Sartre - Liceo Galvani

Transcript

Sartre - Liceo Galvani
SARTRE, L'UOMO SECONDO L'ESISTENZIALISMO
L'uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all'inizio non è niente.
Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto. [...] L'uomo è soltanto, non solo quale si concepisce,
ma quale si vuole, e precisamente quale si concepisce dopo l'esistenza e quale si vuole dopo
questo slancio verso l'esistere: l'uomo non è altro che ciò che si fa. Questo è il principio primo
dell'esistenzialismo. Ed è anche quello che si chiama la soggettività e che ci vien rimproverata con
questo termine. Ma che cosa vogliamo dire noi, con questo, se non che l'uomo ha una dignità più
grande che non la pietra o il tavolo? Perchè noi vogliamo dire che l'uomo in primo luogo esiste,
ossia che egli è in primo luogo ciò che si slancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di
progettarsi verso l'avvenire.
L'uomo è ,dapprima, un progetto che vive se stesso soggettivamente, invece di essere muschio,
putridume o cavolfiore; niente esiste prima di questo progetto; niente esiste nel cielo intelligibile;
l'uomo sarà innanzitutto quello che avrà progettato di essere. [...]
Ma, se veramente l'esistenza precede l'essenza, l'uomo è responsabile di quello che è. Così il
primo passo dell'esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far
cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. E, quando diciamo che l'uomo è
responsabile di se stesso, non intendiamo che l'uomo sia responsabile della sua stretta
individualità, ma che egli è responsabile di tutti gli uomini. La parola "soggettivismo" ha due
significati e su questa duplicità giocano i nostri avversari. Soggettivismo vuol dire, da una parte,
scelta del soggetto individuale per se stesso e, dall'altra, impossibilità per l'uomo di oltrepassare la
soggettività umana. Questo secondo è il senso profondo dell'esistenzialismo. Quando diciamo che
l'uomo sceglie, intendiamo che ciascuno di noi si sceglie, ma, con questo, vogliamo anche dire che
ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini. Infatti, non c'è uno solo dei nostri atti che,
creando l'uomo che vogliamo essere, non crei nello stesso tempo una immagine dell'uomo quale
noi giudichiamo debba essere. Scegliere d'essere questo piuttosto che quello è affermare, nello
stesso tempo, il valore della nostra scelta, giacché non possiamo mai scegliere il male; ciò che
scegliamo è sempre il bene e nulla può essere bene per noi senza esserlo per tutti. Se l'esistenza,
d'altra parte, precede l'essenza e noi vogliamo esistere nello stesso tempo in cui formiamo la
nostra immagine, questa immagine è valida per tutti e per tutta intera la nostra epoca. Così la
nostra responsabilità è molto più grande di quello che potremmo supporre, poiché essa coinvolge
l'umanità intera.[...]
L'esistenzialista, invece, dice che il vile si fa vile, che l'eroe si fa eroe; c'è sempre una possibilità
per il vile di non essere più vile e per l'eroe di cessare d'essere un eroe. Quello che conta è
l'impegno totale, e non solo un caso particolare, un'azione particolare a impegnarvi totalmente.
(da L'esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 19717, 34-38, 66-67)
SARTRE, L'UOMO E' RESPONSABILE DEL MONDO
La conseguenza essenziale delle nostre precedenti osservazioni è che l'uomo, essendo condannato ad essere
libero, porta il peso del mondo tutto intero sulle spalle; egli è responsabile del mondo e di se stesso in quanto
modo d'essere. Prendiamo la parola 'responsabilità' nel suo senso banale di 'coscienza (di) essere l'autore
incontestabile di un avvenimento o di un oggetto (...) D'altra parte questa responsabilità assoluta non è
accettazione: è semplice rivendicazione logica delle conseguenze della nostra libertà. Quello che mi accade,
accade per opera mia e non potrei affliggermi né rivoltarmi né rassegnarmi. D'altra parte, con ciò bisogna
intendere che sono sempre all'altezza di quello che mi accade, in quanto uomo, perché ciò che accade agli
uomini per opera di altri uomini e di se stesso non potrebbe essere che umano. Le più atroci situazioni della
guerra, le peggiori torture non sono stati di cose inumani: non ci sono situazioni disumane; è solo per paura,
fuga o ricorso a comportamenti magici che deciderò dell'inumano; ma questa decisione è umana e ne
sopporterò tutta la responsabilità. Ma la situazione è mia inoltre, perché l'immagine della mia libera scelta di
me stesso e tutto ciò che mi presenta è mio in quanto mi rappresenta e mi simbolizza. Non sono forse io che
decido del coefficiente di avversità delle cose, e persino della loro imprevedibilità, decidendo di me stesso.
Così non ci sono accidenti in una vita; un avvenimento sociale che scoppia improvvisamente e mi trascina
non viene dall'esterno; se sono mobilitato in guerra, questa guerra è mia, essa è a mia immagine e la merito.
La merito dapprima perché io potevo sempre sottrarmici col suicidio o la diserzione: queste possibilità
estreme devono sempre esserci presenti allorché si tratta di considerare una situazione. Non essendomi
sottratto l'ho scelta: questo può essere per debolezza, per vigliaccheria di fronte all'opinione pubblica, perché
preferisco certi valori a quello del rifiuto di fare la guerra (la stima dei miei vicini, l'onore della famiglia ecc.).
In ogni modo si tratta di una scelta.
(Sartre, L'Essere e il Nulla)
SARTRE, SULL'ANTISEMITISMO
Per causa sua il Male accade sulla terra, tutto ciò che c’è di male nella società (crisi, guerre, carestie,
rivolgimenti e rivolte) gli è direttamente o indirettamente imputabile. L’antisemita ha paura di scoprire che il
mondo è fatto male: perché allora bisognerebbe inventare, modificare e l’uomo si ritroverebbe padrone dei
propri destini, provvisto di una responsabilità angosciosa e infinita. Perciò localizza nell’ebreo tutto il male
dell’universo. Se le nazioni si fanno guerra ciò non deriva dal fatto che l’idea di nazionalità, nella sua forma
presente, implica quella dell’imperialismo e del conflitto di interessi. No, è l’ebreo che sta lì dietro ai governi,
e soffia discordia. Se c’è una lotta di classe, ciò non si deve al fatto che l’organizzazione economica lascia a
desiderare: sono i caporioni ebrei, gli agitatori dal naso adunco che traviano gli operai. Così l’antisemitismo
è originariamente un manicheismo; spiega il corso del mondo con la lotta del principio del Bene contro il
principio del Male. Tra questi due principi non è concepibile nessun accordo: bisogna che uno dei due trionfi
e che l’altro sia annientato. […] [A questo punto risulta possibile tracciare un profilo dell’antisemita:] Questo
tipo siamo ora in grado di comprenderlo. È un uomo che ha paura. Non degli ebrei, certamente: ma di se
stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del
cambiamento della società e del mondo; di tutto meno che degli ebrei. È un codardo che non vuol confessarsi
la sua viltà; un assassino che rimuove e censura la sua tendenza al delitto senza poterla frenare e che pertanto
non osa uccidere altro che in effigie o nascosto dall’anonimato di una folla: uno scontento che non osa
rivoltarsi per paura della sua rivolta. Aderendo all’antisemitismo, non adotta semplicemente un’opinione, ma
si sceglie come persona. Sceglie la permanenza e l’impenetrabilità della pietra, l’irresponsabilità totale del
guerriero che obbedisce ai suoi capi, ed egli non ha un capo. Sceglie di non acquistare niente, di non meritare
niente, ma che tutto gli sia dovuto per nascita - e non è nobile. Sceglie infine che il Bene sia bell’e fatto, fuori
discussione, intoccabile: non osa guardarlo per timore d’essere indotto a contestarlo e a cercarne un altro.
L’ebreo è qui solo un pretesto: altrove ci si servirà del negro, o del giallo. La sua esistenza permette
semplicemente all’antisemita di soffocare sul nascere ogni angoscia persuadendosi che il suo posto è stato da
sempre segnato nel mondo, che lo attende e che egli ha, per tradizione, il diritto d’occuparlo.
L’antisemitismo, in una parola, è la paura di fronte alla condizione umana. L’antisemita è l’uomo che vuole
essere roccia spietata, un torrente furioso, fulmine devastatore: tutto fuorché un uomo. […] Ciò che
proponiamo qui è un liberalismo concreto. Intendo con ciò che tutte le persone che collaborano col loro
lavoro alla grandezza di un paese hanno pini diritti di cittadinanza in questo paese. Ciò che dà loro questo
diritto non è il possesso di una problematica ed astratta “natura umana”, ma la loro partecipazione attiva alla
società. Ciò significa dunque che gli ebrei, come gli arabi o i neri, dal momento che sono associati
all’impresa nazionale hanno il diritto di interloquire sul suo funzionamento; sono cittadini. Ma hanno questi
diritti a titolo di ebrei, neri o arabi, cioè come persone concrete.
(Jean-Paul Sartre, Réflexions sur la question iuive)