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Codice civile R.D. 16 marzo 1942, n. 262. Approvazione del testo del Codice civile (Pubblicato nella edizione straordinaria della Gazzetta Ufficiale n. 79 del 4 aprile 1942). VITTORIO EMANUELE III PER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE RE D’ITALIA E DI ALBANIA IMPERATORE D’ETIOPIA. Visti i Regi decreti 12 dicembre 1938, n. 1852, 26 ottobre 1939, n. 1586, 30 gennaio 1941, n. 15, 30 1941, n. 16, 30 gennaio 1941, n. 17 e 30 gennaio 1941, n. 18, che danno facoltà al Governo di provvedere alla riunione ed al coordinamento dei libri del Codice civile delle persone, delle successioni per causa di morte e delle donazioni, della proprietà, delle obbligazioni, del lavoro e della tutela dei diritti, approvati con gli stessi Regi decreti; Udito il Consiglio dei Ministri; Sulla proposta del Nostro Guardasigilli, Ministro Segretario di Stato per la grazia e giustizia; Abbiamo decretato e decretiamo: 1. È approvato il testo del Codice civile, il quale, preceduto dalle Disposizioni sulla legge in generale, avrà esecuzione a cominciare dal 21 aprile 1942, sostituendo da questa data i libri del Codice stesso, approvati con i Regi decreti 12 dicembre 1938, n. 1852, 26 ottobre 1939, n. 1586, 30 gennaio 1941, n. 15, 30 gennaio 1941, n. 16, 30 gennaio 1941, n. 17, e 30 gennaio 1941, n. 18. 2. Un esemplare del testo del Codice civile, firmato da Noi e contrassegnato dal Nostro Ministro Segretario di Stato per la grazia e giustizia, servirà di originale e sarà depositato e custodito nell’Archivio del Regno. Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. Dato a Roma, addì 16 marzo 1942. VITTORIO EMANUELE Mussolini — Grandi Visto, il Guardasigilli: Grandi. Registrato alla Corte dei Conti, addì 16 marzo 1942 — Atti del Governo, registro n. 443, foglio n. 53. Mancini DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE Capo I Delle fonti del diritto 1. Indicazione delle fonti. – Sono fonti (70, 87, 121, 138, Cost.) del diritto: 1) le leggi (2, 10 ss.); 2) i regolamenti (3, 4); 3) le norme corporative (1); 4) gli usi (8 ss.). (1) Il R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721, soppressione degli organi corporativi centrali, del comitato interministeriale prezzi e del comitato interministeriale per l’autarchia, ha soppresso l’ordinamento corporativo fascista. 2. Leggi. – La formazione delle leggi (1, n. 1) e l’emanazione degli atti del Governo aventi forza di legge sono disciplinate da leggi di carattere costituzionale (70 ss., 87, 128 Cost.). 3. Regolamenti. – Il potere regolamentare del Governo è disciplinato da leggi di carattere costituzionale. Il potere regolamentare di altre autorità è esercitato nei limiti delle rispettive competenze, in conformità delle leggi particolari (4, 77, 87 Cost.). l Le deliberazioni del Consiglio Nazionale Forense previste dall’art. 1 della Legge 3 agosto 1949 n. 536 integrano un regolamento adottato da un’autorità non statale in forza di un autonomo potere regolamentare che ripete la sua disciplina da leggi speciali, in conformità all’art. 3, comma secondo, delle Disposizioni della Legge in generale, e che non è trasformato in regolamento governativo dal decreto ministeriale di approvazione, emanato nell’esercizio di un potere di controllo, per cui le singole disposizioni dettate da detta delibera (che non hanno il vigore e la forza di una norma giuridica) in tanto possono essere applicate dal giudice, in quanto siano ricomprese nell’ambito del potere regolamentare attribuito al Consiglio Nazionale Forense, che è ristretto alla fissazione dei criteri per la determinazione degli onorari ed indennità spettanti agli avvocati per la loro opera professionale. Pertanto, nella parte in cui attribuisce al parere del Consiglio dell’Ordine afficacia vincolante anche nei confronti del giudice chiamato a risolvere una controversia avente ad oggetto la riducibilità al di sotto dei minimi tabellari del compenso spettante ad un avvocato per le sue prestazione stragiudizionali, la disposi- zione dell’art. 9 delle Norme generali della Tariffa stragiudizionale deliberata il 28 maggio 1982 — in quanto esorbita dai limiti dell’anzidetto potere regolamentare — è illegittima e deve essere disapplicata. Correlativamente, ai fini della pronuncia del giudice è sufficiente che il parere sia stato acquisito in giudizio e, ove il Consiglio dell’Ordine ne abbia denegato il rilascio, è sufficiente che la parte che vi abbia interesse dimostri sia di averlo chiesto e sia che è stato rifiutato. * Cass. civ., Sezioni Unite, 1 febbraio 1995, n. 1115 . Conformi sul principio di cui alla prima parte della massima, Cass., Sezioni Unite, 27 marzo 1993, n. 3690 e Cass., Sezioni Unite, 30 agosto 1991, n. 9284, le quali, in applicazione di detto principio, hanno escluso la legittimità della deliberazione del Consiglio nazionale forense approvata con D.M. 22 giugno 1982 in forza della quale, decorsi tre mesi dall’invio della parcella senza che i relativi importi siano stati contestati, il relativo credito è soggetto a rivalutazione automatica ai sensi dell’art. 429 c.p.c. (come modificato dalla L. n. 533/73). Nello stesso senso, anche Cass. lav., sez. II, 30 ottobre 1996, n. 9514. l A differenza degli atti e provvedimenti amministrativi generali — che sono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono rivolti alla cura concreta d’interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili — i regolamenti sono espressione di una potestà normativa attribuita all’amministrazione, secondaria rispetto alla potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all’ordinamento giuridico esistente, con precetti aventi i caratteri della generalità e dell’astrattezza. A norma dell’art. 17, L. n. 400 del 1988, per i regolamenti di competenza ministeriale sono richiesti il parere del Consiglio di Stato e la preventiva comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri. (In forza di tali principi, la Suprema Corte ha confermato la decisione del T.S.A.P. che, ritenuta la natura regolamentare del D.M. 20 luglio 1990, contenente i criteri di aumento dei canoni di concessione di utenza di acque pubbliche, lo annullava per violazione del citato art. 17, L. n. 400 del 1988, non risultando osservato il modello procedimentale ivi previsto). * Cass. civ., Sezioni Unite, 28 novembre 1994, n. Art. 4 DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE 10124, Ministero finanze e tesoro c. Merano ed altri Nello stesso senso, Cass. III, 5 luglio 1999, n. 6933. 4. Limiti della disciplina regolamentare. – I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi. I regolamenti emanati a norma del secondo comma dell’art. 3 non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo. 5 - 7. (Omissis) (1). (1) Articoli riguardanti le norme corporative, abrogati dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721. 8. Usi. – Nelle materie regolate dalle leggi (1, n. 1) e dai regolamenti (1, n. 2) gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati (1, n. 4, 9). Le norme corporative prevalgono sugli usi, anche se richiamati dalle leggi e dai regolamenti, salvo che in esse sia diversamente disposto (1). (1) Comma da ritenere abrogato a seguito della soppressione dell’ordinamento corporativo fascista disposta dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721. l Avendo il giudice l’obbligo di conoscere la legge, ma non anche gli usi, questi ultimi, ove il giudice non ne sia a conoscenza, debbono essere provati (anche per quanto riguarda l’elemento dell’opinio iuris ac necessitatis) a cura della parte che li allega, e la relativa prova non può essere fornita per la prima volta nel giudizio di legittimità. * Cass. civ., sez. I, 1 marzo 2007, n. 4853, Bnl Spa c. Fall. Pasini Franco. [RV595180] l La prassi amministrativa, a differenza degli usi (costituenti fonte del diritto: art. 8 disp. sulla legge in generale), non ha efficacia erga omnes e non ha vero carattere di generalità; essa si limita a connotare il comportamento di fatto dei singoli uffici nei rapporti interni e con il pubblico, senza essere tuttavia accompagnata dalla convinzione della sua doverosità. (Fattispecie relativa alla dedotta esistenza di una prassi amministrativa derogatoria dell’art. 1194 c.c., in forza della quale, per l’imputazione del pagamento parziale di debiti dell’amministrazione al capitale anziché agli interessi, non sarebbe necessario il consenso del creditore: la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la rilevanza della addotta prassi amministrativa). * Cass. civ., sez. lav., 4 settembre 2002, n. 12869 Conforme, sulla prima parte della massima, Cass. III, 19 gennaio 2006, n. 1018, la quale, in applicazione del principio, ha poi escluso il pregiudizio lamentato dalla ricorrente come conseguenza della prassi della P.A. di richiedere la dimostrazione dello status, di impresa abilitata al momento della richiesta di ammissione alle gare di appalto e del ritardo nel rilascio del certificato di revisione della iscrizione all’albo dei costruttori, in quanto la prassi della P.A. non poteva ritenersi 28 espressione di un precetto giuridicamente vincolante essendo sufficiente, nella fase endoprocedimentale dell’ammissione alla garae sulla base del disposto dell’art. 2 della legge 4 gennaio 1968 n 15, la presentazione di una dichiarazione sostitutiva della formale certificazione. [RV557254] l Gli usi normativi, contemplati dall’art. 1, n. 4, prel., sono norme giuridiche che il giudice ha l’obbligo di applicare se le conosce, ma non ha l’onere di indagare personalmente per accertarne l’esistenza disponendo ex officio attività istruttorie per sopperire all’inerzia delle parti. * Cass. civ., sez. II, 21 novembre 2000, n. 15014. l Il rapporto che sorge, fra il privato e l’agente di borsa od un istituto di credito autorizzato a negoziare in borsa, dà luogo al cosiddetto «ordine di borsa», che non si inquadra in nessuna delle figure negoziali previste dal codice civile, e nemmeno in quella del mandato, ma costituisce un contratto atipico che trova la sua regolamentazione nelle fonti consuetudinarie ed in particolare negli usi di borsa, che, in tal modo, operano praeter legem. Sotto un tal riguardo, trova, in riferimento ad esso, operatività la disposizione di cui all’art. 16 degli usi di borsa, in base alla quale «le contestazioni relative all’esecuzione di ordini devono essere proposte prima dell’inizio della riunione di Borsa successiva al giorno in cui l’avviso di esecuzione, o quello della mancata esecuzione è giunto all’indirizzo del committente». E, quanto ai possibili profili di irragionevolezza di un tal termine così breve (profili la cui valutazione non può che rimanere estranea all’ambito delle competenze della Corte costituzionale, la quale, ai sensi dell’art. 134 Cost. giudica solo delle leggi e degli atti aventi una tal forza), essi si rivelano del tutto privi di fondamento, dovendo un termine così breve ritenersi pienamente giustificato dalla particolare natura delle contrattazioni, caratterizzate dalla celerità degli scambi e dalla stessa necessità di porre l’operatore in grado di intervenire, nel più breve tempo, per possibili azioni di rientro o di salvaguardia. * Cass. civ., sez. I, 18 luglio 1997, n. 6625, Scozzarella c. Monte Paschi di Siena. [RV506135] l Le norme e gli usi uniformi della Camera di commercio internazionale relativi ai crediti documentari non sono usi giuridici o normativi, ma costituiscono clausole d’uso, integrative della volontà dei contraenti, sicché la loro violazione e falsa applicazione non è denunciabile in sede di legittimità. * Cass. civ., sez. I, 8 marzo 1996, n. 1842 Nello stesso senso: Cass. I, 22 febbraio 1979, n. 1130; Cass. III, 6 febbraio 1982, n. 693; Cass. III, 10 giugno 1983, n. 3992. 9. Raccolte di usi. – Gli usi pubblicati nelle raccolte ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati si presumono esistenti fino a prova contraria (1). (1) Si veda D.L.vo C.P.S. 27 gennaio 1947, n. 152 modif. con L. 13 marzo 1950, n. 115, nuove norme per l’accertamento degli usi 29 CODICE CIVILE (PRELEGGI) generali del commercio. Si veda, inoltre, l’art. 38 R.D. 20 settembre 1934, n. 2011, che dispone: «38. Le cancellerie giudiziarie comprese nella circoscrizione della provincia comunicano alla Camera di Commercio notizia delle sentenze che accertano l’esistenza o l’inesistenza di un uso o di una consuetudine e sono tenute a rilasciare copia delle sentenze stesse a spese della Camera di Commercio richiedente». u Si veda sub art. 8. Capo II Dell’applicazione della legge in generale 10. Inizio dell’obbligatorietà delle leggi e dei regolamenti. – Le leggi (1, n. 1) e i regolamenti (1, n. 2) divengono obbligatori nel decimoquinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione (73 Cost.), salvo che sia altrimenti disposto. Le norme corporative divengono obbligatorie nel giorno successivo a quello della pubblicazione, salvo che in esse sia altrimenti disposto (1). (1) Comma da ritenere abrogato a seguito della soppressione dell’ordinamento corporativo fascista, disposta dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721. l Nel regime anteriore alla L. 23 agosto 1988, n. 400, che al quinto comma dell’art. 15 ha disposto, per le modifiche apportate in sede di conversione del decreto legge, l’efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della legge di conversione salvo diverso disposto di quest’ultima, la legge di conversione del decreto legge, mentre esplica ex tunc (e cioè fin dal momento dell’entrata in vigore di quest’ultimo) i propri istituzionali effetti convalidativi delle norme del decreto stesso che non siano state modificate, è dotata, rispetto agli emendamenti eventualmente introdotti di una duplice valenza, poiché da un lato converte il precedente decreto e, dall’altro, contestualmente introduce nell’ordinamento nuove disposizioni, sostitutive o modificative di quelle contenute nel provvedimento convertito. Ne consegue che tali nuove disposizioni spiegano il loro effetto, sostitutivo o modificativo di quelle convertite, soltanto ex nunc e cioè alla scadenza del periodo di vacatio legis susseguenti alla loro pubblicazione nella G.U. (salvo che la stessa legge di conversione non disponga diversamente al riguardo), rimanendo, fino alla scadenza stessa vigenti le norme del decreto nel testo anteriore all’emendamento. (Fattispecie in ordine al D.L. 4 marzo 1976, n. 30 con riguardo agli interessi dovuti per il ritardo del pagamento dell’imposta da parte dell’azienda delegata dal contribuente, per cui la legge di conversione 2 maggio 1976, n. 160 ha disposto una penale giornaliera). * Cass. civ., sez. I, 2 maggio 1991, n. 4781, Amm. Finanze dello Stato c. Banco di Roma S.p.A. Art. 10 l La norma dell’art. 10, primo comma, delle preleggi — secondo cui le leggi e i regolamenti divengono obbligatori nel decimo-quinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione, salvo che sia diversamente disposto — non si applica ai decreti ministeriali (nella specie, decreto del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale del 21 febbraio 1981, pubblicato sulla G.U. n. 237 del 27 novembre 1981, di approvazione di un regolamento dell’Enpam) che recepiscono (senza, peraltro, trasformarli in regolamenti governativi) atti emanati da autorità non statali in forza di un potere normativo attribuito da leggi speciali (art. 3, comma secondo, delle preleggi), essendo tali decreti emanati nell’esercizio di un semplice controllo, con la conseguenza che i medesimi, anche se debbono essere pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, non sono assoggettati ad alcun periodo di vacatio legis e sono quindi immediatamente applicabili per il carattere di esecutorietà proprio degli atti amministrativi. * Cass. civ., sez. lav., 19 febbraio 1990, n. 1204, Enpam c. Fanfani. 11. Efficacia della legge nel tempo. – La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo (25 Cost.; 2 c.p.). I contratti collettivi di lavoro (2067 ss. c.c.) possono stabilire per la loro efficacia una data anteriore alla pubblicazione, purché non preceda quella della stipulazione (2074 c.c.). l Il principio dell’irretroattività della legge comporta che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso. Lo stesso principio comporta, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in sè stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore. (In base al suddetto principio la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, in una fattispecie relativa alla ripetizione dei ratei dell’indennità di accompagnamento indebitamente versati, aveva ritenuto di attribuire valore retroattivo all’art. 4, commi terzo ter e terzo nonies, del D.L. n. 323 del 1996, convertito nella legge n. 425 del 1996, che hanno abrogato l’art. 11, comma quarto, della legge n. 537 del 1993 stabilendo che la revoca delle provvidenze a favore degli invalidi civili ha effetto a Art. 12 DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE decorrere dalla data della visita medica di verifica dell’insussistenza dei requisiti sanitari e, quindi, non più dall’anno precedente la data dell’accertamento in sede amministrativa dell’insussistenza dei requisiti stessi). * Cass. civ., sez. lav., 3 marzo 2000, n. 2433, Min. Interno c. Mazzoleni ed altro Conforme, sulla prima parte della massima, Cass. III, 1 febbraio 1974, n. 210. [RV534559] l Il principio della irretroattività della legge (sancito dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale) deve ritenersi applicabile anche alle norme di ordine pubblico, e non trova, pertanto, deroga nel disposto della legge 6 agosto 1967, n. 765, il cui art. 18, prevedendo lo specifico obbligo di riservare appositi spazi condominiali a parcheggio, fa esplicito riferimento alle «nuove costruzioni», con la conseguenza che deve ritenersi affetta da invalidità la delibera condominiale, adottata a maggioranza, che abbia autorizzato il parcheggio degli autoveicoli nelle aree comuni di un edificio, costruito anteriormente all’entrata in vigore della citata normativa, nonostante una espressa previsione contraria contenuta nel regolamento condominiale contrattuale. * Cass. civ., sez. II, 14 giugno 1997, n. 5369. l Il principio generale di irretroattività stabilito dall’art. 11 prel. c.c., in base al quale l’eventuale retroattività di una legge deve risultare da una espressa dichiarazione del legislatore o comunque da una formulazione non equivoca della norma, in mancanza della quale la legge dispone solo per l’avvenire e non ha quindi effetto retroattivo, vale anche per le fonti normative secondarie, ed è quindi applicabile al D.M. 18 giugno 1988 (Nuova tariffa dei premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali per il settore industriale e relative modalità di applicazione); ne consegue che la disposizione di cui agli artt. 13 e 14 di tale decreto ministeriale, secondo cui il provvedimento di rettifica, adottato dall’Inail d’ufficio o su istanza del datore di lavoro, ha effetto dalla data in cui deve essere applicata l’esatta classificazione e tassazione, è applicabile solo a partire dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto ministeriale. * Cass. civ., sez. lav., 28 agosto 1996, n. 7905. l La norma dell’art. 11, primo comma, delle disposizioni sulla legge in generale, nel sancire (con formulazione identica a qualla accolta dall’art. 2 del c.c. del 1865 e costituente, a sua volta, la traduzione letterale dell’art. 1, n. 2, delle preleggi del codice napoleonico) che la legge non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo, non detta un principio inderogabile in tema di efficacia della legge nel tempo, ma — nonostante l’espunzione, dal testo originario della norma, dell’inciso «di regola» — si limita ad indicare un canone interpretativo nel senso della normale irretroattività, senza escludere che la legge possa avere efficacia retroattiva per sua stessa previsione esplicita o implicita, secondo 30 una indagine che è riservata al giudice del merito e che non può prescindere dall’intenzione del legislatore quale manifestata dai lavori preparatori. * Cass. civ., sez. lav., 24 ottobre 1989, n. 4334, Inail c. Palombo. 12. Interpretazione della legge. – Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore (1362, 1363 c.c.). Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. SOMMARIO: a) Interpretazione letterale e logica; a-1) In genere; a-2) Lavori preparatori; a-3) Richiamo alle norme costituzionali; b) Interpretazione estensiva; c) Interpretazione restrittiva; d) Interpretazione analogica; e) Principi generali dell’ordinamento. a) Interpretazione letterale e logica. a-1) In genere. l Ai fini dell’interpretazione di provvedimenti giurisdizionali nella specie del decreto di liquidazione dei compensi al C.T.U. si deve fare applicazione, in via analogica, dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 12 e seguenti disp. prel. c.c., in ragione dell’assimilabilità per natura ed effetti agli atti normativi, secondo l’esegesi delle norme (e non già degli atti e dei negozi giuridici), al pari del giudicato interno ed esterno e della sentenza rescindente, in quanto dotati di vis imperativa e indisponibilità per le parti; ne consegue che la predetta interpretazione si risolve nella ricerca del significato oggettivo della regola o del comando di cui il provvedimento è portatore. * Cass. civ., Sezioni Unite, 9 maggio 2008, n. 11501, Perillo c. Merone. l Nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, 31 CODICE CIVILE (PRELEGGI) acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa (in applicazione di tale principio, la S.C. ha, così, confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittima l’introduzione di un registratore portatile — al fine di registrare la seduta consiliare — da parte di un consigliere comunale del comune di S. Pietro Mosezzo, atteso che l’art. 26 del relativo regolamento comunale si limitava a vietare espressamente l’introduzione dei soli apparecchi di riproduzione «audiovisiva» in assenza di autorizzazione del presidente). * Cass. civ., sez. I, 6 aprile 2001, n. 5128. l Il criterio di interpretazione teleologica, previsto dall’art. 12 delle preleggi, può assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione di legge sia incompatibile con il sistema normativo; non è infatti consentito all’interprete correggere la norma, nel significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, nell’ipotesi in cui ritenga che l’effetto giuridico che ne deriva, sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa. * Cass. civ., sez. lav., 13 aprile 1996, n. 3495. a-2) Lavori preparatori. l Il ricorso ai lavori preparatori, nel procedimento di interpretazione di una legge, è consentito in via meramente sussidiaria, al fine di trarre utili elementi per l’individuazione del significato precettivo di singole disposizioni normative e della ratio che le giustifica, ma non consente di sostituire la volontà da essi risultante a quella della legge, emergente dal significato proprio delle parole usate e dall’intenzione del legislatore, quale volontà oggettiva della norma distinta dalla volontà dei singoli partecipanti al suo processo formativo. * Cass. civ., sez. II, 19 maggio 1975, n. 1955. l Ai lavori preparatori può riconoscersi valore unicamente sussidiario nell’interpretazione di una legge, giacché — se da essi possono trarsi elementi giovevoli ai fini dell’individuazione del significato precettivo di singole disposizioni normative e della ratio che le giustifica — l’utile ricorso ai lavori preparatori trova tuttavia un limite in ciò che la volontà da essi risultante non può sovrapporsi alla volontà obiettiva della legge, quale emerge dal significato proprio delle parole Art. 12 secondo la connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore intesa come volontà oggettiva della norma (voluntas legis), da tenersi distinta dalla volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa (voluntas legislatoris). * Cass. civ., sez. I, 13 marzo 1975, n. 937. l Quando la portata e l’ambito di applicazione della disposizione legislativa sono fatti palesi dal significato proprio dei termini secondo la connessione di essi, non è più dato ricorrere ai lavori preparatori e ad ogni altro strumento di inquisizione ermeneutica, la cui utilizzazione si palesa necessaria allorquando le espressioni usate nella norma da interpretare abbiano un significato equivoco e poco chiaro, comunque tale da ingenerare dubbi sulla portata e sulla sfera di applicazione della norma stessa. * Cass. civ., sez. II, 21 giugno 1972, n. 2000. a-3) Richiamo alle norme costituzionali. l Se una norma di legge sia suscettibile di più interpretazioni, di cui una darebbe alla norma un significato costituzionalmente illegittimo, il dubbio è soltanto apparente e deve essere superato e risolto interpretando la norma in senso conforme alla Costituzione e alla legge costituzionali. * Cass. civ., sez. lav., 5 maggio 1995, n. 4906. b) Interpretazione estensiva. u Si veda sub art. 14. c) Interpretazione restrittiva. l L’interpretazione restrittiva ricorre quando il giudice ritenga che le espressioni usate dal legislatore ne abbiano tradito il pensiero ovvero non lo abbiano esattamente rivelato — di modo che nella norma appaiano compresi casi che non vi dovrebbero rientrare secondo l’intenzione della legge — e, di conseguenza, escluda, per tali casi, l’applicazione della norma stessa al fine di attuare la reale volontà legislativa. Pertanto, non si è in presenza di una siffatta interpretazione quando il giudice non escluda dall’applicazione della norma un caso, che la formula letterale di questa contempli, bensì accerti che la fattispecie prospettata dalla parte non rientri nella disciplina legale risultante dal testo letterale della norma. * Cass. civ., sez. III, 20 luglio 1977, n. 3250. d) Interpretazione analogica. l Il ricorso alla analogia è consentito dall’art. 12 delle preleggi solo quando manchi nell’ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria. * Cass. civ., sez. II, 29 aprile 1995, n. 4754. l Nell’interpretazione di un contratto collettivo, soggetto, per la sua natura privatistica, alle norme di ermeneutica contrattuale dettate dagli artt. 1362 e segg. c.c., non può farsi ricorso all’analogia, prevista, dall’art. 12, secondo comma, Art. 13 DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE delle disposizioni della legge in generale, per la sola norma di legge. (Nella specie, la S.C. ha cassato l’impugnata sentenza, che, ai sensi degli artt. 19 e 20 del C.C.N.L. per gli elettrici dell’1 agosto 1979, aveva riconosciuto il diritto agli aumenti biennali di anzianità per il conseguimento di una laurea non compresa fra quelle cui, per espressa previsione contrattuale, era collegato il diritto a tali scatti ed ai permessi retribuiti, ed ha censurato la detta decisione anche per aver suffragato l’interpretazione della disciplina contrattuale con il riferimento alla L. 8 gennaio 1979 n. 10, statuente l’equiparazione della laurea in scienze economiche e sociali alla laurea in economia e commercio ai soli fini dell’ammissione a pubblici concorsi. * Cass. civ., sez. lav., 2 dicembre 1988, n. 6524 Nello stesso senso, sent. nn. 5726/85 e 7519/83. l L’analogia costituisce un criterio interpretativo cui il giudice può e deve fare ricorso non soltanto nell’interpretazione della legge — in relazione alla quale tale strumento ermeneutico è espressamente previsto (art. 12 preleggi) — ma anche nella interpretazione delle disposizioni di un contratto, ove questo, come è tipico del contratto collettivo, detti regole generali per categorie di casi anziché per casi singoli. (Nella specie, si trattava di stabilire se l’indennità maneggio denaro, prevista dal contratto collettivo applicabile ai lavoratori della stessa azienda, in favore dei cassieri e dei commessi di cassa, potesse essere riconosciuta ad un lavoratore, della medesima azienda, che, per le mansioni di trovarobe assistente arredatore, richiedeva di volta in volta somme necessarie per pagare i fornitori dei materiali di scena). * Cass. civ., sez. lav., 26 gennaio 1985, n. 430. l Il ricorso ad una legge regionale, emanata in sede di potestà legislativa esclusiva (nella specie legge regionale siciliana 1 ottobre 1956 n. 54 sulla disciplina delle miniere), non può avvenire, in via di analogia, per interpretare una legge statale (nella specie R.D. 29 luglio 1927 n. 1443 sulla ricerca e la coltivazione delle miniere); la legge regionale potrebbe avere rilevanza interpretativa solo se, accertata l’impossibilità di decidere la controversia secondo gli ordinari criteri ermeneutici della legge statale, sia necessario individuare i principi generali regolanti la materia. * Cass. civ., sez. I, 14 novembre 1975, n. 3829. e) Principi generali dell’ordinamento. l Dovendo le norme interpretarsi anche alla luce della tradizione scientifica nazionale, che, in quanto compresa nei principi generali dell’ordinamento richiamati dall’art. 12 della preleggi, costituisce criterio comprimario di ermeneutica legislativa, l’art. 91 c.p.c., secondo il quale il giudice «con la sentenza che chiude il processo condanna la parte soccombente al rimborso delle spese», trova applicazione con riguardo ad ogni provvedimento, ancorché reso in forma di ordinanza o decreto, che, nel risolvere contrapposte posizioni, 32 elimini il procedimento davanti al giudice che lo emette, quando, in coerenza con il principio di economia dei giudizi, si renda necessario ristorare la parte vittoriosa dagli oneri inerenti al dispendio di attività processuale legata da nesso causale con l’iniziativa dell’avversario. Detta norma, pertanto, opera non solo nei procedimenti a cognizione piena ma anche in quelli sommari e cautelari, come nel caso del procedimento promosso ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. per l’adozione di provvedimenti d’urgenza, con la conseguenza che, ove la richiesta della parte istante venga respinta, sicché il procedimento si esaurisca nel senso sopra specificato, dev’essere riconosciuto il diritto al rimborso delle spese processuali in favore dell’intimato che abbia resistito a quella richiesta. * Cass. civ., Sezioni Unite, 28 aprile 1989, n. 2021, Editore Mikol c. Soc. Telefriuli. 13. Esclusione dell’applicazione analogica delle norme corporative. – (Omissis) (1). (1) L’ordinamento corporativo fascista è stato soppresso dal R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721. 14. Applicazione delle leggi penali ed eccezionali. – Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati (25 Cost.; 1, 2 c.p.). l L’interpretazione estensiva di disposizioni “eccezionali” o “derogatorie”, rispetto ad una avente natura di “regola”, se pure in astratto non preclusa, deve ritenersi comunque circoscritta alle ipotesi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portata della norma costituente la regola con l’introduzione di nuove eccezioni, bensì si limiti ad individuare nel contenuto implicito della norma eccezionale o derogatoria già codificata altra fattispecie avente identità di ratio con quella espressamente contemplata. * Cass. civ., sez. I, 1 settembre 1999, n. 9205. l La disposizione dell’art. 2942, n. 1 c.c., che prevede la sospensione della prescrizione nei confronti degli interdetti per infermità di mente per il tempo in cui non hanno rappresentante legale e per sei mesi successivi alla nomina del medesimo, avendo carattere di norma eccezionale ricade nel divieto di interpretazione analogica di cui all’art. 14 preleggi, e non è applicabile, pertanto, con riguardo all’interdicendo, non ricorrendo, tra l’altro, identità di ratio fra le due situazioni, stante la possibilità tra la presentazione del ricorso e la pronuncia della sentenza di interdizione di nomina di un tutore provvisorio il quale può esercitare le azioni che competono all’interdicendo, sicché non esiste violazione del principio costituzionale di parità, né del diritto di difesa. * Cass. civ., sez II, 2 giugno 1993, n. 6169, Maggiori c. Ducoli. 33 CODICE CIVILE (PRELEGGI) l L’art. 12 delle preleggi contiene tutti i criteri ermeneutici della legge, ed in particolare sia il criterio dell’interpretazione estensiva, che consente l’utilizzazione di norme regolanti casi simili (e non già identici), sia quello dell’interpretazione analogica (analogia legis), che permette l’utilizzazione di norme che disciplinano materie analoghe, ossia istituti diversi aventi solo qualche punto in comune con il caso da decidere, mentre l’art. 14 delle stesse preleggi — come reso evidente dai lavori preparatori — non detta alcun criterio di esegesi legislativa, limitandosi a stabilire che le leggi penali e quelle che fanno eccezione ad altre leggi non si applicano (in via d’interpretazione analogica) oltre i casi ed i tempi in esse considerati.* Cass. civ., sez. lav., 25 ottobre 1989, n. 4373 , Inps c. Fall. Ruboldi Idem, Cass. lav., 24 luglio 1990, n. 7494. 15. Abrogazione delle leggi. – Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore (75 Cost.). l Ai sensi dell’art. 15 disp. prel. c.c., l’abrogazione tacita di una legge ricorre quando sussiste incomparabilità fra le nuove disposizioni e quelle precedenti, ovvero quando la nuova legge disciplina la materia già regolata da quella anteriore; in particolare la suddetta incompatibilità si verifica solo quando fra le leggi considerate vi sia una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicché dall’applicazione ed osservanza delle nuova legge deriva necessariamente la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra. * Cass. civ., sez. lav., 18 febbraio 1995, n. 1760 Idem, Cass. I, 21 febbraio 2001, n. 2502; fra le altre, anche: Cass. I, 26 marzo 1973, n. 829; Cass. I, 12 settembre 1973, n. 2979. l A norma dell’art. 15 disp. prel. c.c. non sono ammissibili, qualora non sia espressamente previsto dalla legge, usi che abbiano la forza di togliere efficacia alla norma scritta: non può, perciò, essere invocato, per escludere l’inadempimento, un uso vigente nel commercio dei legni esotici, secondo cui nelle vendite dei legnami in tronchi l’esame della merce verrebbe fatta in base alle caratteristiche esteriori, in quanto contrastante col principio fondamentale che il venditore ha l’obbligo di consegnare la cosa contrattualmente pattuita, alla quale, perciò, la cosa consegnata deve corrispondere non solo nella identità fisica ma anche nell’individualità economica. (Nella specie, era stato pattuito l’acquisto di mogano della specie «sapeli» ed era stato consegnato mogano della specie «kosipo», che differisce dal primo non già per le strutture interne, esteriormente visibili, bensì per la sostanza stessa del legno). * Cass. civ., sez. III, 11 maggio 1976, n. 1650. Art. 15 l Dal fenomeno dell’abrogazione va tenuto distinto quello della riproduzione della norma giuridica, il quale si verifica quando una norma, già enunciata in una fattispecie normativa, venga iscritta in un provvedimento normativo successivo. In tali casi, la norma non viene abrogata in senso proprio, pur risultandone «novata» e cioè sostituita, la fonte. * Cass. pen., sez. I, 5 marzo 1973, n. 299. 16. Trattamento dello straniero. – Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali (29). Questa disposizione vale anche per le persone giuridiche straniere (29; 10 Cost.; 2508 ss. cc.) (1). (1) Si veda la Convenzione sul reciproco riconoscimento delle società e persone giuridiche, con protocollo, firmata a Bruxelles il 29 febbraio 1968, resa esecutiva in Italia con L. 28 gennaio 1971, n. 220. l L’accertamento della legge straniera che assicuri la condizione di reciprocità di cui all’art. 16 delle preleggi è compito riservato al giudice di merito, che è tenuto a procedere non già secondo il principio iura novit curia, bensì secondo i criteri generali in tema di onere della prova, configurandosi la legge straniera, in seno alla controversia instauratasi dinanzi al giudice nazionale, come mero fatto presupposto perché operi la condizione di reciprocità di cui al citato art. 16. Detto accertamento, se motivato in assenza di vizi logici o giuridici, si sottrae, pertanto, al sindacato di legittimità della S.C. * Cass. civ., sez. I, 15 giugno 2000, n. 8171. l Il cittadino extracomunitario che intenda esercitare in Italia la professione forense, ove regolarmente soggiornante in Italia ed in possesso di titoli, legalmente riconosciuti, abilitanti all’esercizio della professione, può, entro un anno dall’entrata in vigore della legge n. 40/1998, chiedere l’iscrizione al relativo albo e, dopo la scadenza del suddetto termine, ove residente in Italia, potrà ottenere la richiesta iscrizione nell’ambito delle quote massime di stranieri da ammettere definite annualmente con decreto del Presidente del Consiglio; ne consegue che il cittadino extracomunitario non residente in Italia non può ottenere l’iscrizione all’albo degli avvocati né in base alla normativa comunitaria (non essendo cittadino comunitario), né in base alla citata legge n. 40/1998 (non avendo i requisiti per l’iscrizione all’albo previsti da detta legge per i cittadini extracomunitari), né, infine, in base ad un principio di reciprocità di fatto (o per equivalenza di trattamento) rispetto al paese di provenienza, giacché il principio di reciprocità costituisce una condizione di efficacia nella norma che attribuisce un diritto allo straniero e non va confuso con il riconoscimento di tale diritto, non potendosi perciò riconoscere al cittadino extracomunitario Artt. 17 - 31 DISPOSIZIONI SULLA LEGGE IN GENERALE il diritto all’iscrizione all’albo in Italia solo perché tale diritto è riconosciuto nel paese di provenienza ai cittadini italiani, occorrendo invece una norma italiana che riconosca tale diritto, e rilevando la reciprocità non come fondamento del diritto, bensì come condizione di efficacia della suddetta norma. * Cass. civ., Sezioni Unite, 18 marzo 1999, n. 147, Cons. Ord. Avv. di Roma c. Musse Hussein Sadik . [RV524230] l Nel giudizio promosso da società straniera a norma della L. 13 aprile 1988, n. 117 per il risarcimento dei danni subiti per asserito comportamento gravemente colposo di magistrati, la sussistenza della condizione di reciprocità di cui all’art. 16 delle preleggi, pur attenendo al merito (e cioè al diritto sostanziale in contesa), può essere legittimamente valutata nel giudizio preliminare di ammissibilità (art. 5, L. n. 117 del 1999), sia pure al fine di accertare se non sussista una situazione di infondatezza ictu oculi della domanda, che ne impedisca l’ulteriore esame. * Cass. civ., sez. I, 11 marzo 1996, n. 1979. l L’esistenza della condizione di reciprocità prevista dall’art. 16 delle preleggi, ponendosi come fatto costitutivo del diritto azionato dallo straniero, deve da lui essere provata in caso di contestazione e, poiché la conoscenza della legge straniera si risolve in una quaestio facti, la prova può essere data con ogni mezzo idoneo, anche con attestazione ufficiale (cosiddetto affidavit) di organo dello Stato estero e senza che sia necessaria l’acquisizione del testo della legge straniera. * Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 1995, n. 12978, Giacomazzi c. Stato di Baviera ed altri Conforme, sulla prima parte della massima: Cass. I, 15 giugno 2000, n. 8171; Cass. III, 7 agosto 2000, n. 10360. l L’art. 16 comma primo delle disposizioni sulla legge in generale, che ammette lo straniero al godimento dei diritti civili attribuiti al cittadino italiano solo a condizione di reciprocità, non è derogato dagli artt. 2, 3, 10, 24 della Costituzione perché: 1) l’art. 2 si riferisce solo ai diritti inviolabili specificamente individuati e riconosciuti dai successivi artt. 13 (diritto di libertà personale), 14 (inviolabilità del domicilio), 15 (libertà e segretezza della corrispondenza), 19 (libertà religiosa), 21 (libertà di manifestazione del pensiero), 27 (personalità della responsabilità penale), 24 (tutela giurisdizionale), i quali sono, quindi, i soli diritti riconosciuti anche allo straniero senza il limite della condizione di reciprocità; 2) l’art. 3 non esclude i trattamenti differenziati che rispondono ad un criterio di ragionevolezza (quale è quello riservato agli stranieri dal citato art. 16 delle disposizioni sulla legge in generale); 3) l’art. 10 impone solo l’adeguamento delle norme sulla condizione giuridica dello straniero alle norme ed ai trattati internazionali, implicitamente legittimando quelle limitazioni che non contrastano con altre norme costituzionali o con i principi e gli atti di diritto internazionale; 4) l’art. 24 si rife- 34 risce solo alla tutela giurisdizionale dei diritti già posseduti e riconosciuti. * Cass. civ., sez. III, 10 febbraio 1993, n. 1681, Assitalia spa c. Mohamed Naorman El Shapia. l Il cittadino italiano può sempre essere convenuto, senza alcuna limitazione, davanti al giudice nazionale, da parte dello straniero, senza che tale qualità dell’attore, implichi la restrizione della giurisdizione italiana alle sole domande che il cittadino italiano potrebbe proporre, in condizione di reciprocità, davanti al giudice dello Stato di appartenenza dello straniero, posto che tale condizione — di cui all’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile — spiega rilievo solo sul fondamento nel merito della pretesa avanzata dallo straniero stesso, non incidendo sulla giurisdizione. * Cass. civ., Sezioni Unite, 3 febbraio 1993, n. 1309, Brundu c. Pavlova Nello stesso senso, Cass. I, 4 maggio 2000, n. 5583. l Nel caso in cui il cittadino straniero agisca in giudizio davanti al giudice italiano, la verifica della sussistenza della condizione di reciprocità di cui all’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile non investe una questione attinente alla giurisdizione, ma implica soltanto una questione di merito, comportando per lo straniero attore non ammesso a godere nel nostro Paese dei diritti civili, per difetto di quella condizione, l’infondatezza della richiesta tutela giurisdizionale. * Cass. civ., Sezioni Unite, 6 agosto 1990, n. 7935, Jonathan Cape c. Ortolani. l Dal coordinamento dell’art. 16 delle preleggi, che ammette lo straniero a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino italiano a condizione di reciprocità, con l’art. 24, primo comma della costituzione — per il quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi — si deduce che allo straniero, non diversamente che al cittadino, è riconosciuto il potere di azione, il quale, in quanto non direttamente contemplato dall’art. 16, citato, non è soggetto alla condizione di reciprocità posto da detta norma. * Cass. civ., sez. II, 7 giugno 1990, n. 5454, Monacelli c. Soc. P.M. Lignan. l L’art. 16, comma secondo, delle disposizioni sulla legge in generale nel dichiarare applicabile anche alle persone giuridiche straniere il comma primo dello stesso articolo, il quale ammette lo straniero a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizioni di reciprocità e salvo le disposizioni contenute in leggi speciali, ha come presupposto per la sua applicabilità il fatto che l’ente, per il quale vengono invocati i diritti civili italiani, sia soggetto di diritto secondo l’ordinamento giuridico dello Stato estero in cui esso ente è sorto. * Cass. civ., Sezioni Unite, 8 novembre 1971, n. 3147. 17 - 31. (Omissis) (1). (1) Articoli abrogati dall’art. 73 della L. 31 maggio 1995, n. 218, a decorrere dal 1° settembre 1995. 35 Titolo I – Persone fisiche Libro I Delle persone e della famiglia Titolo I Delle persone fisiche 1. Capacità giuridica. – La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita (22 Cost.). I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita (320, 462, 687, 715). (Omissis) (1). (1) Seguiva un terzo comma abrogato dall’art. 1 del R.D.L.vo 20 gennaio 1944, n. 25 e dall’art. 3 del D.L.vo Lgt. 14 settembre 1944, n. 287. l Il concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall’ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla salute, all’onore, all’identità personale, a nascere sano, diritti, questi, rispetto ai quali l’avverarsi della “condicio iuris” della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori. Ne consegue che la persona nata con malformazioni congenite, dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi (nella specie teratogeni), alla propria madre, durante la gestazione, è legittimata a domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò. * Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741, Abate c. Porcaro ed altri. [RV608387] l La personalità giuridica degli enti ecclesiastici, ivi ricompresi i capitoli, non è soggetta alle regole di cui agli artt. 1 e 16 del codice civile, né dell’art. 16 delle preleggi, trovando per essi applicazione la disciplina pattizia ed eccezionale e come tale derogatoria di quella generale di cui all’art. 29, secondo comma, lett. a) del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia dell’11 febbraio 1929, ratificato dall’Italia con legge 29 maggio 1929, n. 810 (secondo cui «ferma restando la personalità giuridica degli enti ecclesiastici finora riconosciuti dalle leggi italiane (Santa Sede, diocesi, capitoli, seminari, parrocchie, ecc.), tale personalità sarà riconosciuta anche alle chiese . . .»; né è onere dell’ente ecclesiastico che sia stato convenuto in giudizio avanti al giudice italiano dare prova del proprio status di persona giuridica secondo la legge italiana mediante l’esibizione dell’atto di fondazione o di costituzione, essendo allo scopo sufficiente che da tutti i documenti prodotti in giudizio (nel caso, nota verbale della Segreteria di Stato Vaticana all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede; denunzia dei redditi presentata dal Capitolo: documenti tutti attinenti alla capacità di essere parte in giudizio, ed in quanto tali direttamente esaminabili anche dalla Suprema Corte Art. 1 di Cassazione) tale status risulti incontestato ed incontestabile. * Cass. civ., sez. III, 2 aprile 2002, n. 4627. [RV553406] l Poiché la capacità giuridica si acquista al momento della nascita e si estingue con la morte della persona fisica (art. 1 c.c.), deve ritenersi affetta da giuridica inesistenza, denunciabile in ogni tempo e sede, la sentenza pronunciata nei confronti di colui che, pur dichiarato contumace, risulti deceduto al momento della proposizione della domanda introduttiva, senza che possa attribuirsi alcun rilievo in contrario al fatto che la dichiarazione di contumacia sia avvenuta a seguito di una notificazione della citazione effettuata nella formale osservanza delle norme in materia di notificazione, giacché tale osservanza non vale ad escludere che, in ragione dell’inesistenza del notificando al momento della notificazione, quest’ultima debba a sua volta considerarsi inesistente, e restando inoltre irrilevante che erroneamente il giudice di primo grado abbia autorizzato la notificazione di una nuova citazione nei confronti degli eredi del deceduto al fine di integrare il contraddittorio, giacché, non essendosi mai instaurato il contraddittorio nei confronti del medesimo il contraddittorio non era integrabile. * Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2001, n. 11688. Nello stesso senso, Cass. II, 19 febbraio 1993, n. 2023. l Le disposizioni di legge che, in deroga al principio generale dettato dal primo comma dell’art. 1 c.c., prevedono la tutela dei diritti del nascituro sono da considerare disposizioni di carattere eccezionale e come tali di stretta interpretazione. * Cass. civ., sez. III, 28 dicembre 1973, n. 3467. 2. (1) Maggiore età. Capacità di agire. – La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa. Sono salve le leggi speciali che stabiliscono un’età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro. (1) Articolo così sostituito dall’art. 1, L. 8 marzo 1975, n. 39, in vigore dal 10 marzo 1975, attribuzione della maggiore età. l È nulla, per violazione dell’art. 37 Cost., la clausola di un contratto collettivo che trascurando l’anzianità nel rapporto di lavoro anteriore al compimento, da parte del lavoratore, del ventunesimo anno di età, fissa tale evento come momento iniziale della decorrenza del diritto al conseguimento di emolumenti accessori di natura continuativa, anche nel vigore della L. n. 39 del 1975, che ha fissato la maggiore età al compimento del diciottesimo anno. * Cass. civ., sez. lav., 22 aprile 1993, n. 4745, Compar spa c. Liuzzo. Art. 3 Libro I – Persone e famiglia l I «minori» in favore dei quali l’art. 37, terzo comma, della Costituzione sancisce il diritto alla parità di trattamento retributivo a parità di lavoro rispetto agli altri lavoratori, con la conseguenza della nullità del patto della contrattazione collettiva di categoria che neghi rilevanza al servizio dai medesimi prestato per gli scatti di anzianità, sono coloro che non hanno raggiunto l’età fissata per l’acquisto della piena capacità di agire: quindi — nel vigore dell’art. 2 c.c. prima della modifica introdotta dalla L. n. 39 del 1975 — «minori» erano coloro che non avevano raggiunto gli anni ventuno, e non invece solo coloro che non avevano raggiunto gli anni diciotto, previsti per l’acquisto della capacità d’agire in materia di lavoro dall’originario art. 3 c.c., norma soltanto derogatoria alla regola stabilita dall’art. 2 cit. e non attributiva di una capacità d’agire di carattere generale. * Cass. civ., sez. lav., 9 agosto 1991, n. 8704, Italtel Sistemi S.p.A. c. Mazzone. l La legge, allorché parla di minori, non può che far riferimento a coloro che non abbiano raggiunto la maggiore età e non abbiano quindi acquistato la capacità generale di agire. Le norme che prevedono ipotesi di capacità speciali, sono, quali norme eccezionali, di stretta interpretazione ed hanno una sfera di applicazione limitata alla particolare disciplina da esse regolata. * Cass. civ., sez. III, 4 dicembre 1971, n. 3490. 3. [Capacità in materia di lavoro. – (Omissis)] (1). (1) Articolo abrogato dall’art. 2, L. 8 marzo 1975, n. 39, attribuzione della maggiore età. u Si veda sub art. 2 c.c. 4. Commorienza. – Quando un effetto giuridico dipende dalla sopravvivenza di una persona a un’altra (462, 791) e non consta quale di esse sia morta prima, tutte si considerano morte nello stesso momento (61, 69, 2697, 2728). 5. Atti di disposizione del proprio corpo. – Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuizione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume (1343, 1354, 1418; 32 Cost.). l Il paziente che, per motivi religiosi (o di diversa natura), intendesse far constare il proprio dissenso alla sottoposizione a determinate cure mediche, per l’ipotesi in cui dovesse trovarsi in stato di incapacità naturale, ha l’onere di conferire ad un terzo una procura “ad hoc” nelle forme di legge, ovvero manifestare la propria volontà attraverso una dichiarazione scritta che sia puntuale ed inequivoca, nella quale affermi espressamente di volere rifiutare le cure quand’anche 36 venisse a trovarsi in pericolo di vita. * Cass. civ., sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676, Grassato c. Gestione Liq. Soppressa Usl/11. [RV604908] l Il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte; tuttavia, il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal poteredovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque, una generica manifestazione di dissenso formulata “ex ante” ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure. (Nella specie la S.C., sulla scorta dell’enunciato principio, ha ritenuto che non ricorressero le condizioni per un valido dissenso in un caso in cui era risultato da un cartellino, rinvenuto addosso al paziente, testimone di Geova, al momento del ricovero, in condizioni di incoscienza, che recava l’indicazione “niente sangue”, appunto perché la manifestazione di volontà non risultava essere stata raccolta, in modo inequivoco, dopo aver avuto conoscenza della gravità delle condizioni di salute al momento del ricovero e delle conseguenze prospettabili in caso di omesso trattamento). * Cass. civ., sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676, Grassato c. Gestione Liq. Soppressa Usl/11. [RV604907] l In tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio — nel quadro dell’«alleanza terapeutica» che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno — per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. * Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, Englaro c. Curatore Speciale Alessio Franca ed altri. [RV598963] l Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento 37 Titolo I – Persone fisiche del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma — atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) — altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. * Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, Englaro c. Curatore Speciale Alessio Franca ed altri. [RV598962] 6. Diritto al nome. – Ogni persona ha diritto al nome (22 Cost.) che le è per legge (1) attribuito. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome (6022). Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati (149). (1) Per il cognome della moglie, si vedano artt. 143 bis e 156 bis; del figlio naturale, art. 262; dell’adottato, art. 299; dell’adottato minorenne, artt. 27 e 35 della L. 4 maggio 1983, n. 184, disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori. Per i criteri di imposizione del nome, si vedano gli artt. 34 ss. del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ordinamento dello stato civile e gli artt. 33 ss. del medesimo provvedimento, in vigore dal 1° marzo 2001. l La XIV disposizione transitoria della Costituzione, la quale, nell’escludere la riconoscibilità dei titoli nobiliari, eccezionalmente attribuisce il diritto alla cognomizzazione dei predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922, va interpretata, alla stregua della sent. n. 101 del 1967 della Corte costituzionale, nel senso che presupposto di tale diritto è l’avvenuto riconoscimento del titolo anteriormente all’entrata in vigore della Costituzione e che la relativa tutela giudiziale può essere fatta valere esclusivamente in base alla disciplina privatistica del diritto al nome. Ne consegue che Art. 6 il diritto alla cognomizzazione spetta ex lege soltanto al soggetto per il quale il riconoscimento è avvenuto ed ai suoi discendenti, mentre non può farsi valere da soggetti non compresi in tale categoria ed in particolare dagli ascendenti, in quanto, ai sensi dell’ordinamento dello stato civile approvato con R.D. n. 1238 del 1939, il patronimico si trasferisce dal padre al figlio e non viceversa. * Cass. civ., sez. I, 7 marzo 1991, n. 2426, Lopez Y Royo Di Taurisano c. Lopez Y Royo Di Taurisano e Presid. Cons. Ministri. l Il diritto della persona al nome si acquista la momento della nascita ed in base al rapporto di filiazione, e, quindi, va riscontrato essenzialmente alla stregua degli atti di nascita o di battesimo, mentre l’utilizzazione protratta nel tempo del nome medesimo non può di per sé avere valore acquisitivo del relativo diritto, stante la non estensibilità in proposito degli istituti dell’usucapione e dell’immemorabile, operanti nel campo dei diritti reali. * Cass. civ., sez. I, 27 luglio 1978, n. 3779. 7. Tutela del diritto al nome. – La persona, alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente (8, 9, 2563 ss.; 9 c.p.c.) la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni. L’autorità giudiziaria può ordinare che la sentenza sia pubblicata in uno o più giornali (120 c.p.c.). l La tutela civilistica del nome e dell’immagine, ai sensi degli artt. 6, 7 e 10 c.c., è invocabile non solo dalle persone fisiche ma anche da quelle giuridiche e dai soggetti diversi dalle persone fisiche e, nel caso di indebita utilizzazione della denominazione e dell’immagine di un bene, la suddetta tutela spetta sia all’utilizzatore del bene in forza di un contratto di “leasing”, sia al titolare del diritto di sfruttamento economico dello stesso. (Principio affermato dalla S.C. in una fattispecie in cui una società, senza ottenere il consenso dell’avente diritto e senza pagare il corrispettivo dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario l’immagine e la denominazione di un’imbarcazione altrui, usata a fini agonistici o come elemento di richiamo nell’ambito di campagne pubblicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio marchio). * Cass. civ., sez. I, 11 agosto 2009, n. 18218, Rimini Sail Di Giorgio Benvenuti ed altro c. Cartiere Fredigoni Spa ed altro. [RV609423] l In tema di tutela del diritto al nome, l’accoglimento della domanda di cessazione del fatto lesivo, contemplata dall’art. 7 c.c., è subordinata alla duplice condizione che l’utilizzazione del nome altrui sia indebita e che da tale comportamento possa derivare un pregiudizio alla persona alla quale il nome è stato per legge attribuito. Sotto quest’ultimo profilo, quantunque a giustificare Art. 7 Libro I – Persone e famiglia l’accoglimento della misura sia sufficiente la possibilità di un pregiudizio, non essendo necessario che esso si sia già verificato, tuttavia la ricorrenza di detta possibilità deve essere accertata in concreto. * Cass. civ., sez. I, 16 luglio 2003, n. 11129. [RV565133] . l L’inserimento del nome di un terzo in una denominazione sociale può essere riconosciuto legittimo solo con il consenso dell’interessato e, in ogni caso, con salvezza di quanto stabilito dall’art. 7 c.c. * Cass. civ., sez. I, 16 luglio 2003, n. 11129, Nuova Cerpelli Soc. coop. a r.l. in liquid. ed altra c. Cerpelli ed altre. [RV565132] l In tema di marchi, per verificare se l’uso di un nome geografico possa ritenersi o meno indebito deve farsi riferimento non alla tutela riservata dalla legge ai diritti della personalità (art. 7 c.c.), bensì alla disciplina specifica che la legge riserva a tali «segni distintivi» nell’ambito del diritto commerciale, ossia quella dell’art. 21 della legge n. 929 del 1942 (la S.C. ha così confermato la sentenza che, nella controversia instaurata dal Comune di Capri contro una casa produttrice di sigarette, aveva escluso che l’utilizzo del marchio «Capri» potesse ledere la fama, il credito o il decoro della municipalità dell’isola). * Cass. civ., sez. I, 20 dicembre 2000, n. 16022, Comune di Capri c. Brown & Williamson Tobacco Corporation. [RV542809] l Al fine di verificare se l’uso di un nome altrui, in occasione dell’adozione di un marchio, possa ritenersi — o meno — indebito, deve farsi riferimento esclusivamente alla disciplina specifica dettata dalla legge sui marchi (art. 21, R.D. 21 giugno 1942, n. 929, il quale, nel testo antecedente alle modifiche di cui al D.L.vo n. 480 del 1992, contempla il solo limite che l’uso non comporti la lesione della fama, del credito e del decoro delle persone fisiche), e non a quella desumibile dalla disciplina codicistica del diritto al nome (art. 7 c.c.). * Cass. civ., sez. I, 13 marzo 1998, n. 2735, Capranica Del Grillo ed altri c. Grilli. [RV513619] l I predicati di titoli nobiliari (purché «esistenti» prima del 28 ottobre 1922 e riconosciuti prima dell’entrata in vigore della Costituzione, ed, in quanto costituenti veri e propri elementi di individuazione e di identità della persona, a queste condizioni «cognomizzati») fanno parte del nome, e, soltanto come «parte» (il cognome appunto) di esso «valgono» (sono cioè validi ed efficaci) nell’ordinamento. Tale «incorporazione» del predicato di titolo nobiliare «cognomizzato» nel nome, essendo stata costituzionalmente sancita (anche, ma soprattutto) in ossequio al principio di eguaglianza, comporta d’altro canto, che il predicato medesimo, nell’ordinamento giuridico italiano, non può «valere di più», in quanto tale, di quel che «valgono» le «ordinarie» parti del nome e, più specificamente, del cognome «ordinario» (art. 6, comma secondo c.c.); e ciò in quanto, altrimenti opinando, resterebbe frustrata la equili- 38 brata ratio emergente dal combinato disposto del comma primo e secondo dell’art. 14 Cost.: da un lato, l’abolizione giuridica — mediante il «non riconoscimento» dei titoli nobiliari — di privilegi derivanti dalla nascita o dall’appartenenza ad una determinata classe sociale; dall’altro, la riaffermazione del valore del «nome» come fondamentale diritto inerente alla identità della persona in quanto tale, con la conseguente assimilazione, quanto a «valore» giuridico, del predicato di titolo nobiliare «cognomizzato» al nome, e, quindi, di entrambi sul piano della tutela giurisdizionale. Da ciò consegue l’infondatezza e l’insostenibilità della tesi secondo la quale, allorquando oggetto di tutela ex art. 7 c.c. sia un nome comprensivo di predicato di titolo nobiliare «cognomizzato», siffatta circostanza inciderebbe sulla valutazione della sussistenza dei presupposti per la concessione della tutela inibitoria, nel senso che essi — e cioè uso indebito e pregiudizio — sarebbero, per così dire, automaticamente presenti nell’usurpazione del «predicato», a causa della particolare forza individualizzante dello stesso rispetto agli «ordinari» cognomi. * Cass. civ., sez. I, 7 novembre 1997, n. 10936, D’Altavilla seu Hauteville Sicilia c. Calabria. [RV509598] l Al fine di verificare se l’uso di un nome altrui, in occasione dell’adozione di una ditta commerciale o di un marchio, possa ritenersi o meno, indebito, deve farsi riferimento alla disciplina specifica che la legge riserva a tali “segni distintivi” nell’ambito del diritto commerciale, non già alla tutela riservata della legge ai diritti della personalità (art. 7 c.c.), con la conseguenza che un provvedimento giudiziario che inibisca ad altri l’uso del proprio nome può essere chiesto solo quando questa utilizzazione si traduca in un uso arbitrario di segni distintivi dell’attività imprenditoriale. * Cass. civ., sez. I, 6 aprile 1995, n. 4036. Conforme la massima che segue. [RV491678] l L’utilizzazione della denominazione sociale altrui, disciplinata dagli artt. 2564 e ss. c.c., si sottrae all’applicazione dell’art. 7 dello stesso codice, attesa la prevalenza su tale ultima disposizione, di carattere generale, della normativa specifica suddetta. * Cass. civ., sez. I, 7 dicembre 1994, n. 10521, Srl Ditron c. Spa Ditron Elettronica. l In caso di violazione da parte della moglie divorziata del divieto di uso del cognome del marito (art. 5, comma secondo, legge 1 dicembre 1970, n. 898, nel testo sostituito dall’art. 9 L. 6 marzo 1987, n. 74) quest’ultimo può, ai sensi dell’art. 7 c.c., chiedere la cessazione del fatto lesivo ed altresì agire per il risarcimento del danno. Tuttavia, mentre per l’inibitoria è sufficiente che l’attore dimostri, oltre all’uso illegittimo del proprio nome, la possibilità che da ciò gli derivi pregiudizio — il quale può essere, quindi, meramente potenziale ovvero di ordine soltanto morale — ai fini dell’azione risarcitoria, devono sussistere i requisiti soggettivi ed oggettivi dell’illecito aquiliano, ex 39 Titolo I – Persone fisiche artt. 2043 ss. c.c., sicché non solo è necessaria l’esistenza di un pregiudizio effettivo, ma questo, se non ha carattere patrimoniale, è risarcibile, ai sensi dell’art. 2059 c.c., soltanto ove nella condotta dell’indebito utilizzatore sia configurabile un illecito penalmente sanzionato. * Cass. civ., sez. I, 5 ottobre 1994, n. 3081 . l La tutela del diritto al nome, nel caso che altri contesti alla persona il diritto all’uso del proprio nome o ne faccia indebitamente uso con possibilità di arrecargli pregiudizio, ai sensi dell’art. 7 c.c., è duplice e si risolve nella facoltà di chiedere la cessazione del fatto lesivo ed il risarcimento del danno. Ai fini della tutela risarcitoria — non sostituibile col rimedio della pubblicazione della sentenza, che attiene, invece, alla restitutio in integrum, sotto il profilo del completamento delle disposizioni concernenti la detta cessazione — non è, tuttavia, sufficiente l’illegittimità della condotta dell’agente, essendo necessario, perché sussista il danno risarcibile, che ricorra il fatto illecito, ai sensi dell’art. 2043 c.c., e quindi il dolo o la colpa dell’autore della violazione. * Cass. civ., sez. I, 7 marzo 1991, n. 2426, Lopez Y Royo Di Taurisano c. Lopez Y Royo Di Taurisano e Presid. Cons. Ministri. Art. 8 all’uso indifferenziato del nome medesimo e non soltanto nei confronti delle controparti in causa, ma non incide in pregiudizio di terzi rimasti estranei al processo, e che vantino diritto sullo stesso nome, ai quali deve ritenersi consentito di proporre opposizione avverso la sentenza stessa, a norma dell’art. 404 c.p.c. * Cass. civ., sez. I, 27 luglio 1978, n. 3779. 9. Tutela dello pseudonimo. – Lo pseudonimo, usa- to da una persona in modo che abbia acquistato l’importanza del nome (602), può essere tutelato ai sensi dell’art. 7 (1). (1) Si vedano gli artt. 8, 21, 27, 28, L. 22 aprile 1941, n. 633, diritto d’autore; e gli artt. 1, 2, 13, D.P.R. 18 maggio 1942, n. 1369, regolamento. 10. Abuso dell’immagine altrui. – Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni (1). 8. Tutela del nome per ragioni familiari. – Nel caso (1) Si vedano gli artt. 96 ss., L. 22 aprile 1941, n. 633, diritto d’autore. l Nel giudizio instaurato nella tutela del diritto al nome, ai sensi dell’art. 7 c.c., la morte dell’attore non consente agli eredi di costituirsi in prosecuzione dell’originario rapporto processuale, stante il carattere strettamente personale e la conseguente non trasmissibilità di detto diritto. Peraltro, poiché la legittimazione a chiedere quella tutela spetta autonomamente anche agli eredi, a norma dell’art. 8 c.c., l’indicata costituzione può assumere valore ed efficacia di intervento adesivo autonomo o litisconsortile, se, pur in difetto della comparsa prescritta dall’art. 267 c.p.c., sia idonea ad introdurre, nel rispetto del principio del contraddittorio, una domanda di tutela del nome secondo la previsione del menzionato art. 8 c.c. Il giudicato formatosi nei confronti del de cuius spiega efficacia vincolante nei confronti degli eredi limitatamente alle posizioni giuridiche suscettibili di essere trasferite iure successionis, e non anche, pertanto, con riguardo a diritti personalissimi ed intrasmissibili, quale il diritto al nome. La sentenza definitiva, che accerti il diritto di una persona al nome (nella specie, con il riconoscimento dell’aggiunta di un secondo cognome derivante dal predicato nobiliare), spiega efficacia erga omnes nel senso che legittima quel soggetto l L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al risarcimento anche dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico di cui la persona danneggiata abbia risentito per effetto della predetta pubblicazione e di cui abbia fornito la prova. In ogni caso, qualora - come accade soprattutto se il soggetto leso non è persona nota - non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimoniale, la parte lesa può far valere (conformemente ad un principio recepito dall’art. 128 della legge 22 aprile 1941, n. 633, novellato dal d.l.vo 16 marzo 2006, n. 140, non applicabile alla specie “ratione temporis”) il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, determinandosi tale importo in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico presumibilmente conseguito dell’autore dell’illecita pubblicazione in relazione alla diffusione del mezzo sul quale la pubblicazione è avvenuta, alle finalità perseguite e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione. * Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11353, Fondazione Teatro Opera Roma c. Giammaresi. [RV613003] l L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga l’autore al risarcimento dei danni non patrimoniali sia ai sensi dell’art. 10 c.c., sia in virtù dell’art. 29 della legge n. 675 del 1996, ove la fattispecie configuri anche violazione del diritto alla riservatezza, nonché per effetto della protezione previsto dall’articolo precedente, l’azione può essere promossa anche da chi, pur non portando il nome contestato o indebitamente usato, abbia alla tutela del nome un interesse (100 c.p.c.) fondato su ragioni familiari degne d’essere protette. Art. 10 Libro I – Persone e famiglia costituzionale dei diritti inviolabili della persona, come previsto dall’art. 2 della Costituzione, che, di per sé, integra una ipotesi legale (al suo massimo livello di espressione) di risarcibilità dei danni ai sensi dell’art. 2059 c.c. * Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2008, n. 12433, Zanotti c. Cesco Ciapanna Ed Srl. [RV603319] l L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al risarcimento anche dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico di cui la persona danneggiata abbia risentito per effetto della predetta pubblicazione e di cui abbia fornito la prova. In ogni caso, qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimoniale, la parte lesa può far valere il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, determinandosi tale importo in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico conseguito dell’autore dell’illecita pubblicazione e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione, tenendo conto, in particolare, dei criteri enunciati dall’art. 128, comma secondo, della legge n. 633 del 1941 sulla protezione del diritto di autore. * Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2008, n. 12433, Zanotti c. Cesco Ciapanna Ed Srl. [RV603320]. Conforme, Cass. III, 11 maggio 2010, n. 11353. l In virtù della disposizione di cui all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989 (e ratificata dallo Stato italiano con la legge 27 maggio 1991, n. 176), alla stregua della quale è sancito che nessun fanciullo può essere oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione, con il riconoscimento del suo diritto alla protezione della legge contro tali interferenze od affronti, nonché della correlata previsione — contenuta nell’art. 3 della stessa Convenzione — secondo la quale in tutte le decisioni relative ai fanciulli emanate (anche) dall’autorità giudiziaria «l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente» risulta conseguente ritenere che il diritto alla riservatezza del minore deve essere, nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali (diritto di cronaca e diritto alla privacy) considerato assolutamente preminente, laddove si riscontri che non ricorra l’utilità sociale della notizia e, quindi, con l’unico limite del pubblico interesse. (Nella specie, la S.C., richiamata tale specifica normativa, il cui riferimento era stato completamente omesso nell’impugnata sentenza, ha cassato con rinvio la sentenza stessa, con la quale era stata rigettata la domanda di risarcimento danni proposta dalla madre di un fanciullo in conseguenza della riproduzione su una rivista settimanale del figlio minore — ritratto senza particolari cautele 40 per renderlo non riconoscibile — vicino ad una famosa attrice in topless nel mentre trovavasi su una spiaggia in un atteggiamento di lotta scherzosa con il padre del bambino, all’epoca ancora non separato legalmente dalla madre, sul presupposto che, dal contesto del servizio, relativo a fatti svoltisi in pubblico, non potesse derivare alcun pregiudizio alla riservatezza, nonché al decoro e alla reputazione per il minore — indicato, nel relativo articolo, come un parente dell’uomo — e per la di lui madre). * Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2006, n. 19069, Appetito c. Hachette Rusconi Spa. [RV592045] l Il consenso all’utilizzazione commerciale della propria immagine a norma dell’art. 96 della legge 22 aprile 1941, n. 633, può anche essere tacito. * Cass. civ., sez. I, 16 maggio 2006, n. 11491, Falcone c. Henkel Spa. [RV590955] l Chiunque pubblichi abusivamente il ritratto di una persona notoria, per finalità commerciali, è tenuto al risarcimento del danno, la cui liquidazione deve essere effettuata tenendo conto anzitutto delle ragioni della notorietà, specialmente se questa è connessa all’attività artistica del soggetto leso, alla quale si collega normalmente lo sfruttamento esclusivo dell’immagine stessa; pertanto l’abusiva pubblicazione, quando comporta la perdita, da parte del titolare del diritto, della facoltà di offrire al mercato l’uso del proprio ritratto, dà luogo al corrispondente pregiudizio. Tale pregiudizio non è, poi, escluso dall’eventuale rifiuto del soggetto leso di consentire a chicchessia la pubblicazione degli specifici ritratti abusivamente utilizzati (nella fattispecie si trattava di foto di scena di un’opera cinematografica), atteso che, per un verso, detto rifiuto non può essere equiparato ad una sorta di abbandono del diritto, con conseguente caduta in pubblico dominio, in quanto nella gestione del diritto alla propria immagine ben si colloca la facoltà, protratta per il tempo ritenuto necessario, di non pubblicare determinati ritratti, senza che ciò comporti alcun effetto ablativo, e, per altro verso, la stessa gestione può comportare la scelta di non sfruttare un determinato ritratto, perchè lo sfruttamento può risultare lesivo, in prospettiva, del bene protetto; con la conseguenza che lo sfruttamento abusivo del ritratto, in quanto frustrante della predetta strategia generale che solo al titolare del diritto spetta di adottare, può risultare fonte di pregiudizio — ben più grave di quello corrispondente al valore commerciale della specifica attività abusiva il cui risarcimento ben può essere effettuato in termini di perdita della reputazione professionale, ove questa sia stata allegata in giudizio, da valutarsi caso per caso dal giudice di merito nei limiti della ricchezza non conseguita dal danneggiato, ovvero anche con il ricorso al criterio di cui all’art. 1226 c.c. * Cass. civ., sez. I, 1 dicembre 2004, n. 22513, Sandrelli c. Tattilo ed. spa. [RV578339]