ALMA ROSÉ ALMA ROSÉ - Teatro Giuditta Pasta

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ALMA ROSÉ ALMA ROSÉ - Teatro Giuditta Pasta
Giovedì 26 gennaio 2012 ore 10.00
Fondazione Culturale Giuditta Pasta presenta
Associazione Culturale Alma Rosé in
ALMA ROSÉ
Di Claudio Tomati
Con Annabella Di Costanzo e Elena Lolli
Musiche originali e strumenti di Mauro Buttafava
Coordinamento registico di Mauro Maggioni
Età: scuole superiori
Durata: 60 minuti
Tecnica utilizzata: teatro d’attore
“I crematori fumano incessantemente, i treni arrivano di continuo e scaricano ogni giorno
masse di deportati davanti alla baracca dell’orchestra. Il campo di Auschwitz-Birkenau è
l’unico ad avere un gruppo musicale femminile, quarantasette donne con la medesima
angoscia degli altri detenuti, che hanno però lo strano privilegio di poter riporre una
fragilissima speranza di salvezza nella mansione “ricreativa” che è stata loro affidata.”
DA “AD AUSCHWITZ C’ERA UN’ORCHESTRA”-
FANIA FENÉLON
Quando Fania Fenélon fu deportata ad Auschwitz era il Gennaio del '44 e poiché sapeva
cantare e suonare il pianoforte, entrò a far parte dell' orchestra femminile del campo,
l'unica orchestra femminile mai esistita in tutti i campi di concentramento della Germania e
dei territori occupati.
Voluta da Hoss, maggiore delle SS, l'orchestra, composta da prigioniere, aveva il compito di
accompagnare le detenute al lavoro, "accogliere" ogni nuovo arrivo di deportati, e suonare
per gli ufficiali SS ogni qualvolta lo richiedessero.
Erano in 47 le signore dell' orchestra, come Fania racconterà nel suo diario "Ad Auschwitz c'
era un' orchestra", scritto molto più tardi, dopo la sua liberazione. Provenienti da ogni
parte, ficcate in uno spazio ristretto, una vecchia baracca vicino alle ferrovia nel punto in
cui arrivavano i convogli di deportati, le orchestrali erano costrette a prove estenuanti per
potere suonare dignitosamente, perché solo così sarebbero state risparmiate alla selezione
per la camera a gas. Durante tutto il tempo della sua detenzione, Fania lotta duramente per
sopravvivere senza mai perdere la propria umanità, e pensando che sopravvivere è anche
ricordare "per fare sapere al mondo". Fra tutti gli incontri avvenuti nel campo, il più
singolare è quello con Alma Rosé, eccezionale violinista ebrea, nipote di Gustav Mahler e
direttrice dell’orchestra. Il rapporto che nasce tra le due musiciste mette in luce il loro
diverso modo di vivere il lager e la necessità di fare musica. Per Fania, infatti, suonare è un
mezzo per sopravvivere e sopravvivere è testimoniare. Anche in una condizione estrema
Fania riesce a mantenere intatta la propria umanità: sa di suonare e cantare una musica "che
è la cosa migliore ad Auschwitz-Birkenau in quanto procura oblio e divora il tempo, ma è
anche la peggiore perché ha un pubblico di assassini". Per Alma la musica è un fine, il fine
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su cui ha costruito la propria identità di tutta una vita e nulla le importa più se non fare
bene il proprio lavoro e realizzare musiche sublimi, disinteressandosi degli effetti collaterali
delle proprie azioni. Ripercorrendo il diario di Fania, diamo vita alle sue parole alternando
alla lettura alcuni momenti recitati (tratti dallo spettacolo "Alma Rosé", vincitore Premio ETI
Scenario 96/97) che rappresentano i dialoghi più significativi fra Fania e Alma. Ci
accompagnano, inoltre, alcune musiche che fanno parte di quel repertorio che era il
preferito degli ufficiali tedeschi, capaci di commuoversi all’ascolto di una Madama Butterfly
e subito dopo di mandare dei prigionieri alle camere a gas.
I PROTAGONISTI:
Fania Goldstein, in arte Fénelon (Parigi, 1908-1983), pianista e cantante di cabaret, fu
incarcerata e deportata ad Auschwitz per i suoi contatti con la Resistenza francese e le sue
origini ebraiche.
Fania, cantante professionista francese di origini ebraiche, ha un ruolo fondamentale
all’interno del gruppo: conosce la musica e può orchestrare i brani, ma saranno la tenace
determinazione alla sopravvivenza e i continui sforzi per non smarrire la propria umanità
che la faranno uscire dal campo ancora in vita, insieme a molte delle compagne. In quel
terribile anno del 1944 Fania assiste al repentino spegnersi di ogni senso di solidarietà e
compassione tra le altre detenute, al loro chiudersi in drammatici egoismi dettati da scontri
di razza, classe e religione, ma soprattutto da fragilità e disperazione umane.
Alma Rosé,
Rosé violinista tedesca d’origine ebraica, nasce nell’anno 1906.
Nipote di Gustav Mahler, fu strappata dalle SS da una sala concerto a Dijòn per essere
rinchiusa ad Auschwitz.
Prima di allora era stata al riparo in Inghilterra con il suo amante viennese che l'abbandonò
nel giugno del 1939.
L'arrivo di Rosé al campo di concentramento, vicino a Cracovia, fu paradossale. Infatti nella
città polacca vi aveva soggiornato, si era esibita insieme all'allora marito, il virtuoso Ceco
del violino Vása Príhoda, aveva diretto la celebre orchestra, di signorine, la raffinata Wiener
Walzermädeln che lei stessa aveva creato e con la quale si esibì in tutta Europa.
Negli anni precedenti il suo arresto, la sua vita fu caratterizzata da frequentazione
d’ambienti intellettuali europei e dei più celebri musicisti dell’epoca.
Il suo arrivo ad Auschwitz in quel piccolo numero di donne selezionate per il blocco
sperimentale segnerà i prossimi anni della sua vita.
Dopo essere stata sottoposta al procedimento abituale della rasatura, doccia, tatuaggio del
numero 53081 e la consegna del vestiario della prigione, Rosé fù inviata al blocco 10.
La dignità di Rosé che da subito contrastò con il silenzio circostante richiamò l'attenzione di
una giovane donna olandese, infermiera del blocco. Era la flautista Ima Van Esso, che alcuni
anni prima la stessa Rosé aveva accompagnato al pianoforte .
La dignità di Rosé proveniva dal suo raffinato passato viennese vissuto tra eccelsi
compositori ed interpreti. Sua madre, Justine, era sorella di Gustav Mahler; suo padre,
Arnold Rosé, era stato per più di mezzo secolo concertista della Filarmonica e dell'opera di
Vienna e leader del famoso quartetto Rosé.
Dalla data della sua nascita è stata circondata dai più celebri musicisti del suo tempo.
L’arrivo della Rosé al campo di concentramento richiamò l’attenzione anche del
responsabile di Birkenau, che dirigeva il blocco 10 di Auschwitz. Sin dal suo primo incontro
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con l’ufficiale tedesco la Rosé fece ricorso al suo estro musicale ed alla sua miglior arma, il
violino.
Ricevette un violino, preso a un prigioniero dal destino incerto.
Era il primo strumento che la Rosé toccava dal 12 dicembre dell'anno precedente, quando
consegnò il suo “Guadagnino” a una donna olandese affinchè lo mettesse al sicuro.
Appena la Rosé iniziò a suonare le prime note, portò una nota di bellezza nel campo tanto
che si disse “ … i lucchetti messi … dalle SS sembrarono svanire…”
La bellezza era un sogno ampiamente dimenticato nel blocco 10 e sino a quel momento
nessuno avrebbe potuto sognare una bellezza tale come quella che sgorgava dalla sua
musica
Infatti fu la musica della Rosé a portare un po’ di felicità e speranza all’interno del blocco,
venivano improvvisate buffe esibizioni di danza, grottesche repliche di cabaret, insegnato a
ballare il tango o la Czarda.
La fama della Rosé all’interno del campo andò sempre aumentando tanto che venne
disposto il suo trasferimento dal blocco 10 a Birkenau, dove avrebbe dovuto prendere la
Direzione di una piccola orchestra costituita prima del suo arrivo da alcune recluse.
Il suo arrivo all’interno del gruppo destò in un primo momento un po’ di diffidenza, ma le
compagne dopo avere capito che si trattava della Rosé e quale fosse il suo compito, furono
in maggioranza entusiaste ed iniziarono a sperare in un futuro migliore; non mancarono
però scontri e discussioni all’interno del gruppo per il suo arrivo!
Quando Rosé organizzò la sua Wiener Walzermädeln ebbe a disposizione, per scegliere gli
elementi, le alunne e le diplomate dei migliori conservatori del mondo recluse nel
campo.Nessuno aveva mai fatto musica in tali condizioni.
Durante i concerti le donne coprivano le loro teste con fazzoletti color lavanda, e usavano
camice bianche e pantaloni blu.
Alma Rosé prese iniziative per migliorare le condizioni di vita delle sue compagne, e
talvolta si espose in prima persona anche per salvare loro.
Violette Jacquet Silberstein giudea francese, ricorda che dopo avere lasciato l'ospedale del
campo e convalescente dal tifo, essendo debole, durante il passaggio dell'orchestra davanti
al portone di ingresso, rimase indietro ed una SS la fermò e volle sapere se fosse così tanto
stanca o ammalata da non poter marciare insieme alle altre, rischiando di essere inviata alla
camera a gas. La ragazza attribuì a Rosé il merito di averle salvato la vita.
Durante il corso dell'inverno 1943/1944 la fitta programmazione e la costante tensione
stancavano le integranti dell'orchestra. Svenimenti e collassi dovuti all'estenuante lavoro,
costrinsero Rosé a persuadere le SS di permettere alle donne dell'orchestra qualcosa di
impensabile: una piccola pausa dopo mezzogiorno.
Nel 1966 Anita Lasker Wallfisch in un'intervista alla BBC, disse che la Rosé non fu motivata
tanto dalla paura delle SS e di perdere la vita ma quanto di raggiungere l'eccellenza e così di
fuggire con il pensiero.
L'atmosfera del blocco della musica entusiasmava i membri delle SS anche quelli di alto
rango ad esempio il Dott. Mengele, Mandel e Josef Kramer.Alcuni anni dopo Eva
Stojowska ricordando la Rosé, si meravigliava della sua abilità nel preparare le donne
affinché cantassero le voci mascoline dello spartito.
Rosé morì la notte fra il 4 e 5 aprile del 1944.
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LA PROGRESSIVA DISTRUZIONE
DISTRUZIONE DELLA PERSONALITÀ
PERSONALITÀ
Si sarebbe potuto credere che la sorte comune, le comuni sofferenze, avessero portato ad
un avvicinamento di tutti i prigionieri e dunque ad una forte solidarietà e alla
cooperazione. E invece proprio nei lager era l’egoismo di ognuno a manifestarsi con
maggiore forza, scaturito dall’individuo sotto l’impulso dello spirito di conservazione, come
afferma Rudolf Höss nel libro Comandante ad Auschwitz
Nella vita dei lager ogni prigioniero mutava a tal punto la sua personalità da giungere a
pensare soltanto a se stesso: si era disposti a compiere ingiustizie nei confronti dei compagni
o ad ignorare le sofferenze altrui per ottenere un privilegio, un vantaggio. Scrive Sergio
Coalova:
[…] la spersonalizzazione dell’individuo ha raggiunto lo scopo desiderato: ha
cancellato ogni vincolo di fratellanza in questa massa di deportati, esaltando in
ognuno un innaturale egoismo, quasi fosse l’unico mezzo per sopravvivere.
Tutto ciò con le debite eccezioni, ma l’esperienza di ogni giorno ci agggredisce
con tutta la sua crudezza portandoci fatalmente a pensare sempre più a noi
stessi.
E aggiunge:
nel lager chi riuscirà a sopravvivere lo dovrà unicamente ai suoi propri mezzi e
alla sua fortuna. Nulla c’è da aspettarsi da chi sta meglio, la lotta per la vita ci
ha fatti barricare in un comprensibile egoismo e ci ha resi indifferenti alle
sofferenze di chi ci sta attorno. Ma la speranza che non ci abbandona agisce sul
nostro spirito di conservazione e ci porta, per vie traverse, ad accentuare il
nostro individualismo, a chiuderci in noi stessi, nel tentativo di superare meglio
le prove che ancora ci attendono.
Vi erano prigionieri che arrivavano a tiranneggiare senza misericordia i compagni di
sventura, se ciò serviva a rendere un po’ più tollerabile la loro vita. Particolarmente brutale
era il comportamento dei kapò, i criminali, anch’essi detenuti, ma con funzioni di comando,
i quali volevano mettersi in buona luce presso i guardiani e i sorveglianti; essi ottenevano
privilegi e vivevano meglio nel campo, ma a spese degli altri prigionieri, che tormentavano
fisicamente e psichicamente e addirittura, per puro sadismo, maltrattavano a tal punto da
farli morire.
Tuttavia, soprattutto i prigionieri ancora sensibili, non ancora intaccati dalla durezza della
vita nel campo, provavano profonde sofferenze morali di fronte a questi atteggiamenti: i
maltrattamenti da parte delle guardie erano sì terribili ma non li ferivano così
profondamente; erano il contegno di questi “capi” e le loro angherie contro gli stessi
compagni ad avere l’effetto più deprimente sulla psiche dei prigionieri.
Ma perché tutto questo? Perché a lungo andare la prigionia trasformava le persone. Lo
shock iniziale derivante dal fatto di trovarsi privati dei diritti civili e gettati illegalmente in
carcere, il trauma di subire per la prima volta torture intenzionali e inimmaginabili, il
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tormento di vedere morire i propri compagni senza poterli aiutare provocavano un
profondo disagio. Ma a poco a poco quasi tutti i prigionieri perdevano i loro benevoli
sentimenti e finivano per preoccuparsi solo per la propria sopravvivenza.
Ognuno reagiva comunque in maniera diversa: c’era chi cadeva nella più profonda
indifferenza, chi manifestava sintomi schizofrenici o tendenze suicide, chi perdeva la
memoria e chi smetteva semplicemente di pensareAvveniva una vera e propria scissione
psichica tra l’Io a cui accadevano le cose e l’Io a cui in realtà non importava nulla di nulla,
indifferente e distaccato.
Quasi tutti i prigionieri ebbero una regressione a livello infantile e svilupparono quindi
comportamenti tipici dell’infanzia e del periodo adolescenziale: prevaleva lo
scoraggiamento, non vi erano progetti per il futuro, le amicizie nascevano e si scioglievano
rapidamente, si perdeva la cognizione del tempo e si raccontavano bugie per fare gli
“spacconi”.
Non si era più se stessi e non si credeva più a niente. «Non si può continuare a credere in un
mondo che ha cessato di considerare l’uomo come l’uomo: che ti “dimostra” che non sei
più un uomo. Si comincia a dubitare: si rinuncia ad avere fede in un ordinamento
dell’universo il cui Dio abbia un suo posto preciso. Si comincia a credere che Dio sia in
vacanza, altrimenti tutto questo non sarebbe possibile. Deve essere assente e non ha
nessuno che lo rappresenti», dice Simon Wiesenthal.
Bibliografia e fonti
Primo LEVI, I sommersi e i salvati, Milano, Giulio Einaudi Editore, 1986 (in particolare il capitolo intitolato La
violenza inutile);
Simon WIESENTHAL, Il Girasole. I limiti del perdono, Milano, Garzanti, 2002 (1^ ed. it. 1970);
Raul HILBERG, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, Milano, Mondadori,
1996;
Bruno BETTELHEIM, Sopravvivere e altri saggi e documenti, Milano, SE, 2005;
Sergio COALOVA, Un partigiano a Mauthausen. La sfida della speranza, Cuneo, L’Arciere, 2005;
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Il pianista barlettano Lotoro ha raccolto oltre 2500 spartiti composti nei campi di concentramento
LE COLONNE SONORE DEI
DEI LAGER "LA MUSICA STEMPERAVA
STEMPERAVA L´ODIO"
di FIORELLA SASSANELLI
Coltivato alla grande letteratura pianistica peraltro anche alla scuola di uno dei più grandi
maestri viventi, Aldo Ciccolini, il pianista barlettano Francesco Lotoro ha incontrato la
musica che lui definisce 'concentrazionaria´ – prodotta cioè in tutti i campi di transito,
sterminio, di detenzione e di concentramento – per la prima volta quasi vent´anni fa,
leggendo il bando del concorso pianistico 'Arthur Rubinstein´ di Tel Aviv. Tra le
composizioni ammesse alle prove c´era anche una Sonata di Gideon Klein. Si diceva fosse
stata composta a Auschwitz, in realtà negli oltre dieci anni consacrati a raccogliere tutta la
musica composta nei campi di concentramento di Europa, Asia e Nord Africa durante la
seconda guerra mondiale (una collezione di oltre duemilacinquecento opere), Lotoro ha
scoperto che Klein a Auschwitz non c´era mai stato e che quella Sonata era stata composta
nel ghetto di Terezin, a pochi chilometri da Praga. "Nei campi la musica serviva ad
aggregare e stemperare l´odio", ha spiegato ieri pomeriggio Lotoro agli alunni del liceo
classico Flacco di Bari presentando il suo poderoso progetto 'Musica Judaica´, un´integrale
musicale che di qui al 2006 documenterà in sedici cd la letteratura musicale
concentrazionaria. Il primo già in uscita, si apre proprio con la Sonata di Klein; al suo
interno anche tre Sonate di Viktor Ullmann. Nel terzo, pronto a giugno, saranno incise le
cadenze che Ullmann scrisse per il Primo e il Terzo concerto per pianoforte e orchestra di
Beethoven. Tutte le registrazioni sono state fatte nel teatro Giordano di Foggia.
"Nei campi, e soprattutto in quelli destinati ai prigionieri politici comunisti o testimoni di
Geova che rifiutavano l´obbedienza al nazismo – ha spiegato Lotoro - i comandanti
sollecitavano la nascita di piccole orchestre, scuole di musica, premevano per l´acquisto di
strumenti musicali. Dove non ci furono orchestre, si fomentò l´odio e la reazione, forme
acute di combattimento degli ebrei contro i militari del campo". Che sia musica bella,
profonda, volutamente irridente e provocatrice e insieme profondamente malinconica lo si
è capito già ieri da brevi saggi eseguiti dallo stesso Lotoro insieme a Paolo Candido, pianista
e direttore d´orchestra che ha prestato la sua voce per improvvisare qualche canzone
(Candido sarà lo strimpellatore Brundibàr, nell´allestimento dell´omonima operina di Hans
Krasa, che Lotoro riproporrà il 27 e il 28 gennaio al teatro Royal). Oppure ascoltando la
registrazione di un Nonetto di Rudolf Karel, rinchiuso nel carcere di San Pancrazio a Praga
dove morì nel '45. Era un detenuto politico, scrisse musica su fogli di carta igienica che gli
passava un guardiano del carcere. Lasciò rotoli di pentagrammi per pianoforte con accenni
di indicazioni timbriche. Lotoro ne ha rintracciato da poco il microfilm, fortemente
danneggiato dall´alluvione che quest´estate ha colpito la Boemia: centinaia di documenti
musicali intaccati dall´inondazione. Ora sono a Vienna per essere salvati.
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APPROFONDIMENTI:
La musica nei Lager nazisti fu parte integrante dell’organizzazione della vita dei deportati.
Le sue funzioni furono molteplici e i suoi protagonisti sono entrati ormai a pieno diritto
nella storia della musica. Sebbene non tutti i prigionieri si occupassero direttamente di
musica, la maggior parte di essi vi entrò in contatto in qualche forma ad esempio
marciando al suo ritmo sulla via per andare o tornare dal campo di lavoro. La musica non è
qui fonte di conforto, a volte dilania l’anima come ricorda Primo Levi: “Noi ci guardiamo
l’un l’altro dai nostri letti, perché tutti sentiamo che questa musica è infernale. I motivi sono
pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a
ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che
dimenticheremo: sono la voce del Lager”. Fare musica avveniva – come suggerito da Levi –
su incarico dei sorveglianti, la voce dei Lager si inscrive nella tragedia complessiva di
distruzione e spersonalizzazione messa in opera dai nazisti nei Lager. Sebbene si riferiscano a
questi ultimi, le osservazioni di Levi si possono estendere anche ai Ghetti di Hitler. A questa
musica imposta, strumento di oppressione, si contrappone un altro tipo di musica, quella
auto-organizzata dai prigionieri nei ghetti e nei Lager. E’ questa, propriamente, la voce delle
vittime. Attraverso la musica i deportati esprimevano le loro paure, le speranze, le proteste
e cercavano tanto di dare forma, quanto di superare o dimenticare, per un breve lasso di
tempo, la quotidianità del ghetto o del Lager.
La musica diventa così forma di protesta, di resistenza, perfino di azione politica.
IL CASO DI TEREZIN
Terezin era la sede di un’antica guarnigione militare, dove vivevano dai 4000 ai 5000
soldati: fu trasformata in un luogo di prigionia.
Il campo dopo qualche mascheratura, servì infatti come copertura per un’ispezione della
Croce Rossa Internazionale che trovò le condizioni di vita, di cibo e di case accettabili e
rilevò che nessuno dei prigionieri si era avvicinato ai delegati della CRI per lamentarsi delle
condizioni di vita, come se ciò fosse stato possibile. Il capo-delegazione dichiarò, nel
dopoguerra, di essere stato raggirato dei tedeschi; resta comunque da chiedersi come la CRI
avesse potuto accettare quello che era il dato primario della situazione, vale a dire che
migliaia di persone fossero detenute solo in quanto ebree. Sembra che a favorire la
mascheratura della realtà di Terezin sia stata anche la vivace cita musicale che, nonostante
tutto, vi si svolgeva. A Terezin furono internati molti compositori e musicisti, tanto che, pur
tra le enormi difficoltà di reperire strumenti e partiture, vi si svolgevano regolarmente
concerti e spettacoli musicali. A Terezin furono anche eseguite per la prima molte musiche
originali dei compositori che ebbero la sventura di transitarvi, visto che era considerata
comunque l’anticamera di Auschwitz, tra cui celebre è l’opera per bambini “Brundibar” di
Hans Krasa ( ricordiamo che sia in compositore che i piccoli interpreti furono mandati a
morte).
Su Terezin fu anche girato un film di propaganda nazista: “Il fϋhrer dona una città agli
ebrei”, una mistificazione in cui si sosteneva che Terzan fosse stato un grazioso dono di
Hitler agli ebrei perché avessero una loro città. La realtà è che su 144.000 ebrei si stima che
se ne siano salvati circa 19.00 e tra i morti si annoverano tutti coloro che sono stati costretti
a partecipare alla messa in scena del film.
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L’ATTIVITÁ MUSICALE: GOEBBELS E LA “REICHMUSIKKAMMER”
Questa istituzione aveva il compito di dirigere, organizzare e controllare la vita musicale del
Reich e di reprimere eventuali tendenze o iniziative non in linea con il regime.
Venne fondato, da parte del musicologo Alfred Rosenberg un istituto apposito per la
redazione del “Dizionario degli ebrei in musica”, in cui furono inseriti tutti i musicisti e i
compositori ebrei, di discendenza ebrea o sospetti di essere ebrei, per qualche lontana
discendenza o solo per essere invisi al regime. Essere citati in tale pubblicazione significava
anche subire una serie di persecuzioni che potevano andare dall’interdizione all’esecuzione
di certe opere, all’impossibilità di lavorare, sino all’internamento e alla morte. Un’altra
truffa a danno degli ebrei fu la fondazione del Jüdishe Kulturbund, associazione culturale
ebraica. Questa associazione, la cui formazione fu promossa dalla Reichmusikkammer,
radunava i musicisti ebrei cacciati dai loro posti di lavoro nelle accademie, nei conservatori,
nelle orchestre. Le orchestre e i gruppi musicali di questa associazione potevano tenere
concerti per altri ebrei, sotto lo stretto controllo di funzionari del regime che ne
controllavano e modificavano i programmi. La fondazione di questa associazione, oltre che
a sancire la segregazione degli ebrei dalla vita musicale del paese, non significò affatto la
possibilità di scegliere gli autori da eseguire, perché comunque i programmi dovevano
essere approvati e controllati. Il Jüdishe Kulturbund arrivò a raccogliere sino a 18.000
persone e fu comunque attivo sino alla notte dei cristalli del novembre del 1938, quando la
situazione precipitò completamente; parte dei suoi componenti riuscì a fuggire, parte
internata. A fronte delle condizioni disumane nei campi esistette una vita musicale, talvolta
anche piuttosto rilevante: quasi tutti i campi avevano la loro orchestra, ad Auschwitz ne
esistevano due, una delle quali completamente femminile e diretta da Alma Rosé. Pur non
costituendo un elemento di salvezza, essere musicisti concedeva di avere qualche piccola
sofferenza in meno, proprio perché i nazisti volevano che nei campi la musica scandisse i
momenti della giornata, comprese le esecuzioni in qualsiasi forma.
LA MUSICA NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO. L’IMPERATORE
L’IMPERATORE DI ATLANTIDE
ATLANTIDE DI
VIKTOR ULLMANN
Come può esserci libera produzione artistica, ovvero la massima espressione dello spirito
dell’uomo, in contesti dis-umani e in-umani come quelli concentrazionari?
È questa la domanda che si pongono coloro i quali vengono a contatto con le opere
composte dai reclusi nei ghetti e nei campi di concentramento nazisti e l’esempio più
significativo è dato dalla musica composta o eseguita nel campo di Terezìn, una cittadella
fortificata nei pressi di Praga nella quale furono rinchiusi artisti, aristocratici e ufficiali
dell’esercito ebrei, che avrebbe destato troppo scalpore rinchiudere da subito nei campi di
concentramento “regolari”. In questo campo, per ragioni di propaganda, fu consentita una
vita artistica, e, nonostante il sovraffollamento, i lavori duri e le condizioni di vita difficili,
numerosi musicisti si dedicarono all’arte con risultati straordinari. Compositori, direttori
d’orchestra e di coro, musicisti solisti e orchestrali, cantanti di coro e solisti, in gran parte
morti nelle camere a gas, diedero vita a una stagione estremamente feconda.
Tra questi va segnalato il nome di Viktor Ullmann, internato a Terezìn nel 1942 e morto ad
Auschwitz nel 1944.Come abbia potuto realizzare più di venti composizioni in questo breve
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tempo e in tali condizioni lo spiega egli stesso in un suo scritto: “Qui, a Terezìn, dove anche
nella vita quotidiana occorre vincere la materia con il potere della forma, dove qualsiasi
cosa in rapporto con le Muse stride così aspramente con ciò che ci circonda, proprio qui si
trova la vera scuola dei Maestri”.
L’opera più significativa, musicalmente e ideologicamente, di Ullmann è L’imperatore di
Atlantide nella quale l’imperatore Overall si prepara a una guerra, dichirata solo per la sua
gloria, mettendo a capo dell’esercito la Morte la quale, rifiutandosi di obbedire, sciopera
evitando il decesso di chiunque.
FILM
“Playing for time”, sceneggiato da Arthur Miller
“Fania” di Daniel Mann
“Il Pianista” di R. Polanski
TESTI
“Alma Rosé: Vienna to Auschwitz” di Richard Newman
“C’era un’orchestra ad Auschwitz” di Fania Fenelon
“Antisemitismo e identità ebraica” di H. Arendt
“ La musica a Terezìn” di J. Karas
“I sommersi e i salvati” di P. Levi
“L’universo concentrazionario” di D. Rousset
MUSICA
“Der Kaiser von Atlantis” di Vickot Ullmann (CAPOLAVORO INTERAMENTE COMPOSTO NEL LAGER)
“Quinta danza” di Johannes Brahams
“Danubio Blu” di Johann Strauss
“La marcia di Radestky” di Johann Strass
“Madama Butterfly” di Giacomo Puccini
“Composero in Terezin” ed. Channel Classic
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