i giorni dell`amore e della guerra

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i giorni dell`amore e della guerra
LIBRO
IN ASSAGGIO
I GIORNI
DELL’AMORE E
DELLA GUERRA
DI TAHMIMA ANAM
I giorni dell’amore e della guerra
DI TAHMIMA ANAM
MARZO 1959
PROLOGO
Caro marito,
oggi ho perso i nostri figli.
Rehana comprò due aquiloni, uno rosso e uno blu, nell’emporio-pasticceria
dei fratelli Khan davanti al tribunale. L’uomo dietro al bancone li avvolse nella
carta da pacchi legandoli con uno spago di iuta. Rehana si infilò le confezioni
sotto il braccio e chiamò un risciò. Mentre stava salendo sul mezzo, vide
l’avvocato correrle incontro.
«Signora Haque, sono veramente dispiaciuto.» Sembrava sincero.
Rehana non riuscì a dire che era tutto a posto.
«Deve trovare i soldi. E l’unico modo. Trovi i soldi e poi ci riproviamo. Quei
bastardi non muovono un dito senza una bustarella.»
Soldi. Rehana sali sui risciò e alzò il tettuccio. «Dhanmondi», disse con voce
tremante. «Road 5.»
Quando arrivò a casa, i bambini erano seduti composti sul divano. I piedi di
Maya non arrivavano al pavimento. Sohail si stava guardando i palmi delle
mani contando le minuscole linee che li attraversavano. Vide Rehana e
sorrise, ma non si alzò dal suo posto, né strillò come fece Maya: «Ammoo!
Perché ci hai messo tanto?».
Rehana aveva deciso che non era il caso di scoppiare in lacrime davanti ai
bambini, così si era sfogata sui risciò, singhiozzando tanto da doversi tenere
aggrappata alla stretta sbarra del sedile, la bocca spalancata in una smorfia di
dolore. Il conducente, che sembrava davvero preoccupato, si era girato a
chiederle se voleva fermarsi per bere un bicchiere d’acqua. Rehana non
aveva mai assaggiato l’acqua che vendevano lungo le strade. Aveva rifiutato
con un cenno del capo, chiedendosi se lui avesse dei figli, e a quel pensiero
aveva posato la testa contro il tettuccio del risciò, lasciandola sussultare a
ogni sobbalzo del mezzo sulla strada. Ora, trovandoseli davanti, combattè la
tensione dei muscoli del volto e il gusto acre che le riempiva la bocca.
Combattè il bruciore agli occhi, il nodo in gola. Combattè tutto questo mentre
porgeva loro i pacchetti triangolari.
«Grazie, ammoo jaan», gioì Maya, scartando con foga il pacchetto. Sohail
non aprì il suo. Se lo mise in grembo, accarezzando la carta da pacco.
«Andrete a stare da Faiz chacha», annunciò Rehana in tono piatto. «A
Lahore.»
«A Lahore?» esclamò Maya.
«Mi dispiace tanto», disse Rehana al figlio.
«Quando torneremo?»
«Presto, ve lo prometto.» A Dio piacendo, fu sul punto di dire. «Vengono a
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prendervi giovedì.»
«Non voglio andarci.»
Rehana si morse la lingua. «Dovete farlo», replicò. «Dovete essere
coraggiosi. Puoi far volare il tuo aquilone, beta, e io lo vedrà da qui. E un
aquilone magico. Devi fare la brava. Devi fare la brava ed essere molto
coraggiosa. Il vento arriverà solo se sarai coraggiosa. E un giorno soffierà
così forte che ti riporterà qui da me. Non ci credi? Aspetta e vedrai.»
Caro marito,
i nostri figli non sono più nostri.
Come avrebbe fatto a dirglielo?
Montò sul risciò assieme ai bambini. «Azimpur Koborstan», disse.
Il cimitero era gremito di persone in lutto. Posavano fiori sugli umidi rettangoli
d’erba che crescevano sopra i loro cari. Nella fila vicina, un uomo con un
copricapo bianco piangeva con il viso tra le mani. Accanto a lui, una vecchia
stringeva un fascio di rami di bokul.
Rehana teneva i suoi figli per mano.
«Dite addio a vostro padre», li esortò, indicando la tomba di Iqbal.
Sohail si portò una mano al viso. «La-ill’ahah Ill’allah.»
«Anche tu, Maya.» I miei figli non sono più miei.
Il giudice aveva detto che Rehana non era riuscita a riprendersi dalla morte
del marito. Era troppo giovane per occuparsi dei bambini da sola. Non aveva
insegnato loro tutto quello che c’era da sapere su Jannat e l’aldilà.
Maya accennò a correre dietro a una farfalla. Rehana la afferrò per il gomito.
«Di’ addio a tuo padre.»
«Addio, abboo», mormorò Maya, con un’espressione distratta, inseguendo la
farfalla.
«Signora Haque», le aveva chiesto il giudice, «che cosa vorrebbe suo
marito?»
«Vorrebbe che fossero al sicuro», aveva risposto lei. «Sì, li vorrebbe al
sicuro.»
«Qui non è più sicuro, vostro onore», era intervenuto Faiz. «Con la legge
marziale,gli scioperi, la gente che manifesta per strada... non è sicuro. E per
questo motivo che mia moglie e io vogliamo portare i bambini a Lahore.»
Lahore, la città giardino dalle strade nuove e dagli edifici perfetti. Sorgeva a
millecinquecento chilometri di distanza, dall’altra parte dell’India. Faiz era il
fratello maggiore di suo marito. Faceva l’avvocato ed era molto ricco. Aveva
una moglie alta, severa e sterile, che guardava i due bambini con bramosia.
Rehana non era mai andata a genio a Faiz. Forse per la devozione che Iqbal
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le aveva sempre dimostrato: le lasciava le pantofole fuori dalla porta del
bagno mentre lei era nella vasca, le massaggiava i piedi con olio d’oliva, le
parlava con gentilezza. Se n’erano accorti tutti. Faiz gli diceva: «Fratello, stai
viziando tua moglie» e la signora Chowdhur che a Dhanmondi viveva nella
casa di fronte a loro, sospirava e dichiarava: «Tuo marito è un santo».
Faiz aveva raccontato al giudice l’episodio di Cleopatra. Rehana aveva
portato i figli a vedere Cleopatra. Ma era un film adatto a bambini così piccoli?
Lei aveva visto il giudice immaginarsi il seno di Elizabeth Taylor. E poi Faiz
aveva di nuovo tirato fuori la storia della moneta. Otto anni prima a Iqbal era
stata offerta in sposa una certa Rehana Ali di Calcutta. Rehana era una
ragazza di famiglia aristocratica, ma suo padre aveva perso un immenso
capitale a causa di investimenti sbagliati e una buona dose di sfortuna. Iqbal
aveva già trentasei anni e dirigeva con successo una compagnia di
assicurazioni: perché non sposarsi? Già, perché no. Aveva lanciato una
moneta in aria e dato una rapida occhiata al risultato, e se n’era andato a
dormire. La mattina dopo aveva mandato un messaggio alla famiglia dicendo
che avrebbe accettato.
Rehana non aveva mai creduto a quella storia, perché Iqbal non era tipo da
affidarsi alla sorte. Stipulava assicurazioni. Si occupava di sicurezza. Evitare
gli imprevisti, limitare le conseguenze. Forse con il matrimonio era cambiato.
Forse era per questo che Faiz ce l’aveva con lei. Suo fratello non era più suo
fratello.
Avrebbe dovuto bruciare dei peperoncini e spargerli in cerchio sulla testa del
marito. O, per lo meno, sgozzare una capra. Ma non aveva fatto né l’una né
l’altra cosa, e così lui era morto, cadendo in ginocchio davanti a casa un
giorno di gennaio, mentre il bastone da passeggio rotolava via e lui si tastava
il petto in cerca del suo orologio da taschino. Forse voleva fissare nella
memoria l’ora in cui avrebbe lasciato Rehana per sempre. «Maf kar do», le
aveva sussurrato. Perdonami.
Ed ecco che lei era rimasta vedova, senza una famiglia vicina. I suoi genitori
erano morti, le sue tre sorelle vivevano a Karachi. Era stato allora che Faiz e
Parveen si erano offerti di prendersi cura dei bambini. Rehana avrebbe potuto
vederli durante le vacanze. «Solo per qualche anno», le aveva assicurato
Parveen. «Datti il tempo di riprenderti.» Come se si trattasse di una malattia,
qualcosa di curabile, qualcosa di simile a ciò che stava accadendo al paese.
Quando Rehana si era rifiutata, Faiz e Parveen l’avevano trascinata in
tribunale.
«Vostro onore», aveva spiegato Faiz al giudice, «la signora Haque è
stressata; ha bisogno di riposo. Stiamo pensando solo al bene dei bambini.»
Aveva sposato un uomo che non si era aspettata di amare; amato un uomo
che non si era aspettata di perdere; vissuto una vita modesta, ordinaria.
Aveva chiesto a suo padre di trovarle un marito di poche ambizioni. Uno che
non potesse arrivare troppo lontano.
Si stava facendo buio; l’ombra della lapide lambiva loro i piedi.
«Ammoo, ho fame», esclamò Maya.
Rehana si era ricordata di portarsi dietro un pacchetto di biscotti al glucosio.
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«Tieni», disse, aprendo la confezione rosa. «Andiamo a casa», pestò i piedi
Sohail, che stava fissando la tomba di suo padre, immobile come una statua.
«Solo un minuto.» Lei non aveva finito di spiegarsi con Iqbal. «Perché non
provate a far volare gli aquiloni?»
I bambini raggiunsero un campo vuoto ai margini del cimitero e svolsero le
matasse di spago.
Rehana ricominciò.
Caro marito,
ho abbandonato l’unica cosa che mi hai lasciato. Quando il giudice mi ha
chiesto se ero certa di potermi occupare di loro, non sono riuscita a dire di sì.
Sono rimasta zitta e lui ha interpretato il mi silenzio come un’esitazione. E per
questo che me li ha tolti. E stato a causa mia; per colpa mia. Di nessun altro.
Non ce l’ho con tuo fratello se li ha voluti con sé. Chi non li avrebbe voluti?
Sono identici a te.
Dopo il verdetto, nella sala afosa con le ventole al soffitto ornate di polvere, le
panche di velluto nero un po’ lucido, la parrucca grigia e sbrindellata del
giudice, lei si era gettata in ginocchio. Non era stata in grado di convincere
nessuno che poteva comunque essere una buona madre per i suoi figli,
malgrado fosse povera, non avesse amici in quella città e l’unica cosa che le
era rimasta fosse un incolto lotto di terra strappato così di recente agli
acquitrini che ogni mattina, quando si svegliava per recitare le preghiere,
doveva bruciare gli insetti che marciavano sul portico del suo piccolo
bungalow. Non aveva spiegato ai suoi figli dove fosse andato esattamente il
padre, aveva permesso loro di rimanere a casa da scuola e li aveva portati a
vedere Cleopatra, ma poteva ugualmente essere una buona madre. Avrebbe
trovato un modo per superare il dolore, la povertà, la giovinezza; avrebbe
trovato un modo per amarli da sola. Ma nessuno le aveva creduto e molto
presto loro si sarebbero trasferiti dall’altra parte del continente. Non sapeva
quando li avrebbe rivisti.
Aggiornata il venerdì 23 maggio 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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