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RASSEGNA STAMPA mercoledì 16 luglio 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO PUBBLICO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Redattore Sociale del 15/07/14 Gaza, l’Italia pacifista organizza una fiaccolata per fermare i bombardamenti Appuntamento domani alle 18. Per ora hanno aderito una dozzina di città. Promotori dell'iniziativa sono Rete della pace, Sbilanciamoci, Rete italiana per il disarmo e il Tavolo Interventi civili di pace. Tra le richieste, la firma di un immediato cessate il fuoco MILANO – Sono una dozzina di città aderenti, in continuo aumento. Il 16 luglio saranno il palcoscenico di una fiaccolata per chiedere di fermare le bombe che stanno distruggendo Gaza. Questa la lista di richieste: "Che cessino immediatamente il fuoco, le rappresaglie e le vendette di ogni parte; che la politica e la comunità internazionale assumano un ruolo attivo e di mediazione per la fine dell’occupazione militare israeliana e la colonizzazione del territorio palestinese, per il rispetto dei diritti umani, della sicurezza e del diritto internazionale in tutto il territorio che accoglie i popoli israeliano e palestinese; che il governo italiano si attivi immediatamente affinché il nostro Paese e i Paesi membri dell’Unione Europea interrompano la fornitura di armi, di munizioni, di sistemi militari, come pure ogni accordo di cooperazione militare con Israele; che il nostro governo, oggi alla Presidenza dell’Unione Europea, assuma questi impegni con determinazione e coraggio". L'appuntamento è alle 18 nelle piazze più importanti di tutte le città italiane. A promuover la mobilitazione sono stati quattro coordinamenti di associazioni. La prima è la Rete della pace, una realtà che conta una cinquantina di associazioni contro la guerra. Segue la Rete italiana per il disarmo Controllarmi, un network di 26 big della nonviolenza come Libera, Acli, Arci, Pax Christi, Un ponte per... C'è poi Sbilanciamoci, gruppo di cui fanno parte tra gli altri Action Aid, Wwf, Emergency, Cnca, Legambiente e Lunaria. S'è poi aggiunto nelle ultime ore il Tavolo Interventi civili di pace, altro coordinamento a cui aderiscono 25 realtà. Tra i sostenitori singoli, spiccano Amnesty international, i Comuni di Marzabotto (Bologna) e Vezzano sul Crostolo (Reggio Emilia), Sel e la Commissione Giustizia e Pace famiglia dei servi di Maria della Provincia di Lombardia e Veneto. (lb) Da Rassegna.it del 16/07/14 Gaza, fiaccolate per la pace nelle città italiane L'iniziativa della Rete della Pace. "Chiamiamo uomini e donne che credono nella Pace e nella non violenza a mobilitarsi, per la Pace, la libertà, la giustizia in Palestina e Israele" Fiaccolate per la Pace, la libertà, la giustizia in Palestina e Israele si terranno oggi in tutta Italia, promosse dalla Rete della Pace. "Chiamiamo uomini e donne che credono nella Pace e nella non violenza a mobilitarsi, organizzando e partecipando nella propria città alla fiaccolata per la Pace, la libertà, la giustizia in Palestina e Israele", afferma la Rete della Pace raccogliendo decine di adesioni tra associazioni di cooperanti e organizzazioni, tra cui Acli, Arci, Cgil e sindacati degli studenti. "Ogni morte ci diminuisce - è scritto 2 nell'appello - ogni uomo, donna, bambino ucciso pesa sulle nostre coscienze. Vogliamo vedere i bambini vivere e crescere in pace non maciullati da schegge di piombo". Ecco le richieste: "Cessare immediatamente il fuoco, le rappresaglie e le vendette di ogni parte; la politica e la comunità internazionale assumano un ruolo attivo e di mediazione per la fine dell’occupazione militare israeliana e la colonizzazione del territorio palestinese, per il rispetto dei diritti umani, della sicurezza e del diritto internazionale in tutto il territorio che accoglie i popoli israeliano e palestinese". Al governo italiano si chiede di "attivarsi immediatamente affinché il nostro paese e i paesi membri dell'Unione europea interrompano la fornitura di armi, di munizioni, di sistemi militari, come pure ogni accordo di cooperazione militare con Israele; il nostro governo, oggi alla Presidenza dell'Unione Europea, assuma questi impegni con determinazione e coraggio". Per la Cgil “Israele deve fermare immediatamente l'operazione militare e ritornare al tavolo del negoziato” e al Governo italiano, oggi alla Presidenza dell'Unione Europea, il sindacato guidato da Susanna Camusso chiede di adoperarsi con tutti gli strumenti della diplomazia e della pressione politica ed economica, per fermare questa "ennesima ed intollerabile ondata di morti e di violenze”. La Cgil ricorda, inoltre, le drammatiche notizie che in queste ore giungono da Gaza: oltre 170 sono i morti, di cui non meno di 30 bambini, i feriti 1.700 e 500 le case rase al suolo, "un'intera popolazione disperata, in preda al panico e senza protezione umanitaria”. Sul sito della Cgil (www.cgil.it) la segnalazione degli appuntamenti cittadini. http://www.rassegna.it/articoli/2014/07/16/113288/gaza-fiaccolate-per-la-pace-nelle-cittaitaliane Da GiocoNews del 15/07/14 Valle d'Aosta, Arci: "Rivedere ddl regionali sul gioco" "I ddl sul gioco sono un segnale positivo, ma si possono migliorare le norme riguardanti le distanze dai luoghi sensibili, la trasparenza sui soggetti che gestiscono le sale e il divieto di pubblicità". Così, Alex Glarey coordinatore dell'Arci Valle d'Aosta, annuncia a Gioconews.it la decisione di chiedere un'audizione al consiglio regionale della Valle d'Aosta per poter presentare una serie di 'proposte migliorative' ai testi presentati da giunta e minoranza in materia di contrasto al Gap insieme alle associazioni Legambiente, Libera, Aosta Iacta Est e Rete 28 Aprile della Cgil. "Il proibizionismo non è mai la soluzione, ma qui si tratta di regolamentare un settore ormai preda di una liberalizzazione selvaggia e di interessi, spesso, illegali. Da un unico Casinò dicono le associazioni - siamo passati all'azzardo sotto casa e davanti alle scuole. È ora di dire basta, in maniera chiara e definitiva". Dire basta, sì, magari coinvolgendo maggiormente gli operatori del sociale, spesso in prima linea nella cura e nella prevenzione del gioco patologico. LE PROPOSTE DELLE ASSOCIAZIONI - "Conosciamo, infatti, il tema e potremmo contribuire fattivamente all'elaborazione di un'efficace regolamentazione - ricordano ancora le organizzazioni - che riporti il gioco nei luoghi tradizionali, ossia il Casinò, preveda la massima trasparenza rispetto ai soggetti coinvolti nel business delle slot" e sia più chiara e netta rispetto a divieti e pubblicità". Proposte che saranno ulteriormente definite nel corso di una riunione operativa in programma la prossima settimana e che, a consiglio regionale piacendo, potrebbero poi essere ascoltate dalla commissione Sanità, che sta vagliando i disegni di legge depositati. 3 SULL'ESEMPIO DELLE ALTRE LEGGI - "Abbiamo preso come punto di riferimento le leggi regionali fin qui approvate – commenta Glarey - e stiamo cercando di capire qualche misure sono concretamente applicabili insieme ad alcuni referenti nazionali. L'obiettivo finale è quello di ridurre sempre di più lo spazio per l'apertura di nuove sale e l'installazione di nuovi apparecchi". I DDL DI MAGGIORANZA E MINORANZA - Intanto, restano sul piatto della Regione i ddl presentati da Giunta e minoranza. Il primo "introduce il divieto di apertura di sale da gioco e l’installazione di apparecchi per il gioco d’azzardo che siano ubicati a una distanza inferiore a 200 metri da luoghi sensibili", prevede la frequenza di corsi di formazione sul Gap per i gestori delle sale, agevolazioni fiscali e la concessione del marchio regionale 'Slot-Free – Regione autonoma Valle d’Aosta' agli esercizi 'no slot' e l'istituzione di un Osservatorio regionale. Il secondo, che vede come prima firmataria Carmela Fontana, ripropone l'osservatorio regionale (in questo caso supportato dall'istituzione di un numero verde), corsi di formazione per i gestori delle sale, il rilascio del marchio regionale 'no slot' e l'intervento sull'Irap, che viene maggiorata delle 0,92 percento a quanti decidono di mantenere o installare apparecchi da gioco. C'è, altresì, il distanziometro, che la minoranza però fissa a 500 metri dai luoghi sensibili. http://gioconews.it/politica-generale/40981-valle-d-aosta-arci-rivedere-ddl-regionali-sulgioco Da LaStampa.it del 16/07/14 (Torino) Anche due spiagge nei Murazzi che ripartono senza le arcate La giunta approva il progetto di Arci-Aics beppe minello Murazzi, si ricomincia. Dopo gli insulti, negati o minimizzati dai protagonisti peraltro con un po’ di sana ironia, ieri in giunta s’è svelato il progetto Arci-Aics che, dalla prossima settimana, tornerà a far rivivere i «Muri». Operazione-ponte in attesa dell’autunno quando partirà il bando per assegnare definitivamente le arcate in vista del 2015. Diciamo subito che, almeno sulla carta, il progetto si presenta ricco tanto da prevedere persino due aree spiaggia, aree poesie, teatro e corner reading, un’area sport, bar, ristoro, area spettacoli e, per fare le cose per bene, pure un’area sanitaria. Ritardi sospetti Insomma, una risposta concreta alle tante critiche sollevate dal Comitato dei residenti guidati da Simonetta Chierici che ha accusato il Comune, in particolare l’assessore Ilda Curti, di aver impiegato più di due mesi per dare l’ok a un progetto elaborato da privati e guidati dall’architetto Giorgio Emprin, proprietario di alcune arcate, obbligandoli, di fatto, a gettare la spugna. «Privati falciati dal potere» scrive la Chierici nelle sue mail per poi chiedersi polemicamente: «I Murazzi verranno dati in mano a chi forse fa comodo all’assessore e a chi è d’accordo con lei?». Concetti, diciamo, «arricchiti» a parole con il cronista che ora la signora Chierici smentisce: «Mai espresso dichiarazioni in qualunque modo offensive nei confronti dell’assessore Ilda Curti e dei consiglieri comunali Marco Grimaldi e Luca Cassiani» definiti, nella cronaca di ieri, «la troika che ritiene i Murazzi cosa loro». Così come respinge il sospetto di suoi interessi personali: «Non vivo in una casa di proprietà di Giorgio Emprin». Ilda Curti ride e, viste le ironie sulla sua presunta cultura comunista, ironizza su Facebook: «Come è noto alla scuola comunista di 4 Frattocchie le mattinate cominciavano con “la via del chupito al comunismo”, proseguivano con “Rhum, ginger Ale e proletariato”, terminavano con “Il socialismo in un solo bancone”. Purtroppo sono molto più giovane di quanto non si creda e non sono riuscita a frequentarla». «Battuti i gufi» Cassiani, presidente della commissione Cultura, è più seccato: «Nonostante i gufi, i nemici della cultura e della socialità, quelli che costruiscono i comitati antimovida per aspirare ad un seggio in consiglio comunale, a chi continua a volere il deserto ai Murazzi, lo spaccio ed il degrado, a chi vuole aprirli solo per i commercianti propri amici, la città ha tirato dritto! Si riapre davvero! grazie a chi ha lavorato per risolvere il problema, ad Ilda Curti e a Domenico Mangone. Il 22 luglio si riparte!». Si riparte dunque con Murazzi-beach. Le due spiagge, una addirittura di sabbia marina, sono la cosa che colpisce di più nel progetto di Arci-Aics: avranno sdraio e ombrelloni e, ovviamente chiosco e cocktail bar. Saranno utilizzate come zona relax e di conferenze «In riva al fiume con...». I frequentatori troveranno poco distante una libreria con punto prestito. Un campo di calcio a 5, di beach volley, una parete di arrampicata e una zona fitness soddisferanno gli sportivi. In un’arcata sarà ospitato un salotto per gustare mostre, corsi e proiezioni. Stop alle 24 In tutta l’area non mancheranno punti ristoro per pranzi e aperitivi, con produttori di vini e prodotti agroalimentari. Pure un’area sociale si occuperà della risocializzazione di pazienti psichiatrici. Un palco principale e piccoli palchi ospiteranno concerti che termineranno inderogabilmente entro le 24. Da Repubblica.it (Torino) del 16/07/14 Torino come Parigi, i Murazzi diventano una spiaggia Ombrelloni e sedie a sdraio come lungo la Senna. Il piano per valorizzare l'area parte domani di ERICA DI BLASI I Murazzi come le sponde della Senna. Con tanto di spiaggia e sedie a sdraio. La sabbia dovrebbe arrivare già la settimana prossima. "Salvo problemi - spiega l'assessore comunale all'Arredo Urbano, Ilda Curti - Ma nel caso opteremo comunque per un manto erboso artificiale". Così anche Torino, sulla scia di Parigi che da anni organizza d'estate sulle rive della Senna "Paris Plage", avrà i suoi ombrelloni sul fiume. Domani saranno montate le prime strutture. Sulle sponde del Po sarà anche possibile fare sport, partecipare a laboratori, assistere a mostre, proiezioni di film e concerti. Il progetto, approvato ieri dalla giunta comunale, si chiama "Murazzi Estivo 2014". "Un modo per dare l'idea - aggiunge ancora Curti - di come lo spazio pubblico dei Murazzi possa diventare un luogo dove passare il tempo, non solo la notte. Con l'aiuto delle associazioni può trasformarsi in un vettore di culturale dove tutti, da 0 a 90 anni, siano liberi di divertirsi". Aics e Arci si sono proposte per valorizzare l'area con una programmazione giornaliera, diurna e serale, di attività capaci di richiamare giovani, adolescenti, famiglie e turisti. A fianco della spiaggia si potranno così trovare anche presidi sanitari e diversi punti ristoro in cui poter pranzare o prendere un aperitivo. Come per Cenerentola, la delibera di Palazzo civico prevede la"chiusura"amezzanotte. 5 http://torino.repubblica.it/cronaca/2014/07/16/news/torino_come_parigi_i_murazzi_diventa no_una_spiaggia-91695296/ 6 ESTERI del 16/07/14, pag. 8 Tregua fallita Riprendono i raid su Gaza Michele Giorgio Gaza. Prima vittima israeliana del lancio di razzi palestinesi. Il movimento islamico ignorato dal Cairo sceglie la linea dura. Il governo israeliano pronto all'escalation Si complica tutto. Sul terreno, sui tavoli della diplomazia. Il cessate il fuoco è solo un miraggio. Ieri pomeriggio dopo la tregua unilaterale attuata da Israele per qualche ora, seguita all’accettazione da parte del governo Netanyahu della proposta di tregua avanzata lunedì sera dall’Egitto, sono ripresi massicci i bombardamenti aerei su Gaza. In precedenza i palestinesi avevano lanciato una cinquantina di razzi, non solo Hamas ma anche il Jihad e i Comitati di Resistenza popolare. Droni e caccia F-16 hanno martellato la Striscia in più punti, polverizzando quattro palazzi. Le esplosioni hanno ucciso un anziano a Khan Yunis e un uomo a Zaitun (Gaza city). All’alba i bombardamenti aerei avevano ucciso a Rafah una donna e tre uomini a Khan Yunis. Un bombardamento terrificante che faceva temere altre vittime nel corso della notte, aggravando ulteriormente il già pesante bilancio di 197 morti e 1400 feriti palestinesi. Incessanti, specie al tramonto, anche gli spari di razzi palestinesi. Verso il sud e il centro di Israele. Hamas e Jihad hanno rivendicato il lancio congiunto di missili M 75 verso Tel Aviv dove sarebbero stati abbattuti dal sistema antimissile Iron Dome. Ad Ashqelon un Grad ha centrato in pieno un edificio senza causare feriti. E a Erez si è registrata la prima vittima israeliana dei razzi palestinesi. E’ stato ucciso un civile che stava rifornendo i militari israeliani al valico tra Gaza e Israele. Morti e feriti palestinesi e israeliani ai quali vanno aggiunti quattro civili, di cui due donne, uccisi ieri all’alba da raid dell’aviazione israeliana nella regione del Golan siriano, da cui in precedenza erano stati lanciati due razzi sul versante occupato dalle truppe dello Stato ebraico. I jet israeliani hanno preso di mira una base dell’aviazione siriana nei pressi di Quneitra e un quartiere della stessa città dove si trova anche la residenza del governatore. Altri razzi erano stati lanciati lunedì notte su Israele dal Sinai e dal Libano. L’esercito israeliano ha risposto con 31 colpi di artiglieria sull’area nei pressi dei villaggi libanesi di Qleileh e Maalieh. Netanyahu aveva convocato ieri sera una riunione d’emergenza del gabinetto di sicurezza per decidere, con ogni probabilità, nuove escalation militari contro Gaza. Il rifiuto del piano egiziano da parte di Hamas e il lancio di razzi durante la tregua di alcune ore osservata da Israele, hanno fornito al premier su di un piatto d’agento l’occasione per fare uso, ancora di più massiccio, del pugno di ferro. Sul fuoco dell’invasione di terra continuano a soffiare il ministro degli esteri Lieberman e quello dell’economia Bennett: entrambi hanno votato contro il cessate il fuoco proposto dagli egiziani quando ieri si è riunito il governo. «Israele vada fino in fondo. Dobbiamo mettere termine alla operazione quando Tzahal (le forze armate israeliane, ndr) avrà controllato la Striscia di Gaza», ha ripetuto anche ieri Lieberman che sembra conquistare appoggi nel governo alla sua tesi della rioccupazione di Gaza come unica soluzione della crisi. E più il ministro degli esteri e Bennett alzano la voce, più Netanyahu alza i toni. Il primo ministro, poco prima della riunione del gabinetto di sicurezza, ha sposato la causa della guerra totale a Gaza. Il rifiuto di Hamas dell’iniziativa 7 egiziana per un cessate il fuoco, ha detto ai giornalisti, spinge Israele a «estendere» e «intensificare», le sue operazioni militari. «Una soluzione diplomatica sarebbe andata meglio, questo è ciò che abbiamo cercato di fare quando abbiamo accettato la proposta di tregua dell’Egitto. Ma Hamas non ci ha lasciato altra scelta, se non quella di ampliare e rafforzare la nostra campagna contro di esso». La guerra va avanti. Una pioggia di accuse — ma non dai palestinesi della Striscia che vorrebbero la tregua ma più di tutto che Gaza non sia più una prigione — è caduta su Hamas perchè ha rifiutato il piano egiziano per il cessate il fuoco. Al di là dei giudizi sulla linea di azzardo militare che il movimento islamico sta portando avanti con enormi rischi per la popolazione, è fuor di dubbio che il Cairo ha giocato molto male al suo ingresso in campo dopo essere rimasto in panchina per lungo tempo. Gli egiziani l’altra sera hanno consegnato a tutte le parti coinvolte direttamente o indirettamente nel conflitto il testo del loro piano per un cessate il fuoco. A tutte ma non ad Hamas. «Abbiamo saputo di questa proposta dalle televisioni, nessuno ha preso contatto con noi», si è lamentato il portavoce del movimento islamista Sami Abu Zughri, che ha incontrato i giornalisti all’ospedale Shifa di Gaza city. I contatti sono poi avvenuti, tra l’intelligence egiziana e rappresentanti di Hamas ma l’iniziativa ormai è compromessa. Il Cairo, protestano gli islamisti palestinesi, ha proposto una riedizione dell’accordo di cessate il fuoco raggiunto nel 2012 che non sarebbe più aderente alla realtà sul terreno, anche per il mancato rispetto dei suoi punti da parte di Israele. Hamas vuole la riapertura totale dei valichi e libertà di movimento tra Gaza ed Egitto attraverso il terminal di Rafah. Punti sui quali non solo Israele ma anche l’Egitto difficilmente farà concessioni alla luce della guerra aperta che il Cairo ha proclamato ai Fratelli Musulmani, l’organizzazione madre di Hamas. Pesano però anche le divisioni interne agli islamisti. L’ala militare, Ezzedin al Qassam, affiancata da uno dei fondatori di Hamas, il “falco” Mahmoud Zahar (non più isolato all’interno della leadership politica), spinge per continuare lo scontro con Israele, forte dei successi “strategici” conseguiti con il lancio dei missili verso le città israeliane più lontane da Gaza. L’ala politica, che fa riferimento al leader all’estero Khaled Meshaal e al suo vice Musa Abu Marzuk, è più favorevole al compromesso. Tra le due parti tenta la mediazione, con risultati modesti, l’ex premier del governo di Gaza Ismail Haniyeh. del 16/07/14, pag. 12 Dentro Hamas è sfida tra pragmatici e falchi all’ombra di Teheran FABIO SCUTO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME MESSI all’angolo dal mondo arabo, derisi dalle tv egiziane per la loro ossessione per la jihad, per lo sfruttamento della popolazione civile di Gaza che, come avviene in questi giorni, è solo un utile strumento di propaganda. È l’ora più buia per la leadership di Hamas, nella Striscia e all’estero. «Se Hamas pensa di trascinare il mondo arabo nella sua inutile guerra contro Israele che è costata solo sangue dei civili palestinesi sbaglia i suoi calcoli», ha detto ieri pomeriggio lo speaker ufficiale della tv di Stato egiziana, incarnando quel sentimento di fastidio con il quale anche la Lega Araba ha discusso della crisi nella Striscia. Hamas non ha un vero leader con cui trattare e discutere e nasconde le sue divisioni nella “dirigenza collettiva“, perché ci sono troppe anime da mettere d’accordo 8 e il vuoto di una proposta politica vera lascia spazio ai duri dell’ala militare. Non si arriva a un cessate-il-fuoco vero perché la leadership di Hamas è divisa, non in due ma almeno in tre parti. La partita sul futuro, e sulla sopravvivenza del movimento, si gioca su un tavolo dove siedono Khaled Meshaal, il leader in esilio da vent’anni, Ismail Haniyeh, il “premier” di Gaza e Mohammed Deif, il potente capo delle Brigate Ezzedin al Qassam. Dietro l’atteggiamento di Hamas nel voler continuare la guerra senza quartiere i duri intravedono la necessità del movimento islamico, rimasto orfano della Fratellanza musulmana, di accreditarsi presso il suo alleato di ieri, l’Iran, dal quale aveva “divorziato” tre anni fa in un contesto regionale assai diverso. Le disperate condizioni in cui si vive a Gaza e l’assenza di prospettive per loro e per i loro “fratelli” della Cisgiordania, spingono già da tempo i settori più vulnerabili della società locale a cercare risposte politiche e ideologiche alternative a quelle fallimentari fornite in questi anni dall’Anp e da Hamas. Il movimento integralista ha serie difficoltà a governare nella Striscia senza l’ossigeno che proveniva dal vicino Egitto. Per questo ha riaperto il canale di dialogo col suo principale fornitore di armi, l’Iran, e ha ripreso il “coordinamento” con gli Hezbollah libanesi perché «il nemico è comune», ha annunciato ieri il responsabile delle relazioni esterne Osama Hamdan al giornale “As Safir” di Beirut. Khaled Meshaal è certamente quello che esce indebolito da questo confronto interno, è protetto dal potente emiro del Qatar e dalle altre petro-monarchie del Golfo ma la sua leadership non è inattaccabile. Lo stile di vita troppo borghese, gli hotel a cinque stelle, le limousine, e quei 12 milioni di dollari spariti dalle casse di Hamas dopo la chiusura frettolosa a Damasco nel 2011 degli uffici di rappresentanza, ne hanno indebolito la figura e intaccato il carisma. Non ne esce meglio il “premier” Ismail Haniyeh. Non è mai stato considerato né uno stratega né una figura “senior”, ma il ruolo di premier in questi anni gli ha permesso — a lui nato da una famiglia di rifugiati nel campo profughi di Shati — di diventare rapidamente ricco. Terreni a Gaza per milioni di dollari, ben 13 case acquistate un po’ ovunque nella Striscia. Il figlio maggiore è stato arrestato tempo fa dal lato egiziano del valico di Rafah con una valigia con 15 milioni di dollari in contanti. Era denaro di famiglia o di Hamas? A Gaza scommettono sulla prima ipotesi. Sono schierati invece tra i “duri e puri” i due capi di Hamas più inquietanti. Mahmoud Zahar, il “falco” filo-iraniano da sempre, coccolato da Khamenei durante le sue visite in Iran. Dopo un viaggio a Teheran anche lui venne fermato dalla polizia di frontiera egiziana con 26 milioni di dollari in contanti, pigiati in due valigie. Zahar odia l’Anp, odiava Arafat e ha lo stesso sentimento verso Abu Mazen, di cui non pronuncia mai il nome — come se fosse maledetto — quando ne parla si riferisce a lui come «quell’uomo». Ma in questi anni Zahar non è diventato ricco, la sua modesta casa a Zeitun è sempre la stessa. Il suo legame con Mohammed Deif — il capo del braccio armato — è strettissimo e questo fa di lui un intoccabile. È fra queste anime di Hamas che non si riesce a trovare il compromesso. Una parte della leadership di Gaza (Haniyeh) è incline ad accettare l’iniziativa e porre fine alla situazione attuale, l’altra ha pensato di respingere l’offerta di tregua e scegliere un approccio più radicale per ottenere condizioni migliori. Per nascondere meglio quella che in tutto il mondo arabo appare come una radicale sconfitta politica e militare, pagata ancora una volta più dalla popolazione civile che dagli “eroici” miliziani. del 16/07/14, pag. 11 L’ultima mossa di Abu Mazen 9 Da Al Sisi per salvare l’accordo Maurizio Molinari Hamas e Jihad islamica contestano ad Abu Mazen, come scrive il giornalista giordanopalestinese Yasser Al-Zaatra vicino ai Fratelli Musulmani, di «impedire ai palestinesi in Cisgiordania di esprimere solidarietà per Gaza». Hamas puntava a innescare nei Territori una terza Intifada contro Israele, per aprire un secondo fronte alle spalle del nemico, ma le forze di sicurezza palestinesi lo hanno impedito. Senza contare le accuse di aver «cooperato con gli israeliani» nella caccia ai rapitori dei tre ragazzi ebrei uccisi in Cisgiordania: Hamas è convinta che i nomi dei presunti rapitori Marwan Qawasmeh e Amar Abu Aisha di Hebron - siano stati indicati a Israele dalla polizia palestinese. Da qui le accuse di «tradimento» che le radio di Gaza gettano addosso ad Abu Mazen, che al momento presiede un governo di unità nazionale formalmente sostenuto anche da Hamas. E Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas, secondo fonti palestinesi, avrebbe vissuto come un «tradimento» il sostegno di Abu Mazen alla mediazione egiziana basata su una bozza di accordo «che noi non abbiamo mai visto». Sul fronte opposto a incalzare Abu Mazen c’è John Kerry, il Segretario di Stato americano che dopo aver sostenuto le critiche palestinesi agli insediamenti ebraici durante un negoziato durato nove mesi non ha gradito la decisione a sorpresa del governo di unità nazionale con Hamas. E ora preme su Abu Mazen affinché sfrutti la crisi militare a Gaza per fare marcia indietro. Lo spazio politico per il presidente palestinese si riduce al necessario sostegno per la mediazione egiziana, tantopiù che viene avallata dalla Lega Araba, e quando Hamas la respinge non gli resta altra scelta che volare al Cairo dove domani vedrà il presidente Abdel Fattah Al Sisi per un incontro che si annuncia teso. Al Sisi gli chiederà di rinunciare a ciò che resta delle intese con Hamas. Il ministro degli Esteri italiano, Federica Mogherini, è dunque arrivata alla Muqata in una delle giornate più difficili di Abu Mazen. A testimoniare le fibrillazioni di Ramallah c’è l’intenzione di rivolgersi all’Onu per chiedere la «protezione dei palestinesi dalle atrocità israeliane» con un passo non condiviso da Washington. Durante il colloquio, Abu Mazen ha detto con chiarezza cosa ha in mente: «Serve il cessate il fuoco a Gaza per poi riprendere il negoziato di pace fra noi e Israele». Ovvero, superare questa crisi militare per ricominciare le trattative arenatisi a fine aprile. Mogherini ha mostrato attenzione per questo approccio, affermando che «l’Unione europea è impegnata a favore del cessate il fuoco a Gaza» ed aggiungendo l’impegno dell’Italia «guardando al dopo» con 1,6 milioni di euro di aiuti di emergenza alla Ong presenti a Gaza e 4 milioni all’Unrwa - l’Agenzia dell’Onu per i palestinesi - che potrebbero aumentare. «Inshallah l’accordo di tregua ci sarà» ha detto Mogherini al termine degli incontri alla Muqata, poche ore dopo essersi recata ad Ashdod in visita ad una delle case colpite dai razzi lanciati da Hamas. Proprio durante questa tappa, accompagnata del collega israeliano Avigdor Lieberman, il capo della Farnesina ha affiancato l’omaggio al «coraggio della popolazione israeliana« nel fronteggiare i razzi che piovono da Gaza al sostegno «per le posizioni di Abu Mazen» a favore di una cessazione di «tutte le attività militari in atto nella Striscia». 10 del 16/07/14, pag. 11 Ma gli jihadisti guadagnano consensi Francesca Paci Lunedì, poco dopo l’annuncio dell’iniziativa egiziana per il cessate il fuoco, Hamas faceva sapere di aver parecchie riserve ma di volerci pensare su. Poche ore dopo, a tregua stracciata, il suo braccio armato tuonava di non essere stato neppure consultato dal Cairo. Chi decide cosa a Gaza e con quale peso? Secondo un recente studio del Watan Center for Studies and Research negli ultimi tre anni la popolarità di Hamas (23,3%) è calata a vantaggio della crescita dei rivali della Jihad Islamica, la costola dei Fratelli Musulmani egiziani staccatasi alla fine degli Anni 70 per avvicinarsi al più radicale Iran passata dall’1% del 2010 al 13,5% attuale. Hamas paga il prezzo di governare (solo il 6,5% ritiene che negoziare sia la via migliore per emancipare i palestinesi), ma c’è di più. All’indomani delle primavere arabe e del successo dei partiti islamisti Hamas, peccando di hybris, ha puntato tutto sui Fratelli Musulmani e i loro sponsor di Ankara e Doha alienandosi i vecchi amici siriani, libanesi, iraniani. Un isolamento di cui hanno approfittato la Jihad Islamica, i Comitati di Resistenza Popolare nati nel 2000 da una milizia di Fatah e gli altri gruppi radicali presenti a Gaza dal 2006 e sempre più critici verso la «moderazione» di Hamas (i militanti sono giovani e spesso fuoriusciti di Hamas e Fatah delusi perché Hamas non garantisce né benessere alla gente né sfida Israele). La storia inizia nel 2007, quando dopo la cacciata di Fatah Hamas impone il suo controllo su Gaza alternando la cooperazione all’antagonismo nei confronti dei rivali interni (poco dopo la presa del potere riesce a liberare il giornalista della Bbc Alan Johnston rapito 4 mesi prima dagli ex alleati dell’Esercito dell’Islam diventati poi il ramo qaedista dei palestinesi). Per quanto Hamas la spacci come un successo l’offensiva israeliana della fine del 2009 è una mazzata perché distrugge le armi e i tunnel al confine con l’Egitto da cui Hamas trae profitto e consenso. Passano 8 mesi e la tensione con i nemici islamisti monta: ad agosto le forze di sicurezza di Hamas attaccano la moschea Ibn Taymiyyah a Rafah in Rafah uccidendo lo sceicco salafita-jihadista Abdel-Latif Moussa più decine dei suoi. Nel 2011 un blitz di Hamas non riesce ad impedire che i salafiti-qaedisti guidati dal carcere dallo sceicco al-Maqdasi uccidano l’attivista italiano Vittorio Arrigoni. Da quel momento è muro contro muro fino al 2012 con Hamas che, sponsorizzato da Morsi, firma la tregua con Israele in barba alle proteste degli avversari in lotta per il cuore e le menti dei gaziani allo stremo. La Jihad Islamica in particolare, circa 5mila uomini contro i 20mila di Hamas ma ben accessoriati anche grazie all’Iran, se la lega al dito. Quando nel 2013 Morsi viene deposto dall’esercito egiziano e il Cairo dichiara guerra ad Hamas distruggendogli i tunnel rimasti inizia la battaglia per Gaza (Hamas non può più pagare gli stipendi). Da allora i Comitati di Resistenza Popolare denunciano l’arresto di decine dei loro mentre altrettanti membri della Jihad Islamica vengono bloccati nel tentativo di sparare razzi verso Israele e rompere la tregua. Cinque mesi fa la Jihad riesce a lanciare 130 razzi oltre il confine ma pare che, in quel caso, sia stato Hamas a chiudere un occhio per suggerire al presidente egiziano Al Sisi come sarebbe Gaza senza Hamas. In questa luce andrebbe letta anche la riconciliazione di aprile con l’Autorità Nazionale. È tardi? Il Cairo, come provano le ultime ore, non si fida. Anche perché intanto, tra lusinghe e minacce, Hamas flirta con i fondamentalisti di Ansar Bayt al-Maqdis contro cui l’esercito egiziano è in guerra nel Sinai. 11 del 16/07/14, pag. 13 L’altro fronte di Netanyahu offensiva del premier contro il disgelo Usa-Iran VANNA VANNUCCINI TEHERAN IL FUTURO dell’Iran si decide a Vienna questa settimana. A Teheran tutti gli occhi sono puntati verso la capitale austriaca. Domenica, giorno in cui dovrebbe concludersi il negoziato sul nucleare, è il giorno fatidico in cui gli iraniani capiranno se possono finalmente aspettarsi un futuro normale. Per Rouhani è la pietra miliare del suo primo anno di presidenza. Nell’attesa, tutto in Iran è «come se fosse sospeso, congelato», dice Ali, un negoziante. Nessuno compra, nessuno vende, tutti aspettano. Ali ha un negozio di tessuti nella grande piazza intitolata all’Imam Khomeini, che prima della rivoluzione si chiamava piazza dei Cannoni, per via dei cannoni installati sulle torrette del palazzo reale dei Qajar. Di solito i negozi sulla piazza sono affollati, ma in questi giorni i clienti sono rari. Così Ali ha preso l’abitudine, nelle ore più calde, di sedersi fuori dal negozio, all’ombra della tenda che copre l’ingresso, in un punto in cui spira sempre una brezza leggera. «Questa è la mia ora di meditazione», dice. Ali è un uomo pio, molto stimato: l’anno scorso è andato alla Mecca, e al ritorno ha finanziato la costruzione di una piccola moschea in un vicolo che dà sulla piazza. Ali ha votato per Rouhani e continua ad aver fiducia nel presidente. Il fatto è che domenica si saprà se i 5+1 e l’Iran avranno trovato la strada per un accordo da cui molto dipende, non solo per il paese ma per tutta la regione mediorientale. Israele non siede al tavolo dei negoziati, ma il suo governo è da sempre in prima linea contro un accordo. Anche in questa ultima settimana, insieme alle operazioni a Gaza, Netanyahu ha lanciato un blitz mediatico per convincere l’opinione pubblica americana che solo una soluzione “zero centrifughe” può essere una garanzia per Israele. «Se rimanessero centrifughe operative, anche il monitoraggio più pervasivo non basterebbe», ha detto. «In qualsiasi momento l’Iran può cacciare gli ispettori a correre ad arricchire uranio sufficiente per una bomba». Il risultato del blitz è stata una petizione bipartisan firmata da 342 membri del Congresso per chiedere a Obama di prolungare sine die le sanzioni. D’altra parte, molti sono convinti che sia proprio il dossier nucleare con l’Iran, delicatissimo e considerato di assoluta priorità, a far sì che gli Usa tengano una posizione tutto sommato low profile dinnanzi all’escalation nella Striscia di Gaza: meglio evitare un eventuale corto-circuito tra un fronte e l’altro, se non altro a causa dei sostegni di varia natura che l’Iran fornisce ad Hamas. E se il negoziato di Vienna fallisce? Nemishe , dice Ali. «Non può essere». È la risposta che ti danno tutti, qui nella piazza Imam Khomeini. Nessuno può pensare che il negoziato non si concluda positivamente. È una certezza fatta più di ansia che di ottimismo — nessuno vuole nemmeno pensare a cosa potrebbe accadere se l’accordo fallisse. Tutti sperano. «La situazione economica non è migliorata, il lavoro non c’è, la vita è cara, ma la gente capisce che andrà tutto meglio se la situazione internazionale cambia», dice Ali. «È vero, il sostegno a Rouhani è solido», conferma un diplomatico che è stato in servizio diversi anni a Roma. «I conservatori hanno criticato l’accordo di Ginevra, accusato Rouhani di cedere i diritti nucleari dell’Iran, ma i loro attacchi sono caduti nel vuoto. La difesa di Zarif, quando è stato convocato a spiegare l’accordo al parlamento, è stata così convincente che i conservatori hanno desistito perfino dal chiedere un voto, tanto erano in 12 pochi. Perché tra gli stessi conservatori sta nascendo una nuova corrente, dal sindaco di Teheran Qalifaf al presidente del parlamento Larijani, intenzionati ad aprire un nuovo spazio nel cielo politico iraniano e prendere le distanze dalla retorica aggressiva del tempo di Ahmadinejad». Dice invece il direttore del giornale Etemad che «Rouhani non è un teorico, ma ha il gusto dell’ironia, che alla gente piace. Mette in ridicolo le posizioni dei conservatori». «La felicità è un diritto del popolo», commentò il presidente quando la polizia arrestò sei giovani che in un video ballavano Happy. «E agli ayatollah di Qom ha detto che non è compito del governo trovare alla gente un posto in paradiso. È un pragmatico che si attiene al suo motto: moderazione e prudenza. Ha anche imparato qualcosa da Ahmadinejad, su come gestire le prerogative della presidenza». Quando i censori di Internet hanno bloccato Whatsapp ha semplicemente messo il veto. E quando i basiji hanno impedito di parlare a Hassan Khomeini, il nipote dell’Imam che doveva tenere una conferenza a Boroujerd, ha rimosso su due piedi il governatore di Borojouerd che non aveva preso provvedimenti contro i violenti. «Insomma, la gente capisce che dietro le quinte accadono più cose di quanto non appaia». A Vienna, Zarif, prima dell’ultimo dei tre lunghi colloqui con il Segretario di Stato Kerry, ha delineato la proposta iraniana: Teheran è pronta a congelare per anni la produzione di combustibile, a dare accesso illimitato agli ispettori internazionali, a cambiare la costruzione di un reattore ad Arak e convertire il combustibile per renderlo non utilizzabile per scopi militari, ma vuole mantenere le centrifughe che possiede. Per il Congresso americano le centrifughe devono essere ridotte a zero, e nemmeno in futuro l’Iran potrà procurarsi quelle di nuova generazione. Si parla della possibilità di un prolungamento del negoziato oltre il 20 luglio. Nell’accordo interinale di Ginevra questa possibilità era stata prevista, ma per gli iraniani un’altra attesa sarebbe devastante, e sicuramente darebbe più voce a tutti quelli che si oppongono all’accordo. Nemmeno per la Casa Bianca un prolungamento è una buona opzione perché darebbe nuove opportunità al Congresso di alzare ancora il tiro e alla fine di far fallire il negoziato. Qualche giorno fa sembrava che la drammatica situazione in Iraq e in Siria e l’espansione dell’Isis avessero provocato in Occidente una riflessione seria sulla necessità di cooperare con l’Iran. Teheran e Washington hanno un interesse comune a impedire una guerra settaria, il collasso degli Stati nel Medio Oriente, e ad evitare che i terroristi mettano le mani sul petrolio. Ma per gli Usa come per l’Iran è difficile concepire un’alleanza col paese che è stato finora, rispettivamente, il “Grande Satana” e l’”Asse del Male”. I costi della sfiducia reciproca continuano a pesare, molto. del 16/07/14, pag. 15 Libia, la guerra tra clan affonda il paese Battaglia all’aeroporto, “fuga” dell’Onu VINCENZO NIGRO A QUASI TRE anni dalla morte di Muhammar Gheddafi la Libia continua a dibattersi, tra scossoni e scontri, in lunga fase di transizione violenta e caotica. Gli attacchi delle ultime ore, che hanno portato perfino la missione Onu a lasciare il paese, sono stati innescati da una fazione minoritaria fra le milizie islamiche che si appoggiano ai potenti clan di Misurata, la città martire della rivoluzione. Un gruppetto di miliziani legati al deputato misuratino Salah Badi da domenica ha infatti dato l’assalto alla milizia di Zintan che 13 controllava l’aeroporto internazionale di Tripoli. Gestire lo scalo della capitale significa molto sia in termini di influenza politica che di controllo di vari traffici commerciali, legali e illegali (ingresso di armi, droga e beni di contrabbando). Il governo provvisorio del premier Al Thinni era riuscito a raggiungere un accordo con la milizia “laica” di Zintan per trasferire l’aeroporto all’esercito, ma in questa fase una frazione delle milizie di Misurata, appunto quella di Salah Badi, si è fatta avanti per provare a mettere le mani sulle piste e sui voli. Gli scontri sono andati avanti da domenica notte, ci sarebbero stati almeno 35 morti e 120 feriti. Sono stati colpiti da razzi e proiettili la torre di controllo e una decina di aerei della Libyan Airlines e di Afriqyia, le due più importanti compagnie aeree libiche. Secondo alcune fonti sentite dall’agenzia Agi a questo punto gli islamisti potrebbero dimostrarsi soddisfatti: l’aeroporto internazionale è bloccato, rimane aperto l’altro aeroporto, quello di Mitiga, quasi al centro di Tripoli, che però è controllato da altre milizie integraliste. «Il problema è che adesso le milizie di Zintan, molto potenti militarmente e politicamente influenti nel campo “laico”, potrebbero cercare la vendetta e il riscatto, potrebbero riaprire i combattimenti per andare a conquistarsi l’aeroporto di Mitiga », dice una fonte diplomatica a Tripoli. Sarebbe quindi in corso una mediazione guidata dagli ambasciatori europei, dall’inviata americana e dai pochi arabi rimasti a Tripoli per scongiurare nuove ritorsioni militari e per fermare il ciclo delle violenze. La partenza di tutto il personale diplomatico delle Nazioni Unite è ovviamente un segnale molto negativo: qualcuno a Tripoli ha parlato di «fuga dell’Opo), nu», ma i diplomatici delle Nazioni Unite (a partire dall’inviato libanese Mitri) sono stati minacciati pesantemente dalle fazioni integraliste proprio per i loro tentativi di mediazione. Gli integralisti più agguerriti vogliono il caos e vogliono che gli stranieri lascino il paese: i prossimi che avrebbero rapito o fatto saltare in aria erano proprio gli uomini Onu. Ieri in alcune riunioni fra Palazzo Chigi e ministero degli Esteri si è valutata anche l’evacuazione dell’ambasciata d’Italia guidata da Giuseppe Buccino: i piani sono pronti (da tempo) al largo incrociano varie navi della Marina militare, ma per il momento il governo italiano prova a resistere. Il governo Al Thinni ha diffuso un comunicato che evoca la possibilità di una missione militare Onu per stabilizzare il paese: «Stiamo valutando l’opzione di una richiesta di aiuto a forze internazionali che sul terreno ristabiliscano la sicurezza e consentano al governo di imporre la propria autorità», dice il premier. Molti paesi, a partire da quelli europei, hanno paura a far rimettere piede in Libia ai loro militari. Ma, come dice una fonte politica a Palazzo Chigi, «dovremo occuparci di Libia 24 ore su 24, non ci sono alternative possibili». Paradossalmente, alla fine dal marasma libico potrebbe profilarsi uno sbocco positivo — quello richiesto dalla stragrande maggioranza del popolo libico — ovvero la creazione di uno Stato laico, ispirato fortemente all’Islam, ma lontano da fondamentalismi e integralisti. Per il momento però questi ultimi combattono duramente per imporre il loro punto di vista. del 16/07/14, pag. 7 Afghanistan Autobomba al bazar, 89 morti Giuliano Battiston Almeno 89 morti, dozzine di ferite, famiglie distrutte, corpi insanguinati nei giorni del Ramadan, la più importante festività islamica. L’attentato suicida avvenuto ieri nella provincia orientale afghana di Paktika è uno dei più sanguinosi della storia recente di un 14 paese già troppo martoriato. Il metodo usato rientra nella tragica, ormai classica, casistica locale: un’autovettura sportiva Toyota imbottita di esplosivo e lanciata contro il bazar principale del distretto di Urgun, tra i più vitali fino a ieri mattina, ora simbolo di una guerra stupida che non vuole finire, nonostante le novità politiche degli ultimi giorni e l’intesa ritrovata (per ora) tra i due candidati alla presidenza, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah. Il numero dei morti provocati dall’attentato è provvisorio: un centinaio di feriti, tra cui molti in gravi condizioni, sono ricoverati nelle cliniche provinciali, qualcuno (sembra 9) in quello di Emergency a Kabul, mentre i soldati dell’esercito afgano continuano a scavare tra le macerie. Si tratta di un bilancio gravissimo, che riguarda esclusivamente le vittime civili: commercianti, donne e bambini, frequentatori innocenti di un luogo che non era un obiettivo sensibile né strategico. I Talebani, prevedibilmente, non solo non hanno rivendicato l’attentato, ma se ne sono tirati fuori nel modo più netto possibile: «annunciamo chiaramente che non è stato compiuto dai mujaheddin dell’Emirato islamico d’Afghanistan», ha dichiarato uno dei portavoce dei «turbanti neri», Zabihullah Mujahid, alla Reuters. Sulla paternità, si accavallano le interpretazioni: c’è chi sostiene che l’obiettivo dell’attentatore fosse un altro, e che la macchina imbottita di esplosivo sia finita per sbaglio nell’affollato bazar; c’è invece chi punta il dito verso esponenti dei gruppi di insorti che provengono dall’altro lato del confine, dal Pakistan, come il cosiddetto network Haqqani (Miran Shah Shura). Si tratta di un gruppo autonomo sul piano finanziario e operativo rispetto ai Talebani, ma non su quello politico, al quale si attribuiscono alcuni dei più efferati attentati degli ultimi anni, e che proprio nella provincia di Paktika, al confine con la regione pakistana del Waziristan, aveva già compiuto attentati simili. Per ora rimane difficile attribuire la paternità dell’atto terroristico, mentre i Talebani hanno rivendicato senza esitazioni l’uccisione di due membri dello staff del presidente uscente Karzai, avvenuta proprio ieri a Kabul. A Kabul intanto la politica continua a tenere banco, e molti si chiedono cosa significhi quel governo di unità nazionale di cui ha parlato pochi giorni fa, nella capitale afghana, Kerry. Dopo due giorni di animate consultazioni con i candidati alla presidenza, il segretario di Stato Usa è infatti riuscito a trovare (qualcuno dice imporre) l’intesa tra Ghani e Abdullah, i due candidati che non si parlavano dal 14 giugno, giorno del ballottaggio. Abdullah – temendo di aver perso — gridava alle frodi contro di lui, Ghani – convinto di aver vinto — auspicava l’annuncio dei risultati. Quando la matassa si è fatta complicata, con alcuni sostenitori di Abdullah che chiedevano la formazione di un governo parallelo, è sceso in campo l’alleato-occupante americano. Kerry è arrivato a Kabul e ha trovato la quadratura del cerchio: riconteggio totale degli 8 milioni di voti e, poi, formazione di un governo di unità nazionale. Tutti d’accordo, pare, a dispetto della pessima figura fatta dagli afghani, che ancora una volta hanno dimostrato di non potere e non saper esercitare la sovranità in casa propria. Tutto bene, dunque? No, perché nessuno sembra avere le idee chiare sul governo di unità nazionale: divisione del potere a metà? Inclusione in posti chiave dell’amministrazione di esponenti del secondo arrivato? Oppure l’introduzione della figura – finora non prevista dalla Costituzione – di un primo ministro, che affianchi il presidente? Ogni interlocutore sembra pensarla a suo modo. Quel che importa, dicono gli osservatori internazionali, è che sia stata scongiurato il rischio di una guerra civile, che vedesse contrapposto il «nord» tagiko pro-Abdullah al sud e sud-est pashtun pro-Ghani. I due sanno che, qualunque forma assumerà il governo di unità nazionale, dovranno lavorare a stretto contatto. E perfino Karzai, si è piegato: la cerimonia di insediamento del suo successore non si terrà più il 2 agosto, come previsto, ma dopo qualche settimana. Quando l’esito delle elezioni sarà certificato dagli osservatori stranieri. Un brutto finale di partita, per l’ex sindaco di Kabul. 15 del 16/07/14, pag. 4 Bruxelles, Juncker eletto presidente Anna Maria Merlo PARIGI Tiene il patto Ppe-socialisti Sarà Jean-Claude Juncker, 60 anni quest’anno, ex primo ministro cristiano-democratico lussemburghese e dinosauro dell’Unione europea, a presiedere la Commissione per i prossimi cinque anni. Dopo la scelta del Consiglio lo scorso 27 giugno (con 26 voti a favore e due contrari, Gran Bretagna e Ungheria), l’Europarlamento ha confermato la promessa elettorale di scegliere il candidato del gruppo arrivato in testa alle europee con 422 voti (250 contrari, 47 astensioni e 10 nulli). Un risultato più alto della maggioranza qualificata richiesta (376 voti), ma inferiore al “blocco” Ppe-Pse-Liberali che governa l’Europa (ci sono state defezioni britanniche e ungheresi nel Ppe, dei deputati del Labour e qualche socialista spagnolo nel Pse, mentre alcuni Verdi hanno votato per il federalista Juncker). Comunque, un voto migliore di quello ottenuto dal socialdemocratico Martin Schultz alla presidenza dell’Europarlamento (409 voti) il 1° luglio scorso, prima tappa dell’accordo del “blocco”. Juncker ha presentato una bozza di programma, “dieci priorità politiche per la prossima Commissione”, un compromesso che fa qualche concessione alla linea socialdemocratica da parte di chi si vuole il “presidente del dialogo sociale” e il difensore dell’ “economia sociale di mercato”: il progetto più importante è l’investimento di 300 miliardi di euro in tre anni, per favorire occupazione, crescita e investimenti, che dovrebbe venire precisato “nei primi tre mesi” del nuovo esecutivo della Ue. Non è una rivoluzione, ma dovrebbero venire mobilitati soldi della Bei e quello che resta nei cassetti dei Fondi strutturali. Juncker ha promesso di far partecipare alla Ue il “ventinovesimo stato”, cioè l’esercito di 30 milioni di disoccupati che sta minando la fiducia nelle istituzioni di Bruxelles da parte dei cittadini. Gli investimenti dovranno venire concentrati nell’energia (l’Europa dovrà essere numero uno nelle rinnovabili, con un obiettivo di 30% di efficienza energetica nell’edilizia entro il 2030), nel digitale (creazione di un mercato unico digitale, fine del roaming), alla semplificazione burocratica per la piccola e media impresa, ma anche per favorire le riforme, che restano in agenda, tali e quali al passato: “non modificheremo il Fiscal Compact” ha precisato Juncker, anche se “il Consiglio ha constatato che ci sono margini di flessibilità”. Ci potrebbe essere un margine a favore di “proposte per incoraggiare le riforme strutturali, se necessario attraverso incentivi finanziari aggiunti”, come chiedono i paesi in difficoltà, Francia e Italia in testa. Concessioni ai socialdemocratici anche sulla possibilità di un salario minimo garantito in tutti i paesi membri, sulla necessaria lotta al dumping sociale per proteggere il diritto della libera circolazione e la difesa del servizio pubblico, malmenato dal vento liberista degli ultimi tempi. Juncker ha preso impegni anche sul tragico capitolo dell’immigrazione, “un problema che non è solo di Italia o Malta, ma di tutti”. Doppio approccio: da un lato, la nomina di un commissario speciale all’immigrazione e la creazione di un team di guardie di frontiera per interventi rapidi nell’ambito di Frontex per fronteggiare l’emergenza, e dall’altro una promessa di riflessione sull’ “immigrazione regolare di cui l’Europa avrà bisogno nei prossimi 50 anni”. Per l’immediato, Juncker afferma: “lottiamo contro le bande criminali che fanno profitti sulla pelle degli altri” e “interveniamo prima che queste persone prendano le barche” per approdare in Europa dall’ “Africa infelice”. 16 Juncker ha preso un impegno sul Ttip, il trattato transatlantico, la Nato del commercio in via di negoziato tra Ue e Usa. Non sarà concluso “a qualunque prezzo”, personalmente favorevole, il neo-presidente afferma pero’ che “non possiamo abbandonare i nostri valori, le nostre norme”, in particolare sulla protezione dei dati e sulle giurisdizioni parallele, che Washington vorrebbe imporre agli europei, scavalcando cosi’ le legislazioni statali. Juncker il federalista ha difeso l’euro che “protegge”, che ha evitato la “guerra di tutti contro tutti” nella crisi e che è sopravvissuto malgrado gli speculatori che avevano puntato “sul crollo della zona euro”. “Sono orgoglioso che la Grecia sia ancora nell’euro”, ha detto, dopo che “durante la crisi del debito abbiamo pilotato un aereo in fiamme”, ma ora bisogna ripensare i metodi della Trojka (Bce, Commissione, Fmi), che mancano di “sostanza democratica” e mettere sulla bilancia in futuro “uno studio minuzioso dell’impatto sociale dei programmi” di aggiustamento. Completa l’intervento la promessa di una maggiore trasparenza nel funzionamento delle istituzioni, con la creazione effettiva di un registro pubblico delle lobbies all’opera a Bruxelles (dove si aggirano più di 15mila lobbisti di tutti i tipi) e l’assicurazione di fronte all’insofferenza crescente verso l’espansione della Ue che “nei prossimi cinque anni” non ci saranno nuovi allargamenti, anche se i negoziati in corso per le adesioni continuano. Scontata la reazione dell’estrema destra, che ha accolto l’omaggio all’euro al grido di “rubbish” (spazzatura). Per sottolineare che la nuova Commissione sarà più politica della precedente, Juncker ha reso omaggio a Jacques Delors, Kohl e Mitterrand, oltre a ringraziare “Madame Le Pen di non votarmi” perché “non voglio sostegno di chi respinge e dell’odio che esclude”. del 16/07/14, pag. 1/15 Le offerte deboli di Juncker Agenor Quattordici pagine per dieci punti programmatici, questo il documento con cui Jean-Claude Juncker ha ottenuto il via libera degli eurodeputati alla sua nomina a Presidente della Commissione europea. Inutile dire che l’attesa era grande, dopo sei anni di crisi dell’eurozona e di politiche economiche fallimentari che hanno approfondito la recessione e portato la disoccupazione in molti stati membri a livelli mai conosciuti da dopo la seconda guerra mondiale. Purtroppo, chi nutriva la speranza che l’Europa potesse “cambiare verso” dovrà aspettare il prossimo giro. Il documento di Juncker è essenzialmente il risultato di un copia e incolla – in alcuni casi letterale – delle ultime comunicazioni della Commissione europea e conclusioni del Consiglio Europeo. «Un nuovo impeto per l’occupazione, la crescita e gli investimenti» così inizia il documento e potrebbe sembrare incoraggiante se non fosse che il paragrafo sottostante smentisce qualunque ambizione. Juncker auspica di “mobilitare” fino a 300 miliardi di euro in 3 anni in investimenti – pubblici e privati — nell’economia reale senza però fornire alcun dettaglio su come dovrebbero essere finanziati, a parte uno sbrigativo riferimento ad un possibile incremento del capitale della Banca europea degli Investimenti (Bei). Il problema è che la Bei fornisce un sostegno finanziario (parziale) a progetti d’investimento attraverso la mediazione di banche nazionali, ciò presume che esistano capitali privati pronti ad essere investiti e banche nazionali disposte ad assumersi parte del rischio. Potenziare il capitale della Bei significa migliorare le condizioni del credito, dal lato dell’offerta. Purtroppo ciò che manca oggi è la domanda, perché le attese economiche 17 negative mantengono depressa l’iniziativa privata. Che l’impronta ideologica “offertista” non sia cambiata lo conferma anche il rinnovato appello alla deregolamentazione per «creare un positivo clima imprenditoriale». La parola “domanda” non appare neppure una volta, nonostante persino il Fmi abbia chiesto all’Eurogruppo di fare di più per la domanda aggregata. Ma è forse il capitolo sull’Unione monetaria quello in cui Juncker dimostra la sua agenda di retroguardia. Sarebbe bastato ricordare la debolezza intrinseca di un’Unione monetaria priva di un vero prestatore di ultima istanza e di un bilancio federale, citando ciò che la stessa Commissione europea diceva prima dell’introduzione dell’euro. Forse sarebbe stato troppo aspettarsi da Juncker un discorso simile a quello pronunciato dal Commissario all’Occupazione Laszlo Andor qualche settimana fa sull’inevitabile tendenza dell’Unione monetaria incompleta a scaricare sui lavoratori il peso degli aggiustamenti di competitività – in termini di maggiore disoccupazione e riduzione dei salari. Juncker, invece, nella migliore tradizione di Barroso e Rehn, pone l’accento sulle mitologiche “riforme strutturali”, dietro le quali si nasconde la solita ricetta di precarizzazione del lavoro in ossequio alla teoria per la quale la rigidità dei salari non permette l’ottimale allocazione delle risorse. Una teoria empiricamente indimostrabile e di conseguenza ottimo appiglio per gli uomini di fede, come Juncker. I lavoratori europei nel frattempo dovranno appigliarsi alla speranza che cinque anni passino in fretta. del 16/07/14, pag. 1/2 La trincea di Federica ALBERTO D’ARGENIO ANGELA , se Federica Mogherini è troppo giovane, sappi che per me l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione è Massimo D’Alema ». È un pomeriggio di fuoco a Palazzo Chigi. Le linee sono letteralmente roventi. Dopo che un fronte di 11 Paesi, prevalentemente dell’Est, si è coagulato contro la candidatura della Mogherini a “ministro degli Esteri” dell’Unione, Matteo Renzi sente Angela Merkel, Herman Van Rompuy e Francois Hollande. A TUTTI il premier fa lo stesso discorso: «L’accordo è che alla famiglia socialista spetta l’Alto rappresentante e che all’interno della famiglia socialista sarà l’Italia ad avere la prima scelta. Dunque tocca a noi e per me ci sarà una Lady Pesc, Federica Mogherini». Ma dopo il no all’attuale ministro italiano, il premier incassa i dubbi anche su D’Alema. Ma non intende mollare. Vuole giocare la partita fino in fondo. Renzi questa sera sarà a Bruxelles alla cena con gli altri leader che devono decidere le ultime nomine europee dopo che ieri Strasburgo ha dato la fiducia a Jean Claude Juncker, nuovo presidente della Commissione Ue che entrerà in carica a novembre. Ma la partita italiana è in salita. Fino a cinque giorni fa tutte le Cancellerie concordavano che la Mogherini sarebbe stata nominata a capo della diplomazia europea. Poi le acque si sono rapidamente increspate. Tanto che Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo uscente incaricato dai leader di trovare la quadra sulle nomine, ha iniziato a manifestare a Roma le proprie perplessità: «La Mogherini - era il messaggio recapitato tramite canali diplomatici - non ha abbastanza esperienza. Temo che non passerà». Facendo sapere che il modo per uscire dell’impasse era quello di candidare Enrico Letta alla presidenza del Consiglio europeo, o a Mr Pesc. «Tutti lo accetterebbero all’istante». Ma da Roma è arrivato un “no” secco. 18 A quel punto, si racconta su regia della Polonia, il fronte anti-Mogherini si è organizzato arrivando a contare 11 paesi, anche se ora Varsavia si sta allontanando da questa linea. Prevalentemente dell’Europa orientale, ma con le spalle coperte da Londra e da alcuni ambienti di Berlino. Tanto che ieri Elmar Brock, luogotenente di Angela Merkel a Strasburgo, ripeteva ai colleghi italiani: «Dopo la Ashton serve una persona che abbia esperienza e network internazionale». Il fronte del no accusa poi la candidata italiana di non avere il curriculum per trasformare l’evanescente figura del ministro degli Esteri Ue in qualcosa di incisivo. E le capitali dell’Est le rinfacciano posizioni troppo vicine alla Russia di Vladimir Putin, dopo la crisi Ucraina il nemico numero uno delle Cancellerie dell’Est spaventate dal neo imperialismo russo e favorevoli a inasprire le sanzioni contro Mosca. Alla Mogherini viene rimproverato di avere rassicurato Putin su South Stream, la pipeline di fatto bloccata dall’Europa dopo la crisi Ucraina per diminuire il potere di ricatto sul gas con il quale il Cremlino sfida l’Unione. C’è un episodio che spiega plasticamente quanto la partita per l’Italia sarà difficile: ieri la bulgara Kristalina Georgieva, attuale commissario Ue in quota Ppe e competitor della Mogherini, non poteva circolare per i corridoi del Parlamento europeo senza che colleghi ed europarlamentari la fermassero per farle le congratulazioni per la carica che, pronosticavano, le sarà assegnata questa sera. Uno smacco per l’Italia, visto che Van Rompuy è intenzionato a decidere solo Mr Pesc, lasciando le altre nomine, il presidente del Consiglio europeo e quello dell’Eurogruppo, a un altro vertice a fine mese. Dunque Roma rischierebbe di uscire a mani vuote dopo avere dato per fatta la nomina della Mogherini. Renzi non si rassegna, come testimoniava ieri il sottosegretario Sandro Gozi: «Se ci saranno obiezioni anche l’Alto rappresentante, come già Juncker, sarà designato a maggioranza». Insomma, l’Italia è pronta a sfidare il blocco dell’Est al voto all’interno del Consiglio europeo, come Cameron fece per bloccare Juncker rimanendo in compagnia del solo ultranazionalista ungherese Orban. Ma superare lo scoglio non di due, ma di dieci paesi, può rivelarsi ancora più difficile. Renzi si prepara alla battaglia, conta sul lavoro di network che ha fatto nelle ultime settimane. «Ci dicono che abbiamo un feeling con la Russia? Ma quando mai!», commentava ieri il premier con i suoi. «La Lituania (unico Paese ad essere uscito allo scoperto contro la Mogherini, ndr) dice di no? Bene, ne prendo atto». E ancora, «C’è un problema con l’Italia? C’è un problema con il Partito socialista europeo? Mi dicono di no. Se il problema è con la Mogherini, parliamone. Se dicono che è troppo giovane parliamone». Ma a Palazzo Chigi c’è il sospetto che la manovra contro la candidata di Renzi sia stata orchestrata dai partner per portare Enrico Letta a Bruxelles. E su questo il premier è categorico, non vuole che siano gli altri a scegliere il futuro uomo italiano in Europa: «Per me ci sono solo la Mogherini e D’Alema». Discorso che Renzi ha fatto sia alla Merkel che a Van Rompuy. Ma entrambi hanno sonoramente bocciato il nome di D’Alema, che in molte Cancellerie, e anche Oltreoceano, non è apprezzato per le posizioni sul Medio Oriente. Se domani le posizioni rimarranno bloccate, Renzi è pronto a rinunciare a Mr Pesc solo in cambio di qualcosa di altrettanto importante. Non il commissario all’Economia, visto che l’Italia ha già Draghi alla Bce e che c’è un accordo per darlo al socialista francese Moscovici: «E lui va benissimo, la Francia farà qualsiasi cosa per la flessibilità sui conti e la crescita », è la valutazione del governo. I partner dovranno offrire qualcosa di grosso, e gradito al premier, per evitare di rimanere tra le secche. Renzi questa sera si presenterà al summit così: «Dovete dire no all’Italia e no al Pse. Ma sappiate che dentro al Pse il Pd è il partito più forte e che tutti sono d’accordo a darci l’Alto rappresentante. Perché non va bene la nostra candidata? Perché non va bene la candidata dei socialisti? Ce lo devono spiegare». Ecco il guanto di sfida che lancerà ai 19 colleghi, forte di una convinzione: «Perché la Merkel e gli altri - è il ragionamento che gira a Palazzo Chigi - devono mettere un dito nell’occhio all’Italia per fare un favore alla Bulgaria?». Tutto questo il premier lo ha già detto ai partner che ha sentito al telefono nelle ultime ore, a Van Rompuy ha ricordato che «l’Italia è un Paese fondatore dell’Unione e ogni anno versa 24 miliardi al bilancio europeo». E di fronte alle perplessità del chairman dei vertici Ue, ha salutato: «Herman, ci risentiamo domani mattina (oggi, ndr)». Consegnando poi ai suoi un messaggio di battaglia: «Non so se la cena di Bruxelles si chiuderà con una decisione». Di certo sarà una lunga notte. del 16/07/14, pag. 4 Il “renzismo” non basta a tenere uniti i socialisti europei Jacopo Rosatelli Il voto per la presidenza della Commissione . Fronte diviso su Juncker: contro francesi, spagnoli e inglesi. E più in generale, il Parlamento di Strasburgo ha ancora poteri troppo limitati rispetto ai capi di governo Per il capogruppo degli eurosocialisti, il democratico Gianni Pittella, la giornata di ieri ha rappresentato «l’avvento della democrazia parlamentare nell’Unione europea». Un momento storico, dunque. Peccato sia una clamorosa esagerazione: se è indubbiamente un passo in avanti il fatto che Jean-Claude Juncker sia diventato presidente della Commissione in virtù di un’indicazione del Consiglio dei capi di governo «tenuto conto delle elezioni» (come recita il Trattato Ue), siamo ancora ben lontani da una vera democrazia nella Ue. Limitandosi al piano puramente formale, le «anomalie» sono molte: i commissari sono indicati dai governi nazionali (e quindi anche gli «anti-Juncker» di destra David Cameron e Viktor Orbán avranno ciascuno il proprio), al Parlamento manca il potere di proporre le leggi (ha solo quello di approvarle), e, soprattutto, il Consiglio dei capi di governo è il vero centro decisionale. In barba a ogni spirito comunitario o parlamentarismo. Ci sono almeno altre due ragioni per assegnare l’affermazione di Pittella (peraltro bravo nel ricordare il massacro di Gaza) più al mondo della fantasia che a quello della realtà. La prima è puramente «politica», e riguarda proprio il gruppo socialista. In una democrazia parlamentare, nei momenti solenni come quelli dell’investitura di un nuovo esecutivo, i gruppi parlamentari votano compattamente: è il momento massimo di espressione della propria linea politica. Ieri, invece, la famiglia socialista europea ci ha offerto uno spettacolo diverso: il capogruppo ha tenuto un appassionato discorso annunciando il convinto «sì» della sua truppa al presidente designato Juncker. Un sostegno – sia detto en passant – che è apparso quasi più sincero di quello espresso nel suo marcato accento bavarese dal capogruppo del Ppe Manfred Weber. E tuttavia, tre importanti delegazioni nazionali all’interno del gruppo socialista hanno votato contro: francesi, spagnoli e britannici. Indiscutibilmente, non è un inizio scintillante per il «nuovo Pse» a trazione renziana. Partiti come il Ps di François Hollande, il Psoe del neosegretario Pedro Sánchez e il Labour di Ed Miliband non sono forze qualsiasi, ma di primo rango. Nessuna di loro gode di buona salute in questo momento (francesi e spagnoli sono usciti con le ossa rotte dalle elezioni), ma restano pur sempre, insieme alla Spd tedesca, le organizzazioni che nel corso dei decenni hanno dettato la linea dei socialisti in Europa. Loro sono il socialismo europeo 20 molto di più di quanto non lo sia il Pd, che, va ricordato, è soltanto da qualche mese parte a tutti gli effetti del Pse. E dunque, la loro scelta «in dissenso» dall’indicazione del capogruppo non può essere considerata un dettaglio, ma una dimostrazione chiara del fatto che una dimensione autenticamente europea della democrazia parlamentare ancora non c’è. Va da sé che il voto contro Juncker è molto più coerente con le posizioni che i socialisti avevano espresso prima del voto del 25 maggio: è ciò che dicono tanto i francesi quanto gli spagnoli. La loro scelta, in sé positiva, puzza però lontano un miglio di opportunismo, essendo una scelta propagandistica a fini di politica interna: se i loro voti fossero stati determinanti, i renitenti di ieri avrebbero senz’altro votato per Juncker, sia perché la «grande coalizione» è da sempre la linea dei socialisti in Europa, sia perché il lussemburghese, è, fra i popolari, il meno distante da loro. Ma c’è una seconda ragione per la quale «l’avvento della democrazia parlamentare» è ben lungi. È un motivo più «di sostanza», e cioè il Ttip: il Trattato di libero scambio UeUsa, al centro della discussione pomeridiana di ieri a Strasburgo. La Commissione (quella uscente!) lo sta negoziando in gran segreto e senza autentico mandato, negando un vero accesso ai documenti agli stessi eurodeputati. E con il nuovo round di discussione ha aperto anche il delicato dossier dei servizi pubblici, che rischiano di diventare «merce» qualsiasi. Juncker ha promesso vagamente più trasparenza: una generosa concessione che, purtroppo, nessuno è obbligato a pretendere davvero. Come sarebbe, invece, in una normale democrazia parlamentare. del 16/07/14, pag. 1/26 L’ultima battaglia della Scozia per la libertà ENRICO FRANCESCHINI GLASGOW LA SALA arrivi dell’aeroporto è stata trasformata in una pista d’atletica, a ciascun passeggero una corsia, come se dovessimo uscire dal terminal correndo i cento metri. Il tabellone delle partenze alla stazione centrale riporta un solo orario: il conto alla rovescia di quanto manca all’inizio del grande evento. E dovunque i cartelloni avvertono che il 23 luglio a Glasgow cominciano i Ventesimi Commonwealth Games: le “Olimpiadi” delle ex colonie dell’Impero Britannico. Si tengono ogni quattro anni e non sono un appuntamento sportivo di poco conto. Ma stavolta i Giochi del Commonwealth hanno anche o soprattutto un’importanza politica: sono l’ultima opportunità di influenzare in modo decisivo il referendum sull’indipendenza che si farà in Scozia il 18 settembre. Un voto che può mandare in pezzi il Regno Unito e scatenare un’ondata di consultazioni secessioniste in tutta Europa. Le due campagne che si affrontano nel referendum, “Yes Scotland” (per l’indipendenza) e “Better Together” (Meglio insieme — contro), cercheranno di sfruttare ciascuna a proprio vantaggio la kermesse di competizioni che sta per cominciare a Glasgow. Diversamente dalle Olimpiadi di due anni fa a Londra, qui non verrà schierato un “Team Gb”, una squadra della Gran Bretagna, bensì quattro squadre separate per ogni sua regione, come nel football, e i nazionalisti sperano di suscitare entusiasmo per il “sì” all’indipendenza in un tripudio di cornamuse e kilt per le medaglie o perlomeno le prestazioni dei campioni di casa. I quali non si limitano a parlare di sport: «Gareggiare in questi Giochi sotto la bandiera della Scozia ci farà sentire cosa vuol dire rappresentare il proprio paese, la propria gente, la propria cultura», dice la campionessa scozzese di judo Connie Ramsay. 21 Ma anche gli unionisti, sostenitori di una Scozia che continui a far parte del Regno Unito, giocheranno le loro carte. La regina Elisabetta, prima di trascorrere come ogni estate le ferie nel castello scozzese di Balmoral, verrà a inaugurare i Commonwealth Games, riaccendendo l’orgoglio per la nazione di cui è a capo. E il giorno dopo la conclusione dei Giochi il primo ministro David Cameron celebrerà nella cattedrale di Glasgow alla presenza dei leader di tutti i paesi del Commonwealth il centenario della prima guerra mondiale, a cui i popoli delle ex-colonie — scozzesi inclusi — diedero un contributo di eroismo e di sangue, sottolineando gli storici valori che li uniscono. «La linea del fronte del referendum, il luogo cruciale per decidere se la Scozia diventerà o meno indipendente, passa da Glasgow», spiega Ewan MacAskill, a lungo cronista dello Scotsman e dell’ Herald , i giornali della città. «I Giochi sono la chance per spingere il voto in una direzione o nell’altra », concorda Chris Green, corrispondente da Glasgow del quotidiano Independent . Forse in Scozia non c’era un posto migliore per simboleggiare il dilemma. Se Edimburgo è la capitale politica della regione, e Aberdeen con i suoi giacimenti di petrolio la capitale economica, Glasgow ne costituisce da sempre la capitale morale. Èla più grande città scozzese, con 600 mila abitanti che salgono a 1 milione e 200 mila compresi i sobborghi: un quarto della popolazione scozzese. Era soprannominata la «second city» del British Empire (dopo Londra), il motore dell’impero. La rivoluzione industriale ne fece un centro di produzione tessile, chimica e ingegneristica di livello mondiale. Dai suoi cantieri sono uscite navi famose come la Queen Mary, il Royal Yacht Britannia (il piroscafo della famiglia reale), la Queen Elizabeth 2. La ferrovia GlasgowLondra veniva chiamata «la spina dorsale della Gran Bretagna». Eppure, dopo avere dato tanto al paese, la città sulle rive del fiume Clyde si è spenta. Nel dopoguerra è iniziato un progressivo declino, la deindustrializzazione ha chiuso fabbriche e cantieri, l’East End di Glasgow è diventato sinonimo di un circolo vizioso di disoccupazione, miseria, abbandono. Prima che fiocchino record ai Commonwealth Games, Glasgow ne ha dovuto ingoiare uno amaro: una statistica appena pubblicata indica che è il centro urbano con la più bassa aspettativa di vita del Regno Unito, 72 anni per i maschi, 78 per le femmine, una media di dieci anni inferiore al resto della nazione. I “glaswegian”, i suoi abitanti, non si limitano a morire prima degli altri: il quartiere dell’East End ha le peggiori cifre non solo della Gran Bretagna ma dell’Europa intera per povertà minorile, sanità, crimine, alcolismo, abuso di droghe. C’è chi dà la colpa ai tagli al welfare e alle privatizzazioni selvagge della Thatcher, chi cita cause più antiche, perfino naturali, come la scarsità di vitamina D (per nove mesi all’anno il sole si vede poco da queste parti), o vecchie abitudini, come l’inclinazione al bere trasmessa di generazione in generazione. Come che sia, il governo di Londra non era riuscito a fermare la decadenza. Quello autonomo scozzese, introdotto dalla devolution di Tony Blair e attualmente guidato dal premier indipendentista Alex Salmond, sostiene di poterci riuscire. Glasgow ha visto crescere gli investimenti negli ultimi anni e il suo centro commerciale porta i segni di una rinascita, con avveniristici palazzi, boutique e grandi magazzini, ristoranti alla moda. La campagna “Yes Scotland” promette che anche i Commonwealth Games daranno una mano a far ripartire la città, rigenerando proprio l’East End, dove hanno sede impianti e villaggio per gli atleti, sul modello di quanto ha fatto Londra con le Olimpiadi per il proprio East End (le aree depresse, in questo paese, hanno ovunque gli stessi nomi). Ma è un progetto a lungo termine. Basta allontanarsi dalle vetrine scintillanti di Buchanan street per scoprire la vecchia Glasgow di edifici fatiscenti: serrande sprangate, avvisi di 22 «fallito», «chiuso per cessata attività», «vendesi» e negozi della catena Poundland, dove niente costa più di un pound, una sterlina. «La campagna del no all’indipendenza è basata sulla paura. Londra vuole spaventarci, ma né i conservatori né i nuovi laburisti che li scimmiottano hanno mai fatto qualcosa per noi. È ora che gli scozzesi tornino a essere governati dagli scozzesi come fino a 300 anni or sono ai tempi di Braveheart», s’infervorisce Joseph Gardiner, disoccupato di mezza età, in cambio di una birra al Bristol, uno dei pub rimasti aperti attorno a Duke street. «I politici sono tutti uguali, a Londra come a Edimburgo, pensano solo alle proprie ambizioni personali », replica Jack MacGregor, studente della Glasgow University. «L’indipendenza è un rischio, fare parte della Gran Bretagna crea comunque più occasioni di trovare lavoro, non possiamo giocare d’azzardo con il nostro futuro». La città appare divisa, riflettendo l’equilibrio dell’ultimo sondaggio: 46 per cento di no all’indipendenza, 41 per cento di sì, 13 di indecisi. Di passioni contrastanti, del resto, Glasgow ha sempre vissuto, come testimonia l’ardente rivalità fra i tifosi cattolici dei Celtic e quelli protestanti dei Rangers, le due squadre di calcio cittadine. Chissà se sarà proprio una sfida sportiva, portata dai Giochi del Commonwealth, a decidere il destino della Scozia. del 16/07/14, pag. 7 L’altra America, oggi e domani Geraldina Colotti, Brasile. Gli emergenti creano una nuova banca per lo sviluppo in alternativa all’Fmi L’accordo per creare una banca dello sviluppo con un apporto iniziale di 100.000 milioni di dollari e un fondo di riserve delle stesse dimensioni: per sfidare il dominio occidentale sulla finanza globale. Questi gli obiettivi principali del VI vertice in corso in Brasile fra i paesi delle economie emergenti: i cosiddetti Brics, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Creato nel 2001, il gruppo ha accolto il Sudafrica e aggiunto la relativa “s” dell’acronimo, nel 2010. È così attualmente rappresentato circa il 27% del territorio mondiale, con 39 milioni e 744.591 Kmq in America, Asia, Europa e Africa. Si contano 112.945 milioni di tonnellate di riserve petrolifere, e 48.337,7 milioni di metri cubici di gas naturale. In base agli ultimi censimenti effettuati nei cinque paesi, nei Brics si ritrova il 43% della intera popolazione del pianeta, con 2 miliardi, 992 milioni e 221.736 persone, e si concentra il 25% del Pil mondiale. Nel 2030 si prevede che costituirà il 50%. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il gruppo degli emergenti sarà quello con la maggior crescita economica, all’interno del 3,7% previsto quest’anno. La Banca di sviluppo, che entrerà in funzione nel 2016 e sarà basata in Cina, potrà effettuare prestiti non solo ai paesi membri, ma anche ad altre nazioni emergenti: sempre per l’infrastruttura e lo sviluppo sostenibile, come annunciato dal tema del vertice, «Crescita inclusiva: soluzioni sostenibili». Un’alternativa all’Fmi e alla Banca mondiale e ai tribunali di arbitraggio internazionale, che rispondono alle sollecitazioni delle grandi corporations. Un argomento che verrà affrontato oggi e domani a Brasilia, quando i Brics discuteranno con le nazioni sudamericane che compongono la Unasur e la Celac, la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici che esclude solo Usa e Canada. In primo luogo, il debito dell’Argentina con i «fondi avvoltoi» che reclamano una somma in grado di portare il paese a un nuovo default. Cristina de Kirchner ne parlerà al vertice, preceduta 23 dalla decisione del presidente russo Vladimir Putin che ha condonato il 90% del debito contratto da Cuba con l’Unione sovietica. Ci saranno anche i paesi del «socialismo del XXI secolo», come Venezuela, Bolivia e Ecuador, che hanno già solide relazioni con i Brics. L’Ecuador sta negoziando accordi con l’Europa, nel quadro dell’altro grande disegno, però a guida nordamericana, il Ttip. E per questo subiscono già contestazioni preventive, come succede a Quito con le manifestazioni dei contadini contro il governo Correa. Il presidente della Bolivia, Evo Morales, ha detto che parlerà alla Cumbre della difesa della vita e della sovranità della Palestina. del 16/07/14, pag. 15 La partita mondiale dei Brics Brics. Per uscire dalla crisi, una banca per lo sviluppo rivolta ai paesi sudamericani. E un fondo di riserva per il problema del restringimento del credito esterno Tommaso Nencioni Di questa estate brasiliana, più ancora dei mondiali di calcio, si ricorderà forse il definitivo superamento del sistema di Bretton Woods. Approfittando infatti della competizione calcistica, si sono dati appuntamento a Brasilia i leader dei paesi Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa — ed capi di Stato dell’Unasur, l’organizzazione che rappresenta i paesi dell’America latina. All’ordine del giorno la discussione per la creazione di una Banca di sviluppo autonoma del quintetto Brics, che abbia i paesi sudamericani come principali interlocutori, e, più nell’immediato, di un Fondo di Riserva per affrontare problemi contingenti di restringimento del credito esterno, cioè ad opera delle Istituzioni nate a Bretton Woods nel 1944. Il sistema di Bretton Woods, messo in piedi dalle grandi potenze occidentali sotto l’accorta regia del Tesoro statunitense, iniziò a mostrare la corda già nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, con la decisione dell’Amministrazione Nixon di abbandonare la parità dollaro-oro per rispondere al doppio shock, petrolifero e della sconfitta Usa in Vietnam. È tuttavia nella vulgata occidentalista che tale sistema, finché ha retto, con la sua “convivenza di Keynes all’interno e di Smith all’esterno” (Gilpin), abbia garantito il Trentennio di maggior sviluppo della storia dell’umanità. Se le ricette alla base di questo successo sono state precipitosamente messe da parte negli ultimi trent’anni, non per questo le istituzioni macro-economiche globali pensate dall’Occidente per supportarle hanno smesso di operare. Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Club di Parigi hanno mantenuto tutta la loro forza cogente, cambiando semmai di segno. Da strumenti per equilibrare le economie, ed i rapporti di forza, all’interno di un area occidentale concepita come un tutt’uno compatto contro la minaccia sovietica, si sono trasformati in strumenti per disequilibrare le economie ed i rapporti di forza globali a favore del Nord del mondo, e contro il Sud del mondo. Nel lungo periodo, dissoltesi le nebbie della cortina di ferro, è emerso come tratto distintivo di Bretton Woods, la pretesa globale di istituzioni pensate in Occidente e per l’Occidente. Formalmente, tutti gli Stati vi erano rappresentati; ma, nella pratica, ciò che era bene per il Nord era bene per l’intero pianeta. Viste dall’ottica dei nuovi gruppi dirigenti progressisti dell’America Latina, le istituzioni di Bretton Woods rappresentano meno i Trenta gloriosi, e più la grande crisi della fine degli 24 anni Novanta. Il caso argentino rimane in quest’ottica emblematico. Le cause dell’indebitamento del paese, esploso fragorosamente sul finire degli anni Novanta, allignano tutte nelle misure ultraliberiste imposte dagli organismi internazionali ai compiacenti governi della dittatura militare prima (1976–1983), e agli altrettanti compiacenti governi guidati da Carlos Menem ed i suoi epigoni poi. Nel corso dell’ultima decade, il nuovo corso kirchnerista ha assicurato una fase di robusta crescita economica e di rafforzamento dell’apparato produttivo nazionale, e tuttavia il paese sudamericano si ritrova di nuovo sull’orlo del default , a causa di una sentenza dell’alta corte di Washington: quest’ultima ha imposto il pagamento dell’intero debito – contratto, appunto, in un’altra epoca politica ed economica – a quei fondi di investimento privati, con sede negli Stati uniti, che non avevano accettato quella rinegoziazione, valutata invece positivamente da tutti gli altri attori, statali o privati che fossero. Il valore esemplare della sentenza appare lampante: si è trattato di punire un modello di uscita dalla crisi basato su ricette eterodosse – innalzamento dei salari e delle pensioni, abbassamento dell’età pensionabile, forte ruolo dello Stato in economia con la rinazionalizzazione di settori decisivi, alta spesa pubblica (particolarmente beneficiate la ricerca scientifica, la scuola pubblica e la rete di trasporti ferroviari). E di far leva su un apparato mediatico compiacente per costruire l’eterna immagine del “latino inaffidabile”, sorvolando sullo sforzo compiuto dal gigante argentino e sulle misure effettivamente intraprese per radicarlo. Nei summit che in questi giorni si svolgeranno tra Brasilia e Buenos Aires non è tuttavia in gioco solo l’allontanamento dell’incubo del default dai sonni degli argentini – in questa direzione va senz’altro il progetto di Fondo autonomo di compensazione. È in gioco anche la messa in crisi della pretesa egemonica globale dell’Occidente e dell’ideologia unica che ne sorregge e propaganda le magnifiche sorti e progressive. La Banca di sviluppo si potrebbe trasformare in uno strumento decisivo a servizio di ogni Stato (o comunità di Stati) che voglia trovare vie d’uscita alternative dalla crisi. Finora questo processo, che proprio in America Latina ha trovato il suo laboratorio, ha scontato proprio la mancanza di strumenti tecnici efficaci per supportarlo. Il Sud del mondo, secondo una ricorrente metafora che impazza in queste ore nei nostri media mainstream incaricati di farne senso comune, sconfitto dal modello tedesco sul campo di calcio come sul panorama globale, potrebbe prendersi la più importante e decisiva delle rivincite, proiettando le proprie conseguenze ben oltre le tribune dello stadio Maracanà. 25 INTERNI del 16/07/14, pag. 15 “Non compreremo niente che non sia sicuro e non funzioni perfettamente» F-35, dopo i guasti la Pinotti frena LUCIO CILLIS DAL NOSTRO INVIATO FARNBOROUGH . Il ministro della Difesa Roberta Pinotti frena sugli F-35. All’Air show più importante del mondo, quello di Farnborough, ha risposto così ad una domanda sui nuovi guai registrati dal progetto del Joint Strike Fighter e la messa a terra dei jet da parte del governo Usa: «Ovvio che se ci sono dei problemi devono essere risolti. L’Italia non acquisterà niente che non sia sicuro per il nostro personale e non sia in grado di funzionare perfettamente». Nel frattempo gli F-35 sono tornati a volare, seppure con delle limitazioni e resta ancora in forse la presenza all’Air show (che chiude domenica). Ma la dichiarazione segna un passo avanti sul terreno della riflessione rispetto alla scelta di investire preziose risorse su un progetto molto oneroso (ogni esemplare costa intorno ai 120 milioni di dollari) e che riceve continue critiche e rallentamenti. PER questo il ministro ha anche allargato il proprio ragionamento oltre il possibile stop: «Stiamo facendo una riflessione più ampia sul modello di difesa del futuro, che include gli F-35, ma non solo». La responsabile della Difesa fa riferimento al miglioramento dei sistemi radar dell’Eurofighter, il caccia nato dalla collaborazione di Italia, Spagna, Gran Bretagna e Germania che rischia di morire senza un miglioramento tecnico. Un programma che grazie a questo upgrade, che Pinotti sostiene a livello di investimenti tra partner europei, potrebbe convivere, se non sostituire in parte, gli F-35 col tricolore mantenendo investimenti e il lavoro in Italia. Il ministro ha anche precisato, tornando alla questione del super caccia della Lockheed Martin, che il caso tocca molto da vicino i lavoratori italiani: «Noi in realtà stiamo costruendo a Cameri i 6 F-35 che verranno acquistati dall’Italia. E questi non hanno avuto dei problemi. In ogni caso — ha proseguito Pinotti — di fronte all’incidente che è avvenuto, ritengo sia giusta la posizione del governo americano di fermare tutto e verificare i problemi. La sicurezza dei piloti viene prima di ogni cosa. Infine — ha sottolineato il ministro della Difesa — va riconosciuto agli americani una grande trasparenza sullo stato del prodotto e dobbiamo anche dire che questo è un progetto tecnologico complesso. Ma se ci sono dei problemi noi non acquisteremo nulla che non sia sicuro e perfettamente funzionante ». Infine Pinotti ha chiarito che «col governo degli Stati Uniti abbiamo parlato anche di ricadute positive e ancor più importanti sul lavoro nel nostro Paese relativamente alla questione degli F-35. L’Italia è un alleato importante, ha sempre fatto scelte importanti per sostenere questa alleanza e abbiamo detto che abbiamo bisogno di un segnale importante per quello che riguarda le ricadute sul lavoro. Credo che il messaggio sia stato recepito». 26 del 16/07/14, pag. 3 Pd-M5S alla stretta finale Carlo Lania 5 Stelle. Domani nuovo incontro. E da settembre Casaleggio coordinerà i parlamentari Linea dura sulle riforme costituzionali e dialogo sulla legge elettorale. E’ il doppio binario su cui Grillo — d’accordo con i membri M5S delle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato — ha deciso di far viaggiare, almeno finché dura , la trattativa con il Pd, una linea che il leader ha confermato ieri in una riunione di poco più di un’ora avuta a Palazzo Madama con i suoi senatori. Non che Grillo sia particolarmente contento del percorso dialogante imboccato dal movimento ormai da più di un mese, ma è convinto che l’unico modo per vedere se la disponibilità mostrata finora da Renzi sia vera oppure no sia solo andando a vedere le carte del presidente del consiglio. E questo avverrà domani alle 14 alla Camera, ovviamente in diretta streaming come indicato nella lettera che il M5S invia nel primo pomeriggio al Pd. «E’ un rospo che per ora dobbiamo mandare giù, ma vedrete che alla fine riusciremo a smascherare Renzi», ha detto ai suoi il leader, piuttosto scettico sull’incontro di giovedì: «Ci andiamo e vediamo quel che accade», ha spiegato. Ma ci sono anche novità che riguardano più direttamente la vita dei gruppi parlamentari pentastellati. Da settembre Gianroberto Casaleggio prenderà casa a Roma per coordinare l’attività parlamentare. L’annuncio, fatto sempre ieri da Grillo, è stato ufficialmente accolto bene da deputati e senatori, anche se sembra tanto un commissariamento dopo i molti mal di pancia e proteste delle scorse settimane. Per quanto amaro, quello del dialogo è un boccone che Grillo ha dunque deciso di mandare giù, spinto anche dalla necessità di far tacer quanti, dentro e fuori il movimento, lo accusano di aver congelato i voti resi dal M5S. Al punto da spingerlo a partecipare, insieme a Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, i veri tessitori del dialogo con i democratici, alla stesura della risposta a Renzi. e in cui si annuncia a la disponibilità a trattare su uno dei punti ritenuti imprescindibili dal premier come la governabilità. «Gentili dirigenti del Pd», è l’attacco, «c’è una nostra disponibilità di massima ad accogliere le vostre esigenze in tema di governabilità e ci auguriamo che ci sia identico atteggiamento da parte vostra ad accogliere le nostre esigenze in materia di rispetto della rappresentatività del parlamento». sarà vero dialogo? «Tutto dipende da cosa ci dicono», riflette Toninelli, relatore della proposta di legge elettorale messa a punto dal M5S che ha partecipato al primo incontro con il Pd. Sulla legge elettorale accettiamo di discutere di doppio turno e premio di maggioranza al partito che vince, ma in cambio vogliamo le preferenze, il divieto delle pluricandidature e quello di candidare condannati. Sulla riforma del Senato invece — prosegue il deputato — immunità e senato elettivo sono imprescindibili». E a riprova di questo ieri sera il M5S ha presentato al Senato tutti e 200 gli emedamenti già bocciasti in commissione, compresi quelli che puntano al ripristino dell’elezione diretta dei senatori, all’abolizione dell’immunità alla riduzione del 50% del numero dei senatori e deputati, insieme a una riduzione dell’indennità. «Vediamo se il Pd fa sul serio oppure no», commentava ieri sera un senatore grillino. Nonostante i buoni propositi espressi da entrambe le le parti, la strada resta in salita. Sia perché non è chiaro quanto davvero Renzi sia disposto a cedere sulle richieste del M5S, sia perché da parte grillina si torna a chiedere ancora una volta la piena sconfessione del patto del Nazareno: «Il premier ci deve dire che ormai è superato, ma deve anche dirci cosa c’è nascosto dietro quel patto con Berlusconi, spiega ancora Toninelli. Ieri, intanto, grillo ha ricalcato il copione delle sue visite nella capitale. Si è presentato al Senato accolto da cronisti e telecamere, ha insultato i giornalisti accusandoli di non fare nulla per difendere la 27 democrazia e replicato seccato a una collega dell’Unità che gli ha rimproverato di aver augurato la chiusura del suo giornale. «Io non sono disponibile a pagare le tasse per voi, — è stata la risposta — E’ il libero mercato: se vendete copie ci state altrimenti andate a casa». Lui, invece, se ne è andato a pranzo alla bouvette dei senatori. La novità vera appare sul blog, dove dopo settimane di silenzio in serata si fa risentire il deputato Alessandro Di Battista che commenta il rinvio a giudizio di Denis Verdini per la vicenda legata alla gestione del Credito cooperativo fiorentino: «Verdini lavora tete-à-tete con il ministro Boschi ed è lui il vero deus ex machina delle riforme costituzionali — scrive Di Battista -. E’ innocente fino a prova contraria ma vi sembra accettabile che a un rinviato a giudizio per reati gravissimi siano affidati i fili della riforma dell’intera architettura costituzionale?». del 16/07/14, pag. 6 Pd, sfida di Renzi: “Non sono autoritario gestione unitaria se sulle riforme si corre” CARMELO LOPAPA ROMA . Indica la luna delle riforme e del «grande cambiamento », Matteo Renzi, e ignora il dito che sollevano oppositori interni, democratici poco inclini a votare il Senato non elettivo, la “resistenza” di chi gli dà dell’autoritario e che ieri mattina non si è presentata all’assemblea Pd riunita a Palazzo Madama. Ottantasei sì e i paladini del “no” non si presentano. Glissa, il premier, non è quella la sfida che abbiamo davanti, è il messaggio. E avverte: «Io sono pronto a governare il partito anche con chi la pensa diversamente, a patto che sulle emergenze la pensiamo come gli italiani e cioè che non c’è un momento da perdere». Inconcepibili «certe accuse di autoritarismo ». Si dice dunque certo che «la settimana prossima ci sarà un voto al Senato in prima lettura: la riforma non la stiamo facendo a colpi di maggioranza, ma sobbarcandoci la fatica di ascoltare chi la pensa diversamente ». Come il M5s «nonostante gli insulti alle donne pd». Domani nuova puntata in streaming con i grillini. Berlusconi e i suoi restano interlocutori privilegiati. «Fondamentale che Forza Italia stia a questo tavolo». È sera inoltrata, aula dei gruppi di Montecitorio, si chiude con un lungo applauso il discorso lungo 50 minuti che il presidente del Consiglio tiene davanti alla platea di deputati e senatori dem. Tredici interventi seguiranno, dall’oppositore D’Attorre ad altri. Ma la strada sembra spianata. Ancora una volta. Lui vola alto. Torna a «quel 40,8 per cento che non dovrebbe farci dormire la notte, dovrebbe caricarci di una responsabilità straordinaria». Gli italiani «ci hanno dato l’opportunità di cambiare sul serio e se non cambiamo li tradiamo. Vi invito a fermarvi e ad alzare la testa e guardare fuori da qui». Anche perché «ha smesso di piovere sulla crisi economica ma il sole non arriva», disoccupati e imprenditori al palo attendono risposte. Da qui la campagna d’estate che parte tra agosto e settembre. «Voglio visitare dieci realtà particolari: sarò intanto a Napoli tra Bagnoli, Secondigliano, Scampia, Pompei. Sarò tra Reggio e Gioia Tauro. Sarò nel Sulcis, a Olbia, all’Aquila. Sarò a Gela. Sarò a Termini Imerese, sarò a Taranto e nell’Emilia Romagna che si è risollevata» dopo la tragedia del terremoto. «Il presidente del Consiglio si prenderà dei fischi, ma va fatto». E poi l’altro annuncio, quello dei «tre progetti di rilancio del sistema Paese per parlare al mondo: Milano, con l’Expo, Venezia e gli Uffizi di Firenze». 28 La sferzata arriva quasi a fine assemblea. «Vi chiedo di fare poche ferie. Non come atto di flagellazione biblica ma perché abbiamo fatto troppi decreti e abbiamo un sacco di lavoro parlamentare da portare avanti». Davanti al premier che stavolta resta in giacca e cravatta si alza il brusio della sala piena come un uovo. Lui se la cava alla Renzi: «Noto l’entusiasmo, capisco di non essere stato particolarmente incisivo finora ma che il primo segnale di vita arrivi sulle ferie...». Ma c’è poco da girarci intorno. Lui sarà in giro e continuerà a lavorare a Palazzo Chigi, loro dovranno stare a Montecitorio e Palazzo Madama. «Nel 2017 il prossimo congresso del Pd che precederà il voto del 2018. Fino ad allora, sfruttiamo la possibilità di cambiare l’Italia o stiamo a discutere del comma della legge elettorale? Gli italiani non hanno votato per me, ma per il Pd, confidando nel cambiamento». Torna sulla proposta dei mille giorni, «etichettata come lo sprinter diventato maratoneta: ma no, mille giorni non è perdere tempo, è la cornice delle riforme per consentirci di andare in Europa a dire che le riforme le facciamo sul serio e non perché ce lo chiedono. Siamo stati votati da 11 milioni, siamo il partito più votato in Europa». Dopo la doccia fredda quasi un mozione degli affetti: «Io sono qui per chiedervi una mano. In questi gruppi non vengo a chiedere un tributo alla simpatia personale. Non voglio conquistarla, vi chiedo una lealtà non su di me ma sul Paese. Non vi impongo le mie idee, ma dobbiamo fare in fretta». A cominciare dal lavoro, sul quale chiede una «delega ampia, nessun un derby ideologico». del 16/07/14, pag. 8 IL CASO/LE LINEE GUIDA DELLA RIFORMA ORLANDO Falso in bilancio e appalti, ecco la stretta ROMA . Falso in bilancio in versione pre-Berlusconi (5 anni il massimo della pena). Autoriciclaggio (6 anni). Nuovo 416-bis (15 anni ai gregari, 18 ai capi, 26 per fa uso di armi). Marcia indietro sull’incaricato di pubblico servizio che rientra a pieno titolo tra gli autori della concussione dopo che la legge Severino l’aveva messo da parte. Niente invece sulla contestatissima divisione in due pezzi della concussione. Un importante riconoscimento al ruolo dell’Alto commissario anti- corruzione perché — se, e quando, passerà il ddl di Orlando le cui linee guida, da ieri, compaiono sul sito del ministero della Giustizia — l’inizio delle indagini su appalti e mazzette dovrà essere comunicato subito all’ufficio di Largo Augusto. Se a ciò si aggiunge che, grazie a un’intesa siglata tra il ministro dell’Interno Alfano e l’Alto commissario Cantone, i nuovi appalti pubblici dovranno prevedere la risoluzione del contratto qualora emergano fatti di corruzione, si capisce bene che la storia della criminalità economica potrebbe cambiare. Tant’è che Cantone parla di «rivoluzione copernicana» perché «si utilizzano istituti nati per contrastare la mafia in funzione anticorruzione, visto che la risoluzione di un contratto era finora legata all’omessa denuncia di un’estorsione». «Se, e quando». Non perdiamo di vista questa condizione. Perché per ora la manovra, definita su www.giustizia.it tra i punti «più significativi dell’intera riforma», è solo una sintesi di tre pagine che riassume gli interventi su mafia, sequestri, confische, teleconferenze, e su interventi attesi da tempo come falso in bilancio e auto-riciclaggio. Certo, dietro ci sono 29 i testi, alcuni portati dal Guardasigilli Orlando anche a palazzo Chigi, ma rimasti lì, mentre le bozze si accavallano. La riforma della giustizia in 12 punti è nota. Al momento, si sostanzia in una torta colorata, di non facile reperimento immediato, dove si fatica a scoprire gli interventi. Che però non contengono ddl, né dl, ma riassunti. Qui si scopre che il governo metterà mano alla legge anti-corruzione dell’ex ministro Severino, per un intervento importante come reinserire l’incaricato di pubblico servizio, al pari del pubblico ufficiale, quale protagonista della concussione. Una scelta allora criticata dai giuristi e che viene corretta. Ma nulla si dice della divisione della concussione in due reati, la concussione propria e l’induzione (quelli di cui si discute per il caso Ruby, visto che Boccassini era per l’induzione e i giudici di primo grado l’hanno condannato per concussione), che stando alle carte sul sito resterebbero separati. Ma siamo ancora ben lontani dalla fine. E il governo è intenzionato a chiedere, anche al Senato, che di tutto questo si discuta solo a settembre. ( l. mi.) del 16/07/14, pag. 3 Quelle notizie su Cl che nessun giornale vuole pubblicare Ernesto Milanesi Verso il meeting di Rimini. Crema, Padova e Venezia: tre storie seminascoste dai grandi media che fanno tremare la Compagnia delle opere A poco più di un mese dall’inaugurazione del Meeting di Rimini 2014, la fraternità religiosa di Comunione e liberazione con la Compagnia delle Opere e la Fondazione per la sussidiarietà sono impegnate nel marketing dell’evento che non deve essere oscurato nemmeno dal forfait del premier Matteo Renzi. Grandi quotidiani, televisioni pubbliche e non, comunicazione istituzionale sembrano adeguarsi preventivamente. Almeno tre rilevanti notizie non hanno trovato eco nei media, anche se mantengono l’interesse di social network e web… La prima riguarda il reverendo monsignor Mauro Inzoli per cui il 9 dicembre 2012 il vescovo di Crema aveva disposto «la dimissione dallo stato clericale», confermata il 12 giugno scorso dal provvedimento emanato dalla Congregazione per la dottrina della fede. Comportamenti scandalosi, pedofilia, abuso su minori: lo si legge chiaro e tondo nel comunicato ufficiale della Diocesi. E – finora — soltanto nelle cronache della Provincia di Cremona e nella puntuale, documentata e costante «campagna di controinformazione» di Wu Ming Foundation. Si tratta dell’ex vicepresidente della CdO, fondatore del Banco Alimentare, ex rettore dell’Istituto Santa Dorotea di Napoli, ma soprattutto fin dal 1984 presidente dell’associazione ciellina che a Crema riceveva in affidamento minori in difficoltà. Notizia, di fatto, censurata a livello nazionale da sempre. Un caso clamoroso «regolato» solo dal Vaticano. Ma Franco Bordo (deputato Sel) non si accontenta e ha firmato un sintomatico esposto alla locale Procura della Repubblica… La seconda notizia è la sentenza del Tribunale civile di Padova. Ha condannato Graziano Debellini, leader carismatico di Cl a Nord Est, a risarcire con 25.405 euro Luigi De Magistris, attuale sindaco di Napoli. Un duello personale che risale al 2008 quando i vertici ciellini finiscono nell’occhio del ciclone per l’inchiesta della Guardia di finanza e della magistratura sull’utilizzo dei fondi europei. Era la «Why Not veneta» che ha rimesso in 30 discussione l’anima candida dei seguaci di don Giussani. In primo grado, con rito abbreviato, quattro condanne per truffa aggravata e continuata: spicca il nome di Alberto Raffaelli, che fra il fallimento di K Communication Srl e la letteratura locale si è anche preoccupato dell’immagine del sindaco leghista Flavio Tosi. Per l’imputato Debellini, invece, era scattata la prescrizione. Ora la condanna a causa delle dichiarazioni rilasciate nel 2010, al momento del rinvio a giudizio: «Questa è una decisione figlia della cultura alla De Magistris. L’atteggiamento dei pm è frutto di cattiveria, pregiudizi e teorie ideologiche, appunto alla De Magistris. L’inchiesta su di noi è nata perché qualcuno voleva imitare l’inchiesta Why Not. C’erano degli sceriffi che avevano pensato che fosse la loro grande occasione di visibilità». Infine, la drastica decisione del patriarca di Venezia Francesco Moraglia appena annunciata con un intervento nel settimanale diocesano Gente Veneta. «È preciso convincimento del Patriarca — che è anche Gran Cancelliere della Fondazione Studium Generale Marcianum — che il contesto attuale richieda segni di novità nell’intendere e vivere i rapporti tra le istituzioni civili e quelle ecclesiali. In tal senso, si ritiene necessario che vada ripensato e giunga ormai a termine il rapporto esistente tra la Fondazione e il Consorzio Venezia Nuova». Parole inequivocabili, rispetto anche alle «interlocuzioni» fra i cannibali del Mose e il ciellino Angelo Scola documentate nei faldoni della Procura. È l’inizio della fine per la Chiesa nella Chiesa? Non è arrivato il momento giusto per rompere anche il muro di omertà mediatica sul Meeting di Rimini? 31 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 16/07/2014, pag. 1-9 Un Porcellum in salsa calabrese Così resistono gli orfani di Scopelliti Pensavamo che la nuova legge elettorale votata dalla maggioranza di destra che governa la Calabria anche «dopo» le dimissioni imposte al governatore Giuseppe Scopelliti in seguito alla condanna a sei anni di galera per reati commessi ai tempi in cui era sindaco di Reggio, fosse «solo» una prepotenza di sconfitti. Decisi a tentare con ogni mezzo di restare al potere o almeno intralciare la marcia ai possibili vincitori. Occhio alle date: condannato il 27 marzo e sospeso automaticamente in base alla legge Severino, Scopelliti si dimette un buon mese dopo, il 29 aprile. Dieci giorni più tardi il presidente del Consiglio regionale, Francesco Talarico, assicura che «nessun consigliere è abbarbicato alla poltrona» ma che la legge «prevede che i Consigli rimangono comunque in carica» e fissa la seduta per discutere il nuovo statuto, la nuova legge elettorale e le dimissioni del governatore per il mese dopo, 3 giugno. Quando il consiglio regionale, cinque settimane dopo, viene infine «informato delle dimissioni». Evviva. All’arrivo del giorno fissato, la destra calabrese è sotto choc: la settimana prima, alle Europee, è crollata fragorosamente. Arrivando a malapena, tutta insieme, compresi i partiti che si fanno la guerra come il Nuovo centrodestra e Forza Italia, al 34,6%: meno del Pd (35,8%) da solo. Una sconfitta epocale. Ma più ancora impressiona l’emorragia di voti: 259.163. Duecentomila in meno che alle Europee 2009. Quattrocentomila in meno che alle Regionali del 2010. E da lì che nasce il «Porcellissimum », con l’oscenità di quella soglia minima del 4% per i partitini disposti a entrare in una coalizione e addirittura del 15% per chi, come l’odiatissimo Movimento 5 Stelle, di coalizioni non vuol sentir parlare. E ancora da lì nasce l’istituzione del «consigliere regionale supplente» (pronto ad entrare al posto di chi fosse nominato assessore) per limitare i danni della dieta imposta da Roma, col taglio dei consiglieri da 50 a 30. Tema: come poteva una coalizione cosciente di avere perso larga parte del suo bacino elettorale e di avere oggi il consenso solo di un calabrese su sette, cambiare per proprio conto le regole «pro domo sua» ignorando le opposizioni? Possibile che dopo aver varato all’ultimo istante utile nel dicembre 2005 il «Porcellum» per arginare la temuta ondata di centrosinistra, la destra insistesse a livello regionale con un «Porcellissimum »? Non bastasse, si aggiungeva un mistero: come mai la sinistra, fatta eccezione per il pd Mimmo Talarico e l’ex rifondarolo Damiano Guagliardi, non aveva votato compattamente contro preferendo astenersi? In realtà, come avrebbe spiegato Adriano Mollo sul Quotidiano della Calabria, il giochino era più sottile. La destra calabrese, senza quello Scopelliti disarcionato che per anni era riuscito a vincere un po’ tutte le elezioni a Reggio e in Regione, ha il fiato corto e vuol guadagnare tempo, costi quel che costi, per non andare incontro alle prossime Regionali a una nuova batosta. Dove lo trovano, un altro candidato forte? Ma anche certi pezzi della sinistra, che magari si sono gettati prontamente tra le braccia di Renzi ma sanno di essere a rischio, non hanno alcuna intenzione di accelerare la corsa al voto. Tanto più che il partito, come dimostrano le polemiche tra i candidati alle primarie, dove i renziani vorrebbero chiuderla lì buttando in pista il quarantenne avvocato Massimo Canale, è spaccatissimo. A farla corta: con il taglio dei seggi e i nuovi equilibri politici, pochissimi dei cinquanta deputati regionali attuali (quindici dei quali medici e altri quindici che, scrive il Corriere della Calabria, «non hanno mai presentato alcun reddito da 32 lavoro dipendente e mai conosciuto, neanche per un giorno, la dimensione del lavoro» se non come «calciatori in categorie dilettanti e semiprofessionistiche ») possono sognare la rielezione. La stragrande maggioranza sa che, una volta finita la legislatura, addio. Ed ecco il senso del «Porcellissimum »: doveva essere così indecente da andare con la massima certezza incontro alla bocciatura del governo. Una specie di «Porcello di Troia» che avesse un certo aspetto proprio per nascondere al suo interno le armi indispensabili per resistere, resistere, resistere. Resistere per distribuire poltrone (l’altro giorno la finanziaria regionale Fincalabra, appetita macchina clientelare, è stata affidata al tesoriere di Forza Italia Luca Mannarino a suo tempo escluso per mancanza di requisiti) anche se la giunta dovrebbe limitarsi solo al disbrigo degli affari correnti. Resistere per arrivare al vitalizio, che dalla prossima legislatura non ci sarà più. Ma resistere il più possibile soprattutto per gestire da novembre i nuovi bandi europei 2014-2020, formidabile occasione per accalappiare elettori con appalti, consulenze, progettazioni… Fatto sta che appena l’esecutivo Renzi, su pressione soprattutto della calabrese Maria Carmela Lanzetta, ministro agli Affari Regionali, ha deciso di impugnare (del resto, non aveva alternative) la legge elettorale per le soglie d’accesso e i consiglieri supplenti, i vecchi volponi della politica calabrese si sono dati di gomito. Un istante dopo, il presidente dell’assemblea regionale Franco Talarico dichiarava: «Difenderemo, senza esitazioni, le nostre ragioni dinanzi alla Corte Costituzionale. Abbiamo riformato lo Statuto della Regione, reintroducendo la figura del consigliere supplente, avendo ben chiaro il contenuto degli articoli 67 e 122 della Costituzione». Vada come vada, qualche settimana o qualche mese in più, con le ferie di mezzo, sono già nel cassetto. In Piemonte, dalla decadenza di Roberto Cota alle elezioni, sono passati solo tre mesi? Chissenefrega di questi confronti… Angelino Alfano, proprio ieri, ha dato per scontato che a novembre si voti, oltre che in Emilia e in vari comuni, anche dal Pollino all’Aspromonte. Ma c’è chi è pronto a scommettere che non sarà così. Mica facile, mandare a casa quel parlamentino di medici, calciatori e navigatori… del 16/07/14, pag. 2 Firenze Il “pontiere” Verdini rinviato a giudizio per bancarotta e truffa Dopo quindici mesi dalla richiesta della procura di processarlo, Denis Verdini è stato rinviato a giudizio per il crack del Credito cooperativo fiorentino. La banca, di cui il coordinatore di Forza Italia era stato presidente per vent’anni, era stata commissariata da Bankitalia nel 2010 e poi avviata alla liquidazione coatta amministrativa. Era l’effetto diretto di una gestione patologica dell’istituto di credito, tale da portare i pm ad accusare Verdini di associazione a delinquere in concorso con il consiglio di amministrazione e i sindaci revisori, bancarotta fraudolenta, truffa ai danni dello Stato per i finanziamenti ricevuti dai giornali locali del suo gruppo editoriale, illecito finanziamento a partiti e fatturazioni inesistenti. L’inchiesta sugli affari dello storico braccio destro di Silvio Berlusconi era nata nel 2008, come tranche della maxi indagine dell’allora procuratore Giuseppe Quattrocchi e dei suoi sostituti sulla cricca del G8 e della Protezione civile. Seguendo il filo dei finanziamenti ottenuti dalla società di costruzioni Btp di Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei, i carabinieri del Ros avevano puntato l’obiettivo sulla piccola banca della Piana fiorentina di cui Verdini 33 era l’incontrastato dominus. Alla fine delle indagini i pm avevano ricostruito 34 diversi casi di distrazione di fondi, per circa 100 milioni di euro, a vantaggio di società e persone fisiche che non avevano le necessarie garanzie, e che erano già molto indebitate verso il sistema bancario, ma che avevano l’indubbio vantaggio di essere legate all’allora coordinatore del Pdl. Se la più grande beneficiaria dei finanziamenti della banca era la Btp di Fusi e Bartolomei, entrambi rinviati a giudizio, anche Marcello Dell’Utri compariva nella lunga lista dei debitori del Ccf, per tre milioni e 200mila euro che gli erano stati concessi in prestito dal cda presieduto da Verdini. Ora la posizione di Dell’Utri è stata stralciata dal giudice dell’udienza preliminare Fabio Frangini, che nell’ordinanza di rinvio a giudizio ha spiegato che l’imputato non può essere processato senza un’ulteriore richiesta di estradizione al Libano per i reati contestati dal tribunale di Firenze. Il dispositivo del gup sarà quindi trasferito alla Procura generale per la richiesta di estradizione suppletiva, mentre il giudice Frangini ha fissato per Dell’Utri una nuova udienza a settembre. In parallelo all’inchiesta della magistratura, sul Credito cooperativo fiorentino si erano posati anche gli occhi di Bankitalia. Il risultato delle ispezioni era stato analogo a quello ricostruito dalla procura: l’istituto di credito aveva erogato finanziamenti in contrasto con le norme creditizie, e con le regole di una corretta gestione aziendale e la prassi bancaria, sottraendole alle finalità cooperative e compromettendo gli equilibri economico finanziari della banca. Prova ne sono le ulteriori accuse a Verdini, cda, revisori dei conti e dg della banca di ostacolo all’attività di vigilanza e false comunicazioni sociali. Effetto quest’ultimo dell’ultimo bilancio approvato prima del commissariamento di Bankitalia, quando ai soci del Ccf era stata illustrata l’esistenza di 74,5 milioni di crediti deteriorati, mentre l’importo reale oscillava fra i 125,8 e i 175,5 milioni. L’udienza preliminare si è chiusa con il rinvio a giudizio di 47 dei 69 iscritti nel registro degli indagati. Ventuno i proscioglimenti, fra di loro anche la moglie di Verdini, Simonetta Fossombroni, e il fratello Ettore Verdini. Rinviato a giudizio invece il braccio destro di Verdini in Toscana, l’onorevole forzista Massimo Parisi. La prima udienza del processo è stata fissata per il 21 aprile 2015, intanto l’ex Credito Cooperativo Fiorentino dopo la liquidazione è stato inglobato in Chianti Banca, restando nell’orbita della banche di credito cooperativo. 34 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 16/07/14, pag. 17 Castel Volturno, il prete di frontiera “Scontri figli del degrado, non è razzismo” DARIO DEL PORTO DAL NOSTRO INVIATO CASTEL VOLTURNO . È il ventre nero d’Italia, questa lingua di terra che oggi come vent’anni fa sembra sul punto di esplodere definitivamente come una santabarbara di conflitti sociali. Dopo il sangue e la rivolta, è tornata la calma a Pescopagano. Ma è una quiete solo apparente perché, nelle strade presidiate quasi ad ogni angolo da polizia e carabinieri, la tensione resta altissima. «Da troppo tempo qui si vive in un clima di coprifuoco coatto. Questa terra è abbandonata da più di trent’anni », avverte don Guido Cumerlato, da dodici anni parroco a Pescopagano, il quartiere diviso fra i comuni di Castel Volturno e Mondragone teatro della guerriglia esplosa dopo il ferimento a colpi di arma da fuoco di due cittadini ivoriani. I sindaci Dimitri Russo e Giovanni Schioppa saranno oggi al Viminale per incontrare il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Più o meno nelle stesse ore il giudice deciderà sulla convalida del fermo di Pasquale Cipriani e del figlio Cesare, accusati di tentato omicidio per aver sparato ai due immigrati ritenendo che avessero rubato una bombola di gas. Gianluca Petruzzo, portavoce dell’associazione antirazzista 3 Febbraio invita all’impegno «per la verità e la giustizia e perché questo ennesimo crimine razzista non rimanga impunito». Ma don Guido, veneto trapiantato a Gomorra come il fratello Vittorio, parroco nella vicina Casapesenna, invita alla cautela. «Attenti alle semplificazioni. Non è una lotta fra bianchi e neri, non è una questione di razzismo». Ma allora come si spiega quanto accaduto domenica sera a Pescopagano, don Guido? «Gli atti di violenza non sono mai giustificabili né giustificati, sia chiaro. I fatti tragici di queste ore sono però un segno del male che sta divorando questa terra. Mancano fogne, luci, strade. Molte case sono abbandonate o dissestate. È in questo abbandono che proliferano la delinquenza e lo spaccio. Sa cosa mi dicono spesso i cittadini?». Cosa? «Non c’è casa che non sia stata visitata, svaligiata, derubata. Chi vive a Pescopagano è costretto notte e giorno a vegliare sui propri beni. Così le relazioni diventano sospettose, la convivenza difficile. I bambini restano chiusi nelle case. Le forze dell’ordine non riescono ad affrontare tutte le esigenze. Ecco perché il recupero di quest’area è un caso nazionale». Intanto due immigrati sono rimasti feriti e due italiani sono in carcere. «Conosco Cesare come tanti che erano in strada domenica, da una parte e dall’altra. Io stesso ho mediato fra le parti, come i comboniani che svolgono uno straordinario lavoro sul territorio. Ha compiuto un gesto riprovevole ma sono sicuro che ha capito subito di aver sbagliato». È così difficile l’integrazione fra bianchi e neri in questo territorio? «La popolazione, pur composta da etnie diverse, ha sempre accolto tutti. Non ci sono discriminazioni, ma solo la richiesta di una presenza e di un controllo costante da parte delle istituzioni. C’è una comunità ghanese, ad esempio, che lavora ogni giorno 35 onestamente e non deve essere confusa con altre situazioni. Ma quando mancano i servizi e le risposte alle esigenze primarie della popolazione, chi ha voce grida, chi non sa gridare rischia di compiere qualche gesto sconsiderato. E poi si è aggiunta la crisi economica. Molte famiglie non sanno come tirare avanti. Alla mensa della Caritas diamo assistenza a 900 persone, e solo un centinaio sono immigrati». Come si esce da questo tunnel, don Guido? «Pescopagano è ferita, ma non è ancora morta. È una terra malata, ma dove c’è vita. Il nostro vescovo, Francesco Piazza, è pronto ad organizzare una tavola rotonda con tutte le istituzioni. Il popolo deve agire, tutti però devono comprendere che il caso Pescopagano è il segnale fotte di un malessere che riguarda tutto il Paese». del 16/07/14, pag. 6 Russo: "Abbandonati nel nostro inferno" Adriana Pollice Oggi è a Roma con il sindaco di Mondragone, Giovanni Schiappa, per incontrare il ministro dell`Interno Angelino Alfano. Dimitri Russo è diventato primo cittadino di Castel Volturno a metà giugno, fa parte delle nuovissime leve del Pd e la sua maggioranza tiene dentro anche Sei e due Liste civiche. Ha ereditato un`amministrazione a pezzi, dopo due anni di commissariamento, e due comunità in rivolta: quella degli italiani e quella dei migranti. Lunedì si sono fronteggiate dalle opposte barricate dopo l`ennesimo atto di violenza contro due ragazzi ivoriani, gambizzati da Pasquale e Cesare Cipriani per un banale litigio. Ieri uno dei due feriti è stato dimesso dalla clinica Pineta Grande. I due italiani, padre e figlio, sono stati fermati per tentato omicidio, porto e detenzione d`arma da fuoco, mentre prosegue il lavoro di identificazione degli stranieri che domenica sera, in risposta al ferimento dei trentenni, hanno scatenato la rivolta a Pescopagano, dando fuoco a quattro auto e a un appartamento. La comunità africana era insorta anche nel 2008, dopo la «strage di San Gennaro» che lasciò a terra morti sei ghanesi ad opera del gruppo di fuoco di Giuseppe Setola, braccio armato dei Casalesi. Sia gli italiani che i migranti si sentono abbandonati in una terra di nessuno. Sindaco Russo, lei ha raccontato «questo è un territorio meraviglioso se visto dall`alto con Google Earth. Ma se si scende giù è un inferno`. Quando è Iniziata la trasformazione in inferno? «Negli anni `70 era un posto bellissimo, ci venivano i ricchi borghesi da Napoli e provincia in vacanza: villette sorsero incontrollate come seconde case, abitate da aprile a settembre. La popolazione passava da circa 14mila abitanti a oltre 300mila. L`economia era florida perché i turisti trainavano anche la filiera bufalina con le rivendite di mozzarella. Negli anni `80 ci fu una prima ondata di sfollati del post terremoto. Ma soprattutto quello è il decennio in cui il mare è arrivato a punte di inquinamento tale da ammorbare l`aria. Addio ai turisti, si è innescata una progressiva decadenza». Cosa l`ha provocato? «Centotre comuni senza fogne scaricano direttamente nel depuratore dei Regi Lagni che non ha mai funzionato davvero. Questo ha provocato lo sversamento in mare di acque inquinate da batteri fecali. A questo si aggiunge l`inquinamento del fiume Voltumo, in cui sversano illegalmente non solo alcuni paesi ma anche caseifici e industrie, immettendo in mare inquinanti chimici. Negli anni `90 la camorra ha utilizzato il territorio per gli sversamenti illegali di rifiuti, soprattutto industriali, dal nord. A poca distanza da dove è scoppiata la rivolta domenica ci sono due discariche, Bortolotto e Sogeri, il percolato 36 scende in falla e inquina l`acqua. Io abito a 200 metri, da ragazzino vedevo arrivare í camion con le targhe Milano o Torino e mi domandavo cosa ci facessero da noi. Oggi una villa con piscina vale appena 40mila euro ma nessuno compra». Per decenni nessuno ha fatto rispettare la legalità. «In venti anni Castel Volturno è stato sciolto tre volte per infiltrazioni camorristiche. La mia amministrazione ha ereditato un comune in dissesto con un debito di 55milioni. Italiani e stranieri, quasi nessuno paga le tasse comunali e neppure i servizi. La raccolta e lo smaltimento erano gestite da personale assunto con il favore dei Casalesi, non facevano praticamente nulla. Se volevi che raccogliessero i rifiuti del tuo lido dovevi dargli la mazzetta. Poi ci sono gli abusi edilizi, di cui il Villaggio Coppola, edificato senza alcun permesso dall`omonima famiglia, è il maggior esempio. Nelle aree demaniali, riservate all`uso comune per pascolo e legna, sono sorte senza alcuna regola case su case. I sindaci dagli anni `70 in poi, con la sola eccezione di Mario Luise, sono stati tutti graditi ai Coppola o ai clan, lo stesso vale per assessori e tecnici comunali. Così Caste] Volturno non ha un piano regolatore e neppure un piano commercio. Un territorio di 72 chilometri quadrati, con 30 di costa, e 15 vigili urbani senza auto e senza divise: lo stato qui semplicemente non c`è. Ho solo quattro compattatori per pulire il territorio: rimossi i rifiuti, dopo un`ora nello stesso posto è già ricresciuta una piccola discarica. Fare la differenziata è un`utopia». Dagli anni `90 sono arrivati i migranti «I proprietari, di fronte a spese come l`Imu o la tassa sui rifiuti, hanno cominciato a fittare ai migranti, 50 euro in nero a posto letto. Ma spesso si sistemano in case abbandonate. A giudicare dalla quantità di rifiuti che smaltiamo, c`è una popolazione non censita tra le 10 e le 15mila persone. Spendiamo I Omilioni all`anno per lo smaltimento ma ne incassiamo tra i 3 e i 5milioni. Sanno che qui non ci sono forze dell`ordine e quindi niente controlli. Il comune non offre alcun servizio di integrazione, di mediazione culturale o di assistenza. Quello che riusciamo a fare, ad esempio per i minori, ha comunque un costo difficile da reggere». Cosa chiederà al ministro Alfano? «Innanzitutto niente esercito come nel 2008, le parate militari non servono a niente. Più forze dell`ordine, un ritorno economico per lo sforzo che il comune sostiene e un accordo quadro con tutte le strutture coinvolte, come MI e terzo settore, per entrare casa per casa a controllare le condizioni e intervenire. Potremmo diventare un luogo dove sperimentare dei modelli efficaci di socialità, abbiamo già realtà che fanno un ottimo lavoro. Poi, certo, basterebbe ridarci il mare pulito e la zona potrebbe ridiventare un paradiso». 37 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 16/07/2014, pag. 23 Ora multinazionali e ambientalisti si ritrovano uniti a difesa dell’acqua Crescono costi e consumi. E le aziende investono per proteggerla: i progetti per proteggere questa risorsa, dal riuso delle bottiglie di plastica ai fondi per pozzi e dissalatori di Giuseppe Guastella NEW YORK - La grande sete del mondo mette d’accordo multinazionali ed ambientalisti che, dopo anni di accuse reciproche, ora combattono l’uno al fianco dell’altro la guerra per la salvaguardia di una risorsa sempre più scarsa. Unico l’obiettivo, diversi gli interessi. La politica resta al palo. Fino a qualche anno fa era un’inezia, ma man mano che il costo della voce «acqua» aumenta nei bilanci, le multinazionali investono cifre sempre maggiori nella sua produzione e salvaguardia. Non è che il mondo di colpo sia entrato in una siccità globale, più che altro sono aumentati enormemente i consumi in Occidente ma soprattutto nei paesi emergenti che in pochi anni hanno immesso nello scenario migliaia di industrie assetate e miliardi di persone alle quali prima bastava l’acqua necessaria per vivere mentre ora consumano quanto e più dei paesi ricchi. Basti pensare che a un essere umano sono sufficienti 4 litri al giorno per vivere, mentre il fabbisogno europeo di acqua potabile è di 165 litri a testa. Le prospettive sono preoccupanti: se la popolazione mondiale crescerà di un miliardo di persone da qui al 2030, arrivando a 8 miliardi, a far registrare il balzo maggiore, passando da 2 a 5 miliardi, sarà la classe media, quella che consuma beni e servizi per produrre i quali ci vorrà sempre più acqua, indispensabile per l’energia, ad esempio. Le multinazionali fiutano l’affare ed investono miliardi di dollari per essere autosufficienti. «Il costo dell’acqua sta crescendo in tutto il mondo» spiega al Financial Times Christopher Gasson, dell’istituto di ricerca Global Water Intelligence secondo il quale, inoltre, le aziende che una volta consideravano l’acqua una materia gratuita ora sanno che il suo sfruttamento indiscriminato può «danneggiare il loro marchio, la loro credibilità, la loro valutazione e i costi assicurativi». Undici anni fa, la Coca Cola dovette chiudere un impianto di imbottigliamento in India dopo le proteste per l’impatto negativo (smentito dalla società) sulla distribuzione idrica locale. Dal 2003 la società di Atlanta ha speso quasi due miliardi di dollari per ridurre il fabbisogno dei suoi impianti nel mondo impiegando anche risorse in campagne per la salvaguardia ambientale, come quella in corso in alcuni Paesi per il riuso delle bottiglie di plastica. Non è l’unica. La Nestlé ha accantonato 31 milioni per progetti di trattamento delle acque mentre Rio Tinto e Bhp hanno investito in Cile tre miliardi per un dissalatore che darà acqua nelle loro miniere di rame al posto di quella della zona. Perfino Google ha speso cifre considerevoli per raffreddare i server con l’acqua marina in Finlandia o con l’acqua piovana nella Carolina del Sud (Usa). «Le aziende hanno l’obbligo verso i loro azionisti di massimizzare i profitti e si impegneranno in attività favore dell’ambiente se pensano di fare buoni affari, e poi in questo momento conviene apparire sensibili perché fa bene alle pubbliche relazioni e alla pubblicità», dichiara al Corriere della Sera Reginald Dale, direttore del centro di studi strategici e internazionali di Washington, un organismo impegnato sui temi ecologici. 38 Secondo l’Onu, però, il vero grande consumatore di acqua è l’agricoltura che assorbe il 70% di quella usata, mentre il 22 va all’industria e l’8 agli usi domestici. Se si escludono i pochi Paesi come Israele attenti, anche per motivi strategici, a gestire le proprie scarse risorse, nel mondo l’uso dell’acqua nei campi, specie quella che arriva dai pozzi, avviene quasi senza controlli. In un rapporto del 2012 citato dal Financial Times , i servizi segreti americani addirittura prevedono che «nei prossimi dieci anni i problemi idrici contribuiranno a creare instabilità in stati importanti per gli interessi degli Usa». Non ci si rende conto «che stiamo esaurendo l’acqua molto prima del petrolio» dichiara al quotidiano inglese con un certo catastrofismo Peter Brabeck, presidente della Nestlé. Eppure basterebbe che i governi si impegnassero nella regolamentazione dell’uso e nella riparazione delle reti idriche per risolvere i problemi che attanagliano anche stati americani, come l’Arizona o il Nevada dove, se la situazione non cambierà, si arriverà al razionamento. Ha fiducia Reginald Dale: «Sarà la forza del mercato a contribuire a risolvere molti dei problemi ambientali, compresa la carenza d’acqua e i cambiamenti climatici. Se guardiamo al rapido progresso delle tecnologie a rispetto ambientale, si capisce che questo sta già avvenendo». 39 INFORMAZIONE del 16/07/14, pag. 5 Agcom, l’anno orribile per Tlc, editoria e pubblicità Fatturati in picchiata nel settore della comunicazione in Italia nel 2013. Il settore che comprende le telecomunicazioni, le radio e le televisioni, le poste, l’editoria e internet i ricavi sono scesi a 56,1 miliardi, meno 9 per cento rispetto al 2012. Lo ha rilevato l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) nella relazione annuale presentata ieri in Parlamento dal presidente Angelo Cardani. A pesare su questo bilancio pesante è stato il calo dei prezzi, crollato del 44% nell’ultimo quindicennio. L’editoria versa in una crisi drammatica. Nel 2013 ha perso quasi 700 milioni di ricavi, mentre il fatturato dei quotidiani è sceso del 7%; quello dei periodici ha perso il 17,2% del valore. Crisi anche per i quotidiani che sono passati da 2,5 miliardi i ricavi nel 2012 a 2,3 miliardi del 2013. Tra i periodici si è passati da 2,8 miliardi a 2,3 miliardi. Anno nero anche per la pubblicità: il calo dei ricavi complessivi rispetto all’anno precedente è stato del 10,9%, da 8,3 miliardi a 7,4 miliardi. Crollano periodici (-24,1%) e quotidiani (13,2%), ma vanno male anche tv (-10,1%) e cinema (-7%). La radio perde il 6,4%. Scende per il primo anno anche Internet (-2,5%). Per quanto riguarda l’incidenza sul mercato complessivo la tv è largamente in vetta con il 43,7% (i ricavi sono 3 miliardi 257 milioni). Aumenta il peso di Internet, ora al 19,7% (1 miliardo 465 milioni), i quotidiani sono al 13,2% (983 milioni). Dalla relazione annuale emerge che nel 2013 i ricavi da telefonia fissa sono scesi, ma solo del 7,4%, mentre quelli da telefonia mobile hanno subito un tracollo del 13,8%. Per l’Agicom è il risultato della guerra dei prezzi che ha determinato questo risultato. Il traffico voce su rete mobile ha registrato un forte rialzo (+8,4% a 156,5 miliardi di minuti). Sul settore mobile pesa una flessione dei ricavi nei servizi dati (-3,3%). Su questo dato ha inciso la crisi degli Sms sostituiti dalle chat degli smartphone, quasi 40 milioni tra cellulari di ultima generazione e chiavette. I ricavi provenienti dai messaggini sono precipitati del 25%, mentre l’accesso e la navigazione su Internet ha registrato un aumento del 13%. «L’Italia mostra segnali di debolezza nello sviluppo e penetrazione di reti digitali di nuova generazione e di accesso ai servizi più innovativi — ha detto Cardani nella Relazione — molti sforzi restano da compiere e in questo comune obiettivo l’Autorità continua a fare la sua parte». L’Agcom ha registrato inoltre che la quota di mercato di Telecom Italia nei servizi a banda larga è calata per la prima volta sotto il 50%. Una riduzione osservata anche nel settore «mobile» con riferimento ai primi due operatori. Per l’Agcom la privatizzazione di Poste italiane annunciata dal governo è positiva: «potrà contribuire a una maggiore trasparenza e spingerà verso maggiore razionalizzazione ed efficienza dei servizi», in un settore in cui si registrano «evidenti asimmetrie tra gli operatori (dal regime Iva alle riserve legali, ai bandi di gara, ai sussidi incrociati)». Per i presidenti di Federconsumatori e Adusbef, definire la rete «arretrata è quasi un complimento. In Italia ancora l’11% della popolazione non è coperta da banda larga fissa (Adsl) ad almeno 2 Mb. La copertura della banda ultra larga (30 — 100 Mb) raggiunge appena il 10% della popolazione». 40 Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, e l’ex sottosegretario alle Comunicazioni Vincenzo Vita hanno commentato: «La relazione si segnala per ciò che non c’è: conflitto di interessi, antitrust radiotelevisivo, iniziative attive contro le posizioni dominanti». Del 17/07/2014, pag. 1-13 Questo giornale è della sinistra LUCA LANDO’ I giornalisti de l’Unità non tifano per una soluzione piuttosto che per un’altra: tifano per il loro giornale. Nel polverone che a più riprese si sta montando su una vicenda seria e per certi aspetti drammatica, i lavoratori hanno avuto un atteggiamento irreprensibile. Chi vuole salvare l’Unità deve presentare ora un’offerta solida dal punto di vista economico, che abbia la condivisione più ampia possibile nel mondo vicino al giornale. In tutti i manuali di giornalismo ti insegnano che la notizia è l'uomo che morde il cane, non viceversa. Ma il punto è proprio questo: la pitonessa, come amabilmente è stata soprannominata, vuole davvero mordere l'Unità? Al momento, dicono i liquidatori, non è arrivata nessuna concreta offerta, tranne una lettera inviata una settimana fa. Poi solo voci e qualche agenzia astutamente imbeccata. Ma poco importa, una proposta la si può sempre preparare, firmare e spedire. Nel frattempo la pasionaria di destra è riuscita a far parlare di sé, ma soprattutto della sua attività extrapolitica. Ad esempio della sua concessionaria di pubblicità, Visibilia, e del recente acquisto della rivista Ciak, ben conosciuta nel mondo del cinema. Che c'entra l'Unità? Nulla, ma intanto tutti parlano di lei (Santanché, non l'Unità) e di questo piccolo “polo” editoriale che nasce a destra ma vuole crescere a sinistra. Eccolo il risultato, ampiamente ottenuto, dell'anima nera che si tinge di rosso. Che poi questo voglia dire sfruttare le crisi altrui, per un po' di pubblicità gratuita, poco importa: business is business. C'è un altro aspetto che vale la pena evidenziare. Rompendo il silenzio che circonda la situazione davvero difficile dell'Unità, Daniela Santanché vuole lanciare un messaggio che non è affatto commerciale, ma politico: se una orgogliosa discendente del mondo sanbabilino della destra milanese è disposta a prendere l'Unità, vuol dire che l'Unità non conta davvero nulla. E che nel nuovo mondo della politica, destra e sinistra sono categorie superate, preistoriche. Su questo punto, ovviamente, Santanché sbaglia di grosso. Perché le idee sopravvivono ai conti economici e se i secondi comandano la liquidazione della società che edita il giornale, le prime dicono che l'Unità è, tutt' ora, un punto di riferimento indispensabile per chi, giorno dopo giorno, crede che questo mondo possa, anzi debba, essere cambiato e migliorato. L'Unità oggi conta, eccome. Lo dimostrano i messaggi di incoraggiamento e solidarietà che arrivano ogni giorno in redazione, compresa la proposta, reiterata, di un azionariato popolare. E lo confermano le iniziative sui novant'anni del giornale andate esaurite in edicola nel giro di due ore. Destra e sinistra non sono residui del Novecento né categorie dello spirito: al contrario sono due modi diversi, anzi opposti, di leggere il presente e costruire il futuro. Ecco perché l'Unità non finirà mai nelle mani di un editore di destra: perché se ciò dovesse mai accadere, finirebbe l'Unità. Se questo è il sogno della signora Santanché, glielo lasciamo volentieri: la realtà dice che l'Unità resta e resterà un giornale di sinistra. Lo garantiscono i suoi giornalisti e i suoi poligrafici. Ma soprattutto i suoi lettori. 41 Del 17/07/2014, pag. 7 Santanchè insiste, Ferrari frena: prematuro Il caso Unità La deputata forzista: combatterò fino alla fine I liquidatori: non è arrivata alcuna proposta formale Carlo De Benedetti: completamente estraneo a questa iniziativa Santanchè insiste. A proposito del l’Unità dice: «Parlerò quando sarà il caso di parlare». Nonostante i giornalisti siano sulle barricate, aggiunge, «io lotterò fino alla fine perché ciascuno possa esprimere le proprie idee. Sarà una scelta loro ». Così risponde ai giornalisti, arrivando nella sede di Forza Italia per l’assemblea dei parlamentari con Silvio Berlusconi. Interverrà sulla linea politica del giornale? «No, io non intervengo proprio sull’argomento. Parlerò quando avrò qualcosa da dire». Ma quel qualcosa da dire, tradotto al momento in una lettera d’intenti, non ha convinto i liquidatori, tanto meno il Comitato di redazione che ha ribadito a più riprese l’inconciliabilità tra il passato, il presente e il futuro del giornale fondato da Antonio Gramsci, con il profilo politico e il cursus della deputata forzista. Ma Paola Ferrari, indicata come socia di Santanchè nell’«operazione Unità», taglia corto: «Sono concentrata nel mio lavoro e basta, tutto il resto è prematuro». Anche Carlo De Benedetti, suocero di Paola Ferrari, chiamato in causa in alcune ricostruzioni giornalistiche apparse in questi giorni, respinge ogni illazione: «L’ingegnere - dice una nota del gruppo Espresso - si dichiara totalmente estraneo a questa iniziativa e considera del tutto arbitrari, poiché infondati, i riferimenti al gruppo Espresso che resta il suo unico impegno editoriale passato, presente e futuro. Con l’occasione l’ingegnere ricorda che nella sua vita non è mai stato iscritto ad alcun partito» Sul caso interviene il deputato del Pd Stefano Fassina: «L’Unità non è uno dei tanti prodotti sul mercato - dice - Ha una storia e deve continuare ad avere una certa funzione. Il ragionamento economico non passa. È un ragionamento di carattere politico-culturale - afferma intervistato da Klaus Davi per il programma Klaus Condicio- L’Unità deve stare a sinistra. Con tutto il rispetto per la Santanchè,mi pare che lei sia posizionata su un altro versante. Preferirei che ci fossero altri interlocutori e stiamo lavorando in questa direzione perché altrimenti l'Unità, se perde la sua connotazione culturale e politica, non ha senso neanche come prodotto editoriale». Sul campo resta la lettera d’intenti inviata da giorni dal socio di riferimento della Nie, Matteo Fago, lettera che, secondo i liquidatori, dovrebbe trasformarsi nei prossimi giorni in una offerta più dettagliata. In un comunicato, il Cdr afferma con forza che «i giornalisti de l’Unità non tifano per una soluzione piuttosto che per un’altra: tifano per il loro giornale. Nel polverone che a più riprese si sta montando su una vicenda seria e per certi aspetti drammatica, i lavoratori hanno avuto un atteggiamento irreprensibile. Chi vuole salvare l’Unità deve presentare ora un’offerta solida dal punto di vista economico, che abbia la condivisione più ampia possibile nel mondo vicino al giornale, cioè il Pd, il mondo del lavoro e del sindacato, quello dell’associazionismo e della militanza storica della base del partito, che proprio in questi giorni si sta impegnando nelle feste dell’Unità. Solo così si rafforza il giornale fondato da Antonio Gramsci. Altre strade non esistono».E non esiste neanche più tanto tempo per evitare la chiusura. In assenza di chiarezza tutti i boatos possono acquistare i crismi della «credibilità». Come quello lanciato dal sito Dagospia secondo cui il «vero acquirente de l’Unità ed Europa sarebbe il costruttore Pessina, che affitterebbe la testata dai soci per tre anni e poi si vede... ». 42 CULTURA E SCUOLA del 16/07/14, pag. 1/42 Via i soprintendenti dai musei FRANCESCO ERBANI RIVOLUZIONE AI BENI CULTURALI, DIRETTORI ESTERNI IN 20 GRANDI SEDI MUSEI affidati a direttori esterni all’amministrazione. Soprintendenze storico-artistiche che spariscono, accorpate a quelle architettoniche. Cambia pelle il ministero per i Beni culturali. Quanto gli effetti saranno benefici su un organismo assai debilitato da tagli e assenza di turn over, lo dirà il tempo. Ma intanto la rivoluzione che verrà annunciata oggi da Dario Franceschini non è indolore. Nella bozza di riforma, pressoché definitiva, si conferma l’intenzione del ministro di unificare le soprintendenze storico-artistiche con quelle architettoniche, creando delle strutture miste (salve, invece, saranno le soprintendenze archeologiche). Contro questo provvedimento si sono pronunciati, qualche settimana fa, quasi tutti i soprintendenti storico-artistici i quali hanno scritto una lettera-appello al ministro. In questo stesso documento viene presa di mira l’altra norma anticipata da Franceschini e ora introdotta: l’attribuzione di una marcatissima autonomia a una ventina di musei statali. Si fanno alcune ipotesi in attesa della conferma, oggi, del ministro: gli Uffizi, la Galleria dell’Accademia a Firenze, la Galleria Borghese, il Cenacolo Vinciano... Ma potrebbero essere inclusi anche siti o musei archeologici. Alla guida di questi luoghi d’arte potranno andare, con un bando, dirigenti dell’amministrazione pubblica, ma anche personale esterno. E forse, auspica il ministro, personalità internazionali. Fino a che punto questi siti resteranno agganciati al sistema delle soprintendenze? Nella bozza si assicura che il legame sopravviverà. Ma il timore che si vada verso uno sganciamento è diffuso. La sensazione dei soprintendenti storico-artistici — condivisa anche negli ambienti dell’archeologia — è che si voglia spingere molto sulle politiche di valorizzazione, più che su quelle di tutela, alle quali loro hanno sempre ispirato il proprio lavoro, fatto, appunto, di salvaguardia del patrimonio e insieme di gestione museale. Una delle caratteristiche distintive del nostro rispetto agli altri paesi, si sottolineava nella lettera-appello a Franceschini, è il rapporto fra musei e territorio: un fondamentale nesso, storico e operativo, fatto di studio e di ricerca, «che ha da sempre collegato i musei italiani alle soprintendenze storico-artistiche di territorio: collezioni dinastiche, patrimonio artistico ecclesiastico, beni monumentali e cultura materiale nel nostro Paese rappresentano l’eredità imponente di una complessa e quanto mai variegata storia della produzione artistica come grande vicenda sociale». Ma proprio prendendo il posto della Direzione generale per la valorizzazione nascerà una Direzione generale per i musei, che detterà «le linee guida per le tariffe, gli ingressi e i servizi». Di riforma del ministero si parla da alcuni anni. E nel corso del tempo non si contano le modifiche, anche solo parziali, che hanno messo in subbuglio l’amministrazione, spesso smentendo quelle precedenti. Il ministro Massimo Bray aveva istituito una commissione, che aveva prodotto una lunga relazione. Diverso è lo schema alla base della riforma di Franceschini. Il punto di partenza è il taglio dei posti dirigenziali dettato dalla spending review : dovrebbero saltare 6 poltrone di dirigenti di prima fascia (direttori generali), 31 di seconda (soprintendenti). Altra questione rilevante, secondo il ministro: una più stretta integrazione fra cultura e turismo. Viene rafforzato il ruolo del segretario generale. Una 43 direzione per arte e architettura contemporanea si occuperà anche di periferie. Spuntano poli museali regionali per favorire i rapporti fra siti pubblici e privati. Le direzioni regionali verranno però declassate, perché saranno rette da dirigenti non più di prima, ma di seconda fascia. Cambierà qualcosa in queste strutture il cui ruolo è stato spesso contestato? Dove verranno ricollocati gli attuali direttori regionali? I nuovi direttori regionali saranno comunque presenti nelle commissioni che dovranno riesaminare i provvedimenti presi da un soprintendente. Alle commissioni, istituite dalla legge appena approvata dalla Camera (l’Art bonus), si potranno rivolgere le amministrazioni pubbliche che si sono viste negate un’autorizzazione. Secondo alcuni, fra i quali il ministro, è un rafforzamento della tutela. Secondo altri, un limite alla salvaguardia di un paesaggio o di un’area archeologica. Contro gli accorpamenti delle soprintendenze si sono espressi quasi tutti i soprintendenti storico- artistici. Fra gli altri: Maria Vittoria Marini Clarelli della Galleria d’arte moderna di Roma, Maura Picciau dell’Istituto centrale per la Demoetnoantropologia, Lucia Arbace (Abruzzo), Luca Caburlotto (Friuli Venezia Giulia), Marta Ragozzino (Basilicata), Cristina Acidini, Fabrizio Vona, Giovanna Damiani, Daniela Porro (soprintendenti dei poli museali di Firenze, Napoli, Venezia e Roma), Marica Mercalli (province di Venezia, Treviso, Belluno e Padova), Stefano Casciu (Modena e Reggio Emilia). Il loro timore è che alla guida delle future soprintendenze miste, come già accade nelle sette esistenti, ci vada un architetto. Il quale, d’altronde, è l’unico a possedere una qualifica professionale in grado di reggere un organismo che si occupa anche del paesaggio. Che ne sarà quindi della specificità storico-artistica, così presente nella lunga vicenda della tutela in Italia? I soprintendenti chiedevano che venisse salvata almeno una struttura storico-artistica in ogni regione. Ma il ministro non ha accolto la richiesta. Alla protesta dei soprintendenti si è aggiunta quella della sezione italiana del Comité International d’Histoire de l’Art, che chiede venga rafforzato e non marginalizzato il ruolo delle soprintendenze storico-artistiche e di una disciplina «imprescindibile garanzia di una corretta tutela del patrimonio italiano ». Un appello analogo è stato sottoscritto dalla Cunsta, la consulta degli storici dell’arte universitari. Franceschini ha i documenti sulla sua scrivania. E oggi annuncerà se tirerà dritto o se terrà conto delle obiezioni avanzate alla riforma. del 16/07/14, pag. 6 Sgomberato il cine-teatro Volturno, preludio di un’estate «law&order» Valerio Renzi È durata poco la tregua estiva tra i movimenti e la Prefettura di Roma. Ieri gli occupanti del Cine Teatro Volturno hanno avuto un brutto risveglio. A pochi passi dalla Stazione Termini a Roma, verso le 9, un nutrito spiegamento di carabinieri e polizia è entrato nella sala occupata per eseguire uno sgombero. «Il comitato dell’ordine pubblico e della sicurezza di Roma ha rotto la tregua con i Movimenti» ha sostenuto il coordinamento cittadino di lotta per la casa in un comunicato con i «laboratori di cultura indipendente e a tutti i movimenti contro la precarietà e contro l’austerity». Lo sgombero di ieri del Volturno potrebbe essere «il preludio a un’estate di sgomberi». 44 Questo cine-teatro occupato sei anni fa è una sala storica della città, passata da teatro di varietà a sala cinema, per i finire i suoi giorni di attività come locale di spettacoli erotici. Poi la chiusura e l’acquisto da parte di Cecchi Gori, che voleva farci un bingo. Nel 2008 l’occupazione da parte del Coordinamento cittadino di lotta per la casa. Intanto la proprietà sarebbe passata di mano per arrivare alla Ferrero Cinema, proprietaria di diverse altre sale nella Capitale. Il Volturno ha ospitato spettacoli teatrali e concerti, ma anche assemblee e riunioni di tutta la città, vista la sua posizione centrale, oltre ad essere un punto di riferimento per le persone in emergenza abitativa. «Sono anni che costruiamo cultura indipendente — racconta Claudio uno dei giovani del collettivo che gestisce lo spazio — a loro ci è voluto poco più di un’ora per distruggere tutto». «Abbiamo sentito rumori provenire dall’interno. Abbiamo chiesto di entrare – spiega – Una squadra di operai ha distrutto tutto: i sanitari, la cucina, i muri. Hanno distrutto opere di street art fatte l’anno scorso da artisti di tutto il mondo, gli interventi di riqualifica fatti dagli studenti di Architettura della Sapienza». I movimenti parlano di un fatto «grave perché avviene all’indomani di una serie di incontri interistituzionali, all’interno dei quali era stato riconosciuto l’indiscutibile stato di emergenza sociale e abitativa in cui versa la città di Roma». Per questo hanno deciso di scendere in piazza domani da Piazza Indipendenza. Dal fronte istituzionale al momento silenzio. L’amministrazione comunale ha chiarito più volte di «non volere gli sgomberi», ma più volte si è fatta sorprendere dalle decisioni. «Siamo di fronte alla resa della politica – spiega una delle occupanti del Volturno mentre arriva un camion per portare via ciò che si è salvato dalla distruzione – lo sgombero è stata una precipitazione senza nessuna trattativa con chi ha animato per anni uno spazio abbandonato». Al centro di questa complessa partita sugli spazi sociali a Roma c’è il teatro Valle. Il Sindaco Ignazio Marino, dopo aver dichiarato la volontà di risolvere entro l’estate il dossier del teatro occupato dai precari dello spettacolo, sembra avere ammorbidito i toni in una recente intervista. Fino ad oggi nessuna soluzione concreta è stata proposta gli occupanti che da parte loro insistono sull’affidamento della struttura alla Fondazione Teatro Valle Bene Comune, al cui statuto hanno lavorato in un lungo processo partecipato giuristi come Ugo Mattei e Stefano Rodotà. Gli occupanti hanno chiarito che sono pronti a resistere e di non aver nessuna intenzione di lasciare il Teatro Valle per un altro spazio «alternativo». Mentre l’edizione 2014 dell’Estate Romana è ridotta al lumicino, le prossime settimane potrebbero essere ricordate più che per i concerti o per le iniziative culturali per gli sgomberi e la chiusura di importanti presidi di cultura e socialità. del 16/07/14, pag. VII (Roma) Inchiesta su utenze e danno erariale Presto potrebbe essere sentito Alemanno Esposto di Forza Italia in Procura Sul Valle occupato aperta l’indagine della Corte dei Conti Marino ieri dal pm LORENZO D’ALBERGO GIOVANNA VITALE SONO passati più di tre anni dall’occupazione. E ora la gestione dell’affaire teatro Valle da parte del Comune desta più di una perplessità anche tra i magistrati della procura regionale della Corte dei conti del Lazio. I pubblici ministeri di via Baiamonti hanno aperto 45 un fascicolo e deciso di vederci chiaro, di capire perché la titolarità di un bene pubblico tanto importante, anche sotto il profilo architettonico e storico, sia stata tolta alla cittadinanza a favore di una presenza tanto stabile quanto abusiva. Poi, c’è la questione delle utenze e quella domanda che più di una volta deve essere ronzata nelle teste dei protagonisti di questa vicenda: perché il Campidoglio ha continuato a pagare le bollette di acqua, energia elettrica, riscaldamento e rifiuti per tutti questi anni? La possibilità che la domanda si trasformi in un’ipotesi di danno erariale è concreta: i magistrati coordinati dal procuratore regionale Angelo Raffaele De Dominicis sono al lavoro per individuare le singole responsabilità di chi si è occupato del governo del Valle e quantificare il potenziale ammanco causato alle casse del Comune dalla cattiva gestione del più antico teatro della capitale ancora in attività. Ieri - nel giorno in cui il responsabile Cultura di Forza Italia Edoardo Sylos Labini ha presentato un esposto in Procura contro l’occupazione - il pubblico ministero al quale è stata affidata l’indagine contabile ha sentito il sindaco Ignazio Marino. Il primo cittadino, secondo quanto filtra dagli uffici via Baiamonti, avrebbe spazzato ogni dubbio sulla propria condotta, spiegando che il problema è stato sempre gestito dai dirigenti dell’assessorato alla Cultura e di essersi trovato davanti a una realtà ereditata dalla precedente amministrazione. Non solo il sindaco. Nei giorni scorsi, i magistrati contabili hanno convocato anche Ninni Cutaia, l’ex direttore dell’Eti (l’Ente teatrale italiano soppresso nel 2010 da cui dipendeva anche la gestione del Valle) finito al centro delle cronache lo scorso marzo per essersi visto revocare la guida del teatro Argentina dal ministero dei Beni e delle attività culturali. I magistrati contabili hanno inoltre sentito anche Cristina Selloni, la direttrice del dipartimento Cultura del Comune destinata alla direzione delle biblioteche di Roma, e il direttore generale per lo spettacolo dal vivo del Mibac Salvo Nastasi. Ma l’elenco è destinato ad allungarsi ancora: nei prossimi giorni, infatti, potrebbe essere il turno dell’ex sindaco Gianni Alemanno. Per due anni è stata la sua giunta a trovarsi con la patata bollente del teatro Valle tra le mani. Lo stabile nel cuore del rione Sant’Eustachio inaugurato nel 1727 è passato dall’Eti al Comune nel 2010 ed è stato occupato nel gennaio del 2011, nel corso del lungo periodo di interregno. Un lasso di tempo durante il quale le utenze (la loro somma potrebbe costituire la fetta più grande del potenziale danno erariale) non sono mai state staccate. Anzi, dopo una prima rappresaglia, vennero immediatamente riallacciate per evitare che i media leggessero l’iniziativa come la volontà di interrompere con la forza l’occupazione “culturale” del Valle. Un tira e molla che ora potrebbe finire per costare una citazione davanti alla sezione giurisdizionale della Corte dei conti del Lazio e un maxi-risarcimento da depositare nelle casse del Campidoglio ai responsabili della gestione del teatro. 46 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 16/07/14, pag. 10 Sta nascendo un nuovo pilastro tra Stato e mercato. L’impresa sociale distribuirà utili e raccoglierà capitali sul web Il ministro del Lavoro: “Sarà una grande occasione professionale” Poletti: “Servizio civile per i primi 40 mila giovani risorse ok, a fine anno il via” VALENTINA CONTE ROMA . Imprese sociali come start up: potranno distribuire utili e fare crowdfunding, raccogliere capitali su Internet. Servizio civile universale, pagato, da inserire nel curriculum e svolgere anche all’estero, aperto (forse) ai giovani stranieri residenti in Italia. Cinque per mille strutturale, ma con obbligo di trasparenza per gli enti che ricevono i soldi degli italiani. Social bond per finanziare il sociale. Fiscalità agevolata. E un registro unico per il Terzo settore, una sorta di albo della solidarietà. Ministro Poletti, la riforma del Terzo settore approvata dal Consiglio dei ministri rappresenta davvero un «grande momento di svolta», come dice il premier Renzi? «Corrisponde all’idea, cara al governo, che la partecipazione dei cittadini è il terzo pilastro della società italiana, oltre a Stato e mercato. Non più dunque una Croce rossa, marginale ed emarginata, da usare quando lo Stato non arriva. Ma una protagonista per gestire i bisogni della collettività. Nessuno resterà a casa, tutti devono fare qualcosa». La riforma però è affidata a un disegno di legge delega, dunque non sarà operativa in tempi brevi... «Andrà a pieno regime solo nel 2015, certo. Ma ci siamo dati un periodo limitato per l’emanazione dei decreti attuativi, sei mesi, dall’approvazione della delega. E contiamo di non usarli tutti». Quanto costerà? Solo il servizio civile sulla carta vale 600 milioni, se calcoliamo 500 euro al mese, dunque 6 mila euro l’anno, moltiplicati per 100 mila giovani tra i 18 e i 28 anni da coinvolgere nel triennio. «I soldi per il primo contingente, tra i 200 e i 250 milioni, ci sono già. E consentiranno a 40 mila ragazzi di partire tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. Altre risorse le troveremo con la garanzia giovani e dallo stanziamento ordinario per il servizio civile. Ma è un tema che affronteremo nel 2015». I critici vi accusano di aver creato la figura del “sottopagato di Stato”, anziché impiegare i soldi per creare posti veri: giovani non assunti che tappano i buchi dell’inefficienza pubblica, retribuiti con una miseria. Come risponde? «Sono critiche ingiuste perché non tengono conto dell’importante contenuto di esperienza insito nel servizio civile. Si tratta di un’opportunità per i nostri giovani, anche per un futuro lavoro. Non sono rari i casi in cui, al termine del servizio, questo si trasformi in occasione professionale. E poi c’è il contenuto civico: dai una mano alla collettività e al tuo Paese. Dobbiamo far crescere il senso della solidarietà». Tra i 100 mila ci saranno anche ragazzi stranieri, come si legge nel comunicato di Palazzo Chigi? «È un punto che stiamo ancora valutando». Nel 5 per mille cosa cambia? 47 «Finalmente diventa strutturale, senza bisogno di una norma ad hoc da inserire ogni anno nella legge di Stabilità. Ma sfoltiremo l’elenco degli enti beneficiari, visto che duemila non ricevono neanche un euro, altri tremila meno di cento euro. E chiederemo loro statuto, rendicontazione, trasparenza e comportamenti coerenti ». Come funzionano i social bond? «Il cittadino potrà acquistare queste obbligazioni dalle banche, accontentandosi di un interesse un po’ più basso. E le banche, che ridurranno i costi di gestione, destineranno una parte dei proventi a particolari interventi sociali. È un esempio di finanza di comunità o finanza etica. Incentiveremo anche microcredito e donazioni. L’idea di fondo è sempre quella: la comunità che si prende cura di se stessa». L’impresa sociale sin qui non è decollata: appena 852 quelle esistenti. Ora cambierà qualcosa? «Aggiorneremo la normativa, consentendo la distribuzione di utili, oggi preclusa, nel rispetto di condizioni e limiti, e cioè l’utilità sociale. Potrà raccogliere capitali anche tramite Internet, come fanno le start up. Investire in settori di attività più ampi, aiutata anche da un fondo rotativo e dall’assegnazione di immobili pubblici inutilizzati o confiscati alla criminalità. Non imporremo una forma giuridica, le aiuteremo tutte: cooperative, srl, spa. Purché lavorino per la comunità». 48 ECONOMIA E LAVORO del 16/07/14, pag. 5 «Sciopero unitario» a ottobre contro il blitz estivo Reggi-Giannini. Roberto Ciccarelli Bloccati da una camionetta dei carabinieri e cinque della polizia tra piazza Montecitorio, via della Colonna Antonina e via della Guglia, ieri a Roma duecento docenti e precari della scuola aderenti aì sindacati hanno dovuto rinunciare ad un corteo verso piazza delle 5 Lune al Senato. Il presidio, convocato dai coordinamenti delle scuole romane, dai sindacati di base e dalla Flc-Cgil, ha protestato contro l'annunciato aumento dell'orario di lavoro per i docenti, il taglio di un anno di scuola alle superiori, la proposta di tenere aperte le scuole fino alle 22, la cancellazione delle supplenze brevi e il superamento del contratto dí lavoro fermo al 2007. Dovrebbero essere queste le linee guida della legge delega alla quale starebbe lavorando il governo in questi giorni e che potrebbe vedere la luce tra questa settimana e il 20 luglio. Il governo avrebbe intenzione di lanciare una consultazione da svolgere nelle scuole e nei provveditorati; poi dovrebbe incontrare í sindacati sul possibile rinnovo del contratto; infine procedere ad una consultazione online con i cittadini. Il tutto in due settimane, a scuole chiuse. Contro il blitz legislativo estivo, annunciato, smentito , in fondo ribadito dal sottosegretario all'istruzione Reggi (Pd) i lavoratori autoconvocati delle scuole dí Roma hanno convocato un'assemblea il 15 settembre e pensano ad mobilitazione già all'inizio del prossimo anno scolastico. Di «sciopero unitario» entro ottobre parla anche la Flc-Cgil: «L'unico vero obiettivo ha detto il segretario Domenico Pantalco è tagliare ulteriormente le risorse peggiorando occupazione, condizioni di lavoro e diritti. In questa fase difficile è necessaria la massima unità tra le organizzazioni sindacali e il forte protagonismo delle Rsu». «Il Ministro Giannini e il sottosegretario Reggi non possono usare le interviste per parlare con il mondo della scuola» ha detto il coordinatore nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà Nicola Fratoianni. Critico anche il Movimento 5 Stelle: «Dietro questa proposta si cel-io i soliti tagli ad una scuola già vessata e saccheggiata». La legge delega dovrebbe aumentare l'orario di lavoro a parità di salario, prevedendo una non ancora meglio specificata serie di premi per i docenti «meritevoli». La proposta è stata già avanzata dall'ex ministro Profumo e non interviene su uno dei guai provocati dal blocco degli scatti del personale voluti da Tremontí nel 2010. Da allora, i lavoratori della scuola vengono pagati dallo stato con i loro stessi soldi. Le attività funzionali come la correzione dei compiti, o il lavoro nelle commissioni, sono pagate con il salario accessorio. Si ritiene anche che si vogliano cancellare 250 mila precari nelle varie graduatorie abolendo le supplenze brevi, da affidare ai docenti di ruolo. Chi ha retto le scuole per 10 anni verrà mandato in strada per legge. Tra le righe riemerge anche il vecchio disegno di legge Aprea sugli ordini collegiali, ritirato dal governo Monti dopo una mobilitazione degli studenti. Sembra infatti che il governo voglia esautorare i meccanismi di decisione elaborati dai decreti delegati in poi a beneficio dei poteri di indirizzo dei dirigenti scolastici. Quanto alla proposta «pop» dí aprire le scuole fino alle 22, 11 mesi su 12, chi ieri si è mobilitato ha tenuto a rivelare il tranello. Per i sindacati la proposta sarebbe realizzabile istituendo l'organico funzionale, stabilizzando 130 mila precari e allungando il tempo scuola. Un progetto lontano dalle intenzioni del governo che sembra invece essere orientato ad aprire le porte della scuola ai privati. 49 del 16/07/14, pag. 11 Super municipalizzate e pochi investimenti così sta morendo il capitalismo italiano In un rapporto Roland Berger i numeri che fotografano il declino del nostro sistema. Boom di fusioni e acquisizioni nel mondo, ma le imprese italiane sono solo prede FEDERICO FUBINI ROMA . Cambia il controllo di Frette, il produttore di biancheria di lusso che fornì le lenzuola all’Orient Express e al Titanic, ma la notizia non è che ora apparterrà a un investitore straniero. Era già così. L’antica casa milanese viene infatti ceduta da un fondo di San Francisco a uno di Londra. La notizia è che non c’era un investitore italiano disposto o capace di presentare un’offerta o un progetto industriale migliori. È già successo negli ultimi anni, in vari settori. Dall’alimentare con Parmalat acquisita dai francesi di Lactalis, alla Ducati passata al gruppo Volkswagen, alle conquiste del gruppo transalpino Lvmh su Bulgari, Loro Piana o la pasticceria Cova, fino alla recente cessione del controllo di Indesit agli americani di Whirlpool. Difficile spiegare ai dipendenti delle società vendute che ciò sia un male, se ora vedono più investimenti, nuove competenze e la conquista di mercati prima irraggiungibili. Per loro la sicurezza del posto in futuro fa premio sul prefisso telefonico dell’azionista di controllo. Per i neolaureati che adesso possono mandare un curriculum nella speranza di una vera chance, ancora di più. Resta giusto un dubbio sull’asimmetria. Il valore delle fusioni e acquisizioni nel mondo quest’anno è già a 1.500 miliardi di dollari e forse il 2014 batterà il record del 2007. Dalla farmaceutica all’energia, da Pfizer e General Electric, tornano le offerte per creare i cosiddetti Mammuth. Ma l’Italia è molto più preda che predatrice. Le sue imprese non sono quasi mai alla testa, ma schiacciate in mezzo alle catene di fornitura dei milioni di componenti che generano aerei, treni veloci, turbine, auto o gadget elettronici; dunque per lo più vengono acquistate, ma molto di rado acquistano le altre. Una ricerca di Roland Berger Italia per Repubblica fa capire perché: dal fondo della crisi globale nel 2009 il made in Italy manifatturiero ha sì abbozzato una ripresa, ma non riesce a produrre la cassa necessaria a preparare il futuro. Quella che crea basta a fatica a sostenere i debiti del passato. Da quando l’economia italiana crollò del 5% subito dopo il crac di Lehman, gli investimenti industriali in Italia sono addirittura scesi di un altro 9%: difficile restare competitivi così, se non cambia il modo di finanziamento e con quello la struttura stesse delle imprese. I dati della Roland Berger, il gruppo di consulenza, mostrano come questa crisi stia portando con sé la fine del capitalismo all’italiana fondato sulle medie imprese familiari che restano indipendenti e si finanziano in banca. Non un male, se sarà sostituito con un modello più adatto ai tempi. “Ci sono molte medie aziende per le quali nuova finanza è pronta ad arrivare dai fondi esteri o italiani o da grandi investitori istituzionali - dice Andrea Marinoni di Roland Berger Italia -. Ma solo a patto che ci siano fusioni, spacchettamenti di settori e filiere produttive, progetti fra più gruppi. Non più ognuno per sé come in passato”. Certo come oggi non può continuare. Non è più sostenibile, per esempio, il peso predatorio delle municipalizzate sul sistema produttivo. La Roland Berger mostra che dal fondo della crisi nel 2009 il settore il cui fatturato è cresciuto di più in Italia, da 44 a 72 miliardi, è quello delle società partecipate dagli enti locali che forniscono servizi come acqua o elettricità. Il loro giro d’affari è esploso del 63%, pesa dieci volte più del settore 50 auto in Italia e almeno il doppio rispetto a qualunque comparto leader del manifatturiero, dalla meccanica all’alimentare. Vista così, il settore trainante del Paese sembra il parassitismo delle mille piccole Iri di provincia. Un gigante sostenuto dagli aumenti continui delle tariffe, che tuttavia fatica a stare in piedi: malgrado il boom delle rendite estratte dal mondo produttivo, la redditività delle municipalizzate non cresce e i loro investimenti addirittura cadono. Questa tassa impropria sul resto dell’economia a sua volta alimenta, ma non determina da sola, le difficoltà del manifatturiero. Non che tutto vada male, perché un po’ di ripresa c’è stata. Dal punto basso del 2009 al 2012 il fatturato del settore alimentare è salito da 24,6 a 26 miliardi, quello del settore auto (molto più piccolo) da 6,3 a 7,1 miliardi. E cresce la meccanica, con un aumento delle vendite da 24 a quasi 33 miliardi. In calo ulteriore del 17% dopo la frana del 2009 risulta solo il comparto tessile e abbigliamento, che nel 2012 ha fatturato appena un terzo del settore alimentare. Il problema dunque non è la capacità di queste imprese di vendere i loro prodotti nel mondo, ma quella di guadagnare denaro facendolo. Il carico fiscale, il costo dell’energia, la burocrazia e gli interessi sui forti debiti bancari erodono sempre più il margine operativo lordo. Nell’alimentare è caduto del 6%, nel farmaceutico del 10%, nel tessile e abbigliamento del 37%. Meglio solo la meccanica dove sale al 2,7% del fatturato, anche se resta ridotto quasi all’osso. Non stupisce che in praticamente in tutti i settori industriali italiani (meno l’abbigliamento) gli investimenti calino in proporzione al fatturato persino rispetto al nadir del 2009. In sostanza le aziende industriali d’Italia, il Paese che si gloria di essere il secondo produttore manifatturiero d’Europa dopo la Germania, non guadagnano abbastanza per preparare il loro futuro. I loro concorrenti esteri investono di più. Per capirlo la Roland Berger ha esaminato un campione di 590 imprese italiane con un fatturato di più di 200 milioni di euro (di queste, circa due terzi sono manifatturiere). Vengono fuori le differenze con le loro avversarie nel resto d’Europa. Nel made in Italy tre aziende su quattro vedono nelle banche le loro fonti di finanziamento più importanti (in Europa solo la metà), eppure il credito allo sportello è in continuo calo e non dà segnali di inversione. Significa che il mondo produttivo non può più andare avanti come prima e forse è alla vigilia di una svolta. “Le imprese devono aprirsi al capitale da nuove fonti e cambiare la loro struttura di controllo di conseguenza”, nota Marinoni. Se possibile, senza continuare a pagare il pedaggio alle municipalizzate. del 16/07/14, pag. 22 Oggi il sindacato della Camusso chiarirà la propria posizione sui 1.653 esuberi, ma resta l’opposizione Lupi: “L’ok dall’80% dei lavoratori può bastare. Siamo al rush finale”. Hogan a Roma, intesa a un passo Alitalia-Etihad decolla con il no Cgil ETTORE LIVINI MILANO . Alitalia marcia a tappe forzate verso le nozze con Etihad. Incassato l’accordo sugli esuberi (salvo il temporaneo no della Cgil) e quello sui debiti con le banche, la compagnia tricolore era a un passo ieri sera dall’intesa con i sindacati per il taglio di 31 milioni del costo del lavoro e dall’ok al contratto nazionale di lavoro di settore. «Siamo al rush finale e in settimana dovremmo incontrare l’amministratore delegato di Etihad James Hogan», ha detto ottimista il ministro alle infrastrutture e ai trasporti Maurizio Lupi. Appuntamento cui 51 però rischia di presentarsi senza la benedizione di Susanna Camusso sugli esuberi: la Cgil chiarirà oggi quale è la sua posizione sull’intesa raggiunta con le altre sigle sindacali. In assenza di (improbabili) novità dell’ultima ora, però, la Confederazione rimarrà ferma sul “no” ai 1.653 tagli. No che non dovrebbe fermare il governo: «Con il consenso dell’80% dei lavoratori andremo avanti lo stesso — ha detto Lupi — . L’accordo è stato formalmente firmato. Hanno aderito anche gli autonomi e solo Cgil e Usb hanno ritenuto di non firmare. Ma l’intesa è valida». Il varo di Alihad, insomma, pare a un passo. Hogan presenterà oggi a Roma il nuovo volo Etihad dalla capitale ad Abu Dhabi. E non è escluso che decida di trattenersi in città in vista di un possibile annuncio dell’acquisto del 49% di Alitalia nei prossimi giorni. Ormai restano da definire solo alcuni dettagli tecnici. I contratti di rifinanziamento con le banche, la governance della società (la Ue, sollecitata dalle grandi compagnie europee, è sul chi va là) e le garanzie da 200 milioni chieste dagli emiri che vogliono far decollare la nuova Alitalia senza il fardello di possibili cause legali. Anche qui, però, l’orizzonte si sta chiarendo. Le Poste Italiane, che avevano manifestato qualche perplessità a farsi carico di oneri impropri, hanno ribadito ieri di non aver intenzione di mettersi di traverso, specie contro il parere del governo. «Abbiamo dato da mesi la disponibilità – ha precisato ieri l’ad Francesco Caio – stiamo partecipando attivamente al tavolo, apprezzandone lo spirito costruttivo». Il quadro, insomma, è completo. Etihad investirà 560 milioni per rilevare la quota in Alitalia. Le banche rinunceranno a un terzo dei loro crediti (circa 170 milioni) mentre altri 400 dovrebbero essere convertiti in capitale. Dal perimetro della società – senza utilizzo di cassa integrazione, come chiedeva Abu Dhabi – usciranno 1.653 persone. Di queste, 954 andranno in mobilità e saranno affidati al nuovo strumento sociale del contratto di collocamento. Mentre per altre 681 è stato promesso il ricollocamento in aziende fornitrici di Alitalia. Numeri contestati dalla Filt-Cgil visto che per questi ultimi lavoratori, allo stato, non esiste ancora nessuna garanzia reale di trovare in tempi brevi un lavoro. Un via libera alle nozze di Alitalia è arrivato ieri anche dal governatore della Lombardia Roberto Maroni: «L’accordo va bene purchè non si penalizzi Malpensa. Ma mi pare che ci siano garanzie nel piano». Del 17/07/2014, pag. 8 Alitalia, dopo i dipendenti taglio delle retribuzioni Contributo di solidarietà progressivo per 31 milioni di euro Cgil mantiene le critiche: nell’accordo ci sono 1635 licenziamenti MASSIMO FRANCHI Dopo il taglio dei dipendenti, arriva il taglio del costo del lavoro tramite un contributo di solidarietà a carico di tutti i lavoratori con criterio progressivo. La nuova Alitalia targata Ethiad è una azienda molto diversa da quella versione Cai. Considerata conclusa la trattativa sugli esuberi - nonostante il parere contrario della Cgil che continua a chiedere modifiche, prima fra tutte l’utilizzo della cassa integrazione straordinaria per evitare i licenziamenti- governo e sindacati sono andati avanti ieri dalle 17 fino a tarda ora sulla revisione del costo del lavoro e del contratto nazionale - trattativa che va avanti da un 52 anno e mezzo - che poi darà il via all’accordo specifico per Alitalia. Un contributo di solidarietà per tutti i lavoratori Alitalia che comporterà per l’azienda un risparmio di 31 milioni circa - cifra che Cai chiede per riuscire ad arrivare a fine anno, quando entrerà Ethiad, non avendo soldi in cassa e non avendo ancora approvato il bilancio. La misura infatti avrebbe durata di soli sei mesi, da luglio a dicembre 2014. Il contributo sarà proporzionato alla retribuzione: nullo da 0a 20 mila euro annui lordi, il4%da 20 a 30 mila, il5% da 30 a 40 mila, il 7%da 40 a 60 mila, il 9% da 60 a 80 mila e il 10% per le cifre superiori. A titolo di esempio, hanno spiegato fonti sindacali, un pilota potrebbe prendere 1.500 euro in meno, mentre per il personale di terra con uno stipendio di 1.200 euro il sacrificio ammonterebbe a 100 euro. «DIRITTICALPESTATI, MIGLIAIA DICAUSE» La Cgil intanto rimane sulla sua linea. E ieri con una nota firmata dalla Filt ha ribadito la sua versione dell’accordo sugli esuberi: «Con i contenuti dell'intesa firmata da Cisl, Uil e Ugl si determina il licenziamento di 1635 lavoratori in Italia e di 52 lavoratori all’estero.A681di questi lavoratori si offre l'incerta prospettiva del reimpiego fuori da Alitalia». E le accuse all’azienda - la Cai in questo caso sono molto dure: ha confermato sin dall'inizio «la ferma volontà di procedere a licenziamenti, negando il diritto disponibile all’ammortizzatore sociale, avanzata dal ministro del Lavoro, Poletti». In questo modo ci sarebbe stato un anno di cassa integrazione per cessazione di attività che avrebbe tutelato tutti gli esuberi. Ma Cai ha subito fatto capire che non avrebbe avanzato la richiesta necessaria per erogarla, «facendo finta di negoziare per poi presentarsi con un testo già preconfezionato, denominato Accordo Quadro, accompagnato da un verbale di accordo aziendale, distruttivo dei diritti e utile alla gestione incontrollata dei processi di mobilità ». La Filt Cgil parla poi di «diritti delle persone calpestati attraverso la torsione di una recente disposizione di legge: il nuovo comma 4 bis dell'art 47 della legge 428/90».La norma si riferisce alla possibilità che in caso di cessione di ramo di azienda- il passaggio da Cai alla nuova Alitalia targata Ethiad - si possa derogare alla norma che prevede come la nuova azienda si faccia carico di tutti i dipendenti: gli 11mila dell’attuale Alitalia. La deroga prevista dall’articolo 4 bis è attuazione di una Direttiva europea e prevede la possibilità che «in caso di accordo sindacale» si può procedere ad un «mantenimento parziale» dell’occupazione. Ecco spiegata l’importanza della firma di Cisl, Uil e Ugl. La norma però non mette al riparo da cause quando si tratterà di determinare i 1.635 esuberi: senza l’uso di criteri obiettivi di scelta,ogni lavoratore avrà la possibilità di tutelare il proprio diritto individuale. Facile dunque prevedere migliaia di cause di lavoro nei prossimi mesi. Quelle poi sul ricollocamento dei lavoratori fuori da Alitalia sono «senza alcuna garanzia in assenza di accordi con le imprese che dovrebbero assumerli»: in primis Aeroporti di Roma. «Il resto dei lavoratori - prosegue la Filt -ha davanti a sè in pochi mesi la prospettiva disastrosa della mobilità: «il contratto di ricollocamento è tutto da definire e mancano ancora i decreti attuativi»,come ha anticipato l’Unità. Tra le negatività dell’accordo «viene ridotta, a partire da fine anno, la copertura degli ammortizzatori» nel fondo di settore. Del 17/07/2014, pag. 8 Inps, meno ore di cig Mancano i fondi 53 Trascinata dal calo fortissimo della Cassa in deroga (-41,5 per cento), a giugno l’Inps certifica chele ore di cassa integrazione sono diminuite del 24,3 per cento rispetto ad un anno fa e del 12,7 per cento rispetto a maggio. Dati che decontestualizzati parrebbero positivi. In realtà la stessa Inps è molto cauta. Tanto da sottolineare come «gli interventi in deroga (CIGD)come noto risentono degli stanziamenti fissati a livello regionale». Tanto è vero rispetto a maggio, le ore di cassa in deroga aumentano del +30,6%, proprio grazie allo sblocco dei 400 milioni di fondi 2014 avvenuto grazie all’intervento del ministro Giuliano Poletti che ha permesso alle Regioni di ricominciare ad accogliere le domande delle imprese. In più la Cig ordinaria rispetto a maggio cala solo dell’1% e quindi è solo la straordinaria ad essere realmente calata (-16,4% sul 2013 e del 41,4% su giugno). «La cautela è d’obbligo - sottolinea il segretario nazionale della Cisl Luigi Sbarra - . Per poter dire che siamo in presenza di un primo segnale di inversione di tendenza bisognerà vedere se sarà confermato nei mesi successivi. Per il momento va assicurato immediatamente il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga, il ritardo del governo è assolutamente incomprensibile ». Più pessimista è Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil: «In 6 mesi è stato superato il mezzo miliardo di ore, richieste non dissimili, purtroppo, da quelle degli ultimi 3 anni. Le piccole e piccolissime aziende collezionano nei primi 6 mesi del 2014 gran parte dei 113 milioni di ore, probabilmente riferite a crisi aziendali già esplose alla fine del2013macheil “fermo”delle autorizzazioni sulla cig in deroga ha portato allo sblocco, parziale, solo in queste settimane. Da questi dati emerge la necessità di dare certezze a imprese e lavoratori ed è con questo obiettivo che manifesteremo unitariamente sotto i “palazzi” della politica il 22 e il 24 luglio». Come avevamo denunciato su l’Unità il9giugno c’erano oltre 138mila lavoratori in attesa di ricevere pagamenti di cig e mobilità in deroga del 2013 e che le Regioni stimavano servissero ancora 566 milioni per completarli, nonostante le Regioni stesse avessero utilizzato per quei pagamenti già 289 milioni della prima tranche da 400 milioni del 2014. LA CGIL: CAMBIARE IL DECRETO «È una preoccupazione che esprimiamo da mesi, prima al ministro Giovannini, poi a Poletti. Sappiamo che mancano ancora circa 600 milioni per coprire ancora il 2013 e mancherebbe un miliardo per coprire il 2014», attacca Serena Sorrentino segretario confederale della Cgil. Che critica anche il nuovo decreto interministeriale del governo su cig e mobilità in deroga: «La concessione esclude alcune tipologie contrattuali e lavorative: apprendisti, lavoratori a domicilio, lavoratori in somministrazione o ai soci lavoratori di cooperative, prima inclusi». Mala Cgil è preoccupata anche dal requisito dell'anzianità lavorativa presso l'impresa di almeno 12 mesi, «perché per gli ammortizzatori ordinari è di 90 giorni e si creerebbe una forte disparità», chiude Sorrentino. 54