Il battaglione che danzò sul campo di Cassino

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Il battaglione che danzò sul campo di Cassino
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la memoria
Ka mate, Ka ora
DOMENICA 18 SETTEMBRE 2011
I nativi neozelandesi nella Seconda guerra mondiale furono al fianco
degli Alleati su più fronti. Un libro ne racconta la leggenda
e il passaggio in Italia. “Storcevano il volto in espressioni
indemoniate, quasi in stato di trance”, proprio come gli All Blacks,
i guerrieri dell’ovale padroni di casa alla Rugby World Cup 2011
Ventottesimo Maori
1944
GENNAIO
12
Il battaglione che danzò
sul campo di Cassino
Inizia la prima battaglia di Cassino
MASSIMO CALANDRI
FEBBRAIO
4
5/6
15
17/18
19
Si forma il Corpo dei neozelandesi
che dà il cambio alle truppe americane
uscite da Cassino
Il Battaglione Maori si muove verso
il fiume Rapido
Ha inizio la seconda battaglia di Cassino
con il bombardamento del monastero
Le Compagnie A e B danno
l’assalto alla stazione ferroviaria
Il Battaglione Maori
abbandona il fronte di Cassino
MARZO
15
16
19
23
Inizia la terza battaglia di Cassino
con il bombardamento della città
I kiwi entrano nelle rovine di Cassino
Il Battaglione Maori si getta
a capofitto nella battaglia
La terza battaglia di Cassino
è in un punto di stallo
26-27 Il Battaglione Maori abbandona la città
APRILE
2-3
5-6
Il battaglione entra di nuovo in città
Il battaglione abbandona
definitivamente la cittadina
Q
uella mattina di pioggia i
guerrieri maori si sono disposti in semicerchio, secondo la tradizione. Hanno
cominciato a gonfiare le
guance come rospi, a strabuzzare gli occhi. A sbuffare, emettendo
dei gemiti inquietanti. A contorcere il viso in un delirio di espressioni indemoniate, mostrando la lingua ed entrando in
una sorta di trance. E tutto è cominciato.
Un urlo: «Ka mate, ka ora» («è la morte, è
la vita»). All’unisono si sono battuti il petto, hanno piegato le gambe e picchiato i
piedi per terra, stretto i pugni, contratto i
muscoli. Hanno alzato le braccia verso il
cielo, invocando i loro idoli prima di
un’altra battaglia. Era la haka, la danza di
guerra resa celebre in tutto il mondo dagli All Blacks, i giocatori di rugby neozelandesi. Era la prima volta che veniva eseguita in Italia. Ed era la primavera del
1944. Terminato il rito, i guerrieri hanno
imbracciato i fucili con le baionette e risalito il colle, sulle macerie di Cassino. Incuranti delle cannonate dei tank della
Decima armata tedesca.
«Datemi il Battaglione Maori, e vincerò
la guerra», confessava Erwin Rommel, la
Volpe del deserto, il generale comandante dell’Afrika Korps nazista. Sbalordito e
affascinato dal coraggio, dall’orgoglio e
dalla straordinaria attitudine alla lotta di
questi uomini. Nati per combattere, come
sanno bene gli appassionati di sport e in
particolare di palla ovale. Indomabili e avventurosi. Giunti per primi dalla Polinesia
alle isole della Nuova Zelanda, l’ultima
terra emersa, meno di un migliaio d’anni
fa. Sbarcati dopo una traversata infinita,
settimane in mare a bordo di canoe con le
sole stelle a tracciare la rotta. Viaggio e battaglia. Pronti già a scendere in campo in
Europa nella Prima guerra mondiale come cittadini britannici a fianco dei
pakeha, i neozelandesi bianchi, quelli che
nell’Ottocento si stabilirono nelle loro terre e con cui l’atavica diffidenza — dicono
— non sia mai stata risolta. Nel secondo
conflitto furono i capi tribù a spingere perché il governo di Wellington istituisse un
corpo speciale di fanteria composto solo
da nativi: il Ventottesimo Battaglione, ribattezzato il Battaglione Maori, aggregato
alla Seconda divisione neozelandese e
schierato per sei anni con le forze alleate
su diversi fronti, dall’Inghilterra alla Grecia, dalla Tunisia all’Egitto. All’Italia. Dal
1940 al 1946, tremilaseicento uomini provenienti da regioni e centri dai nomi evocativi come Tairawhiti, Waikato, Rotorua,
Maniapoto.
La leggenda del Battaglione Maori è
raccontata in maniera esemplare da un libro, Nga Tama Toa: The Prize of Citizenship(I guerrieri: il prezzo della cittadinanza)che raccoglie fotografie e testimonianze dei protagonisti di allora e in Nuova Zelanda ha un eccezionale e comprensibile
successo, perché questo è un pezzo di storia di una delle più giovani nazioni del
mondo. Anche un pezzo della nostra storia, se è vero che due lunghi capitoli sono
dedicati alla campagna d’Italia. Cominciata il 22 ottobre del 1943 con lo sbarco a
Taranto, dopo i primi anni passati prima
DOMENICA 18 SETTEMBRE 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
LE IMMAGINI
Nella foto grande, soldati maori durante una haka,
la danza rituale che precede la battaglia. In alto
a sinistra, cerchiato, il luogotenente Nepia Mahuika
con il Battaglione Platoon in Italia. In alto a destra,
alcuni soldati e ufficiali del Battaglione Maori di stanza
in Italia: da sinistra verso destra Rauaroha Tureri;
Mai Tutu Wi Repa; Hone Te Hauru Kaa; Pekama Hunia;
Brownie Ngata; Harold Kirk; James Richardson;
Te Kooti Reihana; Jack Reedy; John Waititi;
Sam Painora; Te Rauwhiro Tibble; Nepia Mahuika;
Hape Paringatai; Kaiaho Rehu; James Reedy
In basso: il menù realizzato dalla compagnia C
del Battaglione Maori alla fine della campagna italiana
ad addestrarsi tra Folkestone e Dover, poi
in Grecia, dalle Termopili a Creta, in Egitto ad El Alamein e Marsa Matrouth (247
italiani fatti prigionieri), e ancora Takrouna in Tunisia. I guerrieri maori risalgono la
penisola con gli Alleati, quattrocento chilometri per raggiungere l’Ottava armata e
sfondare la linea Gustav. Prima con i
gurkha indiani sotto la pioggia battente
oltre il fiume Sangro, in prima linea a dicembre nelle battaglie per conquistare le
strade e la linea ferroviaria nei pressi di Orsogna e Ortona (11 morti, 222 feriti), poi
una sosta a Sant’Angelo d’Alife e di nuovo
in marcia verso la valle del Liri.
Montecassino, la seconda battaglia del
17 febbraio per conquistare la stazione
ferroviaria. Il capitano Matarehua Wikiriwhi, quello che dicono guidasse la haka
e che alla fine avrà una
gamba
amputata (quando tutto sarà finito
tornerà a casa dal capo tribù, Takarua Tamarau, per dirgli che suo figlio Hori gli aveva salvato la vita proteggendolo col corpo
dal fuoco nemico), che chiede ai suoi uomini di tornare indietro — «Non possiamo
combattere i carrarmati con le baionette»
— ma quelli non vogliono sentire ragioni.
La terza e la quarta battaglia. La vittoria finale, a un prezzo altissimo: 340 uomini del
battaglione muoiono, altri milleduecento
rimangono feriti. Il sacrificio e la prova di
coraggio dei maori, la loro determinazione nei combattimenti corpo a corpo, risultano decisive. I militari dopo tanti mesi si concedono il primo hangi, il pranzo
tradizionale, carne e tuberi stufati.
Riprendono l’avanzata e i racconti, ma
con il passare dei giorni alla febbre della
battaglia si sostituisce quella del viaggio:
Firenze, Camerino, il secondo inverno sul
fiume Senio e il Santerno. «Mio nonno,
che era di Granarolo, li vide giocare a
rugby sotto la neve, a Faenza», ricorda Lu-
ciano Ravagnani, storica firma del giornalismo ovale. Poi Udine e Trieste, dove sfiorano lo scontro con gli uomini del maresciallo Tito e poi vengono inviati a Prosecco, pronti — se necessario — ad affrontare gli jugoslavi con le armi. Ed è in queste
pagine che i maori confessano tutta la loro empatia con gli italiani. Che parlano
una lingua dai suoni per certi versi simili,
niente a che vedere con l’inglese. «Alla
maggior parte degli italiani, specialmente
nel sud, non importa la differenza nel colore della pelle — scrive un giornalista
neozelandese dell’epoca — Anche nel
nord sono sempre benvoluti, i pakeha sono invidiosi del loro successo. Sono generosi, ma non comprano l’amicizia. Le
donne italiane di tutte le età amano i maori, e non è una questione di sesso. La verità
è che si assomigliano, sembrano pensare
nello stesso modo. I maori hanno un approccio diretto che piace agli italiani. E la
loro indipendenza, la loro fisicità, fanno
una grande impressione».
Massimo Valli è un ragazzino di Faenza,
e ricorda di fronte a palazzo Pancrazi una
battaglia a palle di neve con quei signori
«dalla pelle scura, che erano generosi e
avevano delle chitarre, amavano la musica e imparavano presto le nostre canzoni». Nepia Mahuika racconta che a
Camerino uno dei suoi commilitoni,
Wharehinga, si innamora di una ragazza. Si fa accompagnare nella casa del
padre di lei da un altro maori che parla
italiano, ma anche quello finisce per
innamorarsi della stessa giovane. E
quando Wharehinga danza una haka
di benvenuto per il futuro suocero e
questo si lamenta («Mi rovina il tappeto»), l’interprete traduce apposta
«voglio che danzi sul mio tavolo».
Wharehinga salta sul tavolo e viene
cacciato di casa, lasciando campo
libero al rivale in amore.
All’inizio dell’estate del 1945, il
Battaglione Maori lascia Trieste
su di un treno senza sedili. Ci sono tante ragazze alla partenza,
ma il comandante Awatere è irremovibile: «Perché volete portarle con voi? Molte wahine (ragazze) vi
aspettano in patria. Tornate a casa e sposatevi». Alcuni vengono trasferiti nei pressi del Trasimeno. Ma la maggior parte
vuole continuare a combattere e chiede di
andare sull’ultimo fronte ancora attivo,
quello asiatico, perché il Giappone non si
è arreso. Non ancora.
Dal 9 settembre la Nuova Zelanda sta
ospitando i campionati mondiali di
rugby. Jim Love, che è stato giocatore di
valore e buon allenatore in Italia prima di
tornare nella sua Rotorua — dove dirige
l’Accademia giovanile — ha scommesso
sulla vittoria degli All Blacks. «È la tradizione marziale dei maori — ha detto, aggrottando un po’ la fronte a proposito dell’abilità tattica dei connazionali pakeha — Lasciateci combattere e vedrete come finirà.
Non ci saranno prigionieri. Giuro». A guidare la haka che precede ogni battaglia in
campo è Piri Weepu. Un maori. Un antico
guerriero che contorce il viso, strabuzza
gli occhi, tira fuori la lingua. Come settant’anni fa, a Cassino.
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