crisi della politica come crisi della rappresentanza

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crisi della politica come crisi della rappresentanza
CRISI DELLA POLITICA
COME CRISI DELLA RAPPRESENTANZA
di Angelo Grimaldi
proprietà letteraria riservata
(in parte pubblicato a Forlì
il 26 giugno - 24 luglio - 11 settembre 2009)
Il nostro modello politico si basa sul principio della separazione dei poteri che
è stato elaborato dal costituzionalismo liberale ed aveva come obiettivo la
limitazione del potere politico in modo da tutelare la libertà dei cittadini.
Secondo questo principio, ciascuna “funzione” è attribuita a poteri distinti per
evitare che la concentrazione in capo al medesimo potere conduca all’arbitrio.
I poteri, distinti e separati, dovrebbero condizionarsi reciprocamente, in modo
che ciascun potere possa frenare gli eccessi degli altri. Il ragionamento è
dominato dalla necessità di istituire “reciproci controlli” che garantiscano alla
struttura istituzionale una situazione di equilibrio.
La Costituzione scritta (e rigida) serviva e serve per impedire la formazione di
un governo arbitrario ma doveva e deve essenzialmente instaurare un governo
limitato in modo da garantire i diritti di libertà indicati nella I parte della Carta
Costituzionale e per mettere il governo nella condizione di non poterli violare.
Le Costituzioni, infatti, non solo dettano regole di funzionamento degli organi
costituzionali e degli apparati pubblici, ma consacrano i diritti dei cittadini e
questi sono posti come “limite” del potere dello Stato. Proprio per raggiungere
queste finalità la nostra Costituzione è rigida, cioè le loro norme non possono
essere modificate o interpretate dalla “volontà legislativa” che nel sistema
monistico è diventata espressione della maggioranza, cioè di una sola parte
politica.
Oggi, il potere politico è ripartito su un assetto costituzionale pluralistico, ai
tre poteri dell’esperienza liberale dobbiamo aggiungere la Corte
Costituzionale, il Presidente della Repubblica ed una amministrazione
pubblica pluralistica. Questa evoluzione dei rapporti tra i poteri non ha fatto
venir meno il principio della separazione dei poteri, anzi ne ha rafforzato la
necessità di pervenire ad un loro “riequilibrio”.
L'esperienza parlamentare, a partire dal modello inglese, ha condotto al
superamento della forma “dualistica” verso forme “monistiche” nelle quali il
problema della preminenza dei poteri è stata risolta inizialmente con
l’affermazione della supremazia del Parlamento, dove la funzione legislativa
utilizza la sua conquista per esercitare alla fine il supremo potere di decisione
sull’indirizzo politico e, successivamente, sotto la spinta di un'idea mitologica
della governabilità, con il Governo che ha assunto il ruolo di “guida” del
sistema. Nella forma di governo parlamentare, come in quella italiana, i due
poteri, Governo e Parlamento, sono strettamente collegati, in quanto il
Governo deve godere della fiducia del Parlamento, che può, votandogli la
sfiducia, costringerlo alle dimissioni. Si è affermata una maggioranza politica
stabile che vota la fiducia al governo e approva le leggi in parlamento. Così,
questo tipo di maggioranza, collegando e rendendo omogenei i due organi
costituzionali, li fonde in un unico organo. Volendo perseguire la
governabilità, si è finiti per accentuare i difetti delle regole di funzionamento
del sistema parlamentare inglese così come storicamente si è evoluto.
Non si può pensare di curare la crisi della democrazia con le leggi elettorali.
La legge elettorale attualmente vigente (meglio nota come “porcellum”)
rappresenta un duro colpo al principio della rappresentanza politica. Liste
bloccate, premio di maggioranza, indicazione del premier nella lista elettorale,
istituti che devono farci riflettere seriamente sulla loro compatibilità con la
Costituzione repubblicana.
L'articolo 48 della Costituzione, non dice nulla in tema di leggi elettorali, cioè
non contiene principi su come devono essere tenute le elezioni politiche, anche
se il tema fu ampiamente discusso all’interno dell’Assemblea Costituente, si
preferì lasciare l'emanazione delle leggi elettorali alla maggioranza. Ma la
presenza delle minoranze negli organi rappresentativi, che dovrebbe rientrare
nel concetto stesso di Repubblica democratica, principio che non si trova
nell'articolo 48 C. lo possiamo ritrovare negli articoli 72, 3° comma, 82, 2°
comma e 83, 2° comma della Costituzione. E' il principio che assicura la
presenza obbligatoria delle minoranze nel parlamento. Una legge elettorale
che impedisce l'ingresso delle minoranze nelle assemblee rappresentative,
viola il principio dell'articolo 48 della Costituzione nella parte in cui dispone
l'uguaglianza del voto e l'articolo 1 nella parte in cui dispone che l'Italia è una
repubblica democratica.
Una legge elettorale non può essere cambiata prima delle elezioni secondo
l'orientamento, anche se motivato dall'ansia di fare alimentata dal mito della
“governabilità”, della maggioranza. Su uno strumento così importante, anche
per aderire ad un atto di correttezza costituzionale, sarebbe preferibile sentire
preventivamente il corpo elettorale perché dalla scelta del sistema elettorale
possono derivare conseguenze per la vita politica dello Stato. Un sistema
democratico compiuto dovrebbe dotarsi di una legge elettorale che riproduca il
più fedelmente possibile gli orientamenti politici del corpo elettorale. La
separazione è espressione di pluralismo sociale, di conseguenza, le forze
politiche portatrici di interessi di parte, quando raggiungono il successo,
tendono a sostituirsi a quelle forze che prevalevano in passato. Siccome non
sono scomparse le contrapposizioni di interessi economici e politici nella
società, sarebbe auspicabile che le Assemblee rappresentative fossero formate
da deputati eletti con un sistema proporzionale semplice corretto da un
modesto sbarramento secco in modo da stimolare le aggregazioni dei partiti
che si richiamano alla stessa linea politica. Credo che il 2% (ma non superare
il 3%) sia sufficiente a ridurre l'eccessiva frammentazione partitica.
Con una legge elettorale proporzionale che costringe i partiti ad allearsi prima
delle elezioni, (ri)nascerebbe un sistema parlamentare nel quale la
maggioranza e il governo si formano dopo le elezioni, attraverso accordi tra
partiti politici, legati tra loro da un comune sentire e da una comune visione
del mondo. I partiti che si aggregano in un unico soggetto politico devono
condividere principalmente le politiche economiche che dovrebbero adottare
se chiamati a governare il Paese.
In questo sistema il potere presidenziale di nomina del Presidente del
Consiglio dei Ministri assume una funzione politico-costituzionale diversa da
quella introdotta in Italia con il passaggio al parlamentarismo maggioritario,
dove l’atto presidenziale di nomina del Presidente del Consiglio costituisce
una ratifica di decisioni sostanziali assunte da altri. E’ il corpo elettorale che
sceglie la maggioranza. In un parlamentarismo con coalizioni post-elettorali il
problema è quello di fare in modo di rispecchiare fedelmente il corpo
elettorale nelle Assemblee rappresentative e di formare maggioranze capaci di
esprimere un governo e che questo abbia un certo grado di stabilità. Non
dobbiamo dubitare che sistemi elettorali non basati sulla regola di
maggioranza non possano riuscire ad esprimere maggioranze stabili e governi
autorevoli (un esempio è dato dalla Germania e dalla Spagna dove vigono
leggi elettorali proporzionali sia pure corretti).
Le rotture delle consuetudini costituzionali sono rilevanti. Nel sistema
proporzionale il ruolo che il Capo dello Stato assume è sensibilmente diverso
perché attraverso l’esercizio dei suoi poteri può influenzare la soluzione delle
crisi. L’influenza del Presidente della Repubblica comporta l’assunzione di un
compito di intermediazione politica. Ricordiamoci che la Costituzione non
attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di nomina di suoi governi
anche contro la volontà del Parlamento. Ciò premesso, il sistema politico
pluripartitico con coalizioni post-elettorali, facilita la formazione del Governo
attraverso laboriose trattative tra i partiti fra i quali si costruiscono delicati
equilibri. In questo contesto, il Presidente della Repubblica può utilizzare gli
strumenti che sono serventi rispetto al potere di nomina e sono le
consultazioni, il conferimento dell’incarico, il mandato esplorativo, il preincarico.
L’attività conoscitiva del Presidente tende all’accertamento della capacità e
della volontà di collaborazione dei partiti politici per la formazione del
Governo. L’attività ha pertanto carattere istruttorio ed è diretta ad identificare
e vagliare gli interessi rilevanti per l’atto (di nomina) che dovrà adottare. Dagli
articoli 92 e 94 della Costituzione si ricava che il Presidente della Repubblica
ha il potere-dovere di nominare un Governo che possa ottenere il consenso
dalle Camere, ma non ha competenza in tema di programma di governo, per il
quale responsabile dell’indirizzo politico di fronte alle Camere è il Governo.
Il Capo dello Stato, dunque, può ritornare a svolgere un ruolo importante nella
formazione del Governo. Dal punto di vista giuridico-costituzionale il
Presidente della Repubblica non è obbligato a scegliere tra le personalità
designate, e neppure a scegliere un personaggio politico designato dalla
coalizione di maggioranza. La prassi delle consultazioni del Presidente della
Repubblica e il successivo incarico per la formazione del Governo non è
espressamente prevista dalla Costituzione. In dottrina si parla di consuetudini
costituzionali ma nello stesso tempo si dubita che queste debbano ripetersi
sempre a pena di violazione di regole costituzionali. Per attuare un
rinnovamento istituzionale è sufficiente che il Presidente della Repubblica
assuma un nuovo comportamento costituzionale, dando vita lentamente ad una
nuova consuetudine costituzionale. La battaglia contro la perpetuazione non
può fermarsi al livello istituzionale più alto, ma deve investire tutti i livelli di
governo.
E' auspicabile, inoltre, che la fase “sperimentale”, cioè affidata al
comportamento istituzionale, sia sostituita dalla costituzionalizzazione dei
principi esposti se si vuole fermare il tentativo di giuridicizzare comportamenti
politici, come l'investitura popolare, il contratto tra il candidato “capo del
governo” e gli elettori, “il sindaco d'Italia”, che non sono compatibili con la
Costituzione che, invece, assegna un ruolo centrale alle Assemblee
rappresentative. Il parlamento, di fatto, non può interferire sullo svolgimento
dell'azione politico-amministrativa del Presidente del Consiglio dei Ministri, il
quale, in via consuetudinaria, si ritiene investito dal corpo elettorale e rifiuta
qualsiasi condizionamento delle assemblee rappresentative.
Per uscire dalla crisi dei partiti politici si è preferito enfatizzare il culto del
capo, il leader al posto dei partiti politici e del parlamento. Nel governo locale
l'elezione diretta del sindaco ha fatto maturare un presidenzialismo municipale
che ha condotto i partiti e i consigli comunali a svolgere un ruolo marginale
nella vita politica della città ed ha contribuito a far maturare il mito del
“sindaco d'Italia”. Non un sindaco qualsiasi, ma un sindaco che sappia parlare
bene in pubblico (non conta il contenuto spesso eterogeneo) e sappia
catalizzare l'attenzione degli elettori. In fondo, da molti anni, ciò che conta è
vincere le elezioni politiche o amministrative: i programmi dei partiti spesso
diventano il libro dei sogni degli italiani. Puntualmente le aspettative vengono
disattese dall'adozione di politiche economiche “suggerite” dalla Commissione
Europea. Il problema, ovviamente, non è l'Unione Europea, ma semplicemente
le politiche economiche “suggerite” ed adottate, che sono essenzialmente procicliche quando in un momento di grave crisi economica occorrerebbero
misure di segno contrario, cioè anti-cicliche.
I cittadini (elettori) si ribellano in ordine sparso e senza una guida politica
unitaria, nascono e poco dopo muoiono movimenti politici, le associazioni
professionali gridano l'allarme, i sindacati balbettano e ogni tanto proclamano
lo sciopero generale che però non spaventa nessuno (da anni i rappresentanti
dei lavoratori sono diventati deliberatamente il “sindacato dei cittadini”),
fioriscono programmi televisivi di intrattenimento e dibattito politico, ma che
rischiano di diventare il “cortile” nel quale sfogare la rabbia individuale o
quella delle categorie di volta in volta invitate.
In un sistema democratico rappresentativo il potere del cittadino “sovrano” è
riposto nelle elezioni politiche. Ma se gli italiani continuano a votare da
“consumatori” e non da “cittadini”, portatori di una precisa idea dello Stato e
della Società, avremo sempre nelle Istituzioni Politiche i “rappresentanti dei
consumatori” che in quanto tali continueranno a curare gli interessi economici
del gruppo sociale che li ha sostenuti e quelli personali.