La formazione elettorale dei governi
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La formazione elettorale dei governi
La formazione elettorale dei governi Roberto D’Alimonte SOMMARIO: 1. Il parlamentarismo italiano alla prova del maggioritario. – 2. In difesa del bipolarismo. – 3. Il premio di maggioranza: questioni di metodo. – 4. Conclusioni. 1. Il parlamentarismo italiano alla prova del maggioritario. I governi si decidono nelle urne o in Parlamento? Messo in termini espliciti – e un po’ brutali – questo è il tema che mi è stato affidato. Che sia un tema controverso è inutile dirlo alla luce dello spettacolo che ci ha offerto la politica italiana in questi ultimi mesi. Tema controverso perché le ragioni del diritto e quelle della politica si intrecciano in modo tale da rendere difficile distinguere l’essere dal dover essere, le prescrizioni della Costituzione dal comportamento degli attori. In punta di Costituzione la domanda iniziale non ha senso. Spetta al presidente e alle camere decidere quale delle forze politiche abbia titolo a governare il paese. Il ruolo degli elettori è lasciato sullo sfondo. Gli elettori decidono sulla rappresentanza non sul governo. Se ci fermassimo qui il problema non esisterebbe. Se esiste – e questo è un fatto – è perché non ci si può fermare a questa risposta senza tener conto di quanto è successo in Italia a partire dal 1993, cioè dal crollo della Prima Repubblica. Nel 1993 sono state approvate due nuove leggi elettorali. In ordine di tempo la prima è stata la legge n. 81, la legge Ciaffi. Poi c’è stato il referendum Segni sulla legge elettorale del Senato. A seguire ai primi di agosto del 1993 il Parlamento ha approvato la legge Mattarella. Due anni dopo è arrivata la legge Tatarella che ha riformato il sistema di voto regionale. Nel 1999 con riforma costituzionale è stata introdotta l’elezione diretta del presidente della giunta regionale. Nel 2005 una altra riforma elettorale – la legge Calderoli – ha introdotto il premio di maggioranza anche per le elezioni parlamentari. Queste riforme hanno modificato profondamente il rapporto tra gli italiani e 56 IL FILANGIERI - QUADERNO 2010 la politica. I loro effetti non si sono limitati alla arena elettorale ma hanno investito anche il funzionamento delle istituzioni rappresentative. Nel loro complesso configurano una forma di governo che non è contemplata nella letteratura classica, né giuridica né politologica. È una forma di governo mista che combina elementi del presidenzialismo e del parlamentarismo. È stata definita come modello neo-parlamentare. Ma potrebbe anche essere denominata modello neo-presidenziale. Quel che è certo è che non esiste in altri paesi e per questo mi piace definirlo come ‘modello italiano di governo’. Le sue componenti principali sono tre: 1. Elezione diretta del capo dell’esecutivo 2. Sistemi elettorali a premio di maggioranza 3. Rapporto fiduciario con clausola simul stabunt, simul cadent. A parte alcune varianti relative al sistema elettorale questo modello ha trovato la sua applicazione integrale in comuni, province e regioni. A livello nazionale invece è diverso. Formalmente non esiste elezione diretta del capo dell’esecutivo. Questo è un fatto. Ed è vero per le due fasi della Seconda Repubblica: il periodo della legge Mattarella e quello della legge Calderoli. Nonostante ciò il meccanismo della formazione elettorale dei governi si è gradatamente affermato. Questo è avvenuto perché i nuovi sistemi elettorali misti – sia quello della prima fase che quello della seconda – hanno prodotto già al momento del voto un vincitore. Per la precisione hanno prodotto una maggioranza di seggi a favore di una coalizione. In altre parole sono stati decisivi. In tal modo hanno sostanzialmente sottratto ai partiti in Parlamento e al presidente della repubblica la funzione di scegliere il governo. È la decisività dei sistemi elettorali ad avere cambiato il rapporto tra elettori e partiti e il ruolo del Parlamento nel processo di formazione dei governi. Su questo piano però occorre fare una distinzione tra i due sistemi elettorali adottati nelle due fasi della Seconda Repubblica. I collegi uninominali della legge Mattarella non potevano garantire di per sé che l’esito della competizione elettorale fosse decisivo. Per due motivi. Il primo è legato al fatto ben noto che solo in presenza degli stessi due partiti in tutti i collegi un sistema di voto plurality può garantire una maggioranza assoluta di seggi a uno dei competitori. Questo esito può verificarsi anche senza che questa condizione 57 ROBERTO D’ALIMONTE venga soddisfatta ma non può essere garantito. Nella stessa Gran Bretagna – patria del plurality – le ultime elezioni non hanno prodotto un vincitore con una maggioranza di seggi. La seconda ragione della non decisività della legge Mattarella dipendeva dalla presenza di una quota di seggi assegnata proporzionalmente. Il sistema di voto introdotto dalla legge Calderoli è significativamente diverso. A differenza dei collegi uninominali il premio di maggioranza è un meccanismo che garantisce in modo certo la decisività dell’esito della competizione elettorale se viene assegnato in una unica circoscrizione nazionale e senza che sia necessario raggiungere una soglia minima di voti. Queste due condizioni sono pienamente rispettate dalle modalità di applicazione del premio per la Camera. Non è così al Senato dove la prima condizione non è rispettata, visto che i premi sono 17. Ciò premesso nella Tabella 1 si può vedere come hanno funzionato i due sistemi elettorali della Seconda Repubblica tra il 1994 e il 2008 dal punto di vista della loro decisività. Nella sostanza entrambi i sistemi di voto hanno prodotto un vincente con una maggioranza di seggi. TAB. 1 - LA DECISIVITÀ DEI SISTEMI ELETTORALI DELLA SECONDA REPUBBLICA: COALIZIONE VINCENTE E % SEGGI, CAMERA E SENATO, 1994-2008 Camera Senato Coalizione vincente % seggi Coalizione vincente % seggi 1994 CD 58,1 CD 49,6 1996 CS 51,3 CS 53,7 2001 CD 58,4 CD 55,9 2006 CS 55,2 CS 50,2 2008 CD 54,6 CD 55,2 Note. CD = centrodestra; CS = centrosinistra. Per le elezioni del 2006 e del 2008 i dati si riferiscono ai voti totali e ai seggi totali, compresa Valle d’Aosta e circoscrizione estero. Il dato del centrodestra delle elezioni del 1994 comprende anche i seggi di Alleanza Nazionale quando non era nella coalizione di centrodestra. L’esito è particolarmente significativo per quanto riguarda la legge Mattarella perché non era scontato che questo accadesse. Il 58 IL FILANGIERI - QUADERNO 2010 fatto che questo sistema sia stato decisivo è dovuto da una parte alla strutturazione della offerta politica e dall’altra al caso. Le nuove regole maggioritarie introdotte nel 1993 hanno favorito lo sviluppo di un modello di competizione basato su due grandi coalizioni di centrosinistra e di centrodestra. Queste coalizioni non sono mai state le sole protagoniste della competizione nei collegi, ma sono sempre state le sole protagoniste che potevano aspirare a vincere. Senza questa offerta bipolare, ma non bipartitica, il sistema di voto molto difficilmente avrebbe potuto essere decisivo. E nonostante ciò c’è voluta una buona dose di fortuna legata a circostanze contingenti o a errori di strategia elettorale per fare in modo che le elezioni negli anni del maggioritario di collegio producessero un vincente. Ma ciò è accaduto e con questo sviluppo bisogna fare i conti. Tanto più che la stessa cosa si è verificata negli anni del maggioritario di lista. Infatti sia le elezioni del 2006 che quelle del 2008 sono state decisive, nonostante il fatto che al Senato nel 2006 avrebbero potuto non esserlo. Dalla analisi dei dati possiamo ricavare due conclusioni. Primo, con una sola eccezione (Senato 1994) tutte le elezioni della Seconda Repubblica hanno prodotto un vincente con una maggioranza assoluta di seggi. Secondo, solo in due casi in cui ha vinto il centrosinistra (Camera 1996 e Senato 2006) la maggioranza uscita dalle urne è risultata molto esigua (soprattutto nel secondo caso). Nella sostanza i sistemi elettorali della Seconda Repubblica sono stati decisivi. Ma detto ciò non ci si può fermare qui per capire l’impatto che questo fenomeno ha avuto sul funzionamento del Parlamento. La decisività del voto non ha esaurito i suoi effetti nel momento della trasformazione dei voti in seggi. Il corollario di questo fenomeno è stata la selezione del leader della coalizione vincente alla presidenza del consiglio. Anche questo sviluppo non era scritto nel DNA dei nuovi sistemi elettorali. Quanto meno fino alla riforma elettorale del 2005 non esisteva alcuna norma che costringesse i partiti coalizzati a indicare un candidato-premier. Eppure con la sola eccezione dei Progressisti nel 1994 questo è avvenuto. Leader e coalizione si sono presentati insieme davanti agli elettori. Nel 2005 questa associazione è stata poi codificata per legge imponendo l’obbligo per tutti i competitori – partiti singoli o coalizioni – di indicare il capo della coalizione o della forza politica. Non va comunque dimenticato che il sistema si era evoluto per suo conto in questa direzione senza ROBERTO D’ALIMONTE 59 alcuna prescrizione giuridica. La riforma del 2005 ha codificato una situazione di fatto introducendo inevitabilmente ulteriori elementi di tensione con la forma di governo parlamentare sancita dalla Costituzione. Quindi gli effetti della decisività del voto sono stati non uno ma due: la creazione di una maggioranza e la selezione del capo del governo. A questo punto è inevitabile porsi questa domanda: è possibile che tutto ciò resti senza conseguenze nel rapporto tra cittadini e politica e sul funzionamento del Parlamento, soprattutto se si tiene conto che la stessa evoluzione è avvenuta a livello di comuni, province e regioni? Una risposta negativa è difficilmente sostenibile. Sono più di quindici anni che tutto l’ambiente in cui i cittadini sono chiamati a esprimere il loro voto è caratterizzato da decisività delle urne e personalizzazione della competizione. Sindaci, presidenti di provincia e presidenti di regione sono tutti eletti direttamente. Certo a livello nazionale il modello è diverso. Formalmente non esiste elezione diretta del capo dell’esecutivo come nei livelli sub-nazionali, ma ciò non basta a eliminare l’impressione diffusa che siano gli elettori anche a questo livello a scegliere il capo dell’esecutivo. Insomma, l’evoluzione maggioritaria del sistema – perché è di questo che stiamo parlando – ha creato una tensione con l’impianto parlamentare e proporzionale della Costituzione e ha alimentato le critiche di quella parte della classe politica che considera incompatibili parlamentarismo e regole di voto maggioritarie o quanto meno questo parlamentarismo e queste regole di voto. L’Italia è un repubblica parlamentare. Va da sé che in una repubblica di questo tipo è il parlamento a fare e disfare i governi. Questo fatto non può essere ignorato né da chi si appella alla prassi, cioè alla evoluzione del sistema politico, per affermare il primato della volontà popolare, né – paradossalmente – da coloro che temono lo svuotamento surrettizio della forma di governo. La volontà degli elettori non può e non deve prescindere dalle regole previste dalla Costituzione che ne disciplinano l’esercizio. D’altra parte costituzionalisti e politologi non possono negare che con l’affermazione di sistemi elettorali maggioritari, che producono risultati elettori ‘decisivi’, di fatto il governo non si forma in parlamento ma nelle urne. Questo non altera la natura parlamentare del sistema ma produce comunque delle conseguenze rilevanti. Se sono gli elettori a 60 IL FILANGIERI - QUADERNO 2010 scegliere chi governa è legittimo che i partiti in parlamento possano non tener conto di questa decisione elettorale e avocare a sé il diritto di sostituire il governo deciso nelle urne con un governo deciso nelle aule parlamentari? Formalmente la risposta è sì, ma non si può negare che un nuovo governo che sia sostanzialmente diverso da quello che ha vinto le elezioni sconti un difetto di legittimità politica, soprattutto nel caso in cui a formarlo siano in parte o in toto partiti di opposizione. Questa tensione tra principi di legittimità diversi ha prodotto una situazione nuova nel nostro Paese, ma non è una peculiarità italiana. È la norma in tutti quei paesi in cui convivono parlamentarismo e regole di voto maggioritarie. Da noi è diventata uno strumento di lotta politica per delegittimare gli uni e gli altri Questo è un grave rischio per gli effetti devastanti che può produrre nel rapporto tra cittadini e istituzioni in presenza di un elevato livello di sfiducia nei partiti e in generale nella politica. Esiste una dimensione formale e costituzionale della politica ma esiste anche una sua dimensione – oserei dire – psicologica. Nella percezione di una parte importante dell’elettorato italiano si è affermata l’idea che siano i cittadini e non i partiti a fare il governo. L’elezione diretta del capo dell’esecutivo è entrata a far parte del senso comune, del modo in cui gli elettori percepiscono il funzionamento della politica della Seconda Repubblica in tutti i livelli di governo. Ed è un elemento che piace agli italiani. Questa percezione fa parte dell’imprinting del nuovo regime politico. Berlusconi ha contribuito a questa evoluzione ma non ne è stato l’unica causa. Con questa percezione bisogna fare i conti. Ma questo non è possibile senza fare i conti anche con quello che le sta dietro e cioè chiedersi se la formazione elettorale del governo sia un male o un bene per l’Italia. In pratica bisogna fare i conti con tutta l’esperienza della Seconda Repubblica. Solo così si può tentare di dare una risposta al problema della tensione tra legittimità costituzionale e legittimità politica Non è questa la sede per una analisi di questa portata. Mi limiterò quindi solo ad alcuni cenni e ad un avvertimento. In questo momento di crisi si sta diffondendo l’impressione che la Seconda Repubblica sia stata un fallimento completo, un momento di transizione destinato a chiudersi con l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Un giudizio così negativo su questa esperienza può aprire la porta a ROBERTO D’ALIMONTE 61 due diverse soluzioni. La prima è un ritorno al passato, ad un passato in cui la competizione non era bipolare, gli elettori non decidevano le maggioranze e i governi si facevano dopo le elezioni La seconda è il perfezionamento di quello che di buono si è sviluppato a partire dal 1993. Ma per fare questa distinzione occorre separare il giudizio su Silvio Berlusconi da quello sulla esperienza della Seconda Repubblica nel suo complesso. Mi rendo conto che non si tratta di una operazione facile ma se non la si fa il rischio è quello di buttare via il bambino insieme alla acqua sporca. 2. In difesa del bipolarismo. La domanda da cui partire è semplicemente questa: il bipolarismo è un bene o un male per questo paese? Tutto il resto segue. La formazione elettorale dei governi è una delle conseguenze dell’assetto bipolare della competizione politica, di cui il sistema maggioritario e la decisività del voto sono la condizione necessaria. Quindi, riformulando la domanda iniziale, è meglio che siano gli elettori nelle urne a decidere chi abbia titolo a governare o è meglio che siano i partiti a decidere dopo il voto? È meglio che le elezioni siano il giorno del giudizio o che siano solo il giorno della conta delle forze in campo? È meglio il parlamentarismo maggioritario o quello proporzionale? Queste domande non hanno ancora trovato una risposta convincente nel dibattito pubblico. All’interno della nostra classe politica, oltre che nel mondo della cultura e della informazione, esistono posizioni diverse e per lo più confuse. Una cosa però è logicamente chiara: il rigetto del bipolarismo non può che portare ad una unica soluzione del problema della tensione tra forma di governo parlamentare e decisività delle urne, e cioè al ritorno ad un sistema proporzionale che assicuri un meccanismo di formazione dei governi più parlamentare e meno elettorale, più in linea con una lettura proporzionalista del dettato costituzionale e meno vincolato alle aspettative e alle scelte degli elettori. Al contrario un giudizio positivo sul bipolarismo apre la strada a una valutazione diversa del problema e quindi a modi diversi di risolvere – o quanto meno gestire – la tensione di cui stiamo parlando. In questa fase della politica italiana sono relativamente pochi quelli che apertamente mettono in discussione il bipolarismo. I loro 62 IL FILANGIERI - QUADERNO 2010 argomenti però meritano di essere presi seriamente in considerazione. La loro tesi di fondo è che l’Italia non sarebbe adatta ad una netta contrapposizione tra opzioni partigiane alternative. Il bipolarismo viene visto come una contesa tra guelfi e ghibellini che rischia di spaccare ancora più profondamente un paese già diviso. Una contesa in cui invece di prevalere la posizione mediana, come dovrebbe avvenire in una democrazia ben funzionante, finiscono col prevalere le posizioni più radicali in virtù del fatto che l’uno e l’altro dei due poli in campo sarebbero condizionati dai ricatti delle loro estreme. Secondo questa tesi l’Italia ha bisogno oggi di un governo dei moderati di destra e di sinistra. Un governo di centro che lasci fuori le estreme. La Dc non si può rifare ma una coalizione di tipo democristiano sì. Per questo occorre tornare ad un sistema proporzionale che liberi i partiti dal vincolo di scegliere in maniera rigida i propri alleati e i propri programmi prima del voto e che li lasci liberi nel corso della legislatura di adattare le maggioranze parlamentari al mutare delle convenienze e delle circostanze politiche. Quindi niente collegi uninominali maggioritari e niente premio di maggioranza, che sono i veri incentivi grazie ai quali in un sistema frammentato come il nostro si formano le coalizioni pre-elettorali. Si tornerebbe così al parlamentarismo di stampo proporzionale in cui le maggioranze si formerebbero in parlamento e non nelle urne. In questo modo si salverebbe la flessibilità garantita dal parlamentarismo. E si salverebbe anche il principio del governo della maggioranza – caro ai proporzionalisti puri – per cui chi governa deve avere non solo la maggioranza dei seggi in parlamento ma anche la maggioranza dei voti nel paese. Ma questo ritorno al passato ha dei costi e dei rischi che non possono essere sottovalutati. Per ragionare concretamente sulla politica italiana di oggi occorre tener presente due fattori: il grado di frammentazione del sistema partitico e il livello di sfiducia dei cittadini nei confronti della classe politica. La soluzione al problema della governabilità non può essere la stessa in un contesto in cui i partiti sono pochi, il sistema ruota intorno a due grandi partiti, e i cittadini nutrono fiducia in chi li governa rispetto ad un contesto in cui queste condizioni non esistono. Ebbene in Italia queste condizioni non esistono e non è possibile crearle nel breve periodo. In aggiunta si deve sottolineare con forza che non solo la frammentazione partitica è già elevata ma che ROBERTO D’ALIMONTE 63 la propensione della classe politica a dividersi è ancora molto forte ed è alimentata da incentivi interni e esterni al sistema elettorale su cui non c’è nessuna volontà di incidere. Quanto al livello di sfiducia nei partiti i dati purtroppo sono chiarissimi e indicano che questo atteggiamento non riguarda più solo il personale politico ma tocca anche le istituzioni, con la sola eccezione della presidenza della repubblica. L’uso di regole di voto maggioritarie in questo momento storico trova in questi dati la sua migliore giustificazione. Collegio uninominale maggioritario e premio di maggioranza hanno consentito di cogliere due obiettivi. Il primo è quello di avere imbrigliato la frammentazione costringendo i partiti a scegliere i propri alleati prima del voto e non dopo. Anche se questo vincolo non è sempre stato rispettato, questo meccanismo ha generato un livello di stabilità politica di gran lunga superiore a quello che sarebbe accaduto se i tanti partiti e partitini del sistema fossero stati lasciati liberi di negoziare dopo il voto il loro appoggio all’una o all’altra combinazione di governo. Infatti, ad elezioni avvenute e quindi a carte scoperte, l’utilità marginale dei loro seggi sarebbe stata più elevata e più facile da calcolare rispetto alla utilità marginale dei loro voti. Il secondo obiettivo è avere garantito quello che gli studiosi della qualità della democrazia chiamano accountability. Questo concetto – di difficile traducibilità in lingua italiana – sta a significare che decisività del voto e formazione elettorale dei governi rendono gli esecutivi direttamente responsabili davanti agli elettori. Se le urne decidono chi governa e se la maggioranza non cambia o cambia marginalmente durante la legislatura alla scadenza del mandato è difficile per gli incumbents non rendere conto di quello che hanno fatto, o non hanno fatto, ed è più facile per gli elettori esprimere un voto retrospettivo. Da questo punto di vista il livello di accountability assicurato dal premio di maggioranza nazionale è addirittura superiore a quello del collegio uninominale. Questo accresce il senso di efficacia dell’elettore che sa di decidere con il suo voto il vincitore. Non ci illudiamo che questa sia la soluzione al problema del livello di sfiducia nei partiti ma è un modo per mitigarne gli effetti a condizione naturalmente che il patto elettorale sia sostanzialmente rispettato. Come abbiamo già detto non esiste certezza che questo avvenga ma se non avvenisse sarebbe comunque più facile per l’elettore valutare 64 IL FILANGIERI - QUADERNO 2010 le responsabilità e decidere la sanzione in un sistema in cui i patti si fanno prima del voto e non dopo. Questi sono i vantaggi del bipolarismo in una situazione di grande frammentazione e di profonda sfiducia dei cittadini nei partiti. Ma quale bipolarismo? Quello sotto i nostri occhi non piace quasi a nessuno. Per la maggioranza dei critici il problema non sta nel bipolarismo in sé ma in questo bipolarismo, i cui difetti vengono attribuiti principalmente al sistema elettorale attuale. Questa diagnosi, ma solo in parte. È giusto affermare che sistemi elettorali diversi producono diversi tipi di bipolarismo ma questo è ancora più vero se si tiene conto del contesto in cui vengono inseriti. Cultura politica e frammentazione sono due delle variabili di contesto che fanno la differenza. Quando si parla di riforma del sistema di voto occorre partire da qui. La platea di coloro che sostengono la necessità di un altro bipolarismo si divide grosso modo in tre gruppi. Quelli che vogliono abolire il premio di maggioranza e adottare un sistema proporzionale di tipo tedesco o spagnolo. Quelli che vogliono abolire il premio di maggioranza tout court e tornare ai collegi uninominali maggioritari. Quelli che puntano a un premio di maggioranza corretto. L’opzione preferita dagli avversari del premio di maggioranza è il sistema tedesco. La loro tesi di fondo è che un sistema proporzionale come quello in vigore oggi in Germania possa coesistere con un assetto bipolare della competizione politica. Che bipolarismo e proporzionale possano stare insieme è un fatto. Ma a certe condizioni. Queste esistono in Germania e in Nuova Zelanda ma certamente non in Italia oggi. Detto sinteticamente la condizione necessaria è un basso livello di frammentazione partitica. Questo vuol dire pochi partiti e soprattutto la presenza di due partiti medio-grandi che funzionino come poli del sistema. Una eventuale soglia di sbarramento al 5%, anche ammesso che in Italia la si possa introdurre, non sarebbe sufficiente a garantire il risultato. Abbiamo già detto, e lo ribadiamo, che la variabile decisiva per capire il funzionamento di qualunque sistema elettorale è il livello di frammentazione del sistema partitico. Lo stesso sistema elettorale produce effetti diversi in contesti diversi e produce effetti diversi quando cambiano le condizioni di contesto. Il livello di frammentazione in Italia è troppo elevato perché il sistema possa funzionare da noi come in Germania. La prova di tutto ciò è ROBERTO D’ALIMONTE 65 proprio la Germania dove la nascita di nuovi partiti e l’indebolimento di Spd e Cdu-Csu rende sempre più aleatorio un esito elettorale di tipo bipolare. Se questa analisi è corretta, allora i sostenitori di questa riforma vanno in effetti ricollocati tra gli avversari del bipolarismo e non tra i critici di questo bipolarismo. Sono in realtà sostenitori mascherati della tesi che il bipolarismo non si sposa con il parlamentarismo o che non si sposa con le caratteristiche dell’elettorato italiano. Come test delle loro reali intenzioni basta porsi questa domanda: quale è la differenza in termini sistemici tra l’attuale sistema elettorale e il sistema tedesco? Una soprattutto. Il premio di maggioranza e quindi la necessità – se si vuole competere per la vittoria – di dichiarare le alleanze prima del voto. Questo è precisamente ciò che gli avversari del bipolarismo non vogliono. Vogliono invece la flessibilità di un sistema parlamentare proporzionale in cui la formazione del governo non sia necessariamente l’esito del voto. Da questo punto di vista l’introduzione del sistema in vigore in Germania o in Nuova Zelanda servirebbe a tornare al parlamentarismo della Prima Repubblica, con l’aggravante che allora c’erano due grandi partiti e oggi no. Nelle attuali condizioni di destrutturazione della rappresentanza il rischio è che invece di finire a Berlino si finisca a Weimar. Diverso è il caso dei sostenitori del modello spagnolo. Questo è un sistema proporzionale ma la sua caratteristica più importante è la ridotta dimensione media delle circoscrizioni. È il fattore che gli specialisti indicano con la lettera M, cioè il numero di seggi da assegnare in ciascuna circoscrizione elettorale. Se M è piccolo è possibile la coesistenza tra bipolarismo e proporzionale perché il sistema produce forti effetti maggioritari e cioè disproporzionalità voti-seggi, competizione sostanzialmente bipolare, formazione elettorale dei governi. Ma proprio a causa di questi effetti il modello spagnolo incontra una forte resistenza da parte di tutte quelle forze presenti in parlamento che ne sarebbero danneggiate o che addirittura vedrebbero compromessa la loro sopravvivenza. L’opposizione a una simile riforma verrebbe da destra, da sinistra e dal centro. Che probabilità ha di essere approvata in una forma che renda effettivamente possibile la sopravvivenza di una competizione bipolare? Dalla Spagna alla Gran Bretagna il passo è più breve di quanto sembri. I sistemi elettorali dei due paesi sono molto diversi sulla 66 IL FILANGIERI - QUADERNO 2010 carta ma quello che conta veramente è che il collegio uninominale britannico e le piccole circoscrizioni spagnole producono effetti maggioritari molto simili perché in entrambi i casi M è piccolo. Nel nostro paese il collegio uninominale ha i suoi sostenitori dedicati. Sono in gran parte i nostalgici della vecchia legge Mattarella per i quali il maggioritario di collegio – anche se corretto da una quota proporzionale – è meglio dell’attuale maggioritario di lista. Le ragioni di questa preferenza sono sostanzialmente due: la prima è che il collegio ha dimostrato nel passato recente di poter produrre e mantenere una competizione bipolare. E questo è certamente vero. La seconda è legata alle modalità di selezione dei rappresentanti. Il collegio rappresenta la soluzione migliore al dilemma tra lista bloccata e voto di preferenza. È difficile trovare delle ragioni empiricamente valide per sostenere la superiorità del voto di preferenza sul collegio uninominale o sulla lista bloccata. Questo è vero in generale ed è particolarmente vero nel nostro Paese. Il collegio uninominale maggioritario quindi piace ai bipolaristi. Ma è uno strumento a due facce. Da una parte è meno rigido del premio di maggioranza, perché – rispetto al premio – attenua la contrapposizione tra elettori e parlamento. La maggioranza di governo si forma collegio per collegio e non in un unico scontro a livello nazionale. Dall’altra parte però il collegio uninominale innestato in un sistema di partiti molto frammentato rappresenta una camicia di forza molto più rigida del premio di maggioranza. I partiti non correrebbero da soli con i propri simboli e i propri candidati ma si metterebbero d’accordo su coalizioni pre-elettorali e candidature comuni basate sulla spartizione dei collegi. È il processo che abbiamo visto in atto nel periodo tra il 1994 e il 2001. Gli specialisti lo chiamano coordinamento strategico. È il modo in cui gli attori – elettori e partiti – si adattano alle regole del gioco. Quello che conta dal nostro punto di vista è che la competizione sarebbe bipolare perché il sistema elettorale favorirebbe comunque le due coalizioni maggiori, così come in Gran Bretagna favorisce i due partiti maggiori, ma sarebbe un bipolarismo forzoso e mal sopportato sia dai partiti che dagli elettori. Solo alla lunga potrebbe produrre una semplificazione del quadro politico. Nel breve periodo prevarrebbero le spinte a ‘proporzionalizzare’ il sistema elettorale maggioritario. Con il doppio turno qualcuno di questi pro- ROBERTO D’ALIMONTE 67 blemi potrebbe essere risolto o quanto meno circoscritto ma anche questo sistema, che per tanti aspetti può essere considerato migliore del plurality a un turno, incontrerebbe difficoltà a produrre un bipolarismo virtuoso in un contesto di grande frammentazione come il nostro. Ci vorrebbe, come in Francia, l’elezione diretta del capo dello stato. E forse nemmeno questo basterebbe. Occorre poi aggiungere che il collegio uninominale non risolverebbe il problema del rapporto tra parlamentarismo e bipolarismo. Infatti, come nel periodo 1994-2001, assisteremmo di nuovo alla formazione di coalizioni pre-elettorali con la preventiva indicazione di un leader e di un programma. Quindi si riproporrebbe il problema di un vincolo di tipo politico che condizionerebbe – come avviene oggi – modifiche in sede parlamentare della maggioranza uscita dalle urne. La tensione tra la rigidità del meccanismo elettorale e la flessibilità del sistema parlamentare resterebbe. Anzi, sarebbe aggravata dalla circostanza che ciascun deputato e ciascun senatore sarebbe eletto non con i voti di un unico partito ma con quelli di tutti i partiti della coalizione. Ragionare sul ritorno del collegio uninominale presenta il grande vantaggio che i suoi effetti sono già stati sperimentati recentemente e non sono stati dimenticati. Per questo è difficile ipotizzare che esista oggi una maggioranza parlamentare a favore della sua reintroduzione. E se non esiste è realistico immaginare che la si possa forgiare grazie ad una pressione popolare dal basso come fu nel 1993? Nelle attuali condizioni una risposta positiva sarebbe prova di grande ottimismo. Sia per questa riforma che per quella ‘spagnola’ la strada è veramente stretta. All’ottimismo dei sostenitori del collegio uninominale si contrappone il realismo dei difensori dell’attuale sistema elettorale. Pur con i suoi molti difetti il nuovo sistema ha preservato l’assetto bipolare della competizione elettorale. Da questo punto di vista il premio di maggioranza, che ne è l’elemento centrale, rappresenta l’equivalente funzionale del collegio uninominale del vecchio sistema. Entrambi i meccanismi rappresentano potenti incentivi alla formazione di coalizioni pre-elettorali. Si tratta però di coalizioni profondamente diverse. Quelle generate dal collegio sono coalizioni di candidati comuni, quelle generate dal premio sono coalizioni di partiti. Le seconde si adattano meglio ad una situazione di elevata frammenta- 68 IL FILANGIERI - QUADERNO 2010 zione. Per questo il bipolarismo legato al premio è meno forzoso del bipolarismo di collegio. Ma presenta altri problemi che possono essere raggruppati in due categorie: quelli derivanti dalle specifiche modalità di applicazione del premio previste dalla riforma del 2005 e quelli legati alla introduzione del premio nel sistema istituzionale a livello nazionale. 3. Il premio di maggioranza: questioni di metodo. Diciotto premi di maggioranza sono una assurdità. Il problema è il Senato dove è prevalsa la tesi che non fosse possibile introdurre un premio di maggioranza nazionale. Si sono così introdotti 17 premi regionali invece che un unico premio come alla Camera. La conseguenza è che mentre il sistema elettorale della Camera è assolutamente decisivo, quello del Senato potrebbe non produrre una maggioranza oppure potrebbe determinare un vincitore diverso da quello della Camera. In un sistema di bicameralismo perfetto va da sé che non si può affidare ad un meccanismo del genere la formazione del governo. Allora tanto vale tornare ad un sistema proporzionale tout court. Il problema di un esito perverso tra le due camere non può essere risolto introducendo al Senato un unico premio di maggioranza a livello nazionale. Chi sostiene questa tesi difende una posizione di comodo. La molteplicità dei premi è uno solo dei fattori in gioco. Nelle elezioni del 2006 con un premio di maggioranza nazionale al Senato la coalizione di Berlusconi avrebbe avuto la maggioranza de seggi in questa camera avendo ottenuto circa 230.000 voti in più di quella di Prodi. Avremmo così avuto un Parlamento con due maggioranze diverse. Il rischio di un parlamento diviso è legato anche ad altri due fattori: la diversità dei corpi elettorali e quella della offerta politica. Tra Camera e Senato esiste una differenza di circa quattro milioni di elettori e tre milioni di voti validi. Sono i giovani compresi tra 18 e 24 anni. È uno dei tanti errori commessi negli anni della Seconda Repubblica, quello di avere introdotto sistemi maggioritari che – come noto – contengono un forte effetto-leva, senza avere dato il voto ai diciottenni. E anche ora è come se il problema non esistesse. L’introduzione di un premio di maggioranza nazionale e il voto ai diciottenni sono riforme che possono ridurre il rischio di un Par- ROBERTO D’ALIMONTE 69 lamento diviso ma non lo possono eliminare. Infatti è sempre possibile che in arene elettorali diverse ci sia una offerta politica diversa e questo può dar luogo a una diversa risposta degli elettori e quindi ad esiti diversi. Con un sistema proporzionale il rischio è modesto ma con sistemi maggioritari piccole differenze di voti possono avere conseguenze rilevanti. Per questo se si vuole mantenere un sistema elettorale con premio di maggioranza occorre che il premio sia uno e uno solo, quello della Camera. Questo significa che il Senato va riformato lasciando alla sola Camera il potere di dare e togliere la fiducia al governo. È una riforma che andrebbe comunque fatta per completare la riforma delle autonomie ma che la presenza di un sistema elettorale a premio di maggioranza rende ancora più cogente. Il premio unico va bene ma non questo premio. Ci sono due altri problemi applicativi legati al premio che hanno rilevanza per il nostro ragionamento. Il primo riguarda il calcolo dei voti utili per conquistarlo. Così come è congegnato oggi, il meccanismo di attribuzione del premio non prevede che i partiti coalizzati debbano raggiungere alcuna soglia minima di voti per essere conteggiati. In questo modo tutti i voti sono utili. Questo rappresenta un forte incentivo alla proliferazione di liste di ogni tipo pur di raccogliere qualche voto in più. Lo si vede anche a livello di comuni, province e regioni dove il meccanismo è identico. Lo si è visto chiaramente nelle elezioni politiche del 2006. L’unica eccezione sono state le elezioni politiche del 2008. Ma questa è proprio l’eccezione che conferma la regola. Quell’esito fu dovuto a circostanze particolari e difficilmente ripetibili. Per evitare il problema l’unico mezzo è quello di escludere dal calcolo dei voti utili per il premio quelli dei partiti sotto la soglia di sbarramento. In alternativa il premio potrebbe essere assegnato alla lista o alla coalizione che ottiene il maggior numero di seggi. In ogni caso dovrebbero essere alzate le soglie di sbarramento attualmente in vigore e ripristinate barriere ragionevoli per accedere alla competizione. Questa modifica risolverebbe un problema ma ne lascerebbe in piedi un altro, che per molti aspetti è ancor più rilevante. Uno degli argomenti avanzati da coloro che criticano il premio di maggioranza è la mancanza di una soglia minima di voti necessaria per conseguirlo. In teoria anche con meno del 30% dei voti si potrebbe conseguire alla Camera il 54% dei seggi. L’eccesso di distorsione nella 70 IL FILANGIERI - QUADERNO 2010 trasformazione dei voti in seggi minerebbe la legittimità del risultato elettorale. Questo è un argomento che di solito viene utilizzato dai sostenitori del parlamentarismo proporzionale per contestare il principio del governo della minoranza più forte in nome del principio maggioritario. In realtà l’esperienza dice che questa preoccupazione è infondata. Sia a livello regionale, dove il premio di maggioranza viene utilizzato dal 1995, sia a livello nazionale dove è stato utilizzato nel 2006 e nel 2008 si è visto che la coalizione che ne ha beneficiato non è mai scesa sotto il 40% dei voti. Il problema non è questo. Né vale ripetere qui le ragioni che giustificano nel caso italiano l’uso di sistemi elettorali maggioritari e quindi la legittimità del principio della minoranza più forte. Il vero problema è un altro. La mancanza di una soglia per far scattare il premio altera pericolosamente gli equilibri complessivi del nostro sistema istituzionale. Un problema che non esiste a livello sub-nazionale. Questo è un argomento troppo complesso per essere approfondito in questa sede. Qui mi limito a sottolineare un punto cruciale sollevando una domanda. L’elezione parlamentare del Presidente della Repubblica fatta con le regole previste dalla Costituzione è compatibile con un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza? In altre parole è politicamente accettabile che la minoranza più forte oltre ad eleggere il capo dell’esecutivo, elegga anche il capo dello stato? La risposta non può che essere negativa. Questa quanto meno è l’opinione di chi scrive. Il problema però non è legato al premio di maggioranza in sé, ma alla introduzione di riforme elettorali maggioritarie. Premio o collegio uninominale da questo punto di vista non fanno differenza. Nella misura in cui entrambi i meccanismi trasformano minoranze di voti in maggioranze di seggi si produce una modifica dell’equilibrio costituzionale. Un presidente della repubblica, per la funzione di garanzia che deve esercitare, non deve essere scelto da una minoranza di elettori. Questo evento poteva accadere anche tra il 1994 e il 2001 e potrebbe accadere ora. Tra le critiche rivolte alle riforme elettorali della Seconda Repubblica questa è la più fondata. Ma non è una critica che può essere utilizzata per negare la legittimità o la funzionalità di un sistema bipolare in cui il voto è decisivo. Il punto è un altro. Forma di governo, forma di stato e sistema elettorale configurano una architettura istituzionale complessa con forti legami di ROBERTO D’ALIMONTE 71 interdipendenza. Non si può toccare un elemento senza tener conto degli effetti che questo può avere sull’equilibrio sistemico complessivo. Invece la Seconda Repubblica è nata e si è sviluppata in maniera disorganica seguendo spinte e interessi contingenti e spesso divergenti. Il risultato è un sistema squilibrato. Il rischio attuale è che invece di nuovi e più convincenti equilibri istituzionali prevalgano spinte centrifughe dirompenti. Ed è proprio questo rischio che porta a criticare un altro aspetto della riforma del 2005. L’indicazione obbligatoria del capo della coalizione o della forza politica è stato un errore. È un esempio ulteriore del tentativo di modificare surrettiziamente la forma di governo introducendo meccanismi che alterano i delicati equilibri su cui si regge. Come si è detto più volte, tra parlamentarismo e regole di voto maggioritarie non esiste incompatibilità. Sarebbe assurdo sostenere una tesi contraria in presenza di molte democrazie in cui i due elementi coesistono. Ma la loro coesistenza è complessa e delicata. Si fonda su una cultura politica e giuridica più pragmatica che dogmatica, sul rispetto dei ruoli e sul voto retrospettivo degli elettori. Alla fine sono gli elettori che devono giudicare nelle urne il merito dei cambiamenti intervenuti nell’esecutivo tra una elezione e l’altra. L’indicazione del capo della coalizione rappresenta un tentativo di irrigidire il sistema esautorando da una parte il potere di nomina del presidente del consiglio dei ministri che spetta al presidente della repubblica e dall’altra il potere del Parlamento di sfiduciare il governo. Da questo punto di vista è una inutile forzatura. In primo luogo perché l’indicazione non è necessaria. Anche con la legge Mattarella si è visto che le coalizioni hanno scelto di indicare il candidato-premier senza che ci fosse nessun obbligo a farlo. È semplicemente una necessità della competizione in ambiente maggioritario. In secondo luogo nessuna sanzione può essere prevista nel caso in cui il vincitore ‘premiato’ sia sostituito da altri candidati, magari sostenuti da altre forze politiche. Su questo punto il solo risultato conseguito dalla riforma del 2005 è stato quello di fornire una arma polemica a chi vuole sfruttare la contrapposizione di due diversi principi di legittimità. È naturale che questo finisca poi con l’alimentare sfiducia e delusione. Nei fatti è sufficiente il premio di maggioranza – senza ulteriori strumenti – a rafforzare il principio di accountability della classe politica davanti agli elettori. Un premio assegnato in una 72 IL FILANGIERI - QUADERNO 2010 unica circoscrizione nazionale e in una unica camera mette in mano agli elettori uno strumento decisivo di formazione del governo. Allo stesso tempo esso genera aspettative di stabilità dell’esecutivo o quanto meno di stabilità della sua composizione partitica. Se questo non si verifica il problema non sta nel premio ma in chi ne abusa. 4. Conclusioni. La Seconda Repubblica è un regime nato in una fase di grande destrutturazione del sistema partitico. Il nuovo regime – contrariamente a quello che molti continuano a ripetere – non è la causa dell’attuale frammentazione ma ne è l’effetto. Sono passati quasi venti anni da allora ma non sono stati fatti passi avanti nella creazione di un sistema partitico forte. Gli attuali partiti sono troppi e troppo piccoli. Tra 2007 e 2008 ci siamo illusi che fossero nati due grandi partiti e invece non è così. Pd e Pdl si sono rivelati costruzioni fragili. L’antica propensione italiana al ‘particulare’ ha ripreso il sopravvento. La frammentazione è di nuovo in crescita in Parlamento e nel paese. Sia al Nord (ed è una novità) che al Sud. Inoltre è assai probabile che l’uscita di scena di Silvio Berlusconi accentui il fenomeno. Tornare a sistemi proporzionali nelle attuali condizioni vuol dire restituire ai partiti la libertà di decidere dopo il voto con chi fare il governo. Cosa fa pensare che questo garantisca la governabilità del sistema? Per quali ragioni – con tanti partiti nani – un sistema in cui i governi si fanno dopo il voto dovrebbe funzionare meglio di un sistema in cui i governi si fanno prima? È assai probabile invece che oggi senza incentivi istituzionali maggioritari frammentazione partitica e frantumazione della rappresentanza sarebbero destinate a salire a livelli incompatibili con il buon funzionamento delle istituzioni democratiche. Oggi questi incentivi sono il collegio uninominale della Francia e della Gran Bretagna, le piccole circoscrizioni della Spagna o il premio di maggioranza italiano. E sono tutti meccanismi che – nel nostro contesto – servono a favorire la strutturazione bipolare della competizione elettorale come antidoto alla frammentazione e alla crescita di sfiducia dei cittadini. Questo è vero soprattutto con il premio di maggioranza. Rispetto alle altre soluzioni prospettate è lo strumento più adatto all’attuale contesto e presenta inoltre il vantaggio non trascurabile di ROBERTO D’ALIMONTE 73 essere utilizzato in tutti i livelli di governo. Ciò premesso il premio attuale non va bene. La sua riforma è una necessità urgente ma da sola non basta. È inutile illudersi che qualunque sistema elettorale possa risolvere il problema da cui siamo partiti, cioè quello della tensione tra regime parlamentare e formazione elettorale del governo. Solo il ritorno a sistemi proporzionali potrebbe farlo. Oppure l’adozione esplicita di un modello di governo neo-parlamentare con elezione diretta del presidente del consiglio. La riforma elettorale del 2005 ha cercato di porre le basi per un passaggio verso questo modello. Ma sono basi fragili. In realtà né l’una né l’altra soluzione rappresentano strade obbligate. Parlamentarismo e bipolarismo possono coesistere. Occorre però creare un ambiente istituzionale in cui ciò sia possibile senza alimentare pericolose tensioni e senza introdurre gravi squilibri. Per questo è tempo di una vera riforma che affronti il problema della governabilità politica a livello nazionale in una prospettiva sinottica e non per aggiustamenti parziali e contraddittori. Purtroppo non sembra che quel tempo sia ancora arrivato.