28.
Dobbiamo ora prendere in considerazione anche i tipi di armi che la donna usa per
commettere i suoi omicidi e la differenza che vi è con il collega uomo.
Analizzando i vari casi di omicidio seriale al femminile ne scaturisce che sono rari gli
episodi di strangolamento, percosse, uso di armi bianche e quindi metodi che implicano
un contatto fisico con la vittima, metodi del tutto regolari per il Serial Killer uomo: per
lui hanno un valore simbolico. Al contrario la donna serial killer usa in particolar
modo i veleni.
Il veleno è un metodo discreto che alcune volte non lascia tracce e fa dedurre che la
morte della vittima sia dovuta a cause naturali. Nell’ambito ospedaliero le armi
utilizzate possono essere le più svariate: dalle iniezioni di aria in vena all’uso di farmaci
vari, alcuni dei quali miscelati possono dar origine ad una morte che poi sembra del
tutto naturale.
Tuttavia studi effettuati da alcuni esperti nel campo dell’omicidio seriale mettono in
evidenza il fatto che le Donne Serial killer analizzate hanno molte caratteristiche in
comune con gli uomini:
 Anche loro, come i loro colleghi maschi, sono cresciute in famiglie
“problematiche” e quasi tutte hanno subito violenze di ogni tipo, sin
dall’infanzia.
 Un’altra caratteristica è la sessualità precoce accompagnata da una forte
aggressività e bisogno di dominare.
 La maggior parte di loro si sentono brutte, grasse e rifiutate; hanno un’autostima
praticamente nulla e come conseguenza abbiamo un odio verso tutto il mondo
che la circonda. La donna entra in forte depressione e in alcuni casi molte di loro
soffrono di psicosi.
 Uccidono, indifferentemente, vittime di sesso maschile, femminile e in casi
particolari anche bambini, se non i loro stessi figli. Nella maggior parte dei casi
28
Ibidem.
32
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comunque uccidono persone con cui hanno un legame di tipo parentale o
comunque affettivo.
 Usano le armi più svariate, ma la donna serial killer è famosa per lo scaltro uso
dei veleni ed è proprio grazie all’uso di queste sostanze che le donne uccidono
per un periodo molto più lungo rispetto ai maschi. Somministrano il veleno in
quantità minime per un periodo più o meno lungo che fa pensare a “morte per
cause naturali”.
 Ultima caratteristica, ma non meno importante, è il fatto che le Donne Serial
Killer sono molto meno numerose dei Serial Killer Uomini, ma sono molto più
pericolose degli stessi: riescono a manovrare e manipolare le persone in modo
eccellente forse perché, come già accennato prima, per la società è difficile
pensare ad una donna come assassina senza scrupoli.
Le assassine seriali uccidono per un periodo molto lungo rispetto gli assassini
maschi, e questo perché nella maggior parte dei casi usa furbizia e in particolare,
la maggior parte delle donne, usa il veleno come arma del delitto29.
Lo studioso Schurman-Kauflin per capire la formazione di una Donna Serial Killer
sostiene che si devono prendere in considerazione 3 elementi: abbandono, instabilità e
abuso.
Per quanto riguarda l’abbandono la donna ancora più dell’uomo risente e soffre per la
mancanza di affetto e attenzioni da parte della famiglia.
L’abbandono da parte di entrambi o di uno dei genitori durante l’infanzia o
l’adolescenza porta l’autodistruzione della Futura Serial Killer: lei si chiuderà in sé
stessa pervadendosi di rabbia, solitudine e tanta sofferenza e rancore, il che porterà a
una crescita dell’empatia praticamente nulla. Nelle storie di vita di molte assassine,
quando mancano come punto di riferimento i genitori, loro tendono a legare in modo
particolare con i fratelli o sorelle, manifestando però un sentimento “bipolare”: da una
parte loro diventeranno i loro confidenti di fiducia e dell’altra proverà un tale odio da
concretizzarsi infine in giochi crudeli e violenti.
Un altro elemento è quello dell’instabilità del nucleo familiare, che porterà
all’incapacità di restare a lungo nello stesso posto.
29
www.profiling.it/crimineseriale
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Ma il vero fattore che assume un’importanza fondamentale nella formazione della
personalità dell’assassina è l’abuso: durante l’infanzia la maggior parte di loro ha subito
violenze di ogni tipo da parte di parenti ed estranei e ciò, insieme ad instabilità e
abbandono, porta la Futura Serial Killer a covare rabbia crescente verso il mondo e una
totale mancanza di fiducia verso gli uomini e alle relazioni sentimentali; motivo per cui
la maggior parte delle volte le vittime sono proprio amanti, mariti o parenti in genere,
persone verso cui non prova nessun tipo di sentimento.
Tutti gli essere viventi sono sempre alla ricerca del potere e questo ovviamente vale
anche per la donna, da sempre sottomessa e privata di ogni tipo di potere decisionale.
Quando una bambina inizia a subire le sue prime violenze, queste la portano a sentirsi
indifesa e priva di potere: nell’animo della bambina e poi crescendo nella ragazza sorge
tanta rabbia, e nella sua mente vagano i ricordi di ciò che ha subito non riuscendo ad
elaborare il dolore.
Con l’aumentare della rabbia ella fantastica su una vita impregnata dalla violenza e poi
dall’omicidio, anche se ancora non esiste una vittima precisa nella sua mente. Le
fantasie diventano sempre più specifiche e la donna serial killer, a differenza dell’uomo,
tende a considerare come possibili vittime le persone che le stanno più vicino.
Questa serie di fasi può essere schematizzata secondo Schurman-Kouflin nel
c.d. Effetto Tornado:
MANCANZA DI POTERE  RABBIA  PENSIERI VIOLENTI  VIOLENZA
 PENSIERI VIOLENTI  OMICIDIO
Per lui la mente di ogni donna serial killer percorre ogni fase del ciclo e, quando esso si
conclude con l’omicidio, è pronto a ricominciare proprio come fanno i tornado che
diventano sempre più violenti.
Anche per ciò che concerne la scelta dei luoghi sussistono delle differenze tra i serial
killer maschi e femmine30.
La metà degli uomini sceglie come luogo per i suoi omicidi un posto che conosce bene,
ad esempio il luogo in cui è cresciuto; l’altra metà sono i così detti Serial
Killer Intineranti, quindi non si trovano mai nello stesso luogo.
30
Ibidem.
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Le donne serial killer, contrariamente al collega uomo, tendono ad uccidere sempre
nello stesso luogo, e forse questa differenza è dovuta dal fatto che la vita femminile gira
intorno alla casa e alla famiglia e raramente hanno un lavoro che permetta frequenti
spostamenti, fatta eccezione per le donne che agiscono in coppia con un uomo o in
gruppo (queste uccidono spostandosi, per seguire il partner o il gruppo).
Infine altre differenze si rilevano fra omicidio seriale al femminile e omicidio seriale al
maschile:
 L’uomo inizia la sua carriera delittuosa fra i 20-30 anni, mentre la donna fra i
30-40 anni.
 Il serial killer uomo adora rendere impotenti le loro vittime per poi dominare su
di loro. Mentre la collega femmina sceglie di già vittime deboli e indifese
(bambini, anziani, malati).
 Il serial killer uomo si eccita alla vista del sangue ed esegue riti al cadavere
(necrofilia). La donna non si eccita alla vista del sangue e non è necrofila.
 L’uomo tende sempre a sfidare la polizia e cerca di seguire le indagini, cose che
la donna non fa.
 L’uomo non riesce a mantenere a lungo il suo lavoro, mentre tutto il contrario
avviene nell’omicida donna.
 L’uomo nella sua adolescenza tendeva a essere violento, mentre la donna invece
tendeva a fuggire di casa.
 L’omicida uomo, nel periodo evolutivo, era sessualmente inattivo; al contrario la
collega donna ha una sessualità precoce e marcata.
Non è usuale pensare che una donna possa arrivare a compiere delitti così efferati e
crudeli; tuttavia occorre ricordare che “il rosa non è altro che un rosso sangue sbiadito
da troppi lavaggi”.
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CAPITOLO 3
CASO PRATICO: L’ASSASSINIO DEL GIOVANE AMANTE
3.1 Intervista ad Adele M.
“Amare un uomo più giovane è una passione assoluta”: è con questa affermazione che
apre l’intervista Adele M., nata a Gioia del Colle (BA) il 09/10/1949, responsabile
dell’omicidio del suo amante Giuseppe D. M.
Adele si è sposata giovanissima, all’età di 17 anni e mezzo, con un uomo che i suoi
genitori non volevano diventasse suo marito. Lei racconta che il marito Francesco, un
giorno, la mandò a chiamare tramite la cugina, la mise in macchina e la portò “dove
voleva lui, la classica fuitina”. Dopo un mese decidono di sposarsi, lui aveva 23 anni ed
era militare.
La donna dichiara che il suo non fu un matrimonio romantico, ma solo incentrato sul
sesso (“non ero una moglie felice”, afferma); i due infatti litigavano spesso, Francesco
la trascurava e la lasciava sempre da sola per andare a lavorare in campagna dalla
madre. Dalla loro unione sono nati 4 figli.
Francesco era un tipo apprensivo, non voleva che Adele uscisse da sola e che si vestisse
bene, in maniera ricercata. Egli però non voleva mai uscire, lei voleva uscire in giro con
lui ma egli diceva che era stanco o che non si sentiva bene.
A Gioia del Colle, paese dove vive, Adele ci dice che era molto corteggiata e, quindi,
oggetto di chiacchiere: le piaceva indossare abiti provocanti (gonne attillate, tacchi a
spillo, scollature profonde), ma il suo intento non era finalizzato a provocare nessuno.
Nel 1999 Adele ebbe un incontro fatale: il ragazzo era Giuseppe D. M., 26 anni, che
appena la vide le disse “voglio solo te”. Ed è così che tutto cominciò.
I due si conobbero un martedì mentre lei andava al mercato; “lui mi guardava” racconta
Adele, “ma io non sapevo chi fosse”.
Un giorno la donna riceve una telefonata in cui il ragazzo si presenta, dicendole che
vive a Gioia del Colle con i genitori e che ha un fratello sposato a Santeramo.
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Lei piuttosto infastidita risponde: “Non mi interessi, chi ti ha dato il mio numero”? e lui
le confessa di averla seguita fino a casa e poi tramite la via ha cercato il numero di
telefono sull’elenco telefonico. Giuseppe le ha telefonato ininterrottamente per sei mesi,
alla fine lei decide di incontrarlo per dirgli in faccia di lasciarla stare.
“Appena lo vedo non mi piace, era robusto e cicciottello” ci manifesta, “poi
frequentandolo mi innamoro veramente di lui, non solo per sesso”. Gli incontri tra i due
amanti avvenivano a Gioia del Colle in una stradina, dopo che facevano un giro. Adele
gli disse più volte di non telefonarle più, che era felicemente sposata con 4 figli, ma non
disse la verità. Ma Giuseppe non demorde, continua a chiamarla e le chiede di vedersi di
nuovo. Adele dice di essere combattuta se andare o meno ma alla fine “andai, non so
perché, forse mi attirava la sua voce. E poi i suoi occhi mi colpirono tanto”!
Per lei la differenza di età era un problema, lo invitò varie volte a trovarsi una della sua
età, ma per lui gli anni non contavano; le disse: “mi piaci tu, è con te che voglio stare”.
Queste sue parole, il modo in cui le diceva facevano sentire Adele importante.
Giuseppe le vuole davvero bene e anche lei a lui, altrimenti non si sarebbe messa con
lui; egli la faceva sentire una ragazzina.
Dopo sei mesi di frequentazione, in cui non è mai successo nulla (“parlavamo,
uscivamo, ma niente sesso, io volevo essere sicura dei sentimenti che provavo”) fanno
l’amore per la prima volta: per Adele è stata un’emozione forte tanto che si mise a
piangere; provò qualcosa che non aveva mai provato prima. Una volta rientrata a casa
viveva dentro di sé un conflitto interiore: era felice per le emozioni provate con
Giuseppe, ma aveva un profondo senso di colpa per aver tradito il marito.
Adele era ossessionata dall’idea della differenza di età (23 anni) ma lui le diceva che
“pensava ad avere M., lui amava Adele, non l’età che avevo”. Adele non era gelosa di
lui, non vedeva rivali; lui invece era geloso di lei. I due andavano molto d’accordo,
avevano gli stessi gusti e la pensavano nello stesso modo. “Mi dava una gioia immensa,
mi rispettava, eravamo una cosa sola” asserisce Adele.
Giuseppe aveva un’azienda agricola di famiglia e lì lavorava.
Una sera, dopo mezzanotte, il marito Francesco non la trova a casa e, preoccupato,
decide di aspettarla giù in strada. Quando Giuseppe la accompagnò sotto casa lo vide e,
spaventato, tirò Adele a sé e scapparono in macchina; Francesco li seguì per un tratto in
bici, poi li perse.
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Il giorno dopo, una volta rientrata a casa, Adele ci racconta che fece i conti con il
marito, litigarono e lui le chiese chi fosse il ragazzo con cui stava; poi le disse “da qui
ora tu non esci più”. Lei lo tranquillizzò sostenendo che era uscita con un amico, che
aveva fatto una pazzia. Adele raccontò l’accaduto a Giuseppe che le consigliò di parlare
lealmente al marito.
Adele ci racconta che una volta Giuseppe litigò con il figlio maggiore di lei, Donato,
che li aveva pizzicati insieme: gli intimò di lasciare stare in pace sua madre.
La situazione si faceva sempre più complicata e per non avere intralci, visto che
Francesco non la faceva più uscire, Giuseppe costrinse la donna a separarsi dal marito e
lei lo fece senza esitazione. Lui le prometteva che un giorno sarebbero stati insieme,
prospettava un futuro con lei, voleva anche portarla dalla madre alle feste di famiglia in
campagna ma lei ancora non si sentiva pronta. “Avevo paura di non essere ben accetta
per via dell’età”, ci confida.
In paese cominciò a spargersi la voce: tutti parlavano di questa attrazione fatale e lei era
molto infastidita per questo, ma era felice con il suo Giuseppe nonostante tutto. Si
incontravano in macchina, ma anche a casa di lui o di lei una volta separata. Per un anno
e mezzo si vedono tutti i giorni (mezzogiorno e sera verso le 22:30 – 23:00 perché lui
usciva prima con gli amici e poi andava da lei).
Adele viveva con due dei suoi figli, Andrea e Valentina: quando Giuseppe andava a
trovarla lei dichiara che loro si chiudevano in camera perché era a disagio; lei preferiva
così. Adele non ha mai pensato che fosse solo una storia di letto, anche perché uscivano
con gli amici di Giuseppe e lui la presentava come la sua ragazza. Lui però a casa non
ufficializza il fidanzamento.
Adele ci racconta l’episodio di quando ha incontrato la mamma di Giuseppe: la vede in
macchina di lui alle 5 del mattino, con i capelli “come una pazza”. Lui poi la sgrida, le
risponde male e la madre scoppia in lacrime.
La storia prosegue e arriviamo all’11 dicembre 2000: sono trascorsi due anni, ma tra i
due innamorati ancora nessun progetto si è realizzato. Adele ci confida che Giuseppe
comincia ad essere sfuggente, “a volte non veniva da me la sera”; cominciano a vedersi
solo due volte la settimana. Lei all’inizio non pensa che ci fosse un’altra donna, lui le
diceva semplicemente di essere stanco. Adele soffre molto in quel periodo, piange
perché non sopporta di vederlo distante e poco presente nella sua vita.
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Comincia ad avere dubbi, arriva perfino a pensare di lasciarlo visto che lui la trascurava,
ma poi non lo fa. Adele pensa che ci sia un’altra, ma “quando mi chiamava il cuore mi
batteva forte e passava tutto” dice commossa.
Adele racconta il loro ultimo appuntamento. I due amanti si sentono al telefono due
volte la mattina e due volte la sera, prima di vedersi a casa di lei. Appena la vede
l’abbraccia e la bacia nel corridoio; mangiano una pizza e bevono una birra, poi si
dirigono in camera da letto per vedere la tv. I figli di Adele dormivano perché la mattina
si svegliano presto (Andrea doveva andare a Bari per il militare e Valentina a scuola).
Adele e Giuseppe fanno l’amore quella sera, lei ci confessa che “lui era più rude nei
modi”. Ad un certo punto, mentre lui si rivestiva dopo aver consumato, le dice che tra
loro “è tutto finito”. La donna non voleva crederci, pensava stesse scherzando. Giuseppe
le rivela “sei troppo vecchia per me”: lei scoppia a piangere disperata, pregandolo di
non lasciarla, ma racconta che “lui era fermo, impassibile” e le dice “anche se mi dovrò
pentire non tornerò indietro”. Giuseppe le rivela che ha conosciuto un’altra ragazza,
Mariangela di Santeramo, e le mostra perfino la sua foto; le dice di essere fidanzato con
lei da quattro anni e che adesso avevano deciso di sposarsi. Aveva quindi due storie
parallele, prima andava dalla ragazza e poi da Adele.
“Quelle sue parole mi rimbombavano nella testa, non potevo crederci e alla fine ho
perso il controllo”. Ed è così che Adele inveisce contro Giuseppe, infiggendogli 38
coltellate a collo, cuore e schiena con un coltello a serramanico che lei prende dalla
cucina. Adele non ricorda questo momento preciso.
Lei lo colpisce mentre Giuseppe si abbottonava la camicia; ad Adele pare di ricordare
che la luce della camera fosse spenta e che fosse accesa solo la televisione. Mentre lo
accoltella con ferocia, il giovane tenta di scappare ma la porta della stanza era chiusa a
chiave e, Adele specifica, “la maniglia della porta era difettata”.
Non si rendeva conto delle coltellate inferte a Giuseppe, cade nel buio della coscienza
ed è meravigliata e stupita. Dopo averlo colpito racconta di averlo aiutato a spogliarsi e
si è sdraiata accanto a lui; “dormo con lui”, riferisce: non pensava di averlo ammazzato.
Con tale particolare comportamento, dal punto di vista psicodinamico, Adele vuole
comunicare il messaggio “tu continui a stare accanto a me finché lo voglio io, non
perché tu hai deciso di lasciarmi”, quasi a non voler prendere consapevolezza della
decisione presa da Giuseppe e dalla stessa subita.
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Il racconto prosegue.
Intorno alle 5 del mattino Andrea bussa alla porta per comunicare alla madre che stava
uscendo e lei gli dice di aggiustare la maniglia della porta che era caduta. Adele riferisce
che Andrea, vedendo la giacca di Giuseppe sul divano, non entrò in camera. La tv era
accesa a volume alto.
Verso le 7 Adele esce dalla stanza per andare ad accudire la figlia Valentina, prepara la
colazione. Le dice “non andare nella stanza perché Giuseppe dorme. Ero convinta di
questo”!
Quando la colazione era pronta, Adele torna in camera per chiamare il giovane e
aprendo la porta “vedo quello che avevo fatto” dice. Si sente male; chiama il figlio
Donato al telefono che però non le risponde, e allora si mette in contatto con la nuora
Margherita alla quale riesce a dire solo poche parole: “fai venire Donato che ho
ammazzato Giuseppe”. Margherita non ci credeva e corre a casa con il marito. Una
volta in casa Donato e Margherita si rendono conto dell’accaduto e chiamano, insieme
ad Adele, i Carabinieri. Lei confessa tutto subito, senza alcuna riserva.
Adele durante l’intervista racconta che poco dopo l’omicidio di Giuseppe perdeva la
vita sua figlia Valentina in un incidente stradale con il suo ragazzo. Lei pensa che Dio
l’abbia punita per ciò che aveva fatto a Giuseppe e dice “Dio doveva prendersela con
me, non con mia figlia”!
Gli altri figli le sono vicini, vanno a trovarla insieme alla nuora ed al marito Francesco.
Sentito come testimone al processo, Francesco afferma che Giuseppe le aveva fatto “i
lavaggetti del cervello e lei era andata in fumo” (la giustifica, attribuendo la colpa alla
vittima).
Adele, una volta scontata la pena, pensa di ritornare con il marito, lui l’ha perdonata.
Conclude così l’intervista: “con il senno di poi consiglierei ad un’amica che mi confida
di frequentare un ragazzo più giovane di darsela a gambe! Prima avrei detto vivitela”!
Ciò come a dire l’esperienza insegna.
3.2 La vicenda giuridica
È stato intervistato anche il difensore di Adele, l’avvocato Maurizio Tolentino del foro
di Bari, il quale spiega ed inquadra la vicenda dal punto di vista processuale. Nelle
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conclusioni il pubblico Ministero ha contestato l’aggravante della crudeltà che era stata
attribuita ad Adele nel capo di imputazione, “aggravante questa che in astratto poteva
comportare l’ergastolo come trattamento sanzionatorio”, precisa l’avvocato. Egli,
insieme al codifensore avv. Michele De Pascale, ha dimostrato il dolo d’impeto che ha
caratterizzato questo delitto; “raptus incompatibile con l’aggravante originariamente
contestata” dice. “Adele aveva agito in stato di alterazione mentale: se ciò incide sulla
capacità di intendere e di volere deve accertarlo l’esperto psichiatra forense; è
necessaria una perizia che non è stata fatta”. Tale aspetto rimane un’incognita nel
processo.
L’avvocato Tolentino si sofferma sul movente scatenante l’omicidio. Dalla sentenze si
legge “rifiuto irremovibile del suo uomo di continuare la relazione e quindi la
prospettiva per lei che lui non sarebbe stato più suo ma di un’altra donna”.
L’iter processuale è stato assai lungo, i giudici e le parti civili sono stati rispettosi nei
confronti di Adele per la tragedia che aveva segnato la sua esistenza.
3.3 La sentenza
In data 23 settembre 2004 la Corte di Assise di Bari, formata dai giudici De Feo
(presidente estensore), La Malfa (giudice a latere) nonché Di Pinto, Totire, Tenerelli,
Samarelli, Polo, Mancini (giudici popolari), all’esito del dibattimento, con l’intervento
del Pubblico Ministero Lupo, ha pronunciato e pubblicato la sentenza
n. 9/04
(depositata il 21 dicembre 2004) a carico di Adele M., imputata del reato di cui all’art.
575 c.p. “per aver cagionato la morte de D. M. Giuseppe colpendolo ripetutamente con
un coltello, con l’aggravante di cui all’art. 61 n.4 c.p. per aver agito con crudeltà
colpendo il D. M. dopo la morte. In Gioia del Colle l’11/12/2000”.
Nel processo si sono costituiti parti civili D.M. Antonio, L. Anna e D.M. Vito,
rispettivamente padre, madre e fratello della vittima.
Nell’udienza suddetta le parti hanno rassegnato le seguenti conclusioni:
 il PM: penale responsabilità di M. Adele per il reato contestato, con esclusione
dell’aggravante e concessione delle attenuanti generiche, e condanna della
stessa alla pena di 18 anni di reclusione;
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 l’avv. Tolentino per l’imputata: esclusione dell’aggravante o in subordine
concessione delle generiche, minimo della pena; in subordine, perizia
psichiatrica sull’imputata e riduzione della pena per il rito abbreviato;
 l’avv. De Pascale per l’imputata: stesse richieste dell’avv. Tolentino ed altresì
concessione dell’attenuante della provocazione;
 l’avv. Laforgia per la parte civile D. M. Antonio: affermazione della penale
responsabilità dell’imputata con la condanna della stessa alla pena di giustizia
e al risarcimento dei danni nella misura di € 250.000,00 (in subordine
provvisionale di almeno € 50.000,00), oltre le spese;
 l’avv. Mansueto per le parti civili L. Anna e D. M. Vito: affermazione della
penale responsabilità dell’imputata con la condanna della stessa alla pena di
giustizia e al risarcimento dei danni nella misura di € 250.000,00 per ciascuna
parte civile (in subordine provvisionale di almeno € 50.000,00 per ciascuna
parte civile), oltre le spese.
In data 04/06/2001 era stata rigettata con decreto una richiesta di rito abbreviato
condizionato all’espletamento di una perizia psichiatrica sull’imputata. A seguito di
questo, con decreto del 07/11/2001 si legge in sentenza che “il G.I.P. presso il
Tribunale di Bari disponeva il rinvio a giudizio immediato, dinanzi a questa Corte di
Assise, di M. Adele, perché, agli arresti domiciliari ([…]poi revocati nel corso del
dibattimento per cessazione delle esigenze cautelari), rispondesse del delitto in epigrafe
specificato, non ancora però circostanziato dall’aggravante ivi indicata” (pag. 4 sent.).
Non ci sono dubbi sulla penale responsabilità dell’imputata per i fatti cui è chiamata a
rispondere. “Proprio l’imputata, in sede d’esame,31 ha ammesso - fra lacrime e
malesseri - di aver ucciso D. M. Giuseppe nella camera da letto della propria
abitazione con una molteplicità di colpi infertigli con un coltello da essa stessa all’uopo
prelevato dalla cucina ove la suddetta arma impropria si trovava poggiata su un
davanzale, nella notte in cui egli, dopo la consumazione di un rapporto sessuale
nell’ambito di una relazione che durava da tempo (febbraio 1999) ed aveva determinato
tra l’altro la separazione della donna dal coniuge (nell’agosto 1999, su sollecitazione
del predetto D: M.) […] le fece presente […]che non si sarebbero più visti in quanto
egli era fidanzato e doveva convolare a nozze con una ragazza di cui peraltro ebbe a
31
pagg. 49-80 verb. stenot. 9/06/2004.
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mostrare la fotografia. La M. ha precisato che la vittima aveva cercato invano di
sottrarsi ai colpi, in quanto, nel tentare di aprile la porta della camera da letto, gli era
rimasta in mano la maniglia, che era già rotta” (pag. 5 sent.).
Non solo: la confessione di Adele è supportata da vari riscontri.
Il primo riguarda la moglie di suo figlio Donato, Rizzi, la quale sull’accaduto “ha
riferito32 che la M. le telefonò dicendole che lì (cioè a casa sua) c’era Giuseppe che
essa aveva ucciso, e che quando la teste con il marito, convocato urgentemente dal
posto di lavoro, si portò a casa della suocera, costei […] stava seduta sul divano ed era
molto strana […]. La teste ha asserito che essa stessa ebbe modo di scorgere,
affacciandosi sulla soglia della camera da letto, il cadavere dell’uomo giacente accanto
al letto” (pag. 5 sent.).
Anche Donato C. conferma quanto dichiarato in sede di testimonianza dalla moglie: la
madre “era tutta scioccata; […]egli, ad onta dell’invito della madre a non entrare in
camera da letto per evitare di spaventarsi, vi si era portato ed aveva avuto modo di
riscontrare la presenza del cadavere per terra accanto a letto con a fianco un coltello
che egli, pur non constandogli se fosse tenuto ancora in quella casa o no, aveva a suo
tempo visto nella disponibilità del padre” (pagg. 5-6 sent.).
Francesco C., marito di Adele, nel corso del processo riferisce33 che si era separato dalla
moglie ma che “continuava a frequentare la casa coniugale anche per vedere i figli ed
in particolare la adolescente Valentina che egli provvedeva ad accompagnare a scuola.
[…] Quella mattina si recò in quella casa per lasciare nel portoncino- come altre volteun po’ di verdura, ma, salitovi per aver trovato stranamente aperto il portoncino stesso,
ebbe la presenza della nuora la quale piangendo gli disse che un uomo aveva cercato di
violentare la suocera e vide che costei stava stesa sul divano con l’atteggiamento di uno
che sta abbandonato” (pag. 6 sent.).
È stato anche sentito il brigadiere dei CC Bellezza. Egli, su segnalazione del predetto
Donato C., verso le 12 dell’11/12/2000 si recò presso l’abitazione della M. e, si legge
dalla sentenza “oltre alla nuora ed al marito della prevenuta, trovò seduta sul divano la
M., la quale, in uno stato di choc, le fece cenno verso la camera da letto, ove il militare
si portò notando sangue dappertutto (tutte le pareti, parte dell’armadio, pavimento)ed
32
33
pagg. 186-263 verb. stenot. 26/11/2002.
pagg. 4-52 verb. stenot. 7/03/2003.
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un corpo (si accertò che si trattava di persona deceduta) riverso per terra su un fianco
[…] con accanto un coltello a scatto, la cui lama era aperta ed appariva storta ossia
deformata (come del resto risulta dalla documentazione fotografica in atti) sicuramente
per l’uso” (pag. 6 sent.).
Vengono compiuti accertamenti autoptici sul cadavere della vittima da parte dei
consulenti tecnici del pm, dott. prof. Di Nunno e dott. Romano nonché dal consulente
tecnico di parte civile. dott. Miani.
I consulenti incaricati rilevano che Giuseppe “presentava trentotto coltellate dovute ad
arma bianca […]delle quali quattro di esse (al braccio sinistro ed alla mano sinistra)
erano state da difesa (in quanto prodotte con meccanismo soltanto da taglio) mentre le
altre erano dovute a colpi da punta e taglio (molte erano penetranti in cavità), e che
comunque sei di esse (localizzate al fianco destro) erano state prodotte da colpi inferti
a morte avvenuta. Il decesso si era verificato dopo che per qualche minuto la vittima
aveva avuto la possibilità di cercare di proteggersi e la capacità di spostarsi e
comunque di reagire” (pag. 7 sent.).
Le lesioni che il dott. Romano ha riscontrato sull’imputata sono state significative; il
consulente ha precisato che “si tratta sia di lesioni di natura ecchimotica
sull’avambraccio destro (dovute ad un’azione di compressione esercitata dai
polpastrelli delle dita lunghe di una mano) nonché sull’avambraccio sinistro e sulla
gamba destra (dovute ad urto con corpo contundente), sia di lesioni da taglio sulle
prime due dita della mano destra (dovute […] alla lama di uno strumento tagliente
impugnato dalla stessa mano di una persona destrimana, quale il dr. Romano ha
accertato essere la M.). le lesioni che cagionarono il decesso furono quelle patite al
collo con recisione di un vaso venoso di grosso calibro quale la vena giugulare destra
(se si fosse trattato della corrispondente arteria l’obitus sarebbe stato immediato e
sarebbe avvenuto con rapida evoluzione e non entro un arco di tempo che poté
spingersi anche fino a circa mezz’ora), in considerazione sia della conseguente
imponente emorragia che- sia pure in misura meno marcata- dell’insufficienza
respiratoria determinata dalla penetrazione di sangue nell’albero respiratorio” (pag. 7
sent.).
Adele nell’intervista riferì del dettaglio relativo alla maniglia difettata della porta della
camera da letto, particolare questo confermato dal figlio Andrea C. nella sua
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deposizione (“bastava forzarla un po’ perché, mancando una vite, la stessa si sfilasse”,
pag. 8 sent.). Tuttavia emergono alcune divergenze concernenti aspetti marginali, non
sostanziali e decisivi della fase dell’omicidio e del quadro in cui l’episodio si colloca;
esse riguardano “durata e connotazioni della relazioni fra la M. e D. M.; modalità di
frequentazione tra i due; conoscenza della relazione stessa da parte dei figli di lei e dei
familiari di lui; qualche episodio di attrito occorso nel corso di essa fra l’uno o l’altra e
congiunti dell’una o dell’altro; adombrata dazione di denaro o altri valori da parte di
D. M. Giuseppe alla prevenuta; mancata percezione, da parte dei figli della M. (Andrea
e Valentina C.) che dormivano in una camera separata soltanto dal bagno, del
trambusto sicuramente verificatosi nella camera da letto della prevenuta al momento
della consumazione del delitto (la ragazza e il giovane dormivano ed il televisore era
acceso - come spesso accadeva anche nelle ore notturne - ad alto volume); ancora
successione delle posizioni reciproche della prevenuta e della vittima durante l’azione
omicidi aria e successione delle lesioni patite dalla vittima; spiegazione certa della
presenza di sangue sul letto e della sommarietà dell’abbigliamento dell’uomo (che - a
dire della M. - addirittura, una volta ferito, sarebbe stato aiutato dall’imputata a
liberarsi di alcuni indumenti)” (pag. 8 sent.).
Ciò che appare certo e che non può essere messo in discussione è che Adele uccise il
giovane amante Giuseppe a coltellate perché le disse che la loro relazione era ormai
finita e che lui era intenzionato a sposare un’altra donna.
Alla M. originariamente le venne contestata l’aggravante di cui al n. 4 dell’art. 61 c.p.
(per aver agito con crudeltà) ma essa va esclusa in quanto si legge in sentenza che “non
è dato affermare con il necessario fondamenti di certezza che la prevenuta si fosse resa
conto che il D. M. Giuseppe era già morto quando gli inferse quelle sei coltellate al
fianco destro […] prodotte post mortem, quando cioè si era ormai arrestata la
circolazione del sangue” (pag. 9 sent., il prof. Di Nunno rilevò l’assenza di qualsiasi
infiltrato ematico dei bordi e dei tramiti). Il decesso non fu immediato; la donna “una
volta venuto meno ogni tentativo di scampo da parte della vittima vuoi per il fallimento
del tentativo di fuga vuoi per lo sfiancamento conseguente alle gravi lesioni già patite
ed all’imponente emorragia scaturitane, avesse continuato a menar colpi quasi a voler
essere certa che quell’uomo non sarebbe stato più né suo né di altra donna, senza
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ovviamente essere in grado […] di verificare che la vittima era ormai priva di vita e che
quindi non avessero più senso e scopo altre coltellate” (pag. 9 sent.).
Pertanto l’aggravante predetta, poiché veniva contestata con riferimento alle coltellate
inferte dopo la morte della vittima e non vi è la certezza oltre ogni ragionevole dubbio
che l’imputata se ne fosse resa conto, è da non considerare (la esclude anche il pm nelle
proprie conclusioni).
La M., essendo incensurata ed in più avendo tenuto un comportamento processuale
irreprensibile e collaborativo nonché in sede di esame abbia mostrato un sincero
pentimento per la vicenda accaduta, merita la concessione delle attenuanti generiche ai
sensi dell’art. 62bis c.p.34.
Uno dei suoi difensori insiste affinché ad Adele venga concessa l’attenuante della
provocazione, ma ciò non avviene. Si legge in sentenza che “la decisione di rompere la
relazione con la M. costituiva l’esercizio del diritto di libertà sessuale di ogni persona;
[…] la prevenuta aveva già intuito un raffreddamento dell’interesse di D. M. Giuseppe
per lei tanto che essa aveva cercato di appurare qualcosa al riguardo ricorrendo ad
uno stratagemma- la cui scoperta determinò un litigio fra l’imputata e D. M. Giuseppecon un amico di lui (tale Tonio), come è emerso dalla deposizione di C. Andrea.
Smisurato è il divario di disvalore dei due comportamenti […] La donna corse ad
armarsi e si diede ad accoltellare il D. M. Giuseppe decisa a togliergli la vita fino al
punto di continuare a colpirlo anche quando egli non era più in grado di opporre
34
Il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell'articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse
sono considerate in ogni caso, ai fini dell'applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale
può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62.
Ai fini dell'applicazione del primo comma non si tiene conto dei criteri di cui all'articolo 133, primo
comma, numero 3), e secondo comma, nei casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, in relazione ai
delitti previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, nel caso in cui siano
puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni (1).
In ogni caso, l'assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato non può essere, per
ciò solo, posta a fondamento della concessione delle circostanze di cui al primo comma (2).
(1) Articolo aggiunto dall'art. 2, D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, sulla riforma della legislazione
penale, e poi così sostituito dall'art. 1, L. 5 dicembre 2005, n. 251. L'art. 3, L. 25 novembre 1962, n. 1634,
recante modifiche relative all'ergastolo e alla liberazione condizionale, così stabilisce: «Il condannato
all'ergastolo prima del ripristino delle attenuanti generiche di cui all'art. 2 del D.Lgs.Lgt. 14 settembre
1944, n. 288, può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia effettivamente scontato
almeno venticinque anni di pena».
(2) Comma aggiunto dalla lettera f-bis) del comma 1 dell'art. 1, D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in
legge, con modificazioni, con L. 24 luglio 2008, n. 125.
46
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alcuna difesa ed addirittura era spirato) in quanto percepì il fermo, netto, irremovibile
rifiuto dell’uomo di continuare la relazione e quindi si prospettò un futuro in cui egli- a
suo stesso dire da essa amato profondamente - non sarebbe stato più suo ma di altra
donna. Lo stato d’ira della M. scatto nell’apprendere senza speranza che la storia con
il D. M. Giuseppe era ormai finita” (pagg. 9-10 sent.).
Vediamo ora di comprendere in che stato d’animo Adele ha compiuto quell’orrendo
delitto nella notte tra il 10 e l’11 dicembre 2000.
“La M. agì in preda ad uno stato emotivo e passionale, che chiaramente - giusta art. 90
c.p. - non esclude né diminuisce l’imputabilità, la quale peraltro non difettava
sicuramente atteso che - senza bisogno di alcun accertamento peritale - nessuna
emergenza processuale consente di ritenere che la prevenuta, al momento del fatto,
fosse per infermità in stato di mente che compromettesse in qualche modo la sua
capacità di intendere e di volere. La M. non era affetta da alcuna malattia mentale,
operò rendendosi conto di ciò che faceva e dando sfogo alla decisione di eliminare
l’uomo che non sarebbe stato più suo, tanto da infierire su di lui fino a fiaccarne
qualsiasi resistenza ed a riuscire a celare il misfatto ai figli per ore con lucida
determinazione e completo dominio del suo stato d’animo […], fino all’ovvio crollo
psichico che la indusse a cercare di comunicare con il figlio Donato, a comunicare con
la nuora e quindi ad attendere l’inevitabile epilogo della vicenda standosene sul divano
di casa ovviamente ormai in evidente stato di prostrazione” (pag. 10 sent.).
La difesa di Adele ha insistito nella richiesta di ammissione della perizia psichiatrica ma
“le risultanze processuali hanno evidenziato unicamente uno stato di alterazione
psichica in un momento immediatamente successivo alla consumazione di un grave
delitto di sangue, peraltro da parte di un soggetto sicuramente non dedito al crimine e
quindi non rimasto freddamente indifferente alla recente consumazione di un delitto ma
chiaramente prostrato dalla consapevolezza di aver appena compiuto un misfatto di
tanta gravità” (pag. 10 sent.).
Poche ore dopo il crimine efferato, la dott.ssa Mollica ha redatto una consulenza
psichiatrica dalla quale si apprende che “la M. appariva disorientata nel tempo e nello
spazio, ma che lo stato confusionale reattivo (che allo stato consentiva alla donna solo
di parlare in maniera frammentaria dei fatti accaduti nella notte precedente e non di
ricostruire gli stessi) era dovuto ad intensa reazione emotiva, che peraltro la faceva
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apparire spaventata […] Orbene era per l’appunto quella intensa reazione emotiva che
in quel momento non le consentiva un’esposizione se non frammentaria dell’accaduto,
né la M. aveva mai perso la capacità volitiva” (pagg. 10-11 sent.).
Il processo di primo grado si conclude con l’inflizione di una pena pari a 15 anni di
reclusione (“la insistenza della condotta aggressiva induce ad operare non nel massimo
la riduzione di pena ai sensi dell’art. 62bis c.p.: a. 21- a. 6= a. 15”, pag. 11 sent.).
L’imputata è inoltre obbligata a pagare le spese processuali anticipate dallo Stato; si
procede anche all’interdizione della stessa in perpetuo dai pubblici uffici e legalmente
durante la pena da espiare nonché ad applicare la pena accessoria della sospensione
dell’esercizio della potestà dei genitori di cui all’art. 32 comma 2 c.p.
Altresì la condanna che prevede una reclusione non inferiore a 10 anni comporta
l’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata per almeno 3 anni.
L’imputata viene anche condannata al risarcimento dei danni chiesto dalle parti civili –
da liquidarsi in separata sede- ed al rimborso delle loro spese di costituzione e difesa (€
5.280,00 complessivi per L. Anna e D. M. Vito, € 4.400,00 complessivi per D. M.
Antonio); a loro va concessa la provvisionale con condanna immediatamente esecutiva
di € 30.000,00 ciascuna.
Infine viene ordinato il dissequestro e la restituzione del carnet di assegni agli aventi
diritto e la confisca e distruzione di quant’altro fu oggetto di sequestro.
La vicenda processuale prosegue.
In data 09/02/2005 i difensori di Adele impugnano tale sentenza e propongono atto di
appello.
La corte d’Assise di Appello di Bari dichiara, con sentenza del 24/05/2006, i via
preliminare la nullità del decreto di giudizio immediato emesso dal Gip del Tribunale di
Bari il 04/06/2001 nonché tutti gli atti successivi, ivi compresa la sentenza di 1° grado e
dispone trasmettersi gli atti al Gip c/o tribunale di Bari per rinnovazione dell’atto nullo.
In data 17/10/2006 il procuratore Generale c/o la Corte d’Appello di Bari propone
ricorso per Cassazione. La Cassazione, con sentenza del 09/03/2007, accogliendo il
ricorso annulla la sentenza impugnata dal Procuratore Generale e rinvia per un nuovo
giudizio ad altra sezione della Corte d’Assise di Appello di Bari.
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La seconda sezione della precitata Corte conferma la sentenza emessa il 23/09/2004
dalla Corte d’Assise di Bari e condanna l’imputata alla rifusione delle spese sostenute
dalla parte civile e al pagamento delle spese processuali.
In data 04/11/2008 e 10/11/2008 i difensori di Adele propongono ricorsi per
Cassazione; la Cassazione, con sentenza del 27/02/2009, rigetta i ricorsi e condanna
l’imputata al pagamento delle spese processuali. In quella data la sentenza è divenuta
irrevocabile.
3.4 La posizione giuridica
La sig.ra Adele M. fa ingresso nella Casa Circondariale di Bari il 20/03/2009 in seguito
ad arresto; successivamente viene trasferita presso la Casa Circondariale di Trani in data
03/04/2009 e rimane ristretta lì fini all’11/12/2010.
In quest’ultima data viene ricevuta dalla Casa Circondariale di Lecce dove tutt’ora
sconta la sua pena.
La pena inflitta è di 15 anni di reclusione, ai quali occorre detrarre i seguenti periodi di
presofferto:
-
dall’11/12/2000 al 10/04/2001 mesi 4 in carcere;
-
dall’11/04/2001 al 29/04/2003 anni 2 e giorni 19 agli arresti domiciliari;
-
concessione di anni 3 di indulto (L. 241/2006)
La pena residua corrisponde ad anni 9 mesi 7 e giorni 11 di reclusione.
In data 22/09/2009 il magistrato di sorveglianza di Bari le concede una riduzione della
pena per liberazione anticipata su cinque semestri di pena espiata così ripartiti :
-
dall’11/12/2000 al 10/12/2002 trascorsi in carcere e agli arresti domiciliari;
-
dall’11/12/2002 al 24/04/2003 e dal 20/03/2009 al 30/04/2009.
Il magistrato di sorveglianza di Bari concede altri 45 giorni di liberazione anticipata in
data 18/11/2009 per il periodo dall’01/05/2009 al 31/10/2009; successivamente altri 45
giorni in data 24/05/2010 per il periodo dall’01/11/2009 al 30/04/2010 ed in data
01/12/2010 per il periodo dall’01/05/2010 al 31/10/2010.
In data 03/12/2010 il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Bari emette un
ordine di scarcerazione; la scadenza della pena è fissata al 04/11/2017.
49
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Una volta trasferita nella Casa Circondariale di Lecce, il Magistrato di sorveglianza di
Lecce in data 28/06/2011 rigetta la liberazione anticipata dal 31/10/2010 all’01/05/2011.
Poi lo stesso in data 02/01/2012 concede 45 giorni di liberazione anticipata alla detenuta
con riferimento al semestre dall’01/05/2011 all’01/11/2011.
Viene emesso un altro ordine di scarcerazione dal Procuratore Generale presso la Corte
d’Appello di Bari in data 06/02/2012. La scadenza pena risulta al 20/09/2017.
In data 30/07/2012 il magistrato di sorveglianza di Lecce concede alla M. altri 45 giorni
di liberazione anticipata per il semestre che va dall’01/11/2011 all’01/05/2012.
Altro ordine di scarcerazione emesso dal Procuratore Generale c/o la Corte d’Appello di
Bari, sezione Ufficio Esecuzioni, il 22/08/2012. Il fine pena è fissato al 06/08/2017.
Il magistrato di sorveglianza di Lecce, in data 18/02/2013, concede alla detenuta Adele
ancora 45 giorni di liberazione anticipata con riferimento al semestre dall’01/05/2012
all’01/11/2012.
In data 07/03/2013 viene emesso un ordine di scarcerazione sempre dal Procuratore
Generale c/o la Corte d’Appello di Bari.
Riepilogando, il totale dei giorni di liberazione anticipata è di 495; la pena decorre dal
20/03/2009 ed attualmente il fine pena è fissato per il 22/06/2017.
Recentemente, in occasione delle festività pasquali, la M. ha usufruito della concessione
di un permesso premio (dal 30/03/2013 al 04/04/2013) per trascorrere tale momento in
compagnia della sua famiglia.
3.5 Relazione di osservazione ed ipotesi di trattamento
Nella fase di esecuzione della pena viene perseguito l’obiettivo della rieducazione
attraverso una serie di attività, misure e interventi rivolti a condannati e internati che
prende il nome di “trattamento rieducativo”.
Tale trattamento deve essere individualizzato e diretto a promuovere un processo di
modificazione degli atteggiamenti che sono da ostacolo ad un’effettiva partecipazione
sociale, in modo da poter perseguire l’obiettivo finale che comporta il reinserimento dei
condannati nella società35.
35
www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/misure
50
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All’elaborazione del programma di trattamento individualizzato si giunge dopo una fase
di osservazione della personalità del singolo soggetto, attività questa “diretta
all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisicopsichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione
di una normale vita di relazione” (art. 27 c.1 del regolamento di esecuzione, D.P.R. 30
giugno 2000 n.230).
Quanto acquisito nella fase di osservazione, oltre a dare elementi utili per indicare
interventi e offerte trattamentali, è significativo per una riflessione sulle condotte
antigiuridiche poste in essere dal condannato, sulle motivazioni e conseguenze negative
delle stesse nonché sulle eventuali azioni di riparazione delle conseguenze del reato.
L’osservazione inizia con l’ingresso in carcere e segue l’individuo fino al termine
dell’esecuzione penale, rilevando così i mutamenti che a livello personale e di vita di
relazione si manifestano e verificando i risultati degli interventi attuati; sulla base poi
dei progressi o delle difficoltà che si ravvisano nel corso di esecuzione della pena il
programma può essere aggiornato36.
L’osservazione è condotta dall’équipe, costituita da una pluralità di attori che operano
secondo un approccio integrato, finalizzato a realizzare una gestione estesa e condivisa
dei processi d’inclusione sociale. Di norma all’équipe partecipano il direttore
dell’istituto, l’educatore, l’assistente sociale, l’esperto ex art. 80 L.354/75 (psicologo,
criminologo, ecc.) ed un esponente della polizia penitenziaria. Alle attività di
osservazione e trattamento collaborano inoltre il sanitario, il cappellano, i volontari e gli
insegnanti nell’ambito di un gruppo allargato definito Gruppo di Osservazione e
Trattamento (G.O.T.)37.
Il gruppo di équipe conclude il lavoro di ogni caso trattato con la stesura della relazione
finale di sintesi: essa è il risultato di un laborioso processo di discussione e confronto tra
i contributi forniti dai diversi componenti dell’équipe ed il suo fine consiste nel dare al
soggetto osservato una visione scientificamente approfondita ed il più possibile coerente
e unitaria del percorso fatto all’interno dell’istituto penitenziario.
L’ultima relazione redatta sulla sig.ra M. è datata 15 novembre 2012 e vede come
componenti dell’équipe la dott.ssa Russo (Direttore), il dott. Sgobba (funzionario di
36
37
Ibidem.
www.giustizia.it
51
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servizio sociale), la dott.ssa Panzera (funzionario giuridico-pedagogico) e il dott.
Monittola (esperto psicologo ex art.80 O.P.).
Adele M. è ristretta presso la casa Circondariale di Lecce dall’11/12/2010 per espiare la
condanna a 15 anni di reclusione per il reato di cui all’art.575 c.p.
Per ciò che concerne gli aspetti attinenti al contesto socio-familiare di appartenenza
dalla relazione si legge quanto segue.
L’ex coniuge della donna, il sig. Vito C., si mostra collaborativo e sensibile, effettuando
regolari colloqui in istituto; egli ha dichiarato ampia disponibilità ad accogliere la sua ex
moglie in casa qualora la stessa fruisse di un qualche beneficio.
Anche i figli continuano a vivere con i propri nuclei familiari, mantenendo i contatti
visivi con la madre; attualmente il più piccolo, Domenico, unico ad essere celibe, è in
Afganistan a lavorare come elicotterista dell’E.I.
Tutti i membri della famiglia sperano in un inserimento lavorativo presso la pizzeria
della cugina diretta di Adele, Rosa M.
Come da verifica effettuata dell’UEPE di Verona, si attesta che la sig.ra Rosa è titolare
della pizzeria “Grotta Azzurra” a Verona dove la stessa vive da circa 30 anni, quando si
trasferì alla ricerca di un’occupazione; qui conobbe l’ex compagno con il quale è socia
nella gestione del locale insieme ai due figli Giacomo e Giovanna.
Rosa ha fornito la disponibilità ad assumere Adele in part-time con funzioni di
cameriera ai tavoli per 35 ore settimanali e precisamente: dal lunedì a domenica dalle
ore 12,00 alle ore 14,30 e dalle ore 19,30 alle ore 22,00 con pausa pranzo presso la
stessa abitazione di Rosa, posta al piano superiore della pizzeria.
L’attività commerciale consta di una decina di dipendenti full-time con anche altro
personale nei giorni di maggiore affluenza, come di domenica ad esempio per le partite
della squadra locale, essendo la pizzeria nelle vicinanze dello stadio Bentegodi.
Il contratto di assunzione, da perfezionarsi ad avvenuta concessione del beneficio
richiesto, sarà a tempo indeterminato e con paga oraria pari a € 7,45.
La sig.ra Rosa M. è a conoscenza delle circostanze che hanno portato la cugina a
commettere il reato in espiazione e, pur non giustificandola, la comprende ritenendo che
la vittima l’avesse portata all’esasperazione; è disponibile ad esserle di aiuto,
considerando il profondo legame di affetto che le lega.
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Con particolare riferimento all’attuale detenzione si rileva che la donna ha sempre
tenuto un comportamento corretto ed adeguato al contesto istituzionale. Pur se alquanto
solitaria ed incline all’introversione, la M. ricerca il rapporto con gli operatori anche per
gli aspetti di supporto e sostegno di cui necessita la sua particolare vicenda personale e
familiare.
Nella relazione con gli operatori valorizza i contenuti dialogici, finalizzati ad una
compensazione sia pur parziale e temporanea di un’ansia forte e fluttuante per quei
sensi di colpa che spesso in lei si insinuano, anche per le vicende di morte che hanno
connotato la sua esistenza.
Adele racconta con partecipazione la sua vicenda penale, riconoscendo il gesto eclatante
e distruttivo posto in essere che tutt’oggi fa di lei unico elemento deviante rispetto al
suo originario nucleo familiare. Un gesto grave, gravissimo ma per alcuni aspetti
improvviso, imprevedibile e paradossale: l’uccisione di un giovane con il quale aveva
intrattenuto una relazione, dopo che lui le comunicò di volerla lasciare. Un evento che le
ha sconvolto la vita per i danni e i risvolti provocati anche alla famiglia del ragazzo ed
alla sua che, a causa di questa drammatica vicenda, vedeva fortemente compromessi i
rapporti intrafamiliari per tanti anni saldi e regolari per quanto in parte provati dalla
separazione della donna con il marito.
La condizione dei Adele subisce un ulteriore aggravamento a seguito della tragica morte
in un incidente stradale della figlia quindicenne e del rispettivo ragazzo: altro evento
drammatico che ha accentuato i sensi di colpa che la condurranno a considerare la morte
della figlia come una punizione, un riscatto per quanto da lei ad altri provocato.
La recente morte dell’anziano padre ha rinnovato in lei tali dolorosi sentimenti, perché
non ha avuto la possibilità di essere vicina e riabbracciare in vita il genitore venuto
meno, lei dice, anche per il dolore da lei provocatogli.
Per quello che concerne in maniera più esplicita il reato commesso in lei perdurano
sofferenza e angoscia per la consapevolezza di quel gesto così distruttivo; continua il
suo percorso di revisione critica dei propri vissuti.
Si rileva che la donna ha sempre mantenuto un contegno dignitoso e coerente,
partecipando alle diverse attività ricreative, culturali e lavorative propostale.
In considerazione del positivo percorso inframurario effettuato e di quanto sopraesposto
con riferimento alle risorse affettive e lavorative esterne adeguate, l’équipe esprime
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parere favorevole all’avvio di permessi premio da trascorrere a Gioia del Colle presso
l’ex marito e, compatibilmente con i presupposti di legge, conferma analogo parere
anche per la concessione della misura alternativa richiesta.
3.6 Il caso M. a “Donne vittime e carnefici”
Il 13/03/2013 su La 7 il programma “Donne vittime e carnefici” ha trattato il caso M.
Il giornalista Filippo Donvito parla di Adele come una donna “che perso la testa in un
momento: non è una criminale”!
Di tutta la vicenda due aspetti non risultato ancora chiariti: se la donna fosse
consapevole di ciò che accadeva quella notte e cosa sia successo realmente dopo il
delitto (lei dichiara di essere stata diverse ore accanto al corpo martoriato della vittima).
Per quanto concerne il primo punto, Adele dichiarò al giornalista di non ricordare nulla
perché “non ero in me. La mattina ho visto il cadavere e ho capito”. Ma nessuna perizia
psichiatrica è stata effettuata: ciò rappresenta una grave lacuna all’interno dell’iter
processuale.
Il giornalista trova Adele in uno stato d’amino disperato; il primo pensiero va alla
mamma di Giuseppe, vuole chiederle perdono. “Non avrei mai voluto fare una cosa del
genere, piuttosto mi sarei uccisa io” confessa Adele “ho perso una persona che amavo,
lo amo ancora”.
L’avvocato difensore della donna, Maurizio Tolentino, spiega che la vittima solo
eccezionalmente riveste il ruolo di carnefice, in quanto quasi sempre risulta vittima
dell’uomo.
Durante la trasmissione televisiva interviene l’esperta psicologa dott.ssa Carlini, la
quale si esprime circa la relazione tra i due amanti e la definisce “non sana. I due
soggetti non sono in equilibrio tra loro, ma uno domina e l’altro è dipendente.
Quest’ultimo ha il convincimento che senza quella persona non si può vivere, e questo
porta al distorcimento della realtà”. La dottoressa spiega che non è stata effettuata
alcuna perizia sulla donna perché “non emergono elementi dissociativi dal punto di vista
psicodiagnostico”. La dott.ssa Carlini si sofferma poi sul mutismo in cui versava la M.
dopo il delitto: “è uno shock post traumatico consequenziale all’evento omicidiario che
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c’entra nulla con la capacità di intendere e di volere”. Si specifica il fatto che Adele
provasse un senso di colpa perché ha trasgredito le regole del contesto culturale in cui
ha vissuto, quelle che ha sempre seguito, e per questo è stata punita con la morte della
figlia adolescente Valentina nell’incidente stradale.
Viene poi intervistato il Luogotenente Casalino dei CC di Gioia del Colle che effettuò il
sopralluogo: egli ricorda sangue dappertutto, su pareti, tende, lenzuola ed anche il
particolare della maniglia sfilata che conferma un tentativo di fuga da parte della vittima
per sottrarsi all’aggressione. Da un sommario esame della scena del crimine, egli
sostiene che si trattò di “un raptus di gelosia, scaturito probabilmente quando Giuseppe
mostrò alla donna la foto della ragazza. Fu un impatto troppo forte per lei”.
Il decesso della vittima avvenne tra l’1 e l’1.30 di notte a causa di uno shock a
prevalente componente emorragica.
Il dott. Cattanzi, esperto in scienze forensi, precisa la dinamica del delitto: “ci troviamo
di fronte ad un fenomeno di overkilling, ossia colpi così esagerati da andare oltre
l’uccisione della persona. La donna provava un forte rancore ed ogni colpo inferto
aveva un significato per lei”. La successione di colpi è avvenuta in tre momenti: “1)
Adele colpisce Giuseppe quando ancora era vestito; 2) Adele lo colpisce dopo averlo
aiutato a svestirsi; 3) quello più grave e significativo, Adele lo colpisce al fianco destro
in limine vitae, presumibilmente post-mortem”.
Infine, con riferimento al punto su cosa sia successo dopo il delitto, viene confermato il
fatto che la donna abbia vegliato accanto al corpo di Giuseppe per tutta la notte, come se
non volesse o non fosse pronta a separarsi da lui.
Viene affrontato il tema della rimozione, in relazione al fatto che Adele ha sempre
dichiarato di non ricordare nulla. Il dott. Cattanzi dice che si tratta di un “tema delicato:
è un meccanismo di difesa per non ricordare qualcosa di negativo che la persona stessa
ha fatto. Non si può però definirlo in modo scientifico”.
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CAPITOLO 4
IL DELITTO D’IMPETO:
CRIMINE DALL’IMPULSO IRRESISTIBILE
4.1 Quando la mente è colta da raptus
Analizzando il caso della M. si è parlato di “stato emotivo e passionale, di raptus di
gelosia, di impeto”: occorre chiarire bene dal punto di vista giuridico il significato di tali
espressioni.
Il delitto d’impeto è argomento tra i più complessi e controversi della psicopatologia
forense, poiché raggruppa molteplici quadri clinici che oscillano dalle remote categorie
diagnostiche – quali follia, reazioni a corto circuito – a quelle più recenti del
discontrollo episodico e delle sindromi psicotiche acute.
La condizione psicopatologica che si verifica in tali crimini è caratterizzata da
un’improvvisa frattura con la realtà, un cambiamento del mondo circostante e del suo
significato nonché da un’intensa angoscia auto o etero distruttiva cui seguono repentini
passaggi all’atto. Le emozioni rappresentano un’incessante spinta ad agire che
continuamente la mente della persona deve controllare ed arginare per renderla
compatibile con le regole del vivere sociale; le esplosioni emotive della mente si
chiamano raptus ed esprimono la liberazione e lo sfogo violento, incontrollato ed
irrazionale di emozioni e frustrazioni represse38.
Il raptus è quindi un impulso subitaneo da intendersi come turba psichica episodica
accessuale del comportamento gestuale e motorio: consiste nel bisogno imperioso e
irrefrenabile di compiere improvvisamente e inaspettatamente un’azione di natura
violenta dannosa per il soggetto e per gli altri, la cui esecuzione sfugge al controllo di
colui che la compie. Sotto l’effetto di esso si inveisce, si distrugge, si uccide.
38
www.poliziaedemocrazia.it
56
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Secondo l’interpretazione classificatoria moderna, il raptus si verifica in una delle
seguenti categorie psicopatologiche:
 Reazione a corto circuito, presente nei soggetti impulsivi, labili d’umore,
asociali in cui vi è una tendenza a stati di eccitamento collerico da cui
conseguono pulsioni a percuotere senza compromissione della coscienza.
 Acting-out, derivato da scariche emotivo-affettive improvvise sempre prive di
destrutturazione della coscienza.
 Raptus ansioso propriamente detto, in cui si riscontrano crisi acute di angoscia.
 Bouffées deliranti, in cui il delirio si accompagna a stati affettivi intensi e
violenti con oscillazioni umorali talvolta tendenti alla espansività talatra
all’angoscia quasi malinconica; apparentemente sembra che il soggetto
mantenga una certa lucidità ma il ricordo risulta frammentato, parziale o in
alcuni casi persino assente.
 Automatismo allucinatorio, presente nel corso di una sindrome confusionale o di
turbe schizofreniche.
 Impulso patologico, tipico nelle psicosi organiche e nell’insufficienza mentale.
Il raptus non è un atto premeditato, organizzato e non prevede una partecipazione
razionale e cosciente della mente; la mente può non ricordare nulla per giorni e
giorni. La psichiatria oggi è arrivata ad affermare che i raptus violenti non
appartengono solo al repertorio comportamentale dei malati psichiatrici, bensì
possono essere commessi da tutti. Nessuno può essere considerato esente dal rischio
di esplodere emotivamente perché per qualsiasi mente umana nulla è prevedibile né
escludibile rispetto a quello che farà o non farà in futuro39.
Paradossalmente è possibile affermare che il comportamento delle persone malate è
maggiormente prevedibile rispetto al comportamento delle persone normali, sane ed
equilibrate. Come una molla che viene sempre più compressa e alla fine scatta via,
così anche la mente umana sempre più compressa da frustrazioni ed insoddisfazioni
alla fine scatterà con una cieca ed aspecifica violenza contro tutti e contro tutto.
I delitti da raptus avvengono in uno stato mentale della coscienza alterato, quasi
allucinatorio: si crea un corto circuito tra emozioni violente e comportamento, con
39
Ibidem.
57
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l’esclusione completa del controllo della logica e della razionalità. Qui emerge la
primordiale animalità che tutti noi portiamo dentro e che abbiamo ingabbiato con
l’educazione e le norme sociali.
4.2 La nascita della monomania e i suoi sviluppi teorici
Nel XIV secolo si radicò la credenza per la quale lo psicotico, al pari del mago,
dello stregone e dell’eretico fosse indemoniato; sicché le malattie fisiche vennero
classificate come naturali e quelle psichiche soprannaturali. Si ricorreva al demonio
dunque per spiegare deliri, allucinazioni di natura erotica o religiosa.
Per tutto il 1600 e la prima metà del 1700, pur avviandosi nuovi studi diretti a
dimostrare che certi deliri o stati mentali potessero essere di origine organica ed altri
invece di derivazione emotiva, alcun chiarimento si aggiunse alla comprensione
della malattia mentale.
Nella seconda metà del ‘700 i due precursori degli studi positivisti Lavater e Gall,
fondarono le loro ricerche sul principio dell’osservazione diretta.
G. Lavater (1741-1801) prospettò un parallelismo tra corpo e spirito e allontanò la
fenomenologia comportamentale dal libero arbitrio.
F. J. Gall (1758-1828) attraverso la cranioscopia diresse i suoi sforzi verso la
comprensione anatomica del cervello, da lui ritenuto sede dell’anima e parcellizzato
in numerose ed indipendenti zone cui corrispondevano singole funzioni. Egli
ammetteva che il disfunzionamento di una o più zone/funzioni cerebrali potesse ben
coesistere con il regolare moto delle altre40.
Ecco farsi strada e divenire logicamente possibile la follia parziale ovvero l’integrità
delle funzioni intellettive e l’assenza di delirio pur in presenza di alterazioni e
perversioni affettive di rilevante veemenza.
In Francia Philippe Pinel, psichiatra e direttore di manicomio, propose l’ormai nota
distinzione tra mania, melanconia, demenza e idiozia. Attraverso la sua osservazione
diretta, egli si accorse che alcuni malati ricoverati in manicomio avevano conservato
40
SURACE G..M.P., Il delitto d’impeto. Scenari psicopatologici,criminologici e forensi sul crimine
efferato da impulso irresistibile, Rubbettino Editore, Catanzaro, 2005.
58
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integre le loro funzioni mentali: erano “folli ragionanti” poiché il loro stato di furore
non si accompagnava a lesioni dell’intelletto.
La psichiatria allora accostava alla definizione di mania uno stato morboso alterante
tutte le facoltà intellettive e affettive; la mania coincideva quindi con la “pazzia” o la
“follia”.
Nei casi esaminati invece si era in presenza di una “mania senza delirio”. La
biforcazione delle interpretazioni psichiatriche condusse alla distinzione tra mania
con delirio generale e mania senza delirio: nella prima erano colpiti sia l’intelletto
che la volontà, mentre nella seconda forma non esisteva alcuna lesione organica del
cervello in quanto ad essere colpite erano solo le finzioni affettive41.
Sul concetto di mania senza delirio si soffermò anche il suo allievo Esquirol, il quale
diede autonoma dignità alla “monomania” intesa quale delirio limitato ad un
particolare oggetto esterno e divenuta nuova categoria psichiatrica riassumente in sé
le precedenti definizioni della follia parziale e della mania senza delirio.
Dal punto di vista giuridico, la sensibilità dell’epoca sopportava mal volentieri per
carenza di volontà della condotta in soggetti sostanzialmente intelligenti quali i
monomaniaci e si dovette rivoluzionare l’approccio alla questione arrivando ad
ammettere che sia i monomaniaci deliranti che quelli ragionanti fossero vittime ed
esecutori di impulsi irresistibili al pari dei folli totali e quindi non responsabili
secondo il dettato normativo dell’allora vigente codice napoleonico.
Complessivamente va detto tuttavia che la distinzione tra patologie dell’intelletto
(monomania delirante) e dell’affettività (monomania istintiva) non trovò humus
favorevole e, muovendosi dal principio dell’unicità della psiche42, si negò da diverse
prospettive ed ambienti la sussistenza di follie, ancorché parziali, che non avessero
una base delirante organica e come tale anche ereditaria.
Non può tacersi lo sforzo compiuto da giuristi e psichiatri inglesi del XIX secolo
incentrato sulla classificazione ed esatta delimitazione della follia morale.
Prichard definì la monomania con assenza di delirio moral insanity ed identificò la
sua essenza nella mancanza di connessione tra emotività e senso etico.
41
42
PINEL P., Introduzione della I edizione di Traité medico-pholosophique, trad. it., integrale in
ZILBOORG, Storia della psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1963.
FALRET J. P., Des maladies mentales et des asiles d’aliénés: leçons cliniques et considérations
générales , J. B. Baillière, Paris, 1864.
59
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Nell’individuare i fattori diagnostici e nel descrivere la sequela degenerativa della
follia morale (conducente ad un giudizio di non imputabilità) egli definì la stessa
quale “affezione mentale consistente in un pervertimento morboso dei naturali
sentimenti, affetti, inclinazioni, del temperamento, degli stati di animo e degli
impulsi naturali, senza apprezzabili disordini o deficienza dell’intelletto, ossia delle
facoltà conoscitive razionali, e particolarmente senza alcuna illusione o allucinazione morbosa”43.
Offrire un modello di personalità folle, nel quale gli elementi costitutivi fossero il
carattere ereditario, il fondamento degenerativo, la lesione organica diffusa, fu il
percorso intrapreso dagli studiosi italiani.
Proprio in Italia, l’orientamento fortemente organicista della psichiatria indusse a
ritenere la monomania, la follia ragionante e la follia morale tutte espressioni di
degenerazione: essa era una vera e propria deviazione.
L’esigenza esplicativa e ancor più il riferimento ad un’ipotesi anatomo-patologica
quale quella degenerativa, supportavano e consolidavano la costruzione della follia
morale in sede giudiziaria.
Il codice Zanardelli del 1889 non menzionò l’irresistibile impulso quale causa
escludente l’imputabilità, ma condizionò l’irresponsabilità penale ai soli casi in cui
la veemenza coartante ovvero l’impossibilità di agire altrimenti fosse derivata da un
disturbo patologico psichico44.
La concezione darwiniana della derivazione dell’uomo dalle scimmie antropomorfe
condusse Lombroso alla formulazione della teoria atavistica o reversiva del delitto:
egli si convinse che, a seguito di fenomeni di arresto dello sviluppo, in alcuni
individui si riproducessero note somatiche tipiche di specie a lui inferiori, con
conseguente corrispondenza di atteggiamenti psichici e comportamenti diretti al
soddisfacimento di istinti primordiali.
Il tipo antropologico di individuo era segnato da anomalie congenite che coartavano
la spinta volitiva e lo determinavano alla commissione del delitto; esse si palesavano
attraverso malformazioni dello scheletro, asimmetrie del cranio e facciali, fronte
43
44
ALTAVILLA E., Il delinquente e la legge penale, Morano, Napoli, 1954.
Secondo la giurisprudenza del tempo l’imputabilità poteva essere esclusa soltanto se ove vi fosse stato
un vero stato morboso, cioè un quadro patologicamente anormale delle facoltà mentali: tale non era
l’effetto delle passioni. Per la non punibilità occorreva la mancanza di coscienza o libertà derivate da
un’infermità di mente.
60
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bassa, naso storto, occhi strabici, nonché particolari caratteristiche psicologiche
quali crudeltà, pigrizia e insensibilità al dolore45.
L’esclusività dell’atavismo come unica spiegazione del delitto fece derivare accese
critiche alla teoria di Lombroso: l’errore fu nel voler collegare inscindibilmente le
note morfologiche all’identificazione certa dell’uomo delinquente. Diversamente, il
dibattito critico posteriore dimostrò che esse potevano indicare delle anomalie ma
non individuare “l’anomalo delinquente”.
Lombroso rivalutò così la propria teoria coordinando la concezione reversiva con
quella degenerativa: presupponendo che l’arresto dello sviluppo favorisse una
ricettività a fattori morbigeni, l’autore giunse alla conclusione della confluenza di
entrambi gli aspetti nella etiologia dell’uomo che delinque. Il pazzo morale, privo di
senso etico ed incapace di distinguere il lecito dall’illecito, lasciava liberi i propri
istinti che, ridestati dal fondo della coscienza potevano riaffiorare con tutta la loro
veemenza criminale.
Le anomalie reversive o degenerative rappresentarono dunque quella zona di
passaggio tra sanità e morbosità che poteva allargare la realtà umana nel gorgo della
malattia mentale.
Anomali e malati vennero differenziati pur rappresentando entrambi deviazioni della
normalità; i primi conservavano intatto il funzionamento psichico e agivano per
un’egoistica esagerazione della personalità o per un’impulsività incontrollata senza
mai riscontrarsi un fenomeno morboso, i secondi invece presentavano un
perturbamento della coscienza, un distacco falsato nei rapporti di relazione con il
mondo esterno e difetti nei processi logici, mnemonici e volitivi.
Tradotto in termini legali era considerato normale ogni uomo che, per la sua
struttura fisio-psicologica, comprendesse il valore del precetto penale e fosse capace
di rispettarlo; delinquente imputabile “l’anomalo”, folle non imputabile il “malato”.
Tuttavia l’attenuarsi dei disturbi psichici e la rilevanza di quelli etici condussero alla
configurazione delle personalità immorali. Mentre i profondi squilibri psichici
conducevano il folle reo ad agire sotto l’influsso del suo perturbamento mentale
alterando ideazione e coscienza, la sola mancanza di reattività affettiva e l’anomalia
del senso etico rendevano il criminale capace di qualunque delitto e con un’evidente
45
LOMBROSO C., L’uomo delinquente, Napoleone, Roma, 1971.
61
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propensione alla recidiva. Altavilla scriveva: “è perfettamente vero, che il gesto di
questi delinquenti non ha il cieco carattere dell’automatismo, ma è pur vero che per
la maggior impulsività, per il più angusto processo associativo, per la mancanza di
rispondenza emotiva, all’azione si giunge rapidamente, senza il travaglio di una
mediazione creata da un conflitto interiore. Ed anche questo motivo ritarda
l’azione, esso deriva dalla preoccupazione di procurarsi l’impunità o di prepararsi
comunque una tesi difensiva… nel violento vi è un temperamento dalla facile
reattività, sprezzante del pericolo. Questo delinquente se subisce un torto compie la
vendetta con la maggiore ferocia e preferirà il pugnale, non ha alcuna ripugnanza
per il sangue chè anzi esso accende con la sua bramosia e lo rende crudele nella
reiterazione dei colpi…”46.
Mentre quindi i disturbi della coscienza e della volontà incidevano nella sfera
dell’imputabilità, le dissociazioni ideo-affettive, sia pur accompagnate da
imperfezioni dei processi conoscitivi e volitivi, non determinavano un’alterazione
della capacità di intendere e volere. Altavilla concluse che: “a) non è sufficiente
accertare l’origine morbosa del delitto, ma è necessario che si dimostri la sua
natura morbosa; b) questa natura, per avere rilevanza giuridica deve grandemente
alterare la coscienza e la volontà. Il che, specialmente per i disturbi della volontà,
ha applicazione anche per la tendenza a delinquere; c) non occorre per
l’imputabilità la coscienza dell’illiceità della propria condotta; è la deficienza
psichica, non il daltonismo morale, anche derivato da una conformazione biologica
che deforma, inverte l’affettività, che ha rilevanza”47.
Dalla figura dell’originaria monomania intellettiva si generò la dottrina della
paranoia, intesa come malattia secondaria e consecutiva alla melanconia ed alla
mania. Il Griesinger sostenne la natura sempre secondaria della paranoia,
individuando due tipi di idee deliranti: espansive (idee di grandezza) e passive (idee
di persecuzione), a cui vi aggiunse lo stato di esaltazione mentale con idee deliranti
fisse di tipo ambizioso, considerato guaribile.
Nella scenda metà dell’ 800 si aggiunse una nuova forma patologica fondamentale
caratterizzata dalla comparsa primitiva di idee deliranti miste (grandezza e
46
47
ALTAVILLA E., op. cit.
Ibidem.
62
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persecuzione) accompagnate da allucinazioni; nasceva il “delirio sistemizzato
primitivo”.
La paranoia venne distinta in forma degenerativa (primaria) e psiconevrotica
(secondaria): la prima rientrò tra le degenerazioni mentali ed in essa le idee deliranti
primitive avevano uno sviluppo graduale ed insidioso, tendendo a stabilizzarsi in
demenza; la seconda fu considerata come una possibile evoluzione della psiconevrosi e come uno stato conseguente all’indebolimento psichico.
Sul piano criminologico, la paranoia pura veniva espressa come un’aberrazione
dello sviluppo mentale cagionata da una vicenda carica di contenuto affettivo che
produceva un urto esogeno o endogeno innescante il processo patologico.
Nella spiegazione comportamentale si sottolineava il convincimento del paranoico
circa la legittimità del proprio operato accomunata da un delirio interpretativo
conducente anche all’azione più cruenta che rendeva questi soggetti totalmente
irresponsabili o parzialmente imputabili. I comportamenti psicopatici sono
scarsamente comprensibili sul piano motivazionale, ma comunque riferibili ad un
desiderio irresistibile con tendenza alla recidivazione delle condotte. È possibile
distinguere le forme in essenziali (senza anomalie o patologie mentali al di fuori del
comportamento stesso), psicotiche (il comportamento e sintomo o prodromo
dell’affezione mentale) e nevrotiche (la condotta abnorme assume il significato di
scarica delle frustrazioni).
La semiologia del comportamento rimarca la necessità di accertare il carattere
patologico delle condotte delinquenziali. L’omicidio può essere che venga
commesso sotto l’impulso irresistibile del proprio delirio oppure come impulso
ossessivo, cioè tendenza irrefrenabile ad eseguire un atto contro la propria volontà.
Si parla anche di “discontrollo episodico” in cui l’Io, in condizioni di stress
prolungato pone in essere alcuni meccanismi di regolazione; semplici fenomeni di
nervosismo sfociano in un impulso aggressivo ed improvviso che sfugge al controllo
dell’Io, il quale solo successivamente potrà comporsi.
La peculiarità della teoria in esame ruota intorno alla considerazione che l’individuo
non psicotico, trovandosi di fronte a tali fattori esogeni disturbanti, risponda con
modalità aggressive improvvise e deflagranti. La frattura ed il distacco dalla realtà si
63
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ripristinano più o meno rapidamente dopo la scarica aggressiva ed il soggetto, una
volta recuperato l’equilibrio, può sconfessare o negare (dimenticare) l’accaduto.
Sul piano giudiziario l’ipotesi che viene ricondotta a questa tipologia
comportamentale
è l’omicidio d’impeto e immotivato: si rileva una spiccata
incapacità do controllo delle pulsioni, una confusa distinzione tra realtà e fantasia,
un’alterazione frequente della coscienza, reazioni brusche e superficiali ed una vita
violenta e primitiva. L’azione omicidi aria si presenta dopo un periodo di tensione
crescente catalizzata dai rapporti con la vittima: ante factum il sistema difensivo
dell’Io si mostra instabile e l’equilibrio emotivo appare vacillane, gravido di energie
distruttive; post factum il comportamento del reo si presenta calmo e privo di
rimorso48.
4.3 Il meccanismo emozionale nella commissione del delitto
Sul piano criminologico lo studio delle reazioni eccessive ed abnormi fu connesso
all’analisi del meccanismo emozionale ed al grado di coefficienza del fattore
endogeno predisponente l’inclinazione al crimine.
Il processo affettivo venne analizzato in riferimento alle scariche emotive: in esse lo
svincolarsi dell’attività motoria dell’azione della personalità superiore dimostrava
come l’intenzione fosse un fenomeno rapido, determinato dall’urto di uno stimolo
che travolgeva con violenta impulsione all’immediata reazione.
Diversamente, nella passione si sottolineò in controllo del pensiero e della
riflessione sugli istinti e le tendenze. In sintesi l’emozione era descritta come uno
stato acuto e la passione come uno stato cronico “più a fondo reattivo il primo,
mediativo il secondo; fiumana che travolge le dighe l’emozione, torrente che scava
sempre più profondamente il suo letto la passione”49.
Allorquando lo stimolo esogeno determinava una contrazione dei tempi decisionali,
sicché la coscienza rimaneva estranea all’azione e la rapidità dell’esecuzione
impediva ogni controspinta attivabile dai processi associativi, il movimento si
48
49
SURACE G. M.P., op. cit.
ALTAVILLA E., op. cit.
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considerava dominato da un atto non volontario e si soleva parlare di azione “a corto
circuito”. Al contrario le emozioni ritardate, che non producono un’immediata
reazione allo stimolo, vennero distinte dalla semplice emozione riflessa, derivante
invece dalla evocazione di un avvenimento e dal ricordo emotivo che esso destò al
momento della sua percezione.
Una diversa ed ulteriore fenomenologia presentavano le emozioni suscitate da
ruminazione mentale: la fase della meditazione comportava uno stacco tra
l’originario stimolo esogeno e la reazione successiva, poi si proseguiva con il
descrivere le emozioni compresse, per le quali il tentativo di dominare la reazione ad
uno stimolo doloroso mediante uno sforzo soppressivo, produceva un opposto stato
di esacerbazione delle stesse in una sorta di fermentazione interiore.
La preoccupazione di cogliere tutte le possibili sfumature emotive con i meccanismi
psicologici che erano alla base era dettata dalla necessità di distinguere il
delinquente emotivo e passionale da quello endogeno, che pur poteva agire per
emozione o passione.
I criminologi discernevano le situazioni nelle quali si rimaneva nei limiti
dell’imputabilità e nella nozione di “emotivo” da quei casi estremi in cui le reazioni
emotive erano invece riconducibili ad delinquente endogeno o allo squilibrio del
malato di mente. Si chiariva così che il riferimento all’art. 90 c.p.50 non operasse ove
si fosse sconfinato nella morbosità, ricorrendo in tali casi gli articoli 88 e 89 c.p.51
Occorreva quindi una distinzione che permettesse un discrimine tra reazioni emotive
non patologiche, riconducibili a temperamenti trepidanti e quindi a soggetti dalla
sensibilità diffusa ed esagerata con insufficienza di inibizione motoria, ed iperemotività morbosa, sintomo di follia.
Tra le emozioni criminogene per eccellenza l’ira e la paura vennero descritte come
dirette derivazioni rispettivamente dell’istinto di difesa e di conservazione: entrambe
erano considerate alla base per la distinzione tra provocazione, legittima difesa e
stato di necessità.
50
51
“Gli stati emotivi e passionali non diminuiscono né escludono l’imputabilità”.
Art. 88 c.p. Vizio totale di mente. “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era,
per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere”.
Art. 89 c.p. Vizio parziale di mente. “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità,
in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere,
risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”.
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L’ira poteva evolversi da atteggiamenti reattivi a mero carattere difensivo (collera)
ad esplosioni di contro-sofferenza offensive (vendetta) dimostrando la propensione
criminale del soggetto a cagionare dolore agli altri e ricavarne soddisfacimento
sadico. Stati d’ira sfrenati e sconclusionati venivano comunque ricondotti ad una
predisposizione soggettiva, palesandosi in tutta la loro veemenza emotiva sotto
forma di impulso furioso e distruttivo.
Anche nella paura si riscontrava una costituzione iperemotiva da diffusa ed
esasperata sensibilità, cui si aggiungeva un acuito istinto di conservazione; essa, pur
non essendo espressione di temperamento criminale, poteva condurre il soggetto al
delitto giacché si alimentava un’idea fissa che andava ad incidere sulla condotta.
Altavilla suggerì la distinzione di tre situazioni di rilievo penale: costituzione
distimica coincidente con quella delinquenziale che, con i ripetuti cambiamenti di
umore e la facile irritabilità, esasperava l’impulso criminale (criminali folli);
costituzione distimica avente valore criminologico al di fuori di una costituzione
delinquenziale, in quanto il delitto era espressione di una forma morbosa conclamata
a non di una rivelazione di criminalità (folli delinquenti); atteggiamenti distimici
riconducibili a diverse malattie mentali, il cui valore criminogeno andava rapportato
alla sintomatologia manifestata52.
Nella descrizione della distimia si evidenziava che la fase maniacale, contraddistinta
da delirio generalizzato, poteva condurre a crisi furiose accompagnate da gesti di
estrema violenza, ma la tipologia morbosa di particolare interesse criminologico
restava comunque l’ipomania: la visione euforica della vita e la conseguente
supervalutazione delle proprie capacità rendeva il comportamento di questi soggetti
spiccatamente impulsivo perché svincolato di freni inibitori. All’imputabilità ridotta
degli ipomaniaci si affiancava la totale incapacità di intendere e volere degli affetti
da mania visto il radicato e penetrante perturbamento della coscienza e della
volontà.
La dottrina coeva al codice era parecchio sensibile alla problematica
dell’inimputabilità del folle ed alle molteplici sfumature circa la capacità di
intendere e volere. Si riteneva, infatti, che il codice richiedesse una capacità
conoscitiva e volitiva sufficientemente normale per essere imputabili, cioè matura e
52
ALTAVILLA E., La dinamica del delitto, vol. II, Utet, Torino, 1953.
66
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non turbata da infermità: il coordinamento tra gli artt. 42 e 43 c.p53. imponeva la
necessità del normale funzionamento psichico che, incidendo sugli atteggiamenti
esteriori in rapporto al successivo mutamento del mondo fisico, conduceva ad una
condotta intenzionalmente diretta a cagionare l’evento (dolo) o produttiva dello
stesso a prescindere dalla previsione (colpa), ovvero superata dalla gravità
dell’evento non voluto (preterintenzione).
Pertanto si precisava la necessità della sussistenza della maturità psico-volitiva del
soggetto agente all’inizio e durante tutta l’esecuzione del reato per giungere ad un
giudizio complessivo di responsabilità. Dallo stato di non imputabilità dei folli e dai
concetti di normalità e maturità si inferiva che la capacità di intendere, cioè di
selezione e discernimento coscienti dei motivi che spingono all’azione, si risolveva
in un giudizio di convenienza capace di contrastare gli stimoli criminogeni. I vincoli
tra imputabilità e midi di estrinsecazione della volontà erano dunque strettamente
connessi, poiché la prima non era altro che l’attributo di normalità e maturità della
volontà, intesa tanto come capacità di agire quanto come attività che si è
concretamente estrinsecata.
53
Art. 42 c.p. Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità
obiettiva. “Nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se
non l’ha commessa con coscienza e volontà.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con
dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge.
La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza
della sua azione od omissione.
Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia
essa dolosa o colposa”.
Art. 43 c.p. Elemento psicologico del reato. “Il delitto:
è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od
omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come
conseguenza della propria azione od omissione;
è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o
pericoloso più grave di quello voluto dall’agente;
è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si
verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti,
ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì
alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un
qualsiasi effetto giuridico”.
67
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Si riteneva quindi che un contegno o un comportamento era tanto più normale
quanto maggiore fosse stato il dominio della volontà, capace di essere regolato da
precetti etico-sociali. Nel caso di soggetto dal temperamento reattivo non dovuto a
contingenze morbose, ove allo stimolo seguisse una reazione non controllata,
doveva ritenersi che il delinquente fosse imputabile e pericoloso. Una volta
attribuita rilevanza al valore sintomatico del reato quale efficace criterio di indagine
per la diagnosi di pericolosità dell’autore si passava poi a valutare la dinamica
volitiva rapportando l’azione all’ordinario contegno del delinquente ed alle sue
modalità tipiche di reazione dinanzi a taluni stimoli, così da pervenire alla
formulazione di un giudizio che selezionasse il delitto o come mero gesto
inconsueto o come derivato di un abituale comportamento espressivo della
particolare personalità del reo54.
L’atto criminale pertanto dimostrava la proclività psichica del soggetto a produrlo,
salvo che il gesto delittuoso fosse stato l’effetto di fattori non rivelanti tale
personalità, ma modificanti la stessa in condizioni di tumulto emotivo ed affettivo
ed inibenti qualunque resistenza. In questo specifico caso l’anomalia della condotta,
contrastante con l’abituale comportamento psico-etico della persona, non coincideva
con l’anomalia dell’autore ma ne rilevava semmai la temporanea alterazione
personologica. Il discrimine tra criminalità e follia era determinato dalla
constatazione che, fin quando il delitto avesse ubbidito a stimoli derivanti da bisogni
fisiologici, poteva discutersi di criminalità e di delinquente responsabile; ma se
invece la condotta avesse risposto ad uno sterile piacere occorreva che il giudizio
del magistrato fosse preceduto da quello di uno psichiatra.
E nel caso di delitto d’impeto? Cosa accade?
Lo stato di coscienza obnubilata derivato a chi improvvisamente aggredisce per
collera l’avversario, l’indeterminatezza dell’agito e l’ambiguità del criterio
dell’evento ai fini di accertare la volontà colpevole dimostravano la difficoltà a
delineare l’intenzione reale e dunque la complessità dell’indagine criminologica. Ad
essa si giungeva mediante una preliminare considerazione: quando l’istinto di difesa
(collera) veniva eccitato da un diritto messo in pericolo o da un’ingiusta pretesa
emergeva un primo elemento per un giudizio di scarsa pericolosità. Altavilla
54
SURACE G..M.P., op. cit.
68
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affermava: “chi si irrita e reagisce per il fatto ingiusto altrui, dà alla sua collera
quel contenuto a fondamento difensivo; per lui il delitto ha un valore episodico; chi
vuole sopraffare e si incollerisce per la resistenza che incontra, agisce per
un’emozione aggressiva”55.
Il passaggio successivo consisteva nell’accertare la collocazione dell’impulso: se
esso fosse appartenuto alla abituale ed eccessiva attività del soggetto si sarebbe
sempre
più
avvicinato
al
temperamento
endogeno,
rappresentandone
un’esplicazione; se viceversa fosse stato l’effetto di una irresistibile reazione non
corrispondente al comune comportamento dell’individuo avrebbe rafforzato il primo
giudizio di scarsa pericolosità.
4.4 Imputabilità e colpevolezza nel sistema penale italiano
Il punctum dolens del dibattito tra medicina e giurisprudenza verte sul fatto di
riconoscere valore di malattia alla patologia mentale sottostante all’azione d’impeto,
ossia ricondurla nell’alveo del vizio di mente (totale o parziale ex artt. 88 e 89 c.p.)
ovvero considerare il delitto d’impeto conseguenza di meri tratti di personalità
ininfluenti sulla capacità di intendere e volere, che quindi non escludono la
responsabilità penale del soggetto agente.
L’approfondimento delle connessioni antropologiche di rilievo forense che
attengono ai rapporti tra emotività e responsabilità penale impone il richiamo ai
principali concetti di colpevolezza e imputabilità56.
È indubbio che l’idea della libera scelta, corollario del principio di responsabilità
personale, si fondi sull’autodeterminazione come espressione della coscienza
umana. È volontario l’atto che ha il suo principio in colui che lo compie e l’uomo è
libero nelle sue azioni quando né è l’origine ed esse ne sono figlie, mancando ogni
tipo di costrizione esterna.
Il problema dell’attribuibilità al volere del soggetto parte dall’art. 42 c.p. per il quale
“nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come
reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà”. La dottrina all’epoca del
55
56
ALTAVILLA E., op. cit.
SURACE G..M.P., op. cit.
69
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codice considerava la condotta come quel comportamento umano dominato o
dominabile dalla volontà dell’uomo; ritenendo l’alveo volitivo estendibile fino ad
alcuni atti automatici, cioè quelli che pur svolgendosi al di sotto della zona lucida
della coscienza potevano essere impediti dalla volontà mediante poteri di arresto, gli
studiosi vedono sussistente la responsabilità penale quando la condotta è frutto di
uno sforzo consapevole ovvero espressione di mancato o incompleto intervento
dell’energia psichica. Il nesso psichico così determinato non si configurava per
quegli atti che la coscienza non poteva avvertire neppure con uno sforzo di
attenzione o per quelli derivati da una forza fisica, fisiologica o psichica superiore al
potere della volontà dell’agente. L’actus humanus, quale esternazione di una
persona, proprio perché cosciente e volontario fuoriesce dal novero dei fenomeni
naturali e diviene oggetto di regolamentazione giuridico-penale57; la volontà in esso
esplicata sia come controllo vigile che come dominio potenziale sulla situazione
concreta rende l’azione od omissione attribuibile o riferibile all’agente.
Rientrano dunque nella suitas i fatti compiuti in stato emotivo e gli atti semiautomatici che il soggetto compie anche in parte inconsapevolmente ma comunque
da lui dominabili. Se viene a mancare la suitas suddetta non potrà esserci questione
di imputabilità.
Alla luce delle attuali scienze umane e sociali si ritiene libero il soggetto non
soccombente agli impulsi istintuali, capace cioè di opporre poteri inibenti e di
controllo idonei a consentire una scelta tra spinte motivazionali avversarie.
La costituzionalizzazione implicita del principio su esposto la si ricava
dall’interpretazione dell’art. 27 Cost. che sancisce il fondamento della responsabilità
personale da intendersi come responsabilità per fatto proprio colpevole; implica cioè
l’idea che gli uomini siano considerati liberi e responsabili fino a prova contraria.
Difatti, non essendo dimostrabile al vaglio empirico-giudiziario la possibilità di
adire altrimenti e quindi di accertare in positivo la capacità del soggetto agente di
porre in essere una condotta diversa da quella posta nella situazione concreta, la
libertà del volere si ricava in negativo ritenendola presente in mancanza di cause
valevoli ad escluderla.
57
ROMANO M., GRASSO G., Commentario sistematico del codice penale, vol. I, II, Giuffrè, Milano,
1996.
70
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Quali allora le cause psicopatologiche che coartano ed inficiano le capacità di
intendere e volere, tali da condurre ad un giudizio di non imputabilità/irresponsabilità penale?
Secondo la concezione psicologica della colpevolezza, il dolo e la colpa sono
riscontrabili anche negli immaturi e infermi di mente: rappresentando l’imputabilità
un modo di essere, uno status della persona necessario affinché la stessa sia
assoggettabile a pena, la sua mancanza opererebbe come semplice causa personale
di non punibilità. L’infermo di mente, quindi, ben potrebbe agire con dolo o colpa58.
È vero però che il non imputabile non è rimproverabile, potendosi configurare nel
suo caso solo un fatto tipico antigiuridico non colpevole. Recuperando perciò il
confronto tra il dolo e la colpa del soggetto imputabile e gli stati psichici
dell’incapace di intendere e volere, si da atto che potrà parlarsi di “pseudo dolo” e
“pseudo colpa” ma mai potrà supporsi una volontà qualificabile giuridicamente
come momento tipico del dolo, ovvero pensare che in simili evenienze l’agente si
rappresenti le connessioni causali da cui poi derivi il giudizio di imprudenza e
negligenza delle azioni lesive poste in essere.
Da ciò ne consegue che l’imputabilità intesa come maturità psicologica di
discernimento tra lecito ed illecito è presupposto della colpevolezza, giacché solo in
sua presenza ha senso il rimprovero mosso all’autore del reato. Viceversa, in
assenza di essa, potrà parlarsi solo di pericolosità sociale da cui far scaturire
l’applicazione delle misure di sicurezza59.
L’argomentazione è ancora più efficace se si orienta la visuale sul versante della
funzione della pena: profondamente ingiusta è la sottoposizione a pena a chi non è
compos sui, ossia chi non è in grado di percepire il valore della stessa e non è capace
di conformarsi al dettato della norma penale. Nei lavori attinenti il progetto di
riforma del codice penale del 2000, la Commissione Grosso constatò infatti che:
“[…]alcun rimprovero di colpevolezza può essere mosso a quei soggetti che
abbiano condizioni soggettive di incapacità e nei cui confronti non ha quindi senso
l’inflizione di una pena commisurata alla colpevolezza. In particolare l’imputabilità
non è altro che la assoggettabilità alla pena, di talché i problemi di disciplina
58
59
MANTOVANI F., Diritto penale, parte generale, Cedam, Padova, 2001.
Ibidem.
71
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riguardano, primariamente, la individuazione di quelle situazioni soggettive di non
normalità psichica al momento del commesso reato”60.
4.5 Imputabilità e colpevolezza nel sistema penale tedesco e inglese
Avendo analizzato il sistema italiano sul punto, è utile ora fare un raffronto con la
disciplina di altri paesi europei, nello specifico la Germania e l’Inghilterra.
L’esperienza penale tedesca è improntata su un diritto penale di polizia: nella
riforma del 1975 emerge una spiccata differenza rispetto al codice penale italiano in
quanto la tematica dell’imputabilità rientra nel titolo concernente i presupposti del
reato e diviene elemento della colpevolezza.
Il sistema penale tedesco accoglie in toto la concezione normativa della
colpevolezza: il rimprovero per il fatto e non per la condotta di vita si concretizza in
un giudizio rivolto all’atteggiamento antidoveroso che ha accompagnato la
commissione del fatto. La “colpevolezza che fonda la pena” e “la colpevolezza per
la commisurazione della pena” rappresentano le due anime del giudizio di
rimproverabilità, la prima presupposto dell’imputazione soggettiva del fatto da cui
deriva l’inflizione o l’esclusione della pena, mentre la seconda criterio di gradualità
del rimprovero al cui connettere il quantum di pena.
Per ciò che concerne la categoria giuridica dell’imputabilità si statuisce che essa è
presupposto necessario della colpevolezza, sicché in sua mancanza il fatto illecito
non può configurarsi come reato non sussistendo neppure il problema del
rimprovero. Il concetto di imputabilità viene espresso come capacità di colpevolezza
e la sua disciplina è considerata esterna rispetto alla teoria del reato visto che esso è
già completo di tutti i suoi elementi allorquando venga accertata la sussistenza di un
fatto tipico, non scriminato doloso o colposo.
Il trattamento dei soggetti affetti da disturbi psichici prevede che agisce senza
colpevolezza chi al momento del fatto era incapace di rendersi conto dell’illiceità
del fatto o di agire secondo tale consapevolezza a causa di un disturbo psichico
60
www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm_grosso2.htm.
72
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patologico, di un profondo disturbo della coscienza o di una deficienza mentale o di
un’altra grave anomalia psichica (S 20 StGB).
Il disposto normativo è puntuale e più articolato rispetto all’art. 88 c.p., costituendo
espressione di un metodo misto - biologico/normativo - di approccio alla
problematica dei disturbi psichici. Per giudicare un individuo non imputabile vi è
un’indagine di tipo biologico volta a constatare l’esistenza di un substrato
patologico o comunque di un’anomalia psichica, nonché la rilevazione dell’idoneità
della menomazione psichica a provocare nel soggetto l’incapacità di comprendere il
gesto illecito e di agire secondo tale consapevolezza61.
L’opzione di elencare i possibili quadri psicopatologici di rilevanza forense mostra
le scelta del legislatore tedesco di sottrarre all’interprete la possibilità di estendere
per analogia le anomalie idonee ad escludere l’imputabilità, a favore del principio di
certezza del diritto.
Il citato articolo fa riferimento a diverse definizioni normative che occorre
specificare: i disturbi psichiatrici patologici sono quelli che provocano una rottura
della capacità di connessione del soggetto mediante un processo di malattia (es.
psicosi esogene quali quelle da intossicazione da alcool o stupefacenti, ed endogene
quali la schizofrenia); i profondi disturbi della coscienza consistono in alterazioni
non patologiche che creano una lesione dell’autocoscienza dell’autore o della sua
coscienza del mondo esterno (si tratta di disturbi che raggiungono un elevato grado
di anormalità: rientrano gli stati affettivi dovuti a stress, odio, paura e gelosia,
ipotesi queste che richiamano gli stati emotivi e passionale di cui all’art. 90 c.p.); la
deficienza mentale riguarda le grandi cause congenite di debolezza dell’intelligenza
che non hanno un’origine fisica; infine le altre gravi anomalie psichiche si
riferiscono alle psicopatie, nevrosi e disturbi degli impulsi. Le psicopatie sono
quelle anomalie della personalità (es. paranoia) che impediscono un normale
adattamento sociale, le nevrosi sono disturbi psichici non congeniti dovuti
all’ambiente che causano reazioni abnormi (es. depressione, fobie) e i disturbi degli
impulsi che invece sono considerati delle perversioni non aventi fondamento
61
FORNASARI G., I principi del diritto penale tedesco, Cedam, Padova, 2000.
73
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organico, incidenti sulla capacità inibitoria del soggetto tali da provocare una
dipendenza patologica all’azione delittuosa62.
Accertate le cause biologiche occorre poi procedere alla verifica dell’incapacità da
esse causata in ordine alla valutazione dell’illiceità del fatto o dell’agire
conseguente.
Come nel sistema italiano anche quello tedesco distingue la capacità del soggetto di
riconoscere l’illiceità del fatto (intendere) dalla capacità del medesimo di agire di
conseguenza (volere): anche qui se manca una delle due il soggetto agente non viene
considerato imputabile; del pari affinché venga esclusa la colpevolezza è necessario
che la presenza del fattore biologico sia concomitante al momento della
commissione del fatto.
Passiamo ad esaminare il sistema inglese.
Il sistema penale inglese ha la sua fonte culturale nel pensiero giuspenalistico della
common law. Le corti trascuravano l’analisi dell’effettivo atteggiamento psicologico
del soggetto e, dimostrata attraverso i fatti la condotta contraria al codice morale
dell’epoca, provavano la mens rea.
I successivi sforzi interpretativi, orientati ad apprezzare l’atteggiamento mentale del
soggetto, individuavano alcuni casi per i quali si riteneva che quanto era stato
compiuto “non era un’azione dell’imputato”: si trattava di atti commessi dal
soggetto, ma a lui non attribuibili poiché non era in grado di controllare i propri
impulsi nervosi o non si era rappresentato la natura dannosa o pericolosa delle
azioni; al di là del fare acquisiva importanza il volere, la subjective foresight, cioè la
previsione soggettivamente intesa.
In riferimento ai fattori che provocano l’incapacità della colpevolezza, l’infermità di
mente (insanity) presenta una triplice rilevanza: il relazione al tempo del commesso
reato può giungersi alla defence of insanity, o in caso di murder, anche alla
diminished responsability; in riferimento al momento del rinvio a giudizio del reo o
della dichiarazione, in seno ad esso, dell’incapacità di essere processato; in fase di
condanna può infine giustificare l’ordine di ricovero in un’istituzione di cura
(hospital order) o altro provvedimento analogo in luogo della condanna63.
62
63
SURACE G..M.P., op. cit.
Ibidem.
74
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Con riguardo alla defence of insanity si presume che ogni soggetto sia sano di
mente, finché non viene dimostrato e provato il contrario; l’imputato può addurre
come defence un difetto di ragione (defect of reason) ovvero una malattia mentale
(disease oh the mind).
L’insanity, il cui onere della prova incombe sull’imputato (a lui spetta sollevare la
questione della propria infermità mentale, attenendosi alla “preponderanza della
probabilità; per l’accusa invece vale il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio),
rileva solo in quanto sia un fattore di esclusione della mens rea e sempre che
sussistano tre fattori: il difetto di ragione, l’infermità mentale, la mancata
rappresentazione della natura e qualità dell’atto o della sua ingiustizia.
Il difetto di ragione (privazione dei poteri di ragionamento) deve dipendere da
un’infermità mentale, la cui definizione è legale e non medica, sicché le sole
patologie a fondamento organico non bastano a delimitare tutte quelle forme di
disease of the mind che hanno rilevanza legale (tra esse vengono incluse le psicosi).
Non sono qualificabili come insanity le alterazioni mentali transitorie dovute a
fattori esterni incidenti sul corpo della persona (alcool, droghe, ipnosi); esulano
ancora dal novero delle malattie mentali legalmente intese le alterazioni incidenti
sulla sfera della volizione e, quindi, il delitto da impulso irresistibile non trova
posto, anche se potrebbe sostenersi la defence di diminished responsability64.
L’imputato deve inoltre dimostrare che, a seguito della malattia mentale, non p stato
in grado di rappresentarsi la natura e la qualità dell’atto posto in essere – non
rendendosi conto della sua condotta, delle conseguenze ad essa collegate e delle
circostanze in cui lo stesso agiva - ovvero, pur essendo consapevole di quanto stava
facendo, non ne percepiva l’ingiustizia.
Diversa è poi la defence in caso di automatism, quello che per la dottrina italiana è il
difetto di coscienza e volontà nel soggetto agente. Prima ed indipendentemente dalla
mens rea, un actus è reus se voluntary o conscious, cioè realizzato sotto il controllo
della mente; chi agisce come un automa manca di actus reus volontario65.
Pertanto come per il nostro ordinamento, anche nel sistema penale inglese la
condotta è attribuibile al soggetto solo quando dipende da un impulso cosciente o
64
Diversamente il diritto penale scozzese nell’insanity include sia l’impulso irresistibile che le alterazioni
mentali transitorie.
65
VINCIGUERRA S., Diritto penale inglese comparato, Cedam, Padova, 2002.
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poteva essere impedita con uno sforzo inibitorio della volontà; viceversa, l’atto,
l’omissione e lo stesso evento si qualificano come involontari poiché esulano dalle
possibilità di controllo (automatism).
Per il riconoscimento del requisito suddetto occorre che l’autore non abbia il pieno
dominio dei movimenti degli arti e che la determinazione delle manifestazioni di
possibile rilevanza non sia definita a priori, come nel caso di sonnambulismo, stati
completi di incoscienza o alcuni casi di epilessia.
In tutte queste ipotesi il soggetto è prosciolto, ma l’automatism non deve derivare da
malattia mentale (non insane); in caso contrario il difetto di coscienza e volontà
viene trattato come patologia mentale (insane variety), ossia come un difetto di
ragione dovuto ad essa66.
4.6 Il valore di malattia e il vizio di mente
Il discorso fin qui condotto prosegue con l’approfondimento del concetto di
imputabilità tenendo conto delle risultanze empiriche delle scienze umane nel loro
complesso.
Il codice penale, all’art. 85, dopo aver stabilito che “nessuno può essere punito per
un fatto preveduto dalla legge come reato, se al momento in cui l’ha commesso non
era imputabile”, specifica “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.
La prima è l’attitudine del soggetto a percepire la realtà circostante rendendosi
altresì conto del valore o disvalore sociale della propria condotta e delle
ripercussioni ad essa collegate; la seconda include l’attitudine dell’individuo ad
autodeterminarsi, cioè a selezionare consapevolmente tra diversi comportamenti
quello più utile in vista dello scopo da raggiungere, conformando così la propria
condotta alle scelte di valore compiute.
Dal dettato normativo si percepisce che l’incapacità derivi da infermità, con ciò
volendo il legislatore del tempo limitare le cause di imputabilità alle sole situazioni
patologiche clinicamente accertabili. Ma il paradigma strettamente organico sinora
descritto ha subìto ampliamenti concettuali in ambito psichiatrico-forense grazie
66
Ibidem.
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all’evoluzione conoscitiva delle connessioni tra malattia ed infermità. La difficile o
sconosciuta derivazione causale dei disturbi mentali e la mancanza di certi segni
impediscono una corrispondenza univoca tra causa – lesione organica – ed effetto –
disturbi mentali conseguenti–. Tra malattia mentale ed infermità sussiste allora un
rapporto asimmetrico: non tutte le infermità costituiscono malattia e non sempre le
malattie sono infermità penalmente rilevanti ai fini dell’imputabilità67.
Le cause escludenti l’imputabilità appartengono alle species dell’immaturità
fisiologica o parafisiologica (minore età e sordomutismo) e delle alterazioni
patologiche (dovute ad infermità di mente), descritte agli articoli 88-89 del codice
penale.
Ponendo l’attenzione su queste ultime, tali da incidere sullo stato di mente, tre sono
le questioni da comprendere: cosa il legislatore abbia inteso per “infermità”, quale
sia l’indirizzo della dottrina psichiatrico-forense e come esso sia stato percepito ed
interpretato dalla giurisprudenza nonché stabilire se ed entro quali limiti il delitto
d’impeto sia l’effetto del turbinio emotivo di cui all’art.80 c.p. o se rientri nel
novero delle reazioni derivanti da abnormità psichiche irrilevanti ai fini del giudizio
di imputabilità ovvero ancora se il caso di specie si configuri quale preludio di ben
più grave patologia mentale che esclude la capacità di intendere e volere68.
Occorre muoversi dal concetto di infermità ex art.88 c.p. e, se esso sussiste in
riferimento ad alterazioni affettive, come si concilia con il disposto legislativo di cui
all’art.90 c.p. che espressamente nega rilevanza agli stati emotivi e passionali ai fini
del riconoscimento della non imputabilità.
In particolare, si vuole varcare quella linea di confine delimitante il discrimine tra le
alterazioni transeunti della sfera psico-intellettiva e volitiva, costituenti il naturale
portato degli stati emotivi e passionali, che non escludono solo per ciò l’imputabilità
e le diverse situazioni dove la sfera affettiva sia degenerata in uno squilibrio mentale
tale da obnubilare o attenuare le funzioni della mente. Come considerare, ad
esempio, la fulminea emozione e la passione lacerante che spingono il soggetto in
67
GRASSI L., NUNZIATA C., Infermità di mente e disagio psichico nel sistema penale, Cedam, Padova,
2003.
68
SURACE G..M.P., op.cit.
77
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una travolgente tempesta emozionale sino alla commissione del reato? Delitto
d’impeto? Raptus? Follia?69
Utile quindi partire dalla lettura del predetto articolo 88 c.p., il quale precisa che
“non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità,
in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere”.
Alla compromissione della dimensione volitiva può non derivare però la
disorganizzazione completa o apprezzabile dell’intendere: così alle volte la malattia
mentale rilevante per l’esclusione o riduzione dell’imputabilità è solo quella
medico-legale, dipendente da uno stato patologico veramente serio, altre volte
invece le deviazione del carattere e del sentimento (le anomalie del carattere e
dell’affettività) possono elevarsi a causa incidente sull’imputabilità solo quando per
la loro gravità cagionino uno stato patologico, cioè uno squilibrio mentale che alteri
la capacità di intendere e di volere. Così la Suprema Corte di Cassazione: “Gli
artt.88 e 89 c.p. postulano un’infermità di tale natura e intensità da compromettere
seriamente i processi conoscitivi e volitivi della persona, eliminando o attenuando
la capacità della medesima di rendersi conto del significato delle proprie azioni e di
comprenderne, quindi, il disvalore sociale, nonché di determinarsi in modo
autonomo. Le infermità che influiscono sulla imputabilità sono le malattie in sensi
stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze
stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche.
Queste ultime sono contraddistinte da un complesso di fenomeni psichici che
differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità,
come accade invece per il vasto gruppo delle abnormità psichiche, quali le nevrosi e
le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in
anomalie del carattere o della sfera affettiva, non rilevanti ai fini dell’applicabilità
degli artt. 88 e 89 c.p. (Cass. pen., 3 marzo 1993)70.
È indubbio che le malattie psichiatriche in senso stretto occupino un posto di primo
piano nella gerarchia classificatoria delle infermità rilevanti ex artt. 88 e 89 c.p.; non
vanno comunque escluse a priori altre anomalie psichiche la cui consistenza
69
70
BORGNA E., L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano, 2001.
SURACE G..M.P., op. cit.
78
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psicopatologica va accertata caso per caso, naturalmente quando esse abbiano
perturbato, diminuito o escluso le normali capacità intellettive e volitive.
Dalla relazione al progetto Grosso emerge, infatti, un adeguamento al sapere
scientifico che fa propendere per un approccio legislativo cauto, che non allarghi ma
nemmeno blocchi in modo troppo rigido le situazioni di possibile rilevanza ai fini
dell’imputabilità; il disposto dell’articolo 94 del progetto di riforma al codice penale
statuiva originariamente che “non è imputabile chi, per infermità o per altra grave
anomalia, ovvero per ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti, nel
momento in cui ha commesso il fatto era in condizioni di mente tali da escludere la
possibilità di comprendere l’illiceità del fatto o di agire in conformità a tale
valutazione”. In sede di revisione a “grave anomalia” è stata sostituita la locuzione
“grave disturbo della personalità” sicché “non è imputabile chi, per infermità o per
altro grave disturbo di personalità, ovvero per ubriachezza o intossicazione da
sostanze stupefacenti, nel momento in cui ha commesso il fatto era in condizioni di
mente tali da escludere la possibilità e capacità di comprendere il significato del
fatto (intendere) o di agire in conformità a tale valutazione (volere)”71.
Pur mancando un univoco concetto di malattia mentale è possibile individuare taluni
tratti condivisi: compromissione psichica e somatica ad andamento evolutivo con
causalità multipla, alterazione della struttura e dell’organizzazione dell’Io e del
rapporto Sé-Altri, interruzione o sovvertimento della libera espressione delle
funzioni dell’Io.
È ovvio che tali asserzioni si debbano concretizzare in valutazioni psichiatricoforensi dalle quali, cioè, possa desumersi una totale o parziale compromissione della
capacità d’intendere e di volere. In questa fase è preponderante il ruolo del perito.
Egli ha il compito di enucleare al giudice le conoscenze tecniche necessarie alla
comprensione della dinamica fenomenica e psicopatologica del fatto; il responso
peritale non vincola il giudice anzi egli non è tenuto a palesare l’esattezza delle
conclusioni a cui è giunto l’esperto se non ritenga di aderirvi, ma è anche vero che
l’autorità giudicante deve dare congrua ragione della scelta, dimostrare attraverso
una motivazione rigorosa e razionale di avere ponderato le conclusioni del perito
senza aver peraltro ignorato le sue argomentazioni.
71
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4.7 La graduabilità del vizio di mente: quadri psicopatologici e incertezze
definitorie
L’individuazione del grado di degenerazione delle funzioni intellettive e volitive al
momento della commissione del fatto di reato, necessaria al riconoscimento della
totale o parziale non imputabilità, non è affatto agevole: il compito diventa più
arduo quando ci si confronta con le flebili sfumature del comportamento umano,
quando vi sono forme intermedie e miste ai quadri psicopatologici.
Superato il criterio organicistico fondato sull’assioma follia-non imputabilità, si
afferma che ogni condizione morbosa può essere idonea e sufficiente a configurare
un vizio totale o parziale di mente purché la sua veemenza psicopatologica sia tale
da escludere o diminuire le capacità d’intendere e volere. Questa precisazione serve
ad escludere dal novero delle cause di infermità tutti quei tratti caratteriali e disturbi
di personalità che rappresentano semplici modi di essere della persona e non
comportano di per sé un deterioramento o scompenso dell’intera personalità (si
tratta di disarmonie del comportamento)72.
Volendo compendiare quanto finora esplicato si giunge a questi corollari:
-
l’infermità è un concetto più ampio di malattia;
-
l’infermità può derivare anche da malattia fisica, la quale sia produttiva di vizio
di mente;
-
le malattie mentali non sono considerate in assoluto escludenti l’imputabilità,
esse devono sussistere al momento della commissione del fatto;
-
proprio perché deve derivare da infermità, non sempre la mera deficienza
psichica può assumere valore e forma di vizio di mente, non avendo ogni
minorazione intellettuale psichica una sua genesi morbosa.
In base all’art. 88 c.p. la capacità di intendere o volere è esclusa del tutto, pertanto
ne deriva il proscioglimento dell’imputato cui può eventualmente applicarsi la
misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario (art.222 c.p.) se ritenuto un
soggetto socialmente pericoloso.
72
FORNARI U., Trattato di psichiatria forense, Utet, Torino, 2 edizione 1997.
80
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Ma il giudizio di rilevanza è ancora più complesso se guardiamo al vizio parziale di
mente regolato all’art. 89 c.p. secondo cui esso sussiste quando l’agente nel
momento in cui commesso il fatto era, per infermità, in tale stato di mente da
scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere; qui il
reo risponde del reato commesso, ma la pena viene diminuita. Ove si accerti la sua
pericolosità, anche egli è sottoposto alla misura di sicurezza dell’assegnazione ad
una casa di cura e custodia (art.219 c.p.) e, in caso di minore gravità, alla libertà
vigilata.
Il discrimine tra le due forme di vizio di mente è affidato ad un criterio quantitativo,
ovvero fondato sul grado e non sull’estensione dell’alterazione mentale.
È vizio parziale di mente non l’anomalia interessante un solo settore della mente, ma
quella che la investe globalmente anche se in misura meno grave; esso è
presupposto di minore rimproverabilità. Esso risulta vago e controvertibile, ma può
costituire un valido elemento di valutazione in tutte le ipotesi in cui non si rientri
nelle infermità escludenti in toto l’imputabilità ma si versi in quadri cosiddetti
“minori” e sempre che permanga il rapporto tra reato - sintomo e substrato
psicopatologico. Vi rientrano: le deficienze psichiche endogene e/o organiche che
non arrivino ad escludere del tutto l’imputabilità; le gravi psicopatie, nevrosi e
disturbi degli impulsi che possono compromettere notevolmente la capacità
d’intendere e volere.
Si afferma così l’irrilevanza della nevrosi a carattere episodico e sporadico, delle
psicopatie, della sindrome ansioso-depressiva, delle reazioni a corto circuito73.
La semi-infermità, rilevata dal perito e valutata dal giudice, diventa un utile
strumento di flessibilità del sistema poiché adegua l’ammontare della pena allo stato
di disagio psichico dell’autore del reato.
In nome del principio di colpevolezza dovrà ammettersi che anche le anomalie della
personalità possono incidere sulla capacità d’intendere e volere qualora,
delineandosi come gravi infermità, determinino la commissione di un fatto reato
sintomatico del disturbo psicopatologico sotteso.
73
FORNARI U., Monomania omicida, Collana di Criminologia clinica, Psicologia giudiziaria e
Psichiatria forense diretta da Ugo Fornari, Centro Scientifico editore, Torino, 1997.
81
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4.8 Delitto in preda al raptus e omicidio passionale
L’iter esplicativo sinora condotto chiarisce alcuni concetti sottesi alla problematica
concernente la definizione degli stati emotivi e passionali e la loro rilevanza ai fini
dell’imputabilità.
I sentimenti sono espressioni della realtà endotimica, cioè quella profonda interiorità
radicata negli stati più intimi del nostro essere: attraverso le proprie esperienze
esistenziali, l’individuo si coglie nella sua dimensione interiore come portatore di
bisogni e modulatore di istanze volitive ed istintuali, percependosi attore primario
sulla scena della vita e nello scambio relazionale con gli altri. Questa incessante
osmosi tra mondo intrapsichico ed interpersonale ha un fluire armonico che può
essere ostacolato da alterazioni psicopatologiche, reazioni abnormi riconducibili al
vissuto dell’agente in cui può estrinsecarsi il delitto d’impeto74.
L’evoluzione dell’esistenza rende il soggetto capace di rispondere in modo adeguato
e funzionale alle diverse sollecitazioni provenienti dall’ambiente circostante, in un
divenire di intrecci inestricabili di vissuti personali, convenzioni sociali e valori
irrinunciabili. L’esperienza emotiva è caratterizzata da un peculiare tono del sentire
e dall’incitamento ad agire, variabili a seconda della persona ed in uno stesso
soggetto in rapporto a circostanze contingenti: il turbamento affettivo episodico o
anche transitorio, quindi breve e spesso improvviso, tale da offuscare le altre attività
psichiche, si connota per quanto cangiante dei dati comuni dell’esperienza vissuta e
dell’attività motoria. In sintesi essa viene ricondotta ad una dimensione intimistica
di recupero dell’armonia psichica o, all’opposto, di contrarietà all’ordine mentale,
oppure analizzata nella sua componente finalistica quale regolatrice dei rapporti con
il mondo o strumento di utilità del pubblico o privato bene.
Sul piano psicopatologico è importante rilevare le connessioni tra personalità del
soggetto e l’incidenza di un disturbo dell’emozione.
Un turbinio improvviso può alterare l’agire finalizzato, inibendo l’espletamento del
compito, ed è proprio nell’oscillazione tra emozioni morbose illiberali e stati
74
www.stateofmind.it
82
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emotivi riconducibili a mere varianti quantitative dell’essere psichico che deve
condursi l’indagine psichiatrico-forense e la ricostruzione esegetica dell’art.90 c.p75.
Il suddetto articolo precisa che gli stati emotivi o passionali non escludono né
diminuiscono l’imputabilità; l’irrilevanza dell’episodio emozionale quale humus
psicologico del delitto risiedeva nell’intento pedagogico ed implicito del legislatore
dell’epoca di stimolare i cittadini al dominio della volontà sulle proprie emozioni.
Ma tale disposto normativo viene a contrastare con l’unitarietà della psiche quanto
con il rilievo ormai accertato che gli stati affettivi possano interferire sulla capacità
di intendere e volere sino a menomarla grandemente o escluderla: l’emotività e
l’affettività possono infatti subire consistenti modificazioni che, per intensità e
durata, superano ampiamente le motivazioni che le hanno causate.
La prassi giudiziaria conferma la rilevanza scusante dell’emotività solo in presenza
di un quid pluris che, associato alla condizione emotiva e passionale, si traduce in
un vero e proprio stato patologico, sia pure non inquadrabile nell’ambito di una
precisa classificazione nosografica. Un’improvvisa emozione da cui sia scaturito il
delitto è uno stato proprio dell’animo umano, una mera condizione psicologica e
non già psicopatologica e per ciò solo ininfluente ai fini del giudizio di imputabilità.
“In tema di imputabilità le cosiddette reazioni a corto circuito non escludono né
diminuiscono la capacità di intendere e di volere in quanto sono ricollegabili a
condizioni di turbamento psichico transitorio non dipendente da causa patologica,
bensì emotiva o passionale” (Cass. pen., 27 giugno 1995, n.7315); e ancora:
“possono tuttavia costituire, in determinate occasioni, manifestazioni di una vera e
propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, incidendo
soprattutto sull’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con
possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere,
quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni” (Cass. pen., 23 marzo 1995,
n.3170)76.
Tali emozioni possono presentarsi steniche (es. eccitamento) o asteniche (es.
tristezza) oppure ad andamento misto.
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76
JASPER K., Psicopatologia generale, Pensiero scientifico, Roma, 2000.
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Per quel che concerne poi le reazioni a corto circuito, l’indirizzo giurisprudenziale si
presenta oscillante: da un lato vengono ritenute inidonee ad incidere sulla capacità di
intendere e volere, stante la natura non patologica ed inquadrandole in uno stato
passionale; dall’altro, qualora costituiscano manifestazione di una vera e propria
malattia che compromette tali capacità del soggetto, possono ben inquadrarsi
nell’alveo dei disturbi psicopatologici eziologicamente determinanti lo stato di
infermità rilevante ai sensi degli art. 88 e 89 c.p. Ed ancora, ove la reazione suddetta
si ricolleghi a semplici manifestazioni di tipo nevrotico o ad alterazioni
comportamentali prive di un substrato organico, si viene a configurare una semplice
situazione di turbamento psichico transitorio qualificabile come stato emotivo e
passionale ex art. 90 c.p.
Le reazioni a corto circuito, sebbene si esplichino all’improvviso e senza
premeditazione in forma di impulso irresistibile con frequente restringimento della
coscienza, in realtà sono frutto di una lunga ed elaborata situazione tormentata
pregressa. Nel linguaggio giudiziario si parla di “raptus” indicando gli omicidi che
sembrano effetto di improvvisa follia, ma il quadro psicopatologico è ben più
complesso e di non facile definizione.
La fenomenologia si caratterizza per un’istantanea ed esagerata reazione agli
accadimenti ed ai sentimenti di vita; il tono emotivo si altera e varia tra stati di
accensione o di esasperazione. In questo turbinio di emozioni scocca la scarica
esplosiva incoercibile – turba episodica accessuale – concretizzantesi nella condotta
delittuosa repentina ed improvvisa, che si sottrae al controllo volitivo dell’agente. Il
passaggio all’atto sopraggiunge allora o quale risposta ad una cieca necessità
istintiva, oppure come impulso, ovvero quale reazione ad istanze deliranti o
allucinatorie77.
Nella prassi si parla indifferentemente di delitti commessi in preda al raptus e di
omicidi passionali, ma dal punto di vista strettamente giuridico si tratta di delitti
nettamente diversi tra loro.
Abbiamo detto in precedenza che lo stato emotivo viene definito come lo stato
mentale permeato dall’emozione: il delitto emotivo quindi si ravvisa nel gesto
omicida caratterizzato da impeto, impulsività, legato solitamente al movente della
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GULOTTA G., Elementi di psicologia giuridica e diritto psicologico, Giuffrè, Milano, 2000.
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gelosia. La scena del crimine parlerà chiaro, poiché ogni particolare sarà indice di
scatti d’ira, disorganizzazione, assenza di complici e nessun tentativo di
dissimulazione.
Diversamente lo stato passionale (dal greco pathos, sofferenza) è frutto di
un’emozione che si cronicizza, che perdura nel tempo ed esplode nell’atto estremo.
Tali omicidi, infatti, si contraddistinguono per il luogo in cui avvengono: per lo più
in auto, in casa e comunque in ambienti chiusi e intimi.
La voglia di rivalsa accomuna però sia l’omicida emotivo che passionale, come
anche il profilo degli autori (soggetti apparentemente rassicuranti, senza precedenti
penali e ignoti alle forze dell’ordine) ed il comportamento successivo al reato (non
si oppongono all’arresto o a confessare l’accaduto, seppur in maniera confusa).
Ciò che interessa puntualizzare è la differenza a livello legale tra i due tipi di
omicidi considerando la diversità dell’elemento soggettivo del reato. Può affermarsi,
difatti, che nel caso del raptus il soggetto sia mosso da dolo d’impeto, mentre in
quello passionale si pensa ad un dolo di premeditazione perché in qualche modo
progettato.
A questo punto sarà necessario accertare il grado di intenzione che ha animato la
mono assassina, chiedendosi quanto intensamente il criminale abbia voluto quel
delitto; si deve cioè prestare particolare attenzione alla fase dell’ideazione del
crimine nella psiche del reo e a quella della preparazione, intesa come
organizzazione del medesimo78. La programmazione del crimine indica infatti una
lucida pianificazione del gesto omicida che potrà assumere i connotati del delitto
d’impeto o di quello premeditato; nel primo caso la decisione di compiere il crimine
è improvvisa o quasi immediata rispetto allo stimolo esterno, mentre nel secondo,
più intenso, il reo disegna con accuratezza le modalità esecutive del delitto che è
solitamente posto in essere trascorso un certo lasso di tempo dall’ideazione.
Chiarita dunque la distinzione tra delitto emotivo e passionale, occorre domandarsi:
se in entrambe le tipologie di omicidio il reo sarà punito, l’alterazione dovuta ad uno
stato emotivo e passionale ne escluderà o diminuirà la capacità di intendere e
volere?
In linea di massima no.
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PONTI G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina, Milano, 1999.
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Del resto la logica seguita dal legislatore nella formulazione dell’art. 90 c.p. è che
l’emozione e la passione sono condizioni psicologiche e non psicopatologiche
facenti parte del patrimonio di ciascuno. Su quali basi scientifiche si fonderebbe una
dichiarazione giudiziale d’incapacità di intendere e volere atta a qualificare il reo
come non imputabile (dunque non assoggettabile a pena) o parzialmente imputabile
(destinatario di pena ridotta)? Tali stati potranno al più valere ad attenuare la pena
inferta
all’assassino,
ove
il
giudice
ravvisi
un
nesso
tra
l’insorgenza
dell’emozione/passione e la provocazione della vittima.
I rilievi svolti finora non devono tuttavia fuorviare; occorre distinguere, in effetti,
due diverse ipotesi:
a) il delitto è stato commesso in presenza di stati emotivi e passionali “normali”, la
cui intensità rientra nel range della sana emozione e passione. Il reo sarà ritenuto
capace di intendere e di volere e assoggettato alla pena prevista per l’omicidio
dall’art.575 c.p., salvo il riconoscimento dell’attenuante;
b) il delitto è stato commesso in presenza di stati emotivi e passionali connotati da
un’intensità e morbosità tali da integrare una vera e propria infermità mentale,
per cui l’alterata coscienza diviene vizio totale o parziale di mente del reo79.
In altre parole non può escludersi quindi che i medesimi stati emotivi e passionali,
ininfluenti sulla condanna penale in soggetti psicologicamente stabili assumano,
invece, la forma di patologie psicotiche che vanno ad incidere sulla capacità di
intendere e volere del reo quando egli è mentalmente instabile o affetto da disturbi
psichiatrici.
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CONCLUSIONI
La storia che ho deciso di trattare è un esempio di come la violenza di coppia, che vede
la ripartizione inequivocabile dei ruoli uomo carnefice e donna vittima, possa essere
ribaltata.
Perché in una relazione amorosa vittima e carnefice si uniscono in un rapporto malato e
perverso: non c’è vittima senza carnefice e viceversa l’uno dà vita all’altro. Arrivano
quasi a non distinguersi più, a fondersi totalmente.
Nel nostro caso la follia omicida di Adele è scaturita dal tradimento. Esso per chi lo
subisce ha un effetto devastante: si perde l’esclusività del rapporto, corpo e anima del
partner non le appartengono più, si sente delusa, gelosa e abbandonata. Prima si sentiva
insostituibile, ma ora un’altra ha preso il suo posto.
Adele questo non poteva sopportalo, dopo che aveva deciso coraggiosamente di lasciare
la sua famiglia per viversi senza ostacoli l’amore con il suo Giuseppe.
Questi pensieri diventano ossessivi e dominano la mente, la distruggono e la conducono,
esasperata, a compiere il terribile gesto.
Sono stata incuriosita da questo caso, mi ha fatto molto riflettere: riflettere sugli effetti
che un amore sconvolgente, sofferto e profondo può provocare nell’animo di una donna.
Una donna, Adele, calma e pacata che è ancora incredula per quanto accaduto.
È nel luogo di confine tra la passione dell’odio e dell’amore che avviene il delitto
dell’amato, quella passione d’amore così intensa che nel suo versante di follia si è
rovesciata nella passione incontenibile dell’odio.
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