PETRARCA E LA (RI)SCOPERTA DELL`IO Ogni volta che parliamo

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PETRARCA E LA (RI)SCOPERTA DELL`IO Ogni volta che parliamo
ANTONIO DONATO SCIACOVELLI
PETRARCA E LA (RI)SCOPERTA DELL’IO
Ecco, o padre, come in un solo giorno t’ho posto
innanzi agli occhi tutti i nostri anni, i miei e i
tuoi, certamente molto diversi per i rispettivi
meriti ma del tutto eguali per il numero;
numero che io, scrivendo di recente a un amico,
in buona fede ho rivelato. Se tu fai come me, o
se piuttosto, come fanno alcuni vecchi,
ripensando alla giovinezza, cerchi ancora di
nasconderlo in qualche parte, io non so. Ma vivi
felice, e addio, ricordati di me.
(dalla lettera a Guido Sette1)
Ogni volta che parliamo di scoperta o riscoperta dell’Io, ed in
generale della scrittura soggettiva in seno alla storia della letteratura
medievale, non possiamo evitare il confronto con quanto affermato
da Dante nel Convivio a proposito delle uniche occasioni in cui è lecito
“parlare di sé”:
L’una è quando senza ragionare di sé grande infamia o pericolo
non si può cessare (...) E questa necssitate mosse Boezio de se
medesimo parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la
perpetuale infamia del suo essilio (...) L’altra è quando, per ragionare
di sé, grande utilitate ne segue altrui per via di dottrina; e questa
ragione mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di sé.2
1En, pater, ut die annos nostros omnes tibi ante oculos congessi, merito quidem longe impares
numero autem pares; quem ego nuper ad amicum scribens bona fide sum professus. Tu an
idem facias an adhuc, quod nonnulli senum solent, iuventam respiciens aliquid etiam nunc
occultes, nescio. Vive felix et vale, nostri memor. (F. Petrarca, Ad Guidonem Septem
Archiepyscopum ianuensem (de mutatione temporum), in Boccaccio 2004:178-181: la
lettera venne scritta nell’autunno del 1367, ma non fece in tempo a raggiungere il
destinatario, che era già morto nel novembre di quell’anno!)
2 Convivio, I, ii (si veda, per la scelta dei passi, Ch. Lee 1994:339-357)
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Sulla scorta di quanto magistralmente intuito dall’Alighieri, da
non pochi studiosi è già stato ampiamente dimostrato come la
scoperta dell’individuo in seno alla tradizione filosofica e letteraria
che dal mondo antico si riversa nella cultura medievale, passi per tre
essenziali momenti (e modelli): le Confessioni di Agostino sono il
punto di partenza di un tracciato ideale che le connette alla scrittura
autobiografica petrarchesca, passando per la Historia calamitatum
mearum di Abelardo, e si menzionano a questo proposito solamente le
opere che hanno avuto maggior successo proprio nel loro presentarsi
come autobiografie, perché altrimenti bisognerebbe riferirsi all’intera
lirica medievale – in particolare all’esperimento più complesso della
Vita nuova di Dante –, la tradizione dei dits come prose ovvero
espressioni del vero, i testamenti e le opere delle mistiche3. Non è
quindi un caso che proprio uno degli approcci più significativi del
cantore di Laura alla scrittura autobiografica, passi per il confrontodialogo con Agostino, suo interlocutore nel Secretum, e che questo
tentativo (apparente?) di scavare nel proprio Io e di portarne a galla
ogni segreto con l’aiuto di un modello illustre ed emozionalmente
vicino, si configuri come uno degli stadi attraverso i quali il poeta
giungerà alla compilazione di un’autobiografia unica, in cui l’Io
descritto da Petrarca coincide con Petrarca stesso nel senso di quello
che Petrarca desidera essere. Ma prima di intraprendere il lavoro
concreto di scrittura autobiografica, Franciscus (è questo il nome
dell’interlocutore di Agostino nel Secretum) si trova di fronte al
compito di osservare la propria esistenza come paradigma della vita
dell’umanista per antonomasia: il dialogo con i classici, la necessaria
identificazione con alcune figure significative della cultura e della
storia universale (ma soprattutto romana), come anche il ruolo che gli
ambiti culturali (e politici) del tempo gli attribuiscono, condizionano
notevolmente la concezione che Petrarca ha del proprio passato,
3
Per una sintesi di questa tematica, peraltro soltanto in parte contemplata ed
affrontata criticamente da Paul Zumthor nel capitolo dedicati alla personalità del
poeta nel suo Essai de poétique médiévale, Paris 2000 (1972), si rimanda sempre
all’analisi di Charmaine Lee, al saggio appena citato nella nota precedente ed al
capitolo Significato dell’autobiografia nel Medioevo (1993:791-811).
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presente e futuro. Il punto di partenza di questa – probabilmente
dolorosa, nonostante l’aura di gloria e di successo che circonda
Francesco – presa di coscienza, si deve ricercare nella scelta
fortemente simbolica della residenza di Valchiusa, che
etimologicamente (valle chiusa al mondo esterno) viene assunta a
paradigma di quella introspezione che quasi perseguiterà il nostro in
più d’una delle sue prove letterarie4, nonché nel progetto di
compilazione delle opere di scrittura biografica ed autobiografica5.
Secondo quanto veniamo a conoscere dalle informazioni contenute
nella Posteritati, il Petrarca si trasferisce – o forse sarebbe meglio dire
si rifugia – a Valchiusa nei mesi estivi o all’inizio dell’autunno del
13376: questa valle dal nome tanto emblematicamente legato alla
solitudine, al raccoglimento, favorirà la vena creativa del poeta, che
qui concepirà gran parte delle sue opere: l’Africa, il Bucolicum Carmen,
il De vita solitaria, il De otio religioso, molte delle Epystole, parte delle
Rime e, probabilmente appena giunto nella sua nuova residenza, il
trattato De viris illustribus7. A giudicare da quanto indicato nel terzo
4
Non possiamo non pensare a quanto mirabilmente espresso nelle pagine della nota
Ascensione al Ventoso, per cui vedi Martinelli 1977.
5Nella
prospettiva più ampia di un unico progetto autobiografico che
comprenderebbe l’intera opera petrarchesca, Francisco Rico ha parlato di
Autobiografie di Petrarca nel suo “Petrarca” (1993, 812-829), mentre Marco Santagata
ha approfondito il legame tra le raccolte latine ed i RVF nel capitolo Dalla raccolta al
Canzoniere della sua monografia I frammenti dell’anima (1992:105-141).
6 ...non riuscivo a sopportare il senso di fastidiosa avversione che provavo per quella
disgustosissima Avignone (...). Cercavo un rifugio come si cerca un porto, quando trovai una
valle piccola ma solitaria ed amena, che si chiama Valchiusa (...). Incantato da quel luogo, mi
trasferii lì con tutti i miei libri, quando avevo già trentaquattro anni. (... cum (...) illius
tediosissime urbis fastidium atque odium (...) fere non possem, diverticulum aliquod quasi
portum querens, repperi vallem perexiguam sed solitariam atque amenam, que Clausa dicitur
(...). Captus loci dulcedine, libellos meos et meipsum illuc transtuli, cum iam quartum et
trigesimum etatis annum post terga relinquerem.) (F. Petrarca, Posteritati (1955:12)
7 Non solo Petrarca, ma i suoi stessi biografi hanno esaltato l’incontro con Valchiusa
come un momento determinante per l’attività letteraria del poeta (Dotti ricorda un
passo della Vita del Wilkins in cui Valchiusa viene definita come la vera opportunità
di libertà per il Petrarca: libertà di pensare, di studiare, di scrivere (in Dotti 1992:49)). Ci
sembra opportuno ricordare che proprio questa scelta di vita, le cui implicazioni
morali sono testimoniate ed ampiamente trattate nel De vita solitaria, dovette avere
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libro del Secretum, sarebbe stato questo opus immensum il primissimo
“appiglio” nella scalata di Petrarca alla gloria, seguito poi
dall’excursus poetico navigio che l’avrebbe portato in Africa, alla
compilazione dunque del grande poema su Scipione (Petrarca
1955:192). Nelle parole pronunciate da Agostino, e che quindi l’autore
rivolge al proprio Io, sentiamo tutta l’(auto)ammirazione di Petrarca
per aver intrapreso due opere in cui si concentra il senso stesso della
cultura di Roma, e quasi naturale è che l’ascesa alla gloria imperitura
(fama inter posteros) venga principiata da un’opera di carattere storico:
il periodo occupato dall’argomento dello scritto è quello compreso a
rege Romulo in Titum Cesarem, così che l’ambizione di portare a
termine un sì impegnativo progetto viene subito accompagnata dalla
coscienza del gran tempo e fatica necessari (opus immensum
temporisque et laboris capacissimum), fino all’insinuazione che
addirittura potrebbe essere la morte a porre fine alla redazione (del
De viris come dell’Africa):
Per tal modo dedichi tutta la vita a queste due imprese (...). Ma che sai
se, innanzi d’aver compiuta l’una e l’altra opera, la morte non ti abbia
a strappare di mano l’affaticata penna? e così mentre per ismodato
desiderio di gloria a questa ti affretti per due strade, né per l’una né
per l’altra tu riesca là dove desideri?8
Il progetto del Secretum come di una forma di confessio agostiniana
può essere precoce ed addirittura contemporaneo ai due opera
incaricati di procacciare a Petrarca la gloria, mentre la problematicità
delle riflessioni ad esso sottese deve averne protratto la compilazione
fino alla piena maturità di Francesco, se numerosi critici spostano
una valenza simbolica nell’intraprendere un’opera sugli esempi di virtù e di fama
come il De viris, nella cornice di vita solitaria ed intensamente dedicata agli studi,
quale doveva essere quella dell’umanista immaginato dal poeta. Per quanto riguarda
poi la genesi “parallela” delle sue opere, si rimanda al saggio di Martellotti “Sulla
composizione del De viris e dell’Africa” (in Martellotti 1983:3-26).
8 Ita totam vitam his duabus curis (...) tribuis. Et quid scis an, utroque inexpleto opere, mors
calamum fatigatum e manibus rapiat, atque ita, dum immodice gloriam petens gemino calle
festinas, neutro pervenias ad optatum? (Petrarca 1955:192-193)
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questa data fino al 1353 (v. Ariani 1999:113-114). In questo caso,
siamo perfettamente “proiettati” nell’area temporale entro cui
Petrarca pone la decisione di “creare la propria autobiografia”: dal
progetto più generale di dedicarsi all’otium letterario nella valle
chiusa contrapposta al caos della sede papale di Avignone, fino a
quegli anni ’50 che, nella scrittura epistolare del poeta, sono
fortemente influenzati dal ritrovamento delle lettere Ad Atticum nella
Capitolare di Verona, avvenuto nel 1345, e che suggerì a Petrarca –
più che il modello formale – la concezione dell’epistolario come
autoritratto che fissa l’immagine dello scrittore davanti a se stesso, davanti
ai contemporanei e davanti ai lettori del futuro (Rico 2003:5).
Se davvero esistono, prima di Petrarca, degli spunti di scrittura
soggettiva, ed addirittura una lucida base teorica alle ragioni di essa
negli scritti danteschi, non possiamo fare a meno di considerare uno
stimolo esterno, che costituisce un motivo di sorprendente novità
nella concezione dell’epistolario petrarchesco e nella compilazione
del prodotto più notevole di esso, la sua lettera Ai posteri (Posteritati):
ci riferiamo allo scritto De vita et moribus Domini Francisci Petracchi de
Florentia secundum Iohannem Bochacii de Certaldo che, oltre a costituire
un materiale utilissimo per un autoritratto che il poeta avrebbe
potuto considerare già vagliato dai contemporanei, dal punto di vista
del “genere” fa convergere i due massimi sperimentatori della
scrittura biografica trecentesca, Boccaccio e Petrarca, offrendo a
quest’ultimo un altro modello “possibile”, da cui – come vedremo – è
possibile attingere per meglio plasmare la scrittura autobiografica!
Senza dilungarci sull’attività di Boccaccio biografo, che è consistente
e quasi parallela a quella del Petrarca autore del De viris illustribus e
del De vita solitaria, ricorderemo alcune coordinate essenziali di
questo genere in via di “nuova” formazione proprio grazie all’opera
delle due “corone”: superando infatti la tradizione medievale del
racconto agiografico, ed accogliendo sicuramente un’aspettativa
proveniente da ambienti differenti, e se vogliamo “intellettualizzata”
proprio da determinate scelte relative ai soggetti da descrivere,
giungiamo con le opere di Boccaccio e Petrarca alla “ristrutturazione”
128
di un genere che sarà utile, ad esempio, come modello letterario per i
generi della biografia esemplare cinquecentesca e dei trattati morali
quattro- e cinquecenteschi. La compilazione della biografia
petrarchesca da parte del Certaldese, dunque, si pone nel solco di un
più vasto progetto, che viene portato avanti quasi parallelamente
anche dall’amico e maestro: nell’opera di Boccaccio, però, un posto
privilegiato sarà dedicato – come avverrà, nel caso di Petrarca, per
Giulio Cesare e, in un’altra, ben più complessa prospettiva, per
Scipione – alle vite di Dante e di Petrarca, cui si accosta un’altra
biografia, la riscrittura della Vita di San Pier Damiani composta
precedentemente da Giovanni da Lodi e compilata apposta per il
Petrarca.
Il De casibus virorum illustrium (cominciato a metà degli anni ’50 e
compiuto in una prima redazione verso il 1360, poi ripreso negli anni
1374-75 (Cfr. Branca 1977:107 e Zaccaria 2001:35-36), la prima delle opere
latine maggiori di Boccaccio, potrebbe essere contemporaneo al De
vita9 e comunque, al di là degli scarti temporali, contiene per noi
elementi indispensabili per collegare la scrittura del De vita ad un più
organico progetto boccacciano, finalizzato a modellare un esempio di
impegno culturale che acquista lustro anche nel confronto con la
meschina realtà degli impegni politici, dei negotia e di tutto quanto
allontana i viri illustres dai loro veri – e più complessi – compiti
morali. Questo per sottolineare che la concezione boccacciana doveva
coincidere con quella petrarchesca – almeno nelle sue linee generali –,
e che quindi, se non altro dal punto di vista teoretico, il “maestro”
sarebbe stato d’accordo con quanto affermato dal “discepolo”.
Alla luce di quanto sinora detto, leggeremo il De vita – e
soprattutto la prima parte di esso – come epifanìa di questo pensiero:
se infatti il primo accenno al proprio preceptor inclitus è, nel primo
paragrafo dell’opera, già illuminato della gloria della corona poetica
(Franciscus Petracchi poeta, vir illustris ac vita moribusque et sciencia
clarus (...) gloriosissima fama per orbem floruit universum (Boccaccio
9
Non ci dilungheremo qui sulla lunga e non ancora risolta questione della datazione
di quest’ultima, per cui cfr. G. Villani in Boccaccio 2004:11-26 e Fabbri in Boccaccio
1992:881-888.
129
2004:72), il momento della ricostruzione della vicenda biografica
come percorso di una sempre più forte presa di coscienza della
vocazione letteraria, si fonda appunto sulla contrapposizione appena
rilevata:
Francesco sin dall’adolescenza avvalendosi di uno splendido ingegno
studiò e apprese le arti liberali. Finalmente, una volta adulto, si recò a
Bologna, (...) dove sotto la guida di diversi maestri frequentò le lezioni
di diritto civile. Ma mentre era impegnato con assiduità in tale
dottrina, Apollo, antivedendo il destino del suo vate futuro, cominciò
a blandirgli la parte più profonda della mente con il dolce canto e le
divine note delle Pieridi: così, messo da parte il diritto, egli cominciò a
muovere i passi verso la cima di Parnaso. 10
Ben diversa è l’impostazione dell’immagine dell’adolescenza che
Petrarca ci offre nella Posteritati, in quanto la concezione di una
crescita morale presa dal modello agostiniano, e messa in pratica
nelle raccolte di Lettere nate all’ombra dell’epistolario ciceroniano,
vuole che la vita si sviluppi in una parabola che parte dal basso, da
un traviamento giovanile, per giungere ad un vertice di atarassia
conquistato attraverso la riflessione filosofica messa in atto dal
saggio11: i due fattori principali di questo itinerario esistenziale sono,
a detta del poeta, il caso e la volontà dell’individuo (Tempus meum sic
vel fortuna vel voluntas mea nunc usque partita est (Petrarca 1955:8)), così
che il percorso del giovane Francesco risulta più movimentato di
quanto ci dica Boccaccio:
10
Franciscus ab ipsa pueritia celebri fultus ingenio in liberalibus artibus studuit didicitque.
Demum, cum etate iam esset adultus, Bononiam (...) petiit civitatem, ibique sub diversis
doctoribus iura civilia audivit. In quibus dum assiduo studio laboraret, Apollo, prescius sui
vatis futuri, eiusdem mentis archanum lepido Pieridum cantu carminibusque cepit demulcire
divinis, ob quam causam, legibus iam neglectis, ad Parnasi culmen cepit dirigere gressus
suos. (Boccaccio 2004:72-75)
11 Per una illuminante lettura dei fattori apologetici, propagandistici ed ideologici
presenti nelle Confessioni si rimanda al saggio di Pier Angelo Gramaglia (1990:13-94).
130
Là (...) passai la fanciullezza sotto la guida dei miei genitori; e poi
l’adolescenza intera sotto la guida dei miei vani piaceri. (...) Partito poi
per Montpellier a studiare legge, vi passai altri quattro anni; poi a
Bologna, e vi spesi tre anni a studiare tutto il corpo del diritto civile.12
Prima di passare ad analizzare il parere di Petrarca sulla decisione
di abbandonare studi del resto in parte compiuti (tutto il corpo del
diritto civile), sarà utile dare spazio ad un quadretto familiare che
costituisce uno degli elementi più interessanti del De vita, specie nel
confronto con la Posteritati:
Il padre, venuto a sapere la cosa dai tanti che gliela riferirono, e
agognando nel suo animo valori piuttosto legati al tempo che
duraturi, non valutò bene la gloria che da quegli inizi sarebbe venuta
per il figlio. Pertanto, desiderando invano contrastare le stelle,
sdegnato, trovò il modo di richiamarlo a casa, e dopo averlo ripreso
con aspri rimproveri per tali suoi studi, disse: «Ma perché vuoi
cimentarti in una materia che non serve? Persino il Meonide non ha
lasciato un soldo». Impartitogli quindi un ordine perentorio, lo spedì
subito a studiar legge, una seconda volta, a Montpellier13.14
Da una delle Seniles (XVI, 1) sappiamo della esistenza di questo
conflitto, che però nella Posteritati non viene ricordato, ma piuttosto
“scavalcato” con un accenno rapido alla sua risoluzione:
12
Ibi (...) pueritiam sub parentibus, ac deinde sub vanitatibus meis adolescentiam totam egi.
(...) Inde ad Montem Pessulanum legum ad studium profectus, quadriennium ibi alterum;
inde Bononiam, et ibi triennium expendi et totum iuris civilis corpus audivi. (Petrarca
1955:8-9)
13 Boccaccio inverte l’ordine cronologico, poiché, come si vede da quanto indicato
nella Posteritati, e come sarebbe logico del resto, Petrarca studiò prima a Montpellier,
poi a Bologna.
14 Quod dum pater referentibus pluribus audisset, nati futuram gloriam ex ceptis debite non
repensans, cum eciam animo quam eterna temporalia pocius affectaret, nequiquam astris
avidus obviare, indignans quodammodo ipsum ad lares proprios revocavit, et, cum illum
studiorum talium obiurgatone multimoda momordisset, aiendo: «Studium quid inutile
tentas? Meonides nullas ipse reliquis opes». (Boccaccio 2004:75)
131
Ero un giovanotto che secondo l’opinione di parecchi prometteva
grandi cose, se avessi seguitato quella strada; ma io quello studio lo
lasciai completamente appena mi lasciò la sorveglianza paterna.15
L’immagine di coercizione legata alla sorveglianza paterna, alla
parentum potestas, non viene esasperata, ma piuttosto mascherata
dalla figurazione dell’adolescenza come periodo in continuo
“palleggio” tra voleri paterni e insidiose iniziative di sconsiderata
leggerezza16. E si tratta di un’adolescenza lunghissima, durante la
quale l’Io ha tutto il tempo di passare dai vani piaceri a studi
“prosaicamente prestigiosi”, ma pure non disprezzati nella loro
essenza, come invece aveva tagliato corto Boccaccio:
Non perché non mi piacesse la maestà del diritto, che indubbiamente
è grande e satura di quella romana antichità di cui sono ammiratore,
ma perché la malvagità degli uomini lo piega ad uso perfido. E così
mi spiacque imparare ciò che non avrei potuto usare onestamente...17
È quindi la voluntas, intesa come espressione dell’individualità, a
creare un discrimen tra la teoria (la grandezza della romanità che
emana dall’istituzione del diritto) e la pratica (il carattere proditorio
dell’uso che del diritto fanno i contemporanei) e quindi, nella
proiezione autobiografica, ad autorizzare una decisione che orienta la
vita di Petrarca verso l’otium letterario: in questo modo la personalità
del poeta – di quel poeta laureato a cui Boccaccio dedica il suo scritto
– emerge in netto contrasto con la meschinità dei contemporanei, ed il
“parlare di sé” rientra in ambedue le occasioni giustificate dal
Convivio.
15
... futurus magni provectus adolescens, ut multi opinabantur, si cepto insisterem. Ego vero
studium illud omne destitui, mox ut me parentum cura destituit. (Petrarca 1955:8-11)
16 Quali ritroviamo, più diffusamente descritte, nel celeberrimo furto di pere
perpetrato dal giovane Agostino (libro II, capitolo IV).
17 Non quia legum michi non placeret autoritas, que absque dubio magna est et romane
antiquitatis plena, qua delector; sed quia earum usus nequitia hominum depravatur.
(Petrarca 1955:10-11)
132
La capacità di plasmare il proprio Io non si ferma però, in Petrarca,
alle questioni morali, alla definizione della “missione” ed a quanto lo
stesso Boccaccio sottolinea18 descrivendo la splendida carriera che al
18 In tutta la prima parte della sua opera (paragrafi 1-17) Boccaccio non fa che mettere
in contrapposizione l’otium al negotium, esaltando le virtù poetiche di Petrarca
attraverso una continua menzione dell’interesse delle Muse per lui, e soprattutto
mediante la citazione di una galleria di auctores (nei paragrafi 4, 7 e 9) che è
strettamente collegata a quanto contenuto nella Collatio laureationis del poeta di Laura
(non ci soffermiamo adesso sulla questione, già colta dalla critica, di come venga da
Boccaccio integrato il “campionario” di auctores già presente nella Collatio). Questa
galleria – nel progetto boccacciano – vuole far confluire il processo di bildung
petrarchesco verso una doppia valenza, poetico-morale, in cui i modelli virgilianoterenziano e ciceroniano-senechiano riescono a formare l’intellettuale perfetto, che si
astrae dagli affanni mondani recandosi fra monti altissimi, avvolti da perenne ombra
degli alberi: in una valle che i suoi abitanti non a torto, da remoti tempi, chiamano «Val
Chiusa» (Boccaccio 2004:77). La tendenza alla solitudine è appena mitigata dalle visite
con cui a precisi intervalli di tempo si recava presso la Curia romana, accenno dovuto a
mostrare come Petrarca fosse già benvoluto dai grandi del suo tempo, ma soprattutto
a mettere in evidenza come questa sua dimestichezza dovesse naturalmente avere
come effetto l’incoronazione, che nella rievocazione boccacciana acquista la forza di
una celebrazione della poesia latina, nell’ambientazione volutamente “nostalgica”
dei fasti della Roma repubblicana, accresciuti dalla rivelazione cristiana nell’accenno
al clero: ...si recò nella augusta Roma. Accoltovi ormai dal senato e dal popolo romano con
altissimi onori, non meno per effetto del suo proprio valore, che per le preghiere formulate in
tal senso dal predetto re, fu innalzato dai senatori al rango di poeta illustre. Uno di essi, Orso
degli Orsini (...), nella città di Roma e sulla rocca del Campidoglio alla presenza del popolo e
del clero tutto (...) lo incoronò solennemente come poeta con il serto di alloro (Boccaccio
2004:81). Nella sua descrizione, Boccaccio mette in parallelo Petrarca con una civiltà
mondiale appartenente al passato, facendone il continuatore della tradizione
dell’incoronazione poetica interrottasi al tempo dell’imperatore Domiziano,
ripetendo l’accenno alla cittadinanza di Roma (gran gioia dei cittadini romani, e nobili e
plebei) e dando all’evento addirittura un valore di ritorno all’età aurea (credo che di
sicuro a tutti sembrò che fossero tornati il regno e i tempi felici di Saturno, già da molto
perduti). La gloria poetica di Petrarca è seconda soltanto alla sua integrità morale, al
suo equilibrio, alla dolcezza dei suoi versi, alla sua memoria: la seconda e terza parte
del De vita sembrano poca cosa rispetto alla grande parabola della formazione di un
uomo nuovo, del poeta tanto atteso, la cui missione non conosce confini, destinata
com’è a riaffermare il primato di una poesia civile e morale, tutta nell’opera
eccezionale, nell’epico carme di cui ognuno parla: ... sebbene di tale libro sin ora a nessuno
da lui sia stata data copia, nondimeno, esaminato da molti, è ritenuto degno di Omero
(Boccaccio Roma 2004:89).
133
momento del conferimento della corona poetica non è al culmine, ma
piuttosto al principio: suona infatti strano che proprio Boccaccio
utilizzasse quel patronimico (Franciscus Petracchi, ovvero Francesco di
Petracco) che non corrispondeva più al nome che Petrarca si era
foggiato, in un certo qual modo sostituendo alla sua identità mortale
quella che sarebbe stata immortalata dalla fama e dalla gloria poetica.
I piccoli mutamenti portati al nome sono significativi di quella
riscoperta dell’Io che nel cantore di Laura diviene perentoria: non
essendoci però una coscienza dell’Io se non come di una individualità
legata all’associazione con i modelli degli antichi, era necessario che il
nome, simbolo della persona(lità) che lo porta (nomina sunt omina, id
est consequentia rerum), si collegasse ad una serie di significati
pregnanti. Ordunque, se da un lato la nuova forma privilegia il
riferimento al simbolo della trasmissione della missione apostolica
(Petrus come petra, pietra su cui si fonda la Chiesa di Cristo), dall’altro
la terminazione in –arca introduce un chiaro richiamo fonico a parole
come monarca, patriarca19, ma addirittura si può vedere nella vicinanza
di due nomi come Franciscus e Petrus l’accostamento delle due
“patrie” di Petrarca, la Francia e Roma (se non l’Italia), ovvero
l’intento di conservare nel nome, nel segno cioè più notevole della
identificazione individuale, le proprie radici culturali20.
Per rendere ancora più completa la fenomenologia del “parlare di
sé” petrarchesco dovremo considerare un terzo fattore, forse finora
trascurato perché così ben penetrato nel nostro immaginario, da
apparire come innato, e non piuttosto voluto dal poeta: l’autoritratto
fisico. Il Petrarca, come fu per Dante stesso, grandemente ammirò le
arti e l’opera figurativa, ma pure dovette considerare quanto fallace
possa essere abbandonarsi ad essa e soprattutto affidarvi le proprie speranze
di immortalità (Beleggia 2003:679): pur di sfuggire alla mobilità del
tratto pittorico, Petrarca cerca di affidare le proprie sembianze,
l’aspetto fisico del proprio Io, a più di un luogo della sua opera, dal
Secretum fino alle varie raccolte epistolari, ma sempre con la
19
20
Per cui si veda l’ipotesi di Gianni Villani in Boccaccio 2004:92 (nota 1).
Come sarebbe poi successo, con risultati assai più evidenti, nel caso di Italo Svevo!
134
convinzione che l’aspetto esteriore non possa competere con le opere
(o le imprese) di chi ne è il portatore. Fatto sta che, nonostante i
continui indizi lasciati dal Petrarca a sminuire le “dicerie” sulla sua –
virile – bellezza21, proprio la raffigurazione che Boccaccio ci tramanda
nel De Vita resterà “canonica”:
Alto di statura, di leggiadro aspetto, e piacevole per il viso
tondeggiante, sebbene egli non sia anche di color chiaro, comunque
neppure bruno: piuttosto con certe punte d’ombra, come ben s’addice
a un uomo. Severo il movimento degli occhi; felice, e insieme sottile
l’intuito per acuta perspicacia; mite nell’aspetto...22
Del resto, proprio nella Posteritati Petrarca sembra ricalcare parola
per parola l’ammirato giudizio del suo caro discepolo, pur sempre
temperandolo con una dichiarazione di modestia:
Non mi vanto di aver avuto una grande bellezza, ma in gioventù
potevo piacere: di colore vivo tra bianco e bruno, occhi vivaci e per
lungo tempo di una grandissima acutezza...23
Il ritratto che ci rimane di Petrarca, dunque, è fondamentalmente
legato alla sua concezione della letteratura (e della filosofia) come
unico possibile itinerario di vita: i tre elementi fondamentali del
“parlare di sé”, il ritratto “storicizzato” (quello che potremmo
definire il suo curriculum vitae), la designazione del “nome poetico”
(come acquisizione di una identità autodeterminata), ed infine la
fissazione dei caratteri fisici, integrano l’immagine sonora che di lui
21
Nella Posteritati leggiamo: La vecchiaia prese possesso di un corpo che era stato sempre
sanissimo e lo circondò con la solita schiera di acciacchi (Tota etate sanissimum corpus
senectus invasit, et solita morborum acie circumvenit.). (Petrarca 1955:2-3)
22 Statura quidem procerus, forma venustus, facie rotunda atque decorus, quamvis colore etsi
non candidus, non tamen fuit obscurus, sed quadam decenti viro fuscositate permixtus.
Oculorum motus gravis, intuitus letus et acuta perspicacitate subtilis; aspectu mitis...
(Boccaccio 2004:82-83)
23 Forma non glorior excellenti, sed que placere viridioribus annis posset: colore vivido inter
candidum et subnigrum, vivacibus oculis et visu per longum tempus acerrimo... (Petrarca
1955:2-3)
135
ci giunge dal primo sonetto del Canzoniere, in cui Francesco,
rivolgendosi ai suoi ascoltatori, mette subito in rilievo quell’Io
protagonista assoluto dell’opera:
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono...
(Petrarca 2001:5)
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