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Codice civile
R.D. 16 marzo 1942, n. 262. Approvazione del testo del Codice civile (Pubblicato nella edizione
straordinaria della Gazzetta Ufficiale n. 79 del 4
aprile 1942).
VITTORIO EMANUELE III
PER GRAZIA DI DIO
E PER VOLONTÀ
DELLA NAZIONE
RE D’ITALIA E DI ALBANIA
IMPERATORE D’ETIOPIA.
Visti i Regi decreti 12 dicembre 1938, n. 1852, 26
ottobre 1939, n. 1586, 30 gennaio 1941, n. 15, 30 1941,
n. 16, 30 gennaio 1941, n. 17 e 30 gennaio 1941, n.
18, che danno facoltà al Governo di provvedere alla
riunione ed al coordinamento dei libri del Codice civile
delle persone, delle successioni per causa di morte e
delle donazioni, della proprietà, delle obbligazioni, del
lavoro e della tutela dei diritti, approvati con gli stessi
Regi decreti;
Udito il Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Nostro Guardasigilli, Ministro
Segretario di Stato per la grazia e giustizia;
Abbiamo decretato e decretiamo:
1. È approvato il testo del Codice civile, il quale, preceduto dalle Disposizioni sulla legge in generale, avrà esecuzione a cominciare dal 21 aprile 1942, sostituendo da
questa data i libri del Codice stesso, approvati con i Regi
decreti 12 dicembre 1938, n. 1852, 26 ottobre 1939, n.
1586, 30 gennaio 1941, n. 15, 30 gennaio 1941, n. 16, 30
gennaio 1941, n. 17, e 30 gennaio 1941, n. 18.
2. Un esemplare del testo del Codice civile, firmato da
Noi e contrassegnato dal Nostro Ministro Segretario di
Stato per la grazia e giustizia, servirà di originale e sarà
depositato e custodito nell’Archivio del Regno.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del
sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta ufficiale
delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a
chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Roma, addì 16 marzo 1942.
VITTORIO EMANUELE
Mussolini — Grandi
Visto, il Guardasigilli: Grandi.
Registrato alla Corte dei Conti, addì 16 marzo 1942
— Atti del Governo, registro n. 443, foglio n. 53.
Mancini
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
Capo I
Delle fonti del diritto
1. Indicazione delle fonti. – Sono fonti (70, 87, 121,
138, Cost.) del diritto:
1) le leggi (2, 10 ss.);
2) i regolamenti (3, 4);
3) le norme corporative (1);
4) gli usi (8 ss.).
(1) Il R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721, soppressione degli organi
corporativi centrali, del comitato interministeriale prezzi e del
comitato interministeriale per l’autarchia, ha soppresso l’ordinamento corporativo fascista.
2. Leggi. – La formazione delle leggi (1, n. 1) e l’emanazione degli atti del Governo aventi forza di legge sono disciplinate da leggi di carattere costituzionale (70
ss., 87, 128 Cost.).
3. Regolamenti. – Il potere regolamentare del Governo è disciplinato da leggi di carattere costituzionale.
Il potere regolamentare di altre autorità è esercitato nei limiti delle rispettive competenze, in conformità
delle leggi particolari (4, 77, 87 Cost.).
l Le deliberazioni del Consiglio Nazionale
Forense previste dall’art. 1 della Legge 3 agosto
1949 n. 536 integrano un regolamento adottato
da un’autorità non statale in forza di un autonomo potere regolamentare che ripete la sua disciplina da leggi speciali, in conformità all’art. 3,
comma secondo, delle Disposizioni della Legge in
generale, e che non è trasformato in regolamento
governativo dal decreto ministeriale di approvazione, emanato nell’esercizio di un potere di controllo, per cui le singole disposizioni dettate da
detta delibera (che non hanno il vigore e la forza
di una norma giuridica) in tanto possono essere
applicate dal giudice, in quanto siano ricomprese
nell’ambito del potere regolamentare attribuito al
Consiglio Nazionale Forense, che è ristretto alla
fissazione dei criteri per la determinazione degli
onorari ed indennità spettanti agli avvocati per la
loro opera professionale. Pertanto, nella parte in
cui attribuisce al parere del Consiglio dell’Ordine
afficacia vincolante anche nei confronti del giudice chiamato a risolvere una controversia avente
ad oggetto la riducibilità al di sotto dei minimi
tabellari del compenso spettante ad un avvocato
per le sue prestazione stragiudizionali, la disposi-
zione dell’art. 9 delle Norme generali della Tariffa
stragiudizionale deliberata il 28 maggio 1982 —
in quanto esorbita dai limiti dell’anzidetto potere
regolamentare — è illegittima e deve essere disapplicata. Correlativamente, ai fini della pronuncia
del giudice è sufficiente che il parere sia stato acquisito in giudizio e, ove il Consiglio dell’Ordine
ne abbia denegato il rilascio, è sufficiente che la
parte che vi abbia interesse dimostri sia di averlo
chiesto e sia che è stato rifiutato. * Cass. civ., Sezioni Unite, 1 febbraio 1995, n. 1115 . Conformi
sul principio di cui alla prima parte della massima, Cass., Sezioni Unite, 27 marzo 1993, n. 3690
e Cass., Sezioni Unite, 30 agosto 1991, n. 9284,
le quali, in applicazione di detto principio, hanno escluso la legittimità della deliberazione del
Consiglio nazionale forense approvata con D.M.
22 giugno 1982 in forza della quale, decorsi tre
mesi dall’invio della parcella senza che i relativi
importi siano stati contestati, il relativo credito
è soggetto a rivalutazione automatica ai sensi
dell’art. 429 c.p.c. (come modificato dalla L. n.
533/73). Nello stesso senso, anche Cass. lav., sez.
II, 30 ottobre 1996, n. 9514.
l A differenza degli atti e provvedimenti
amministrativi generali — che sono espressione
di una semplice potestà amministrativa e sono
rivolti alla cura concreta d’interessi pubblici, con
effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel
provvedimento, ma determinabili — i regolamenti sono espressione di una potestà normativa attribuita all’amministrazione, secondaria rispetto
alla potestà legislativa, e disciplinano in astratto
tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione
attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente
innovativa rispetto all’ordinamento giuridico esistente, con precetti aventi i caratteri della generalità e dell’astrattezza. A norma dell’art. 17, L. n.
400 del 1988, per i regolamenti di competenza ministeriale sono richiesti il parere del Consiglio di
Stato e la preventiva comunicazione al Presidente
del Consiglio dei ministri. (In forza di tali principi, la Suprema Corte ha confermato la decisione
del T.S.A.P. che, ritenuta la natura regolamentare
del D.M. 20 luglio 1990, contenente i criteri di
aumento dei canoni di concessione di utenza di
acque pubbliche, lo annullava per violazione del
citato art. 17, L. n. 400 del 1988, non risultando
osservato il modello procedimentale ivi previsto).
* Cass. civ., Sezioni Unite, 28 novembre 1994, n.
Art. 4
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
10124, Ministero finanze e tesoro c. Merano ed
altri Nello stesso senso, Cass. III, 5 luglio 1999,
n. 6933.
4. Limiti della disciplina regolamentare. – I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle
disposizioni delle leggi.
I regolamenti emanati a norma del secondo comma
dell’art. 3 non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo.
5 - 7. (Omissis) (1).
(1) Articoli riguardanti le norme corporative, abrogati dal
R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721.
8. Usi. – Nelle materie regolate dalle leggi (1, n. 1) e
dai regolamenti (1, n. 2) gli usi hanno efficacia solo in
quanto sono da essi richiamati (1, n. 4, 9).
Le norme corporative prevalgono sugli usi, anche
se richiamati dalle leggi e dai regolamenti, salvo che in
esse sia diversamente disposto (1).
(1) Comma da ritenere abrogato a seguito della soppressione
dell’ordinamento corporativo fascista disposta dal R.D.L. 9 agosto
1943, n. 721.
l Avendo il giudice l’obbligo di conoscere la
legge, ma non anche gli usi, questi ultimi, ove il
giudice non ne sia a conoscenza, debbono essere
provati (anche per quanto riguarda l’elemento
dell’opinio iuris ac necessitatis) a cura della parte
che li allega, e la relativa prova non può essere
fornita per la prima volta nel giudizio di legittimità. * Cass. civ., sez. I, 1 marzo 2007, n. 4853, Bnl
Spa c. Fall. Pasini Franco. [RV595180]
l La prassi amministrativa, a differenza degli
usi (costituenti fonte del diritto: art. 8 disp. sulla
legge in generale), non ha efficacia erga omnes e
non ha vero carattere di generalità; essa si limita
a connotare il comportamento di fatto dei singoli
uffici nei rapporti interni e con il pubblico, senza
essere tuttavia accompagnata dalla convinzione
della sua doverosità. (Fattispecie relativa alla
dedotta esistenza di una prassi amministrativa
derogatoria dell’art. 1194 c.c., in forza della quale,
per l’imputazione del pagamento parziale di debiti
dell’amministrazione al capitale anziché agli interessi, non sarebbe necessario il consenso del creditore: la S.C. ha confermato la sentenza di merito
che aveva escluso la rilevanza della addotta prassi
amministrativa). * Cass. civ., sez. lav., 4 settembre
2002, n. 12869 Conforme, sulla prima parte della
massima, Cass. III, 19 gennaio 2006, n. 1018, la
quale, in applicazione del principio, ha poi escluso il pregiudizio lamentato dalla ricorrente come
conseguenza della prassi della P.A. di richiedere la
dimostrazione dello status, di impresa abilitata al
momento della richiesta di ammissione alle gare
di appalto e del ritardo nel rilascio del certificato
di revisione della iscrizione all’albo dei costruttori,
in quanto la prassi della P.A. non poteva ritenersi
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espressione di un precetto giuridicamente vincolante essendo sufficiente, nella fase endoprocedimentale dell’ammissione alla garae sulla base del
disposto dell’art. 2 della legge 4 gennaio 1968 n 15,
la presentazione di una dichiarazione sostitutiva
della formale certificazione. [RV557254]
l Gli usi normativi, contemplati dall’art. 1, n.
4, prel., sono norme giuridiche che il giudice ha
l’obbligo di applicare se le conosce, ma non ha
l’onere di indagare personalmente per accertarne
l’esistenza disponendo ex officio attività istruttorie per sopperire all’inerzia delle parti. * Cass. civ.,
sez. II, 21 novembre 2000, n. 15014.
l Il rapporto che sorge, fra il privato e l’agente
di borsa od un istituto di credito autorizzato a negoziare in borsa, dà luogo al cosiddetto «ordine di
borsa», che non si inquadra in nessuna delle figure
negoziali previste dal codice civile, e nemmeno in
quella del mandato, ma costituisce un contratto
atipico che trova la sua regolamentazione nelle
fonti consuetudinarie ed in particolare negli usi
di borsa, che, in tal modo, operano praeter legem.
Sotto un tal riguardo, trova, in riferimento ad esso,
operatività la disposizione di cui all’art. 16 degli usi
di borsa, in base alla quale «le contestazioni relative all’esecuzione di ordini devono essere proposte
prima dell’inizio della riunione di Borsa successiva al giorno in cui l’avviso di esecuzione, o quello
della mancata esecuzione è giunto all’indirizzo del
committente». E, quanto ai possibili profili di irragionevolezza di un tal termine così breve (profili
la cui valutazione non può che rimanere estranea
all’ambito delle competenze della Corte costituzionale, la quale, ai sensi dell’art. 134 Cost. giudica
solo delle leggi e degli atti aventi una tal forza), essi
si rivelano del tutto privi di fondamento, dovendo
un termine così breve ritenersi pienamente giustificato dalla particolare natura delle contrattazioni,
caratterizzate dalla celerità degli scambi e dalla
stessa necessità di porre l’operatore in grado di intervenire, nel più breve tempo, per possibili azioni
di rientro o di salvaguardia. * Cass. civ., sez. I, 18
luglio 1997, n. 6625, Scozzarella c. Monte Paschi di
Siena. [RV506135]
l Le norme e gli usi uniformi della Camera
di commercio internazionale relativi ai crediti
documentari non sono usi giuridici o normativi,
ma costituiscono clausole d’uso, integrative della
volontà dei contraenti, sicché la loro violazione e
falsa applicazione non è denunciabile in sede di
legittimità. * Cass. civ., sez. I, 8 marzo 1996, n.
1842 Nello stesso senso: Cass. I, 22 febbraio 1979,
n. 1130; Cass. III, 6 febbraio 1982, n. 693; Cass.
III, 10 giugno 1983, n. 3992.
9. Raccolte di usi. – Gli usi pubblicati nelle raccolte
ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati si presumono esistenti fino a prova contraria (1).
(1) Si veda D.L.vo C.P.S. 27 gennaio 1947, n. 152 modif. con L.
13 marzo 1950, n. 115, nuove norme per l’accertamento degli usi
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CODICE CIVILE (PRELEGGI)
generali del commercio. Si veda, inoltre, l’art. 38 R.D. 20 settembre
1934, n. 2011, che dispone:
«38. Le cancellerie giudiziarie comprese nella circoscrizione
della provincia comunicano alla Camera di Commercio notizia
delle sentenze che accertano l’esistenza o l’inesistenza di un uso o
di una consuetudine e sono tenute a rilasciare copia delle sentenze stesse a spese della Camera di Commercio richiedente».
u Si
veda sub art. 8.
Capo II
Dell’applicazione
della legge in generale
10. Inizio dell’obbligatorietà delle leggi e dei regolamenti. – Le leggi (1, n. 1) e i regolamenti (1, n. 2)
divengono obbligatori nel decimoquinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione (73 Cost.), salvo che sia altrimenti disposto.
Le norme corporative divengono obbligatorie nel
giorno successivo a quello della pubblicazione, salvo
che in esse sia altrimenti disposto (1).
(1) Comma da ritenere abrogato a seguito della soppressione
dell’ordinamento corporativo fascista, disposta dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721.
l Nel regime anteriore alla L. 23 agosto
1988, n. 400, che al quinto comma dell’art. 15
ha disposto, per le modifiche apportate in sede
di conversione del decreto legge, l’efficacia dal
giorno successivo alla pubblicazione della legge di
conversione salvo diverso disposto di quest’ultima,
la legge di conversione del decreto legge, mentre
esplica ex tunc (e cioè fin dal momento dell’entrata in vigore di quest’ultimo) i propri istituzionali
effetti convalidativi delle norme del decreto stesso
che non siano state modificate, è dotata, rispetto
agli emendamenti eventualmente introdotti di
una duplice valenza, poiché da un lato converte il
precedente decreto e, dall’altro, contestualmente
introduce nell’ordinamento nuove disposizioni,
sostitutive o modificative di quelle contenute nel
provvedimento convertito. Ne consegue che tali
nuove disposizioni spiegano il loro effetto, sostitutivo o modificativo di quelle convertite, soltanto
ex nunc e cioè alla scadenza del periodo di vacatio
legis susseguenti alla loro pubblicazione nella G.U.
(salvo che la stessa legge di conversione non disponga diversamente al riguardo), rimanendo, fino
alla scadenza stessa vigenti le norme del decreto
nel testo anteriore all’emendamento. (Fattispecie
in ordine al D.L. 4 marzo 1976, n. 30 con riguardo
agli interessi dovuti per il ritardo del pagamento
dell’imposta da parte dell’azienda delegata dal contribuente, per cui la legge di conversione 2 maggio
1976, n. 160 ha disposto una penale giornaliera).
* Cass. civ., sez. I, 2 maggio 1991, n. 4781, Amm.
Finanze dello Stato c. Banco di Roma S.p.A.
Art. 10
l La norma dell’art. 10, primo comma, delle
preleggi — secondo cui le leggi e i regolamenti
divengono obbligatori nel decimo-quinto giorno
successivo a quello della loro pubblicazione, salvo
che sia diversamente disposto — non si applica
ai decreti ministeriali (nella specie, decreto del
Ministro per il lavoro e la previdenza sociale del
21 febbraio 1981, pubblicato sulla G.U. n. 237
del 27 novembre 1981, di approvazione di un
regolamento dell’Enpam) che recepiscono (senza,
peraltro, trasformarli in regolamenti governativi)
atti emanati da autorità non statali in forza di
un potere normativo attribuito da leggi speciali
(art. 3, comma secondo, delle preleggi), essendo
tali decreti emanati nell’esercizio di un semplice
controllo, con la conseguenza che i medesimi, anche se debbono essere pubblicati sulla Gazzetta
Ufficiale, non sono assoggettati ad alcun periodo
di vacatio legis e sono quindi immediatamente
applicabili per il carattere di esecutorietà proprio
degli atti amministrativi. * Cass. civ., sez. lav., 19
febbraio 1990, n. 1204, Enpam c. Fanfani.
11. Efficacia della legge nel tempo. – La legge non
dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo (25 Cost.; 2 c.p.).
I contratti collettivi di lavoro (2067 ss. c.c.) possono stabilire per la loro efficacia una data anteriore
alla pubblicazione, purché non preceda quella della
stipulazione (2074 c.c.).
l Il principio dell’irretroattività della legge
comporta che la legge nuova non possa essere
applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti
prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti
anteriormente ed ancora in vita se, in tal modo,
si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto
passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o
in parte, alle conseguenze attuali e future di esso.
Lo stesso principio comporta, invece, che la legge
nuova possa essere applicata ai fatti, agli status e
alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data
della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della
disciplina disposta dalla nuova legge, debbano
essere presi in considerazione in sè stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il
fatto che li ha generati, in modo che resti escluso
che, attraverso tale applicazione, sia modificata la
disciplina giuridica del fatto generatore. (In base
al suddetto principio la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, in una fattispecie relativa
alla ripetizione dei ratei dell’indennità di accompagnamento indebitamente versati, aveva ritenuto di attribuire valore retroattivo all’art. 4, commi
terzo ter e terzo nonies, del D.L. n. 323 del 1996,
convertito nella legge n. 425 del 1996, che hanno
abrogato l’art. 11, comma quarto, della legge n.
537 del 1993 stabilendo che la revoca delle provvidenze a favore degli invalidi civili ha effetto a
Art. 12
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
decorrere dalla data della visita medica di verifica
dell’insussistenza dei requisiti sanitari e, quindi,
non più dall’anno precedente la data dell’accertamento in sede amministrativa dell’insussistenza
dei requisiti stessi). * Cass. civ., sez. lav., 3 marzo
2000, n. 2433, Min. Interno c. Mazzoleni ed altro
Conforme, sulla prima parte della massima, Cass.
III, 1 febbraio 1974, n. 210. [RV534559]
l Il principio della irretroattività della legge
(sancito dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge
in generale) deve ritenersi applicabile anche alle
norme di ordine pubblico, e non trova, pertanto,
deroga nel disposto della legge 6 agosto 1967, n.
765, il cui art. 18, prevedendo lo specifico obbligo
di riservare appositi spazi condominiali a parcheggio, fa esplicito riferimento alle «nuove costruzioni», con la conseguenza che deve ritenersi
affetta da invalidità la delibera condominiale,
adottata a maggioranza, che abbia autorizzato
il parcheggio degli autoveicoli nelle aree comuni
di un edificio, costruito anteriormente all’entrata
in vigore della citata normativa, nonostante una
espressa previsione contraria contenuta nel regolamento condominiale contrattuale. * Cass. civ.,
sez. II, 14 giugno 1997, n. 5369.
l Il principio generale di irretroattività stabilito dall’art. 11 prel. c.c., in base al quale l’eventuale retroattività di una legge deve risultare da
una espressa dichiarazione del legislatore o comunque da una formulazione non equivoca della
norma, in mancanza della quale la legge dispone
solo per l’avvenire e non ha quindi effetto retroattivo, vale anche per le fonti normative secondarie,
ed è quindi applicabile al D.M. 18 giugno 1988
(Nuova tariffa dei premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali per il settore industriale e relative modalità di
applicazione); ne consegue che la disposizione di
cui agli artt. 13 e 14 di tale decreto ministeriale,
secondo cui il provvedimento di rettifica, adottato
dall’Inail d’ufficio o su istanza del datore di lavoro,
ha effetto dalla data in cui deve essere applicata
l’esatta classificazione e tassazione, è applicabile
solo a partire dalla data di entrata in vigore dello
stesso decreto ministeriale. * Cass. civ., sez. lav.,
28 agosto 1996, n. 7905.
l La norma dell’art. 11, primo comma, delle
disposizioni sulla legge in generale, nel sancire
(con formulazione identica a qualla accolta
dall’art. 2 del c.c. del 1865 e costituente, a sua
volta, la traduzione letterale dell’art. 1, n. 2, delle
preleggi del codice napoleonico) che la legge
non dispone che per l’avvenire e non ha effetto
retroattivo, non detta un principio inderogabile
in tema di efficacia della legge nel tempo, ma
— nonostante l’espunzione, dal testo originario
della norma, dell’inciso «di regola» — si limita
ad indicare un canone interpretativo nel senso
della normale irretroattività, senza escludere che
la legge possa avere efficacia retroattiva per sua
stessa previsione esplicita o implicita, secondo
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una indagine che è riservata al giudice del merito
e che non può prescindere dall’intenzione del legislatore quale manifestata dai lavori preparatori. *
Cass. civ., sez. lav., 24 ottobre 1989, n. 4334, Inail
c. Palombo.
12. Interpretazione della legge. – Nell’applicare
la legge non si può ad essa attribuire altro senso che
quello fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del
legislatore (1362, 1363 c.c.).
Se una controversia non può essere decisa con una
precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni
che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso
rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi
generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
SOMMARIO:
a) Interpretazione letterale e logica; a-1) In genere; a-2) Lavori preparatori; a-3) Richiamo alle
norme costituzionali;
b) Interpretazione estensiva;
c) Interpretazione restrittiva;
d) Interpretazione analogica;
e) Principi generali dell’ordinamento.
a) Interpretazione letterale e logica.
a-1) In genere.
l Ai fini dell’interpretazione di provvedimenti
giurisdizionali nella specie del decreto di liquidazione dei compensi al C.T.U. si deve fare applicazione, in via analogica, dei canoni ermeneutici
prescritti dagli artt. 12 e seguenti disp. prel. c.c.,
in ragione dell’assimilabilità per natura ed effetti
agli atti normativi, secondo l’esegesi delle norme
(e non già degli atti e dei negozi giuridici), al pari
del giudicato interno ed esterno e della sentenza rescindente, in quanto dotati di vis imperativa e indisponibilità per le parti; ne consegue che la predetta
interpretazione si risolve nella ricerca del significato oggettivo della regola o del comando di cui
il provvedimento è portatore. * Cass. civ., Sezioni
Unite, 9 maggio 2008, n. 11501, Perillo c. Merone.
l Nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale
di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in
modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la
connessa portata precettiva, l’interprete non deve
ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo
del testo, della mens legis, specie se, attraverso
siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come
inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima
risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il
ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore,
insufficienti in quanto utilizzati singolarmente,
31
CODICE CIVILE (PRELEGGI)
acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge
da criterio comprimario e funzionale ad ovviare
all’equivocità del testo da interpretare, potendo,
infine, assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile
con il sistema normativo, non essendo consentito
all’interprete correggere la norma nel significato
tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia
solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la
norma stessa è intesa (in applicazione di tale principio, la S.C. ha, così, confermato la sentenza di
merito che aveva ritenuto legittima l’introduzione
di un registratore portatile — al fine di registrare
la seduta consiliare — da parte di un consigliere
comunale del comune di S. Pietro Mosezzo, atteso che l’art. 26 del relativo regolamento comunale
si limitava a vietare espressamente l’introduzione
dei soli apparecchi di riproduzione «audiovisiva»
in assenza di autorizzazione del presidente). *
Cass. civ., sez. I, 6 aprile 2001, n. 5128.
l Il criterio di interpretazione teleologica,
previsto dall’art. 12 delle preleggi, può assumere
rilievo prevalente rispetto all’interpretazione
letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui
l’effetto giuridico risultante dalla formulazione
della disposizione di legge sia incompatibile con
il sistema normativo; non è infatti consentito
all’interprete correggere la norma, nel significato
tecnico giuridico proprio delle espressioni che
la compongono, nell’ipotesi in cui ritenga che
l’effetto giuridico che ne deriva, sia solo inadatto
rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa.
* Cass. civ., sez. lav., 13 aprile 1996, n. 3495.
a-2) Lavori preparatori.
l Il ricorso ai lavori preparatori, nel procedimento di interpretazione di una legge, è consentito in via meramente sussidiaria, al fine di trarre
utili elementi per l’individuazione del significato
precettivo di singole disposizioni normative e della
ratio che le giustifica, ma non consente di sostituire la volontà da essi risultante a quella della legge,
emergente dal significato proprio delle parole usate e dall’intenzione del legislatore, quale volontà
oggettiva della norma distinta dalla volontà dei
singoli partecipanti al suo processo formativo. *
Cass. civ., sez. II, 19 maggio 1975, n. 1955.
l Ai lavori preparatori può riconoscersi valore unicamente sussidiario nell’interpretazione
di una legge, giacché — se da essi possono trarsi
elementi giovevoli ai fini dell’individuazione del
significato precettivo di singole disposizioni
normative e della ratio che le giustifica — l’utile
ricorso ai lavori preparatori trova tuttavia un
limite in ciò che la volontà da essi risultante non
può sovrapporsi alla volontà obiettiva della legge,
quale emerge dal significato proprio delle parole
Art. 12
secondo la connessione di esse, e dall’intenzione
del legislatore intesa come volontà oggettiva della
norma (voluntas legis), da tenersi distinta dalla
volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa (voluntas legislatoris). * Cass. civ.,
sez. I, 13 marzo 1975, n. 937.
l Quando la portata e l’ambito di applicazione della disposizione legislativa sono fatti
palesi dal significato proprio dei termini secondo
la connessione di essi, non è più dato ricorrere
ai lavori preparatori e ad ogni altro strumento
di inquisizione ermeneutica, la cui utilizzazione
si palesa necessaria allorquando le espressioni
usate nella norma da interpretare abbiano un significato equivoco e poco chiaro, comunque tale
da ingenerare dubbi sulla portata e sulla sfera di
applicazione della norma stessa. * Cass. civ., sez.
II, 21 giugno 1972, n. 2000.
a-3) Richiamo alle norme costituzionali.
l Se una norma di legge sia suscettibile di più
interpretazioni, di cui una darebbe alla norma un
significato costituzionalmente illegittimo, il dubbio è soltanto apparente e deve essere superato e
risolto interpretando la norma in senso conforme
alla Costituzione e alla legge costituzionali. *
Cass. civ., sez. lav., 5 maggio 1995, n. 4906.
b) Interpretazione estensiva.
u Si veda sub art. 14.
c) Interpretazione restrittiva.
l L’interpretazione restrittiva ricorre quando
il giudice ritenga che le espressioni usate dal legislatore ne abbiano tradito il pensiero ovvero non
lo abbiano esattamente rivelato — di modo che
nella norma appaiano compresi casi che non vi
dovrebbero rientrare secondo l’intenzione della
legge — e, di conseguenza, escluda, per tali casi,
l’applicazione della norma stessa al fine di attuare
la reale volontà legislativa. Pertanto, non si è in
presenza di una siffatta interpretazione quando
il giudice non escluda dall’applicazione della
norma un caso, che la formula letterale di questa
contempli, bensì accerti che la fattispecie prospettata dalla parte non rientri nella disciplina
legale risultante dal testo letterale della norma. *
Cass. civ., sez. III, 20 luglio 1977, n. 3250.
d) Interpretazione analogica.
l Il ricorso alla analogia è consentito dall’art.
12 delle preleggi solo quando manchi nell’ordinamento una specifica norma regolante la concreta
fattispecie e si renda, quindi, necessario porre
rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria. * Cass. civ., sez. II, 29
aprile 1995, n. 4754.
l Nell’interpretazione di un contratto collettivo, soggetto, per la sua natura privatistica, alle
norme di ermeneutica contrattuale dettate dagli
artt. 1362 e segg. c.c., non può farsi ricorso all’analogia, prevista, dall’art. 12, secondo comma,
Art. 13
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
delle disposizioni della legge in generale, per la
sola norma di legge. (Nella specie, la S.C. ha cassato l’impugnata sentenza, che, ai sensi degli artt.
19 e 20 del C.C.N.L. per gli elettrici dell’1 agosto
1979, aveva riconosciuto il diritto agli aumenti
biennali di anzianità per il conseguimento di una
laurea non compresa fra quelle cui, per espressa
previsione contrattuale, era collegato il diritto a
tali scatti ed ai permessi retribuiti, ed ha censurato la detta decisione anche per aver suffragato
l’interpretazione della disciplina contrattuale con
il riferimento alla L. 8 gennaio 1979 n. 10, statuente l’equiparazione della laurea in scienze economiche e sociali alla laurea in economia e commercio
ai soli fini dell’ammissione a pubblici concorsi. *
Cass. civ., sez. lav., 2 dicembre 1988, n. 6524 Nello
stesso senso, sent. nn. 5726/85 e 7519/83.
l L’analogia costituisce un criterio interpretativo cui il giudice può e deve fare ricorso
non soltanto nell’interpretazione della legge — in
relazione alla quale tale strumento ermeneutico è
espressamente previsto (art. 12 preleggi) — ma anche nella interpretazione delle disposizioni di un
contratto, ove questo, come è tipico del contratto
collettivo, detti regole generali per categorie di casi
anziché per casi singoli. (Nella specie, si trattava
di stabilire se l’indennità maneggio denaro, prevista dal contratto collettivo applicabile ai lavoratori della stessa azienda, in favore dei cassieri e dei
commessi di cassa, potesse essere riconosciuta ad
un lavoratore, della medesima azienda, che, per
le mansioni di trovarobe assistente arredatore, richiedeva di volta in volta somme necessarie per
pagare i fornitori dei materiali di scena). * Cass.
civ., sez. lav., 26 gennaio 1985, n. 430.
l Il ricorso ad una legge regionale, emanata
in sede di potestà legislativa esclusiva (nella specie legge regionale siciliana 1 ottobre 1956 n. 54
sulla disciplina delle miniere), non può avvenire,
in via di analogia, per interpretare una legge statale (nella specie R.D. 29 luglio 1927 n. 1443 sulla
ricerca e la coltivazione delle miniere); la legge
regionale potrebbe avere rilevanza interpretativa
solo se, accertata l’impossibilità di decidere la
controversia secondo gli ordinari criteri ermeneutici della legge statale, sia necessario individuare i
principi generali regolanti la materia. * Cass. civ.,
sez. I, 14 novembre 1975, n. 3829.
e) Principi generali dell’ordinamento.
l Dovendo le norme interpretarsi anche alla
luce della tradizione scientifica nazionale, che, in
quanto compresa nei principi generali dell’ordinamento richiamati dall’art. 12 della preleggi, costituisce criterio comprimario di ermeneutica legislativa, l’art. 91 c.p.c., secondo il quale il giudice
«con la sentenza che chiude il processo condanna
la parte soccombente al rimborso delle spese»,
trova applicazione con riguardo ad ogni provvedimento, ancorché reso in forma di ordinanza o
decreto, che, nel risolvere contrapposte posizioni,
32
elimini il procedimento davanti al giudice che lo
emette, quando, in coerenza con il principio di
economia dei giudizi, si renda necessario ristorare
la parte vittoriosa dagli oneri inerenti al dispendio
di attività processuale legata da nesso causale con
l’iniziativa dell’avversario. Detta norma, pertanto,
opera non solo nei procedimenti a cognizione
piena ma anche in quelli sommari e cautelari,
come nel caso del procedimento promosso ai
sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. per l’adozione di
provvedimenti d’urgenza, con la conseguenza che,
ove la richiesta della parte istante venga respinta,
sicché il procedimento si esaurisca nel senso sopra specificato, dev’essere riconosciuto il diritto
al rimborso delle spese processuali in favore dell’intimato che abbia resistito a quella richiesta. *
Cass. civ., Sezioni Unite, 28 aprile 1989, n. 2021,
Editore Mikol c. Soc. Telefriuli.
13. Esclusione dell’applicazione analogica delle
norme corporative. – (Omissis) (1).
(1) L’ordinamento corporativo fascista è stato soppresso dal
R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721.
14. Applicazione delle leggi penali ed eccezionali.
– Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole
generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i
tempi in esse considerati (25 Cost.; 1, 2 c.p.).
l L’interpretazione estensiva di disposizioni
“eccezionali” o “derogatorie”, rispetto ad una
avente natura di “regola”, se pure in astratto non
preclusa, deve ritenersi comunque circoscritta
alle ipotesi in cui il plus di significato, che si
intenda attribuire alla norma interpretata, non
riduca la portata della norma costituente la regola con l’introduzione di nuove eccezioni, bensì si
limiti ad individuare nel contenuto implicito della
norma eccezionale o derogatoria già codificata altra fattispecie avente identità di ratio con quella
espressamente contemplata. * Cass. civ., sez. I, 1
settembre 1999, n. 9205.
l La disposizione dell’art. 2942, n. 1 c.c., che
prevede la sospensione della prescrizione nei confronti degli interdetti per infermità di mente per
il tempo in cui non hanno rappresentante legale e
per sei mesi successivi alla nomina del medesimo,
avendo carattere di norma eccezionale ricade nel
divieto di interpretazione analogica di cui all’art.
14 preleggi, e non è applicabile, pertanto, con
riguardo all’interdicendo, non ricorrendo, tra l’altro, identità di ratio fra le due situazioni, stante
la possibilità tra la presentazione del ricorso e la
pronuncia della sentenza di interdizione di nomina di un tutore provvisorio il quale può esercitare
le azioni che competono all’interdicendo, sicché
non esiste violazione del principio costituzionale
di parità, né del diritto di difesa. * Cass. civ., sez
II, 2 giugno 1993, n. 6169, Maggiori c. Ducoli.
33
CODICE CIVILE (PRELEGGI)
l L’art. 12 delle preleggi contiene tutti i criteri
ermeneutici della legge, ed in particolare sia il criterio dell’interpretazione estensiva, che consente
l’utilizzazione di norme regolanti casi simili (e non
già identici), sia quello dell’interpretazione analogica (analogia legis), che permette l’utilizzazione
di norme che disciplinano materie analoghe, ossia
istituti diversi aventi solo qualche punto in comune
con il caso da decidere, mentre l’art. 14 delle stesse
preleggi — come reso evidente dai lavori preparatori — non detta alcun criterio di esegesi legislativa, limitandosi a stabilire che le leggi penali
e quelle che fanno eccezione ad altre leggi non si
applicano (in via d’interpretazione analogica) oltre
i casi ed i tempi in esse considerati.* Cass. civ., sez.
lav., 25 ottobre 1989, n. 4373 , Inps c. Fall. Ruboldi
Idem, Cass. lav., 24 luglio 1990, n. 7494.
15. Abrogazione delle leggi. – Le leggi non sono
abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione
espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le
nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova
legge regola l’intera materia già regolata dalla legge
anteriore (75 Cost.).
l Ai sensi dell’art. 15 disp. prel. c.c., l’abrogazione tacita di una legge ricorre quando sussiste
incomparabilità fra le nuove disposizioni e quelle
precedenti, ovvero quando la nuova legge disciplina la materia già regolata da quella anteriore;
in particolare la suddetta incompatibilità si verifica solo quando fra le leggi considerate vi sia
una contraddizione tale da renderne impossibile
la contemporanea applicazione, cosicché dall’applicazione ed osservanza delle nuova legge deriva
necessariamente la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra. * Cass. civ., sez. lav., 18 febbraio
1995, n. 1760 Idem, Cass. I, 21 febbraio 2001, n.
2502; fra le altre, anche: Cass. I, 26 marzo 1973, n.
829; Cass. I, 12 settembre 1973, n. 2979.
l A norma dell’art. 15 disp. prel. c.c. non sono
ammissibili, qualora non sia espressamente previsto dalla legge, usi che abbiano la forza di togliere
efficacia alla norma scritta: non può, perciò, essere invocato, per escludere l’inadempimento,
un uso vigente nel commercio dei legni esotici,
secondo cui nelle vendite dei legnami in tronchi
l’esame della merce verrebbe fatta in base alle caratteristiche esteriori, in quanto contrastante col
principio fondamentale che il venditore ha l’obbligo di consegnare la cosa contrattualmente pattuita, alla quale, perciò, la cosa consegnata deve
corrispondere non solo nella identità fisica ma
anche nell’individualità economica. (Nella specie,
era stato pattuito l’acquisto di mogano della specie «sapeli» ed era stato consegnato mogano della
specie «kosipo», che differisce dal primo non già
per le strutture interne, esteriormente visibili,
bensì per la sostanza stessa del legno). * Cass. civ.,
sez. III, 11 maggio 1976, n. 1650.
Art. 15
l Dal fenomeno dell’abrogazione va tenuto
distinto quello della riproduzione della norma
giuridica, il quale si verifica quando una norma,
già enunciata in una fattispecie normativa, venga
iscritta in un provvedimento normativo successivo. In tali casi, la norma non viene abrogata in
senso proprio, pur risultandone «novata» e cioè
sostituita, la fonte. * Cass. pen., sez. I, 5 marzo
1973, n. 299.
16. Trattamento dello straniero. – Lo straniero è
ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino
a condizione di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali (29).
Questa disposizione vale anche per le persone
giuridiche straniere (29; 10 Cost.; 2508 ss. cc.) (1).
(1) Si veda la Convenzione sul reciproco riconoscimento delle
società e persone giuridiche, con protocollo, firmata a Bruxelles il
29 febbraio 1968, resa esecutiva in Italia con L. 28 gennaio 1971,
n. 220.
l L’accertamento della legge straniera che assicuri la condizione di reciprocità di cui all’art.
16 delle preleggi è compito riservato al giudice di
merito, che è tenuto a procedere non già secondo
il principio iura novit curia, bensì secondo i criteri
generali in tema di onere della prova, configurandosi la legge straniera, in seno alla controversia instauratasi dinanzi al giudice nazionale, come mero
fatto presupposto perché operi la condizione di reciprocità di cui al citato art. 16. Detto accertamento, se motivato in assenza di vizi logici o giuridici,
si sottrae, pertanto, al sindacato di legittimità della
S.C. * Cass. civ., sez. I, 15 giugno 2000, n. 8171.
l Il cittadino extracomunitario che intenda
esercitare in Italia la professione forense, ove
regolarmente soggiornante in Italia ed in possesso di titoli, legalmente riconosciuti, abilitanti
all’esercizio della professione, può, entro un
anno dall’entrata in vigore della legge n. 40/1998,
chiedere l’iscrizione al relativo albo e, dopo la
scadenza del suddetto termine, ove residente
in Italia, potrà ottenere la richiesta iscrizione
nell’ambito delle quote massime di stranieri da
ammettere definite annualmente con decreto
del Presidente del Consiglio; ne consegue che il
cittadino extracomunitario non residente in Italia
non può ottenere l’iscrizione all’albo degli avvocati né in base alla normativa comunitaria (non
essendo cittadino comunitario), né in base alla
citata legge n. 40/1998 (non avendo i requisiti per
l’iscrizione all’albo previsti da detta legge per i cittadini extracomunitari), né, infine, in base ad un
principio di reciprocità di fatto (o per equivalenza
di trattamento) rispetto al paese di provenienza,
giacché il principio di reciprocità costituisce una
condizione di efficacia nella norma che attribuisce un diritto allo straniero e non va confuso con
il riconoscimento di tale diritto, non potendosi
perciò riconoscere al cittadino extracomunitario
Artt. 17 - 31
DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE
il diritto all’iscrizione all’albo in Italia solo perché
tale diritto è riconosciuto nel paese di provenienza ai cittadini italiani, occorrendo invece una norma italiana che riconosca tale diritto, e rilevando
la reciprocità non come fondamento del diritto,
bensì come condizione di efficacia della suddetta norma. * Cass. civ., Sezioni Unite, 18 marzo
1999, n. 147, Cons. Ord. Avv. di Roma c. Musse
Hussein Sadik . [RV524230]
l Nel giudizio promosso da società straniera a norma della L. 13 aprile 1988, n. 117 per il
risarcimento dei danni subiti per asserito comportamento gravemente colposo di magistrati,
la sussistenza della condizione di reciprocità
di cui all’art. 16 delle preleggi, pur attenendo al
merito (e cioè al diritto sostanziale in contesa),
può essere legittimamente valutata nel giudizio
preliminare di ammissibilità (art. 5, L. n. 117 del
1999), sia pure al fine di accertare se non sussista
una situazione di infondatezza ictu oculi della
domanda, che ne impedisca l’ulteriore esame. *
Cass. civ., sez. I, 11 marzo 1996, n. 1979.
l L’esistenza della condizione di reciprocità
prevista dall’art. 16 delle preleggi, ponendosi
come fatto costitutivo del diritto azionato dallo
straniero, deve da lui essere provata in caso di
contestazione e, poiché la conoscenza della legge
straniera si risolve in una quaestio facti, la prova
può essere data con ogni mezzo idoneo, anche
con attestazione ufficiale (cosiddetto affidavit) di
organo dello Stato estero e senza che sia necessaria l’acquisizione del testo della legge straniera.
* Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 1995, n. 12978,
Giacomazzi c. Stato di Baviera ed altri Conforme,
sulla prima parte della massima: Cass. I, 15 giugno
2000, n. 8171; Cass. III, 7 agosto 2000, n. 10360.
l L’art. 16 comma primo delle disposizioni
sulla legge in generale, che ammette lo straniero
al godimento dei diritti civili attribuiti al cittadino italiano solo a condizione di reciprocità, non è
derogato dagli artt. 2, 3, 10, 24 della Costituzione
perché: 1) l’art. 2 si riferisce solo ai diritti inviolabili specificamente individuati e riconosciuti dai
successivi artt. 13 (diritto di libertà personale),
14 (inviolabilità del domicilio), 15 (libertà e segretezza della corrispondenza), 19 (libertà religiosa), 21 (libertà di manifestazione del pensiero), 27 (personalità della responsabilità penale),
24 (tutela giurisdizionale), i quali sono, quindi, i
soli diritti riconosciuti anche allo straniero senza
il limite della condizione di reciprocità; 2) l’art.
3 non esclude i trattamenti differenziati che rispondono ad un criterio di ragionevolezza (quale
è quello riservato agli stranieri dal citato art. 16
delle disposizioni sulla legge in generale); 3) l’art.
10 impone solo l’adeguamento delle norme sulla
condizione giuridica dello straniero alle norme
ed ai trattati internazionali, implicitamente legittimando quelle limitazioni che non contrastano
con altre norme costituzionali o con i principi e
gli atti di diritto internazionale; 4) l’art. 24 si rife-
34
risce solo alla tutela giurisdizionale dei diritti già
posseduti e riconosciuti. * Cass. civ., sez. III, 10
febbraio 1993, n. 1681, Assitalia spa c. Mohamed
Naorman El Shapia.
l Il cittadino italiano può sempre essere
convenuto, senza alcuna limitazione, davanti al
giudice nazionale, da parte dello straniero, senza
che tale qualità dell’attore, implichi la restrizione
della giurisdizione italiana alle sole domande che
il cittadino italiano potrebbe proporre, in condizione di reciprocità, davanti al giudice dello Stato
di appartenenza dello straniero, posto che tale
condizione — di cui all’art. 16 delle disposizioni
preliminari al codice civile — spiega rilievo solo
sul fondamento nel merito della pretesa avanzata
dallo straniero stesso, non incidendo sulla giurisdizione. * Cass. civ., Sezioni Unite, 3 febbraio
1993, n. 1309, Brundu c. Pavlova Nello stesso
senso, Cass. I, 4 maggio 2000, n. 5583.
l Nel caso in cui il cittadino straniero agisca
in giudizio davanti al giudice italiano, la verifica
della sussistenza della condizione di reciprocità
di cui all’art. 16 delle disposizioni preliminari al
codice civile non investe una questione attinente
alla giurisdizione, ma implica soltanto una questione di merito, comportando per lo straniero
attore non ammesso a godere nel nostro Paese dei
diritti civili, per difetto di quella condizione, l’infondatezza della richiesta tutela giurisdizionale. *
Cass. civ., Sezioni Unite, 6 agosto 1990, n. 7935,
Jonathan Cape c. Ortolani.
l Dal coordinamento dell’art. 16 delle preleggi, che ammette lo straniero a godere dei diritti
civili attribuiti al cittadino italiano a condizione
di reciprocità, con l’art. 24, primo comma della
costituzione — per il quale tutti possono agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi — si deduce che allo straniero, non
diversamente che al cittadino, è riconosciuto il
potere di azione, il quale, in quanto non direttamente contemplato dall’art. 16, citato, non è
soggetto alla condizione di reciprocità posto da
detta norma. * Cass. civ., sez. II, 7 giugno 1990, n.
5454, Monacelli c. Soc. P.M. Lignan.
l L’art. 16, comma secondo, delle disposizioni
sulla legge in generale nel dichiarare applicabile
anche alle persone giuridiche straniere il comma
primo dello stesso articolo, il quale ammette lo
straniero a godere dei diritti civili attribuiti al
cittadino a condizioni di reciprocità e salvo le
disposizioni contenute in leggi speciali, ha come
presupposto per la sua applicabilità il fatto che
l’ente, per il quale vengono invocati i diritti civili
italiani, sia soggetto di diritto secondo l’ordinamento giuridico dello Stato estero in cui esso ente
è sorto. * Cass. civ., Sezioni Unite, 8 novembre
1971, n. 3147.
17 - 31. (Omissis) (1).
(1) Articoli abrogati dall’art. 73 della L. 31 maggio 1995, n.
218, a decorrere dal 1° settembre 1995.
35
Titolo I – Persone fisiche
Libro I
Delle persone e della famiglia
Titolo I
Delle persone fisiche
1. Capacità giuridica. – La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita (22 Cost.).
I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita (320, 462,
687, 715).
(Omissis) (1).
(1) Seguiva un terzo comma abrogato dall’art. 1 del R.D.L.vo
20 gennaio 1944, n. 25 e dall’art. 3 del D.L.vo Lgt. 14 settembre
1944, n. 287.
l Il concepito, pur non avendo una piena
capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall’ordinamento sia nazionale
che sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla
salute, all’onore, all’identità personale, a nascere
sano, diritti, questi, rispetto ai quali l’avverarsi
della “condicio iuris” della nascita è condizione
imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori. Ne consegue che la persona
nata con malformazioni congenite, dovute alla
colposa somministrazione di farmaci dannosi
(nella specie teratogeni), alla propria madre, durante la gestazione, è legittimata a domandare il
risarcimento del danno alla salute nei confronti
del medico che quei farmaci prescrisse o non
sconsigliò. * Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2009, n.
10741, Abate c. Porcaro ed altri. [RV608387]
l La personalità giuridica degli enti ecclesiastici, ivi ricompresi i capitoli, non è soggetta alle
regole di cui agli artt. 1 e 16 del codice civile, né
dell’art. 16 delle preleggi, trovando per essi applicazione la disciplina pattizia ed eccezionale e
come tale derogatoria di quella generale di cui all’art. 29, secondo comma, lett. a) del Concordato
tra la Santa Sede e l’Italia dell’11 febbraio 1929,
ratificato dall’Italia con legge 29 maggio 1929, n.
810 (secondo cui «ferma restando la personalità
giuridica degli enti ecclesiastici finora riconosciuti dalle leggi italiane (Santa Sede, diocesi, capitoli, seminari, parrocchie, ecc.), tale personalità
sarà riconosciuta anche alle chiese . . .»; né è onere dell’ente ecclesiastico che sia stato convenuto
in giudizio avanti al giudice italiano dare prova
del proprio status di persona giuridica secondo
la legge italiana mediante l’esibizione dell’atto di
fondazione o di costituzione, essendo allo scopo
sufficiente che da tutti i documenti prodotti in
giudizio (nel caso, nota verbale della Segreteria
di Stato Vaticana all’Ambasciata d’Italia presso la
Santa Sede; denunzia dei redditi presentata dal
Capitolo: documenti tutti attinenti alla capacità
di essere parte in giudizio, ed in quanto tali direttamente esaminabili anche dalla Suprema Corte
Art. 1
di Cassazione) tale status risulti incontestato ed
incontestabile. * Cass. civ., sez. III, 2 aprile 2002,
n. 4627. [RV553406]
l Poiché la capacità giuridica si acquista al
momento della nascita e si estingue con la morte
della persona fisica (art. 1 c.c.), deve ritenersi
affetta da giuridica inesistenza, denunciabile in
ogni tempo e sede, la sentenza pronunciata nei
confronti di colui che, pur dichiarato contumace,
risulti deceduto al momento della proposizione
della domanda introduttiva, senza che possa attribuirsi alcun rilievo in contrario al fatto che la
dichiarazione di contumacia sia avvenuta a seguito di una notificazione della citazione effettuata
nella formale osservanza delle norme in materia
di notificazione, giacché tale osservanza non vale
ad escludere che, in ragione dell’inesistenza del
notificando al momento della notificazione, quest’ultima debba a sua volta considerarsi inesistente, e restando inoltre irrilevante che erroneamente il giudice di primo grado abbia autorizzato la
notificazione di una nuova citazione nei confronti
degli eredi del deceduto al fine di integrare il contraddittorio, giacché, non essendosi mai instaurato il contraddittorio nei confronti del medesimo
il contraddittorio non era integrabile. * Cass. civ.,
sez. I, 18 settembre 2001, n. 11688. Nello stesso
senso, Cass. II, 19 febbraio 1993, n. 2023.
l Le disposizioni di legge che, in deroga al
principio generale dettato dal primo comma
dell’art. 1 c.c., prevedono la tutela dei diritti del
nascituro sono da considerare disposizioni di
carattere eccezionale e come tali di stretta interpretazione. * Cass. civ., sez. III, 28 dicembre 1973,
n. 3467.
2. (1) Maggiore età. Capacità di agire. – La maggiore
età è fissata al compimento del diciottesimo anno. Con
la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti
gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa.
Sono salve le leggi speciali che stabiliscono un’età
inferiore in materia di capacità a prestare il proprio
lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei
diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di
lavoro.
(1) Articolo così sostituito dall’art. 1, L. 8 marzo 1975, n. 39, in
vigore dal 10 marzo 1975, attribuzione della maggiore età.
l È nulla, per violazione dell’art. 37 Cost., la
clausola di un contratto collettivo che trascurando l’anzianità nel rapporto di lavoro anteriore al
compimento, da parte del lavoratore, del ventunesimo anno di età, fissa tale evento come momento
iniziale della decorrenza del diritto al conseguimento di emolumenti accessori di natura continuativa, anche nel vigore della L. n. 39 del 1975,
che ha fissato la maggiore età al compimento del
diciottesimo anno. * Cass. civ., sez. lav., 22 aprile
1993, n. 4745, Compar spa c. Liuzzo.
Art. 3
Libro I – Persone e famiglia
l I «minori» in favore dei quali l’art. 37, terzo
comma, della Costituzione sancisce il diritto alla
parità di trattamento retributivo a parità di lavoro
rispetto agli altri lavoratori, con la conseguenza
della nullità del patto della contrattazione collettiva di categoria che neghi rilevanza al servizio
dai medesimi prestato per gli scatti di anzianità,
sono coloro che non hanno raggiunto l’età fissata
per l’acquisto della piena capacità di agire: quindi
— nel vigore dell’art. 2 c.c. prima della modifica
introdotta dalla L. n. 39 del 1975 — «minori» erano coloro che non avevano raggiunto gli anni ventuno, e non invece solo coloro che non avevano
raggiunto gli anni diciotto, previsti per l’acquisto
della capacità d’agire in materia di lavoro dall’originario art. 3 c.c., norma soltanto derogatoria alla
regola stabilita dall’art. 2 cit. e non attributiva di
una capacità d’agire di carattere generale. * Cass.
civ., sez. lav., 9 agosto 1991, n. 8704, Italtel Sistemi S.p.A. c. Mazzone.
l La legge, allorché parla di minori, non può
che far riferimento a coloro che non abbiano
raggiunto la maggiore età e non abbiano quindi
acquistato la capacità generale di agire. Le norme
che prevedono ipotesi di capacità speciali, sono,
quali norme eccezionali, di stretta interpretazione ed hanno una sfera di applicazione limitata
alla particolare disciplina da esse regolata. * Cass.
civ., sez. III, 4 dicembre 1971, n. 3490.
3. [Capacità in materia di lavoro. – (Omissis)] (1).
(1) Articolo abrogato dall’art. 2, L. 8 marzo 1975, n. 39, attribuzione della maggiore età.
u Si
veda sub art. 2 c.c.
4. Commorienza. – Quando un effetto giuridico dipende dalla sopravvivenza di una persona a un’altra
(462, 791) e non consta quale di esse sia morta prima,
tutte si considerano morte nello stesso momento (61,
69, 2697, 2728).
5. Atti di disposizione del proprio corpo. – Gli atti
di disposizione del proprio corpo sono vietati quando
cagionino una diminuizione permanente dell’integrità
fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume (1343, 1354, 1418;
32 Cost.).
l Il paziente che, per motivi religiosi (o di
diversa natura), intendesse far constare il proprio
dissenso alla sottoposizione a determinate cure
mediche, per l’ipotesi in cui dovesse trovarsi in
stato di incapacità naturale, ha l’onere di conferire ad un terzo una procura “ad hoc” nelle forme
di legge, ovvero manifestare la propria volontà
attraverso una dichiarazione scritta che sia puntuale ed inequivoca, nella quale affermi espressamente di volere rifiutare le cure quand’anche
36
venisse a trovarsi in pericolo di vita. * Cass. civ.,
sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676, Grassato c.
Gestione Liq. Soppressa Usl/11. [RV604908]
l Il paziente ha sempre diritto di rifiutare le
cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte;
tuttavia, il dissenso alle cure mediche, per essere
valido ed esonerare così il medico dal poteredovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque, una
generica manifestazione di dissenso formulata
“ex ante” ed in un momento in cui il paziente non
era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che
il paziente sia stato pienamente informato sulla
gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure. (Nella specie la S.C.,
sulla scorta dell’enunciato principio, ha ritenuto
che non ricorressero le condizioni per un valido
dissenso in un caso in cui era risultato da un cartellino, rinvenuto addosso al paziente, testimone
di Geova, al momento del ricovero, in condizioni
di incoscienza, che recava l’indicazione “niente
sangue”, appunto perché la manifestazione di volontà non risultava essere stata raccolta, in modo
inequivoco, dopo aver avuto conoscenza della
gravità delle condizioni di salute al momento del
ricovero e delle conseguenze prospettabili in caso
di omesso trattamento). * Cass. civ., sez. III, 15
settembre 2008, n. 23676, Grassato c. Gestione
Liq. Soppressa Usl/11. [RV604907]
l In tema di attività medico-sanitaria, il diritto
alla autodeterminazione terapeutica del paziente
non incontra un limite allorché da esso consegua
il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto
della cura da parte del diretto interessato, c’è
spazio — nel quadro dell’«alleanza terapeutica»
che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca,
insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi
culturali di ciascuno — per una strategia della
persuasione, perché il compito dell’ordinamento
è anche quello di offrire il supporto della massima
solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza
e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di
verificare che quel rifiuto sia informato, autentico
ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome
di un dovere di curarsi come principio di ordine
pubblico. Né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia
per un comportamento che intende abbreviare la
vita, causando positivamente la morte, giacché
tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di
scelta, da parte del malato, che la malattia segua
il suo corso naturale. * Cass. civ., sez. I, 16 ottobre
2007, n. 21748, Englaro c. Curatore Speciale Alessio Franca ed altri. [RV598963]
l Il consenso informato costituisce, di norma,
legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento
37
Titolo I – Persone fisiche
del medico è, al di fuori dei casi di trattamento
sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra
uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche
quando è nell’interesse del paziente; la pratica
del consenso libero e informato rappresenta una
forma di rispetto per la libertà dell’individuo e
un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori
interessi. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse
possibilità di trattamento medico, ma — atteso il
principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un
valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto
della persona umana» in riferimento al singolo
individuo, in qualsiasi momento della sua vita e
nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose,
culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha
assunto la salute (non più intesa come semplice
assenza di malattia, ma come stato di completo
benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente,
in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé,
anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti
e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) — altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di
decidere consapevolmente di interromperla, in
tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
* Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, Englaro c. Curatore Speciale Alessio Franca ed altri.
[RV598962]
6. Diritto al nome. – Ogni persona ha diritto al nome
(22 Cost.) che le è per legge (1) attribuito.
Nel nome si comprendono il prenome e il cognome (6022).
Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla
legge indicati (149).
(1) Per il cognome della moglie, si vedano artt. 143 bis e 156
bis; del figlio naturale, art. 262; dell’adottato, art. 299; dell’adottato minorenne, artt. 27 e 35 della L. 4 maggio 1983, n. 184, disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori.
Per i criteri di imposizione del nome, si vedano gli artt. 34 ss.
del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ordinamento dello stato civile
e gli artt. 33 ss. del medesimo provvedimento, in vigore dal 1°
marzo 2001.
l La XIV disposizione transitoria della Costituzione, la quale, nell’escludere la riconoscibilità
dei titoli nobiliari, eccezionalmente attribuisce il
diritto alla cognomizzazione dei predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922, va interpretata, alla stregua della sent. n. 101 del 1967 della
Corte costituzionale, nel senso che presupposto di
tale diritto è l’avvenuto riconoscimento del titolo
anteriormente all’entrata in vigore della Costituzione e che la relativa tutela giudiziale può essere
fatta valere esclusivamente in base alla disciplina
privatistica del diritto al nome. Ne consegue che
Art. 6
il diritto alla cognomizzazione spetta ex lege soltanto al soggetto per il quale il riconoscimento è
avvenuto ed ai suoi discendenti, mentre non può
farsi valere da soggetti non compresi in tale categoria ed in particolare dagli ascendenti, in quanto, ai sensi dell’ordinamento dello stato civile approvato con R.D. n. 1238 del 1939, il patronimico
si trasferisce dal padre al figlio e non viceversa. *
Cass. civ., sez. I, 7 marzo 1991, n. 2426, Lopez Y
Royo Di Taurisano c. Lopez Y Royo Di Taurisano
e Presid. Cons. Ministri.
l Il diritto della persona al nome si acquista la
momento della nascita ed in base al rapporto di
filiazione, e, quindi, va riscontrato essenzialmente alla stregua degli atti di nascita o di battesimo,
mentre l’utilizzazione protratta nel tempo del
nome medesimo non può di per sé avere valore
acquisitivo del relativo diritto, stante la non estensibilità in proposito degli istituti dell’usucapione e
dell’immemorabile, operanti nel campo dei diritti
reali. * Cass. civ., sez. I, 27 luglio 1978, n. 3779.
7. Tutela del diritto al nome. – La persona, alla quale
si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente
ne faccia, può chiedere giudizialmente (8, 9, 2563 ss.; 9
c.p.c.) la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento
dei danni.
L’autorità giudiziaria può ordinare che la sentenza
sia pubblicata in uno o più giornali (120 c.p.c.).
l La tutela civilistica del nome e dell’immagine, ai sensi degli artt. 6, 7 e 10 c.c., è invocabile
non solo dalle persone fisiche ma anche da quelle
giuridiche e dai soggetti diversi dalle persone
fisiche e, nel caso di indebita utilizzazione della
denominazione e dell’immagine di un bene, la
suddetta tutela spetta sia all’utilizzatore del bene
in forza di un contratto di “leasing”, sia al titolare
del diritto di sfruttamento economico dello stesso. (Principio affermato dalla S.C. in una fattispecie in cui una società, senza ottenere il consenso
dell’avente diritto e senza pagare il corrispettivo
dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario l’immagine e la denominazione di
un’imbarcazione altrui, usata a fini agonistici o
come elemento di richiamo nell’ambito di campagne pubblicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio marchio). * Cass. civ.,
sez. I, 11 agosto 2009, n. 18218, Rimini Sail Di
Giorgio Benvenuti ed altro c. Cartiere Fredigoni
Spa ed altro. [RV609423]
l In tema di tutela del diritto al nome, l’accoglimento della domanda di cessazione del fatto
lesivo, contemplata dall’art. 7 c.c., è subordinata
alla duplice condizione che l’utilizzazione del
nome altrui sia indebita e che da tale comportamento possa derivare un pregiudizio alla persona
alla quale il nome è stato per legge attribuito. Sotto quest’ultimo profilo, quantunque a giustificare
Art. 7
Libro I – Persone e famiglia
l’accoglimento della misura sia sufficiente la possibilità di un pregiudizio, non essendo necessario
che esso si sia già verificato, tuttavia la ricorrenza
di detta possibilità deve essere accertata in concreto. * Cass. civ., sez. I, 16 luglio 2003, n. 11129.
[RV565133] .
l L’inserimento del nome di un terzo in una
denominazione sociale può essere riconosciuto
legittimo solo con il consenso dell’interessato
e, in ogni caso, con salvezza di quanto stabilito
dall’art. 7 c.c. * Cass. civ., sez. I, 16 luglio 2003, n.
11129, Nuova Cerpelli Soc. coop. a r.l. in liquid.
ed altra c. Cerpelli ed altre. [RV565132]
l In tema di marchi, per verificare se l’uso
di un nome geografico possa ritenersi o meno
indebito deve farsi riferimento non alla tutela riservata dalla legge ai diritti della personalità (art.
7 c.c.), bensì alla disciplina specifica che la legge
riserva a tali «segni distintivi» nell’ambito del
diritto commerciale, ossia quella dell’art. 21 della
legge n. 929 del 1942 (la S.C. ha così confermato
la sentenza che, nella controversia instaurata dal
Comune di Capri contro una casa produttrice di
sigarette, aveva escluso che l’utilizzo del marchio
«Capri» potesse ledere la fama, il credito o il
decoro della municipalità dell’isola). * Cass. civ.,
sez. I, 20 dicembre 2000, n. 16022, Comune di Capri c. Brown & Williamson Tobacco Corporation.
[RV542809]
l Al fine di verificare se l’uso di un nome altrui, in occasione dell’adozione di un marchio,
possa ritenersi — o meno — indebito, deve farsi
riferimento esclusivamente alla disciplina specifica dettata dalla legge sui marchi (art. 21, R.D. 21
giugno 1942, n. 929, il quale, nel testo antecedente alle modifiche di cui al D.L.vo n. 480 del 1992,
contempla il solo limite che l’uso non comporti la
lesione della fama, del credito e del decoro delle
persone fisiche), e non a quella desumibile dalla
disciplina codicistica del diritto al nome (art. 7
c.c.). * Cass. civ., sez. I, 13 marzo 1998, n. 2735,
Capranica Del Grillo ed altri c. Grilli. [RV513619]
l I predicati di titoli nobiliari (purché «esistenti» prima del 28 ottobre 1922 e riconosciuti
prima dell’entrata in vigore della Costituzione,
ed, in quanto costituenti veri e propri elementi
di individuazione e di identità della persona, a
queste condizioni «cognomizzati») fanno parte
del nome, e, soltanto come «parte» (il cognome
appunto) di esso «valgono» (sono cioè validi ed
efficaci) nell’ordinamento. Tale «incorporazione»
del predicato di titolo nobiliare «cognomizzato»
nel nome, essendo stata costituzionalmente sancita (anche, ma soprattutto) in ossequio al principio di eguaglianza, comporta d’altro canto, che il
predicato medesimo, nell’ordinamento giuridico
italiano, non può «valere di più», in quanto tale, di
quel che «valgono» le «ordinarie» parti del nome
e, più specificamente, del cognome «ordinario»
(art. 6, comma secondo c.c.); e ciò in quanto, altrimenti opinando, resterebbe frustrata la equili-
38
brata ratio emergente dal combinato disposto del
comma primo e secondo dell’art. 14 Cost.: da un
lato, l’abolizione giuridica — mediante il «non
riconoscimento» dei titoli nobiliari — di privilegi
derivanti dalla nascita o dall’appartenenza ad una
determinata classe sociale; dall’altro, la riaffermazione del valore del «nome» come fondamentale diritto inerente alla identità della persona in
quanto tale, con la conseguente assimilazione,
quanto a «valore» giuridico, del predicato di titolo nobiliare «cognomizzato» al nome, e, quindi,
di entrambi sul piano della tutela giurisdizionale.
Da ciò consegue l’infondatezza e l’insostenibilità
della tesi secondo la quale, allorquando oggetto
di tutela ex art. 7 c.c. sia un nome comprensivo
di predicato di titolo nobiliare «cognomizzato»,
siffatta circostanza inciderebbe sulla valutazione
della sussistenza dei presupposti per la concessione della tutela inibitoria, nel senso che essi — e
cioè uso indebito e pregiudizio — sarebbero, per
così dire, automaticamente presenti nell’usurpazione del «predicato», a causa della particolare
forza individualizzante dello stesso rispetto agli
«ordinari» cognomi. * Cass. civ., sez. I, 7 novembre 1997, n. 10936, D’Altavilla seu Hauteville Sicilia c. Calabria. [RV509598]
l Al fine di verificare se l’uso di un nome
altrui, in occasione dell’adozione di una ditta
commerciale o di un marchio, possa ritenersi o
meno, indebito, deve farsi riferimento alla disciplina specifica che la legge riserva a tali “segni distintivi” nell’ambito del diritto commerciale, non
già alla tutela riservata della legge ai diritti della
personalità (art. 7 c.c.), con la conseguenza che
un provvedimento giudiziario che inibisca ad altri l’uso del proprio nome può essere chiesto solo
quando questa utilizzazione si traduca in un uso
arbitrario di segni distintivi dell’attività imprenditoriale. * Cass. civ., sez. I, 6 aprile 1995, n. 4036.
Conforme la massima che segue. [RV491678]
l L’utilizzazione della denominazione sociale
altrui, disciplinata dagli artt. 2564 e ss. c.c., si sottrae all’applicazione dell’art. 7 dello stesso codice,
attesa la prevalenza su tale ultima disposizione,
di carattere generale, della normativa specifica
suddetta. * Cass. civ., sez. I, 7 dicembre 1994, n.
10521, Srl Ditron c. Spa Ditron Elettronica.
l In caso di violazione da parte della moglie
divorziata del divieto di uso del cognome del marito (art. 5, comma secondo, legge 1 dicembre 1970,
n. 898, nel testo sostituito dall’art. 9 L. 6 marzo
1987, n. 74) quest’ultimo può, ai sensi dell’art. 7
c.c., chiedere la cessazione del fatto lesivo ed altresì agire per il risarcimento del danno. Tuttavia,
mentre per l’inibitoria è sufficiente che l’attore dimostri, oltre all’uso illegittimo del proprio nome,
la possibilità che da ciò gli derivi pregiudizio — il
quale può essere, quindi, meramente potenziale
ovvero di ordine soltanto morale — ai fini dell’azione risarcitoria, devono sussistere i requisiti
soggettivi ed oggettivi dell’illecito aquiliano, ex
39
Titolo I – Persone fisiche
artt. 2043 ss. c.c., sicché non solo è necessaria
l’esistenza di un pregiudizio effettivo, ma questo,
se non ha carattere patrimoniale, è risarcibile, ai
sensi dell’art. 2059 c.c., soltanto ove nella condotta dell’indebito utilizzatore sia configurabile un
illecito penalmente sanzionato. * Cass. civ., sez. I,
5 ottobre 1994, n. 3081 .
l La tutela del diritto al nome, nel caso che
altri contesti alla persona il diritto all’uso del proprio nome o ne faccia indebitamente uso con possibilità di arrecargli pregiudizio, ai sensi dell’art.
7 c.c., è duplice e si risolve nella facoltà di chiedere la cessazione del fatto lesivo ed il risarcimento
del danno. Ai fini della tutela risarcitoria — non
sostituibile col rimedio della pubblicazione della
sentenza, che attiene, invece, alla restitutio in
integrum, sotto il profilo del completamento
delle disposizioni concernenti la detta cessazione
— non è, tuttavia, sufficiente l’illegittimità della
condotta dell’agente, essendo necessario, perché
sussista il danno risarcibile, che ricorra il fatto
illecito, ai sensi dell’art. 2043 c.c., e quindi il dolo
o la colpa dell’autore della violazione. * Cass. civ.,
sez. I, 7 marzo 1991, n. 2426, Lopez Y Royo Di
Taurisano c. Lopez Y Royo Di Taurisano e Presid.
Cons. Ministri.
Art. 8
all’uso indifferenziato del nome medesimo e non
soltanto nei confronti delle controparti in causa,
ma non incide in pregiudizio di terzi rimasti
estranei al processo, e che vantino diritto sullo
stesso nome, ai quali deve ritenersi consentito di
proporre opposizione avverso la sentenza stessa,
a norma dell’art. 404 c.p.c. * Cass. civ., sez. I, 27
luglio 1978, n. 3779.
9. Tutela dello pseudonimo. – Lo pseudonimo, usa-
to da una persona in modo che abbia acquistato l’importanza del nome (602), può essere tutelato ai sensi
dell’art. 7 (1).
(1) Si vedano gli artt. 8, 21, 27, 28, L. 22 aprile 1941, n. 633,
diritto d’autore; e gli artt. 1, 2, 13, D.P.R. 18 maggio 1942, n. 1369,
regolamento.
10. Abuso dell’immagine altrui. – Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei
figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui
l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità
giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre
che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni (1).
8. Tutela del nome per ragioni familiari. – Nel caso
(1) Si vedano gli artt. 96 ss., L. 22 aprile 1941, n. 633, diritto
d’autore.
l Nel giudizio instaurato nella tutela del
diritto al nome, ai sensi dell’art. 7 c.c., la morte
dell’attore non consente agli eredi di costituirsi
in prosecuzione dell’originario rapporto processuale, stante il carattere strettamente personale e
la conseguente non trasmissibilità di detto diritto.
Peraltro, poiché la legittimazione a chiedere quella tutela spetta autonomamente anche agli eredi,
a norma dell’art. 8 c.c., l’indicata costituzione può
assumere valore ed efficacia di intervento adesivo autonomo o litisconsortile, se, pur in difetto
della comparsa prescritta dall’art. 267 c.p.c., sia
idonea ad introdurre, nel rispetto del principio
del contraddittorio, una domanda di tutela del
nome secondo la previsione del menzionato art.
8 c.c. Il giudicato formatosi nei confronti del de
cuius spiega efficacia vincolante nei confronti degli eredi limitatamente alle posizioni giuridiche
suscettibili di essere trasferite iure successionis,
e non anche, pertanto, con riguardo a diritti personalissimi ed intrasmissibili, quale il diritto al
nome. La sentenza definitiva, che accerti il diritto
di una persona al nome (nella specie, con il riconoscimento dell’aggiunta di un secondo cognome
derivante dal predicato nobiliare), spiega efficacia
erga omnes nel senso che legittima quel soggetto
l L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui
obbliga al risarcimento anche dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico
di cui la persona danneggiata abbia risentito per
effetto della predetta pubblicazione e di cui abbia
fornito la prova. In ogni caso, qualora - come accade soprattutto se il soggetto leso non è persona
nota - non possano essere dimostrate specifiche
voci di danno patrimoniale, la parte lesa può far
valere (conformemente ad un principio recepito
dall’art. 128 della legge 22 aprile 1941, n. 633,
novellato dal d.l.vo 16 marzo 2006, n. 140, non
applicabile alla specie “ratione temporis”) il diritto al pagamento di una somma corrispondente al
compenso che avrebbe presumibilmente richiesto
per concedere il suo consenso alla pubblicazione,
determinandosi tale importo in via equitativa,
avuto riguardo al vantaggio economico presumibilmente conseguito dell’autore dell’illecita pubblicazione in relazione alla diffusione del mezzo
sul quale la pubblicazione è avvenuta, alle finalità
perseguite e ad ogni altra circostanza congruente
con lo scopo della liquidazione. * Cass. civ., sez.
III, 11 maggio 2010, n. 11353, Fondazione Teatro
Opera Roma c. Giammaresi. [RV613003]
l L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui
obbliga l’autore al risarcimento dei danni non patrimoniali sia ai sensi dell’art. 10 c.c., sia in virtù
dell’art. 29 della legge n. 675 del 1996, ove la fattispecie configuri anche violazione del diritto alla
riservatezza, nonché per effetto della protezione
previsto dall’articolo precedente, l’azione può essere
promossa anche da chi, pur non portando il nome contestato o indebitamente usato, abbia alla tutela del nome un interesse (100 c.p.c.) fondato su ragioni familiari
degne d’essere protette.
Art. 10
Libro I – Persone e famiglia
costituzionale dei diritti inviolabili della persona,
come previsto dall’art. 2 della Costituzione, che,
di per sé, integra una ipotesi legale (al suo massimo livello di espressione) di risarcibilità dei
danni ai sensi dell’art. 2059 c.c. * Cass. civ., sez.
III, 16 maggio 2008, n. 12433, Zanotti c. Cesco
Ciapanna Ed Srl. [RV603319]
l L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui
obbliga al risarcimento anche dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico
di cui la persona danneggiata abbia risentito per
effetto della predetta pubblicazione e di cui abbia
fornito la prova. In ogni caso, qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di danno
patrimoniale, la parte lesa può far valere il diritto
al pagamento di una somma corrispondente al
compenso che avrebbe presumibilmente richiesto
per concedere il suo consenso alla pubblicazione,
determinandosi tale importo in via equitativa,
avuto riguardo al vantaggio economico conseguito dell’autore dell’illecita pubblicazione e ad ogni
altra circostanza congruente con lo scopo della
liquidazione, tenendo conto, in particolare, dei
criteri enunciati dall’art. 128, comma secondo,
della legge n. 633 del 1941 sulla protezione del
diritto di autore. * Cass. civ., sez. III, 16 maggio
2008, n. 12433, Zanotti c. Cesco Ciapanna Ed
Srl. [RV603320]. Conforme, Cass. III, 11 maggio
2010, n. 11353.
l In virtù della disposizione di cui all’art. 16
della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989 (e ratificata
dallo Stato italiano con la legge 27 maggio 1991,
n. 176), alla stregua della quale è sancito che nessun fanciullo può essere oggetto di interferenze
arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella
sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo
onore e alla sua reputazione, con il riconoscimento del suo diritto alla protezione della legge
contro tali interferenze od affronti, nonché della
correlata previsione — contenuta nell’art. 3 della
stessa Convenzione — secondo la quale in tutte
le decisioni relative ai fanciulli emanate (anche)
dall’autorità giudiziaria «l’interesse superiore del
fanciullo deve essere una considerazione preminente» risulta conseguente ritenere che il diritto
alla riservatezza del minore deve essere, nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali (diritto di cronaca e diritto alla privacy) considerato assolutamente preminente, laddove si riscontri che
non ricorra l’utilità sociale della notizia e, quindi,
con l’unico limite del pubblico interesse. (Nella
specie, la S.C., richiamata tale specifica normativa, il cui riferimento era stato completamente
omesso nell’impugnata sentenza, ha cassato con
rinvio la sentenza stessa, con la quale era stata
rigettata la domanda di risarcimento danni proposta dalla madre di un fanciullo in conseguenza
della riproduzione su una rivista settimanale del
figlio minore — ritratto senza particolari cautele
40
per renderlo non riconoscibile — vicino ad una
famosa attrice in topless nel mentre trovavasi su
una spiaggia in un atteggiamento di lotta scherzosa con il padre del bambino, all’epoca ancora non
separato legalmente dalla madre, sul presupposto che, dal contesto del servizio, relativo a fatti
svoltisi in pubblico, non potesse derivare alcun
pregiudizio alla riservatezza, nonché al decoro
e alla reputazione per il minore — indicato, nel
relativo articolo, come un parente dell’uomo — e
per la di lui madre). * Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2006, n. 19069, Appetito c. Hachette Rusconi
Spa. [RV592045]
l Il consenso all’utilizzazione commerciale
della propria immagine a norma dell’art. 96 della
legge 22 aprile 1941, n. 633, può anche essere tacito. * Cass. civ., sez. I, 16 maggio 2006, n. 11491,
Falcone c. Henkel Spa. [RV590955]
l Chiunque pubblichi abusivamente il ritratto
di una persona notoria, per finalità commerciali,
è tenuto al risarcimento del danno, la cui liquidazione deve essere effettuata tenendo conto anzitutto delle ragioni della notorietà, specialmente
se questa è connessa all’attività artistica del
soggetto leso, alla quale si collega normalmente
lo sfruttamento esclusivo dell’immagine stessa;
pertanto l’abusiva pubblicazione, quando comporta la perdita, da parte del titolare del diritto,
della facoltà di offrire al mercato l’uso del proprio
ritratto, dà luogo al corrispondente pregiudizio.
Tale pregiudizio non è, poi, escluso dall’eventuale
rifiuto del soggetto leso di consentire a chicchessia la pubblicazione degli specifici ritratti abusivamente utilizzati (nella fattispecie si trattava di
foto di scena di un’opera cinematografica), atteso
che, per un verso, detto rifiuto non può essere
equiparato ad una sorta di abbandono del diritto,
con conseguente caduta in pubblico dominio,
in quanto nella gestione del diritto alla propria
immagine ben si colloca la facoltà, protratta per
il tempo ritenuto necessario, di non pubblicare
determinati ritratti, senza che ciò comporti alcun
effetto ablativo, e, per altro verso, la stessa gestione può comportare la scelta di non sfruttare
un determinato ritratto, perchè lo sfruttamento
può risultare lesivo, in prospettiva, del bene
protetto; con la conseguenza che lo sfruttamento
abusivo del ritratto, in quanto frustrante della
predetta strategia generale che solo al titolare
del diritto spetta di adottare, può risultare fonte
di pregiudizio — ben più grave di quello corrispondente al valore commerciale della specifica
attività abusiva il cui risarcimento ben può essere
effettuato in termini di perdita della reputazione
professionale, ove questa sia stata allegata in
giudizio, da valutarsi caso per caso dal giudice di
merito nei limiti della ricchezza non conseguita
dal danneggiato, ovvero anche con il ricorso al
criterio di cui all’art. 1226 c.c. * Cass. civ., sez. I,
1 dicembre 2004, n. 22513, Sandrelli c. Tattilo ed.
spa. [RV578339]