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2-8 GiUGno 2014
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2-8 GiUGno 2014
spaGna - 2 GiUGno 2014
Parte l’operazione rinnovamento dei reali di Spagna
Il parlamento spagnolo accelera i tempi per il passaggio della corona da
Juan Carlos al figlio Felipe. Al nuovo re il compito di rinfrescare l’immagine
della famiglia reale, offuscata dagli scandali finanziari dell’ultimo anno
La Spagna guarda con attenzione alle prime mosse della famiglia reale dopo l’abdicazione
annunciata il 2 giugno dal re Juan Carlos in favore del principe ereditario, il figlio Felipe.
Per formalizzare il passaggio di consegne è stata necessaria l’approvazione di un decreto
legge ad hoc poiché l’abdicazione non era prevista dalla Costituzione spagnola. Il decreto
legge è stato approvato ieri dal consiglio dei ministri. Si tratta di un unico articolo che adesso
passa con procedura d’urgenza alla Camera e al Senato per le votazioni che si terranno rispettivamente l’11 e il 17 giugno. L’iter per la successione al trono di Spagna inizierà il 16
giugno e dovrebbe concludersi il 18 giugno, come ha spiegato ieri il portavoce del parlamento Jesus Posada, giorno in cui potrebbe avvenire l’incoronazione di Filippo VI come
nuove re di Spagna.
Dunque a quarantott’ore dall’annuncio di Juan Carlos il parlamento spagnolo ha di fatto
direzionato la questione legale della successione al trono verso una conclusione veloce e sicura che esclude in sostanza colpi di scena da qui ai prossimi giorni. A testimonianza di ciò
il fatto che il testo presentato adesso alle camere del parlamento sia accompagnato da una
dichiarazione di sostegno alla monarchia e al re, definiti fondamentali per garantire al Paese
una transizione democratica dopo la dittatura franchista, instaurato nel 1939 e terminata il
20 novembre del 1975, il giorno della morte del generale Francisco Franco.
Come era prevedibile, le manifestazioni organizzate dai partiti della sinistra radicale a Madrid
e Barcellona subito dopo l’annuncio del re Juan Carlos per chiedere un referendum sul mantenimento della monarchia non hanno prodotto alcun risultato concreto. La partita si giocherà esclusivamente all’interno del parlamento, dove secondo il quotidiano El Pais il blocco
formato dai due principali partiti, il Partito Popolare del premier Mariano Rajoy e il Partito
Socialista che insieme rappresentano il 91% dei deputati, sosterrà compatto la monarchia.
Sarà lo stesso parlamento ad accelerare la risoluzione delle questioni ancora in sospeso.
Non è infatti chiaro se dopo l’abdicazione Juan Carlos godrà ancora dell’immunità giuridica,
né dove presterà giuramento Felipe (probabilmente in una sessione congiunta di Camera
e Senato). Ciò che è certo è che l’operazione per il rinnovamento della famiglia reale spagnola è partita e non dovrebbe andare incontro a particolari ostacoli. A inaugurare il nuovo
corso è stata oggi la prima uscita pubblica di Juan Carlos e Felipe VI, che insieme hanno
presenziato a una cerimonia al municipio dell’Escorial di Madrid.
Dopo 38 anni al trono, la popolarità di Juan Carlos era diminuita drasticamente a seguito
dello scandalo finanziario che nel febbraio del 2013 aveva travolto l’infanta Cristina e il marito Inaki Urdangarin. Un primo durissimo colpo la credibilità del re l’aveva subito quando
si scoprì che nell’aprile del 2012, nel pieno della crisi economica spagnola, aveva effettuato
una sontuosa battuta di caccia in Botswana.
Al suo erede Felipe e a sua moglie spetta adesso il compito non semplice di dare una rinfrescata all’immagine della famiglia reale. Secondo i media spagnoli godono del favore del
popolo più di ogni altro membro dei reali. Il rischio di perdere la fiducia della gente resta
però dietro l’angolo, specie in un Paese come la Spagna che solo in questi ultimi mesi sta
riuscendo a stento a sollevarsi dalla recessione del 2008.
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palestina - 3 GiUGno 2014
Nasce il nuovo governo di unità nazionale
A Ramallah si è insediato l’esecutivo formato dopo la riconciliazione tra Hamas
e Fatah. Da Tel Aviv nessuna distensione. E intanto la lobby israeliana all’interno
del Congresso americano tenta di bloccare le trattative tra USA e Palestina
Il governo di unità nazionale palestinese si è ufficialmente insediato ieri a Ramallah, che diventa così di fatto la capitale di questo nuovo corso politico. L’annuncio della squadra era atteso da giorni, ma il disaccordo su alcuni nomi di ministri ha richiesto più tempo del previsto
per raggiungere un’intesa. Secondo le voci che si rincorrevano nell’ultima settimana, uno degli ostacoli al completamento della lista dei ministri era Riad Al Maliki, che il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas insisteva per mantenere agli Esteri.
E così è stato. Insieme a lui, come garanzia di continuità, è stato mantenuto al suo posto anche
il premier dell’ANP Hami Ramdallah, incaricato di guidare il nuovo esecutivo composto da
17 ministri tra cui 3 donne all’Istruzione, agli Affari Femminili e al Turismo.
La riconciliazione tra Fatah e Hamas, che governa Gaza, continua a essere vista da molti
osservatori come un impedimento ai negoziati israelo-palestinesi. Ma di fatto questi si erano
interrotti già da tempo, da fine marzo per la precisione, quando Israele a un mese esatto
dalla scadenza dei negoziati del 29 aprile decise di non rilasciare dalle sue carceri l’ultimo
gruppo di prigionieri palestinesi come da accordi già conclusi, mettendo politicamente in
difficoltà Mahmoud Abbas e allontanando ulteriormente le prospettive di un qualunque
passo in avanti.
Ufficialmente quello nuovo è un governo “tecnico” formato – con le eccezioni di Hami
Ramdallah e Riad Al Maliki – da esponenti non legati alle due fazioni politiche. Nasce comunque già in equilibrio precario per le motivazioni stesse che hanno portato alla sua formazione: la necessità di uscire dallo stallo perenne di un negoziato senza risultati per Fatah,
e quella di uscire dall’isolamento politico ed economico per Hamas, che non può più contare sull’appoggio dei Fratelli Musulmani in Egitto e su quello della Siria.
Difficile perciò prevedere se e quanto questa riconciliazione, nata dall’indebolimento di
entrambe le anime palestinesi, durerà. Nel breve termine, il connubio ha ottenuto il riconoscimento dell’Occidente. Stati Uniti e Unione Europea si sono dichiarati pronti a dialogare con la nuova entità istituzionale, a dispetto degli avvertimenti di Israele che ha invece
chiuso tutte le porte a qualunque ipotesi di negoziazione con Hamas. “Abbas ha detto sì al
terrorismo e no alla pace”, sono state le parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu
che non lasciano dubbi sulla posizione israeliana. Mahmoud Abbas ha dichiarato a più riprese che il nuovo governo rispetterà gli accordi internazionali, incluso l’abbandono della
lotta armata e il riconoscimento di Israele. Da Hamas invece non è arrivato nessun impegno
in tal senso, mentre è confermato l’appoggio a un esecutivo che traghetti i territori palestinesi fino alle elezioni entro sei mesi.
Uno scenario aperto, quindi, con ogni ipotesi ancora possibile. Ma molto dipenderà dall’incisività della mediazione degli USA che adesso dovranno confrontarsi anche con la potente lobby israeliana che si sta già muovendo all’interno del Congresso americano per
tentare di bloccare aiuti economici ai palestinesi e la riapertura del processo di pace con il
nuovo governo palestinese.
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siria - 4 GiUGno 2014
Chiusi i seggi in Siria:
è davvero un voto senza significato?
Per le elezioni presidenziali seggi aperti solo nel 40% del Paese. Scontata
l’affermazione di Bashar Assad, ma l’esito del voto dei siriani rifugiati
in Giordania e Libano apre a nuove riflessioni
Si sono chiusi ieri a mezzanotte i seggi per le elezioni presidenziali in Siria. I risultati ufficiali sono attesi per la giornata di domani, giovedì 5 giugno. L’esito del voto appare comunque scontato: nessuno infatti dubita della riconferma di Bashar Assad alla guida di un Paese
lacerato da tre anni di guerra civile. Gli altri due contendenti, l’imprenditore Maher al-Hajjar e l’ex ministro Hassan al-Nuri, hanno svolto più che altro il ruolo di comparse, in quelle
che opposizione, Occidente e Nazioni Unite hanno definito delle “elezioni farsa”.
In un’atmosfera surreale, a Damasco la popolazione si è recata a votare tra bombardamenti
e fuoco incrociato tra i ribelli e forze regolari. Nelle ultime settimane le strade sono state
tappezzate con grandi manifesti di Assad, e solo all’interno dei seggi la sua immagine è stata
affiancata da quella degli altri due candidati. Tutti i cittadini intervistati hanno dichiarato
di aver scelto per Assad e qualcuno addirittura ha mostrato il dito insanguinato con cui ha
votato. È difficile però stabilire con precisione quanti si sono recati alle urne per paura e
quanti invece per convinzione. A Homs si è votato con un imponente dispiegamento di forze. Ufficialmente gli aventi diritto al voto sono 15 milioni, ma nel 60% del Paese, ossia in
tutta la parte non controllata dal governo comprese vaste aree di Aleppo, la popolazione
non si è potuta recare alle urne. I siriani all’estero hanno invece potuto votare recandosi
presso le rappresentanze diplomatiche del Paese, ma anche in questo caso chi ha deciso di
partecipare lo ha fatto quasi esclusivamente per esprimere il proprio sostegno al regime.
A controllare il corretto svolgimento delle operazioni di voto erano presenti osservatori
provenienti da Russia, Cina e Corea del Nord, vale a dire tutti Paesi alleati di Damasco. “Il
voto non rispecchia gli standard internazionali per elezioni libere, imparziali e trasparenti
e sono sicuro che nessuno degli alleati riconoscerà i risultati”, ha dichiarato in proposito il
segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen. Per Marie Harf, portavoce del Dipartimento di Stato USA, le elezioni sono “una disgrazia”. L’ONU è invece preoccupata che
la conferma di Assad prolunghi ulteriormente i tempi del conflitto.
Secondo fonti ufficiali, l’affluenza alle urne è stata elevata e la tv di Stato ha mandato in
onda immagini di lunghe code ai seggi. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani,
tuttavia, molti avrebbero votato poiché avrebbero ricevuto intimidazioni da parte delle forze
di sicurezza del regime o nel timore di subire ritorsioni o arresti.
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Un voto senza significato, dunque? Per qualcuno non è così. Dalle colonne di Al Jazeera,
Vartan Oskanian, ex ministro degli Esteri armeno di origini siriane, offre una prospettiva
diversa e ben argomentata sul fatto che le elezioni siriane in questo momento hanno un valore ben preciso. Non tanto il voto sul territorio nazionale, quanto quello dei siriani in Libano e Giordania. Cioè la massa dei rifugiati, quelli che sono fuggiti da un conflitto che
doveva far cadere un regime dispotico ma che invece ha solo spaccato – non in due ma in
mille pezzi – il Paese. E il voto è stato favorevole ad Assad. Per Oskanian questo vuol dire
che se ai siriani venisse data l’opportunità di scegliere tra un immediato ritorno alla sicurezza, alla stabilità e alla pace pur sotto il regime di Assad e un prolungato conflitto che è
già costato 162mila vite umane, allora anche il più disincantato dei sunniti probabilmente
sceglierebbe Assad.
Segue l’elenco degli errori di questi anni: dalle previsioni occidentali di una rapida caduta
del regime, all’inefficacia dei negoziati di Ginevra che hanno escluso gli interlocutori che
avrebbero invece dovuto esserci, sino al proliferare di gruppi estremisti, nazionali e stranieri.
Per quel che vale, è la conclusione di Oskanian, queste elezioni dimostrano che al momento
Assad mantiene ancora una certa legittimità. Una riflessione che forse Occidente e ONU
farebbero bene a tenere in considerazione, impostando l’azione di mediazione su basi completamente differenti.
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liBia - 5 GiUGno 2014
Illegale l’elezione del premier Maetiq
La Corte Suprema di Tripoli ha giudicato non regolare il voto attraverso
cui Ahmed Maetiq era stato eletto a capo del governo dal parlamento libico.
Tornano a salire le quotazioni dell’ex premier Abudllah Al Thinni
Potrebbe essere arrivato alla svolta decisiva lo scontro tra Ahmed Maetiq e Abudllah Al
Thinni, i due politici che da settimane si stanno contenendo la carica di primo ministro e
il controllo del governo in Libia. Questa mattina la Corte Suprema di Tripoli ha infatti giudicato illegale la seconda votazione attraverso cui Maetiq era stato eletto premier dal Congresso Generale Nazionale (il parlamento libico) con 121 preferenze, 8 in più rispetto ai
113 che aveva ottenuto alla prima conta dei voti. Alla decisione, comunicata dalla tv di Stato
libica, seguirà adesso il ricorso da parte degli avvocati del neo premier, il quinto dalla caduta
del Colonnello Gheddafi nel 2012.
Uomo d’affari di 42 anni, sostenuto dai Fratelli Musulmani, Maetiq gode dell’appoggio
delle milizie di Misurata e dei quartieri di Tripoli Tajura e Suk Al Juma, controllati da gruppi
di integralisti islamici. La decisione della Corte Suprema di Tripoli è un colpo da cui forse
non potrebbe risollevarsi e che di fatto adesso potrebbe rilanciare le quotazioni di Al Thinni,
il quale ha dalla sua parte buona parte dell’esercito regolare e la milizia di Zintan che controlla l’aeroporto della capitale. Al Thinni ha anche trovato un compromesso con l’ex generale Khalifa Haftar, che da tre settimane conduce con le sue truppe – a cui si sono alleate
varie forze speciali e parte dell’aeronautica – un’offensiva (denominata “Operazione Dignità”) contro i gruppi estremisti islamici Ansar Al Sharia islamica e la brigata dei Martiri del
17 febbraio, concentrati principalmente nella regione della Cirenaica.
Dopo l’attentato suicida a cui ieri è sfuggito l’ex generale, avvenuto nella sua abitazione
nella città di Abyar (circa 60 chilometri a est di Bengasi) e che ha causato l’uccisione di
quattro sue guardie, è di poco fa la notizia del rapimento di Abubaker Madur, membro del
Congresso Nazionale Generale (CNG, il parlamento libico), originario di Ghadames, cittàoasi della Libia occidentale, situata nei pressi del confine con l’Algeria e la Tunisia, circa
550 chilometri a sudovest di Tripoli. Stando a quanto riferito al giornale libico Libya Herald
dal portavoce del parlamento libico, Madur sarebbe stato prelevato dalla sua abitazione situata nella zona di Falah da un gruppo di uomini armati arrivati. L’ennesimo rapimento di
un rappresentante di una delle più importanti istituzioni dimostra quanto sia instabile la situazione in Libia. Ed è difficile credere che basterà questa decisione della Corte Suprema
di Tripoli per placare le tensioni che hanno lacerato in più parti il Paese.
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niGeria - 6 GiUGno 2014
Nuova strage di Boko Haram nello Stato del Borno
Attacchi del gruppo islamista nei villaggi di Goshe, Attagara, Agapalwa
e Aganjara. Le autorità del Borno parlano di almeno 400-500 vittime.
Il governo centrale ordina l'invio nell'area di altri 3mila soldati
L’ultima strage compiuta dal gruppo islamista nigeriano Boko Haram tra il 3 e il 4 giugno
nello stato nord orientale del Borno potrebbe rivelarsi una delle più sanguinose degli ultimi
anni. Tra le 400 e le 500 persone sarebbero morte in un attacco effettuato da un gruppo di
miliziani islamisti che hanno preso d’assalto quattro diversi villaggi dell’area: Goshe, Attagara, Agapalwa e Aganjara. L’allarme è stato lanciato ieri da un deputato del parlamento
nigeriano, Peter Biye, rappresentante dello Stato del Borno, e da un ufficiale della sicurezza
del capoluogo Maiduguri.
Il bilancio ufficiale della strage però non è stato ancora definito a causa delle difficoltà logistiche che impediscono di raggiungere la zona e che hanno fatto sì che le stesse richieste
di aiuto da parte dei sopravvissuti arrivassero alle autorità con molto ritardo per l’assenza
di adeguati collegamenti telefonici.
Ieri intanto un altro attacco di Boko Haram ha colpito il villaggio di Barderi, nella periferia
della capitale Abuja, provocando altre cinquantina di vittime. Boko Haram negli ultimi mesi
è riuscito a issare la bandiera jihadista in sette villaggi della regione del Borno situata al confine con Ciad, Niger e Camerun, dove migliaia di abitanti sono stati costretti a trovare rifugio. Lo scorso maggio un attacco di entità simile aveva provocato oltre 300 morti nel villaggio
di Gamboru Ngala, nella stessa regione del Borno, dove è ormai in corso una vera e propria
crisi umanitaria.
La Nigeria ha annunciato che invierà rinforzi militari nell’area (circa 3.000 unità) per
contrastare l’azione di Boko Haram. Dall’inizio dell’anno le violenze hanno provocato oltre
2.000 vittime, senza dimenticare che il gruppo islamista detiene ancora in ostaggio le oltre
200 studentesse rapite a Chibok lo scorso aprile.
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UCraina - 7 GiUGno 2014
L’Ucraina stretta tra Putin e la NATO
La NATO torna protagonista in Europa, ma si allarga il fronte del “NO”:
Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria non desiderano truppe atlantiche.
Passerà la linea Obama o la fermezza di Putin?
In passato, spesso si è preso ad esempio il cosiddetto modello slovacco per la “separazione
consensuale” dell’Ucraina tra le regioni fedeli a Kiev e le insorgenti regioni dell’Est autoproclamatesi repubbliche autonome. Nella ex Cecoslovacchia fu il parlamento a ratificare la
divisione del territorio nazionale in due Paesi, Repubblica Ceca e Slovacchia appunto, che
nacquero nel gennaio 1993 senza colpo ferire. L’occasione fu offerta dalla Rivoluzione di
Velluto, una protesta non violenta che portò alla caduta del Partito Comunista e aprì la strada
ai due Paesi che conosciamo oggi, i quali aderirono poi alla NATO: la Repubblica Ceca è entrata nel 1999, mentre la Slovacchia ha aderito all’Alleanza Atlantica più avanti, nel 2004.
E proprio in merito all’atteggiamento da tenere nei confronti della NATO, i due Paesi ritrovano ora un’unità d’azione, se è vero che entrambi gli Stati che formavano la Cecoslovacchia si sono rifiutati di ospitare truppe straniere e basi militari nei rispettivi territori (la
Slovacchia confina con l’Ucraina). Era stato il presidente degli Stati Uniti in persona, Barack
Obama, ad annunciare da Varsavia un’iniezione immediata di 1 miliardo di dollari per la difesa della sicurezza in Europa. Dollari che si tradurranno nel dispiegamento di più truppe,
mezzi e pattugliamenti aerei negli stati che confinano con la Russia di Vladimir Putin e con
l’Ucraina di Poroshenko. Circostanza che non può che preoccupare Mosca, visto che in tal
modo dagli Stati Baltici alla Turchia un’alleanza militare come la NATO avvicinerebbe sensibilmente i propri confini operativi alla Federazione Russa.
No alla NATO in Repubblica Ceca e Slovacchia
Ma i primi ministri ceco e slovacco si sono espressi contro la proposta della Casa Bianca. Il
premier della Slovacchia, Robert Fico, ha dichiarato che il suo Paese è pronto a soddisfare i
suoi obblighi come Stato membro della NATO, ma a suo dire è fuori questione uno stazionamento di truppe straniere: “Noi non possiamo immaginare truppe straniere nel nostro
territorio in forma di basi militari”, ha detto Fico.
Anche Praga la vede così e addirittura il ministro della Difesa, Martin Stropinsky, nelle scorse settimane ha scatenato polemiche in Repubblica Ceca, arrivando a paragonare l’ipotesi
di Obama all’invasione sovietica del 1968, insistendo che questa è una sufficiente motivazione
per non ospitare le truppe della NATO sul suolo sovrano ceco: “per noi questo delle truppe
straniere è un tema straordinariamente sensibile”.
L’Ungheria, in giorni non sospetti, durante la conferenza Globsec 2014 di maggio, aveva
già fatto sapere per bocca del ministro degli Esteri, Janos Martonyi, che Budapest ritiene che
“non c’è bisogno di un potenziamento militare sui confini orientali del blocco Nato, malgrado l’acuirsi della crisi in Ucraina e i profondi cambiamenti nella situazione di sicurezza”. Ragion per cui “le corrette decisioni verranno prese al momento giusto”.
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Il fronte del sì
Così non la pensa la Polonia, che già ad aprile aveva chiesto l’invio di almeno 10.000 truppe
americane nel suo Paese, e neanche i tre Paesi baltici, Lituania, Lettonia ed Estonia, che hanno
accettato di ospitare contingenti di soldati USA, anche se ufficialmente solo per addestramento.
Intanto, al G7 di Bruxelles – che sostituisce il G8 e per la prima volta esclude la Russia dal
summit internazionale – i leader delle nazioni industrializzate hanno esortato Mosca a intraprendere colloqui con la nuova leadership di Kiev per porre fine alla crisi in Ucraina orientale: “La Russia deve riconoscere che il presidente Poroshenko è il leader legittimamente
eletto dell’Ucraina e deve quindi coinvolgere il governo di Kiev”, ha detto Barack Obama.
La battaglia prosegue
Si vedrà. In ogni caso, domani il presidente ucraino giura e s’insedia ufficialmente, mentre
oggi alla commemorazione dei settant’anni dallo Sbarco in Normandia del 1944 l’ospite di
casa, il presidente francese Francois Hollande, avrà vita difficile nell’attovagliare in due separati tavoli Obama e Putin, le cui nazioni furono le grandi protagoniste della sconfitta del
nazifascismo in Europa, ma le cui divergenze anche diplomatiche riportano le lancette degli
orologi indietro proprio di almeno cinquant’anni.
Intanto, però, la guerra prosegue soprattutto nel Donbas (nelle regioni di Donetsk e Luhansk) e il governo ucraino ha chiesto alla Russia 100 miliardi di euro come risarcimento
per l’occupazione della Crimea, cosa che tra le righe certifica come le aspettative ucraine di
riprendere la penisola siano intorno allo zero assoluto. Non è certo un buon punto di partenza per le trattative, dunque, e sinora non ci sono indicazioni che le operazioni belliche
dall’una e dall’altra parte cessino.
Ciò nonostante, l’influenza che gioca Valdimir Putin sulle truppe filo-russe che si vorrebbero staccare da Kiev sull’esempio della Crimea, potrebbe adesso essere decisiva. Ma solo nel
caso in cui si decida una ragionevole spartizione del territorio e si garantisca la sicurezza in
tutto l’Est. È infatti altissimo il rischio di ritorsioni ucraine sulla popolazione russofona, il
giorno in cui i ribelli dovessero deporre le armi spontaneamente. Né rientra negli interessi
di Mosca lasciar andare l’Ucraina nell’abbraccio della NATO e dell’Europa.
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Cina (prC) - 6 GiUGno 2014
Le vere spese militari della Cina (secondo il Pentagono)
Secondo un rapporto presentato dalla Difesa americana nel 2013 la Cina
avrebbe speso 145 miliardi di dollari in droni, sistemi di cyber spionaggio,
caccia e missili: il 21% in più rispetto a quanto dichiarato dal governo di Pechino
La spesa militare della Cina nel 2013 avrebbe superato i 145 miliardi dollari, il 21% in più
rispetto ai 119,5 miliardi dichiarati da Pechino. La stoccata è stata lanciata ieri dal Pentagono,
che in un rapporto di 96 pagine presentato al Congresso ha tracciato una stima a suo giudizio
reale su quanto effettivamente il governo cinese avrebbe speso per aggiornare il proprio parco
bellico lo scorso anno. I soldi sarebbero stati investiti soprattutto per l’acquisto o l’ammodernamento di droni (tra cui anche il modello Lijian, il primo velivolo senza pilota invisibile prodotto interamente dalla Cina), navi da guerra, caccia, missili e sistemi di cyber spionaggio.
Nel rapporto si parla di “costante progresso delle capacità difensive” della Cina e delle difficoltà nell’effettuare una stima delle sue spese a causa della scarsa trasparenza e dalle incongruenze della contabilità presentata dal governo di Pechino, motivate evidentemente –
sostiene il Pentagono – a portare avanti manovre segrete per l’ampliamento dell’influenza
geopolitica e militare del Paese principalmente nell’area del sud est asiatico.
È proprio l’ingerenza cinese nel Pacifico il vero obiettivo della denuncia degli Stati Uniti,
come dimostrano d’altronde le recenti uscite del segretario della Difesa Chuck Hagel, il quale
ha accusato senza mezzi termini Pechino di operare per la destabilizzazione dell’intera regione, motivando le sue operazioni militari e le sue esplorazioni petrolifere nel Mar Cinese
Meridionale con rivendicazioni territoriali tese in realtà a mettere in difficoltà possibili concorrenti nel settore energetico quali Taiwan, Brunei, Vietnam, Filippine e Malesia, senza dimenticare l’annosa questione delle isole Senkaku/Diaoyu contese con il Giappone nel Mar
Cinese Orientale.
Un capitolo a parte meritano le note vicende legate allo spionaggio informatico. Anche su
questo fronte le relazioni si sono surriscaldate da quando Washington il mese scorso ha accusato cinque ufficiali dell’esercito cinese di aver compiuto azioni di hackeraggio per bucare
i sistemi informatici di importanti aziende americane operative nei settori del nucleare, del
metallo e dell’energia solare. “La Cina – prosegue il rapporto – sta utilizzando le proprie risorse di intelligence informatica per raccogliere e sfruttare a proprio favore informazioni
sensibili sui diplomatici americani e sui settori nevralgici dell’economia, dell’industria e della
difesa degli Stati Uniti, con l’obiettivo di minare il suo piano di difesa nazionale”.
Le cifre contenute nel rapporto del Pentagono sono state smentite dal ministero della Difesa cinese, che ha definito il contenuto della relazione privo di fondamento e ipocrita. Su
quest’ultima affermazione è francamente difficile dare torto a Pechino: gli USA puntano il
dito contro le ingerenze cinesi nel Pacifico, ma forse si dimenticano che nel 2013 il budget
che hanno utilizzato per le loro spese militari ha superato i 600 miliardi di dollari (vedi grafico
fonte BBC).
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