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RASSEGNA STAMPA
Mercoledì 27 agosto 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
IL RIFORMISTA
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica Firenze del 23/08/2014, pag. 2
Patrizia Marocchi di Un ponte per è ora a Erbil: Assisto all’avanzata dei
miliziani dell’Isis, ma per adesso siamo tranquilli
Parlano cooperanti e medici andati in Iraq e
Siria dalla nostra regione
Mario Messina, chirurgo: Dovevo ripartire a novembre, non andrò
I RACCONTI
MICHELE BOCCI
MASSIMO MUGNAINI
DI SOLITO Messina si reca in Iraq con un aiuto e uno specializzando. «Poi, due volte
all’anno, ci inviano dei bambini da operare a Siena. Ma quest’anno i viaggi non si faranno»
sottolinea mestamente. Chi invece a Erbil si trova da maggio è Patrizia Marocchi,
cooperante di «Un ponte per» che partecipa a un progetto di sviluppo finanziato dalla Ue e
promosso da Arci Toscana, nel Kurdistan iracheno, che mira ad aprire nel giro di tre anni
alcuni centri giovanili per le minoranze religiose Yazidi, Kakay e Shabak nel paese. «Sto
assistendo all’avanzata dell’Is - racconta - ma non temo di venire rapita e presa in
ostaggio» dice, anche se poi ammette: «certo, il pericolo esiste». E ne spiega il perché:
«Dieci giorni fa i miliziani islamici hanno attaccato alcune città cristiane del nord dell’Iraq e
adesso ci sono 15 mila profughi che si stanno riversando nel quartiere di Ainkawa a Erbil».
Con l’emergenza umanitaria in atto, però, «non c’è molto tempo per pensare alla sicurezza
personale». Molto tempo magari no, ma un po’ forse sì: «In effetti gli islamisti si trovano a
soli 40 chilometri da qui..» riflette. Poi caccia subito l’istinto con la geopolitica: «Però l’Is
vuole creare lo Stato Islamico in Siria e Iraq, non nel Kurdistan..». Conclusione: «sia come
sia, resterò in Iraq fino al maggio 2015 come prevede il progetto».
Di diverso avviso Fabiola Podda, 48 anni, che tra l’ottobre 2008 e il dicembre 2011 ha
partecipato a due programmi di cooperazione promossi da Arci Toscana e ministero degli
Esteri in Siria e Libano, presso l’ambasciata italiana a Damasco. «Tra i cooperanti italiani
ancora presenti in Siria e Iraq la paura dei rapimenti è concreta, per questo le varie ong
consigliano di lasciare il paese: il rischio è troppo alto» esordisce. «Ho assistito alle prime
manifestazioni di piazza, c’era la classe media laica a protestare contro il regime di
Assad» racconta. «Poi però si è insinuato qualcos’altro in quelle manifestazioni, gli
islamisti hanno preso sempre più piede e adesso ci ritroviamo in questa situazione
drammatica e pericolosa per gli occidentali». Nella capitale siriana, Podda lavorava
insieme a tre cooperanti italiani sull’emergenza profughi provenienti dall’Iraq. «La
catastrofe umanitaria in atto non ci ha permesso di vedere l’evolversi reale della
situazione. Adesso che il vaso di Pandora si è scoperchiato, siamo di fronte a una
situazione di non ritorno». Il vaso di Pandora è l’irresistibile avanzata dell’Is, i miliziani
dello Stato Islamico che propugnano rapimenti a scopo di riscatto ed esecuzioni sommarie
di occidentali. Secondo la cooperante «gli islamisti hanno lavorato sotto traccia a lungo
aspettando le condizioni più favorevoli». Adesso che sono arrivate la tensione tra gli
occidentali in Siria è altissima. «Ecco perché se me lo chiedessero oggi non ci tornerei,
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anche se mi piacerebbe molto. Dobbiamo andare là dove c’è bisogno di aiuto ma non
possiamo diventare noi stessi un problema da risolvere. L’avventatezza è un lusso che
non possiamo permetterci ».
D’avviso opposto Irene Zanella, 38 anni, fiorentina, di «Un ponte per». Zanella collabora a
un progetto di cooperazione culturale a Baghdad ed Erbil, nel Kurdistan iracheno. Il
programma, promosso da Comune di Firenze e Biblioteca Nazionale, mira a formare
bibliotecari e archivisti per la biblioteca della capitale irachena e per la Cittadella di Erbil. E
a salvare i testi delle minoranze cristiane e sciite che vi abitano. Irene è tornata a Firenze
da Erbil tre settimane fa. «La situazione si è fatta drammatica sia sotto il profilo umanitario
che della sicurezza» racconta. Al contrario di Fabiola, però, lei in Iraq tornerebbe anche
domattina. «E’ proprio in momenti come questi, in cui c’è più bisogno di aiuto, che
dobbiamo essere presenti». Anche se c’è il rischio di finire ostaggi, com’è accaduto alle
due giovani cooperanti Vanessa e Greta. «Però bisogna stare più attente » commenta. «Io
tornerei in Iraq perché la mia ong ha protocolli di sicurezza rigidissimi per i suoi
cooperanti».
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ESTERI
Del 27/08/2014, pag. 2
Gaza, è tregua permanente Tra Israele e
Hamas accordo dopo 50 giorni di guerra
Palestinesi in festa. I miliziani: “Abbiamo vinto noi” Netanyahu: “Pronti
a colpire se ci attaccheranno”
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
GERUSALEMME
L’accordo arriva al tramonto del cinquantesimo giorno di guerra. Israeliani e palestinesi
siglano una tregua “permanente”, alle sette della sera le armi tacciono, le frontiere sono
pronte a riaprire e il sanguinoso conflitto che ha sconvolto l’estate di Israele e Gaza
sembra finalmente placarsi. Ci sono volute sette settimane di guerra vera e di instabili
cessate-il-fuoco (tutti e undici violati da Hamas), ci sono voluti 4.450 razzi sparati dalla
Striscia e 5.526 bombe sganciate dai caccia di Gerusalemme su Gaza, ci sono voluti
purtroppo oltre duemila morti palestinesi (2.126 l’ultimo calcolo aggiornato, tra cui oltre 400
bambini) e settanta morti israeliani (cinque civili, l’ultimo poche ore prima della tregua).
Tutto senza che nulla di definivo sia cambiato, se non un odio che cinquanta lunghe
giornate di morte e vendette non faranno che aumentare.
All’annuncio della tregua Hamas canta vittoria. Le sette sono passate da poco, qualche
ultimo razzo viene sparato ugualmente a scopo intimidatorio sui kibbutz e sulle città del
sud mentre a Gaza risuonano i colpi di proiettile, ma questa volta in segno di giubilo. Gli
uomini mascherati con le divise nere e verdi di Hamas sparano in aria con i kalashnikov, è
già pronto — preparato chissà da quanto — il disegno-grafico da far girare sui media:
«Così Gaza ha trionfato», dice il manifesto in cui tre uomini armati (uno con la divisa di
Hamas, altri con divise di differenti fazioni palestinesi) catturano un soldato israeliano con
la bandiera bianca alzata e una stella di David marchiata sulla schiena nuda.
Un canto di trionfo, quello di Hamas, che ha il chiaro sapore della propaganda ed è rivolto
in primo luogo a quel milione e mezzo di abitanti della Striscia che sono state le vere
vittime — consapevoli o costrette ad esserlo come in tanti casi di “scudi umani” — di
questo lungo conflitto nella parte palestinese del campo di battaglia. Sul piano politicodiplomatico poco avrebbe da festeggiare, hanno dovuto accettare le condizioni che finora
avevano rifiutato, quelle mediate dall’Egitto del nuovo alleato di Israele Al-Sisi: l’apertura
dei valichi di frontiera sia dalla parte israeliana che da quella egiziana per consentire “da
subito” il passaggio di aiuti umanitari e di materiale per la ricostruzione; l’estensione della
zona di pesca da tre a sei miglia; il proseguimento di negoziati sugli altri punti (porto
commerciale e aeroporto, come vuole Hamas, demilitarizzazione della Striscia come
chiede Israele) nel giro di un mese. Celebra una vittoria (anche personale) Abu Mazen,
che come primo atto ha voluto ringraziare l’Egitto per «avere fermato l’aggressione, il
bagno di sangue e l’uccisione di bambini». Era stato lui, mentre razzi di Hamas venivano
lanciati ad una cadenza mai vista (150 in poche ore, uno ha raggiunto Tel Aviv), ad
annunciare al mondo intero: «La leadership palestinese ha accettato l’appello dell’Egitto
per una tregua permanente a partire dalle 19 di oggi». Abu Mazen si fa garante di questo
cessate-il-fuoco “generale”, che ha probabilmente trattato — nel suo burrascoso colloquio
in Qatar dei giorni scorsi — anche con Khaled Meshal, il capo politico di Hamas, che
(almeno fino a ieri) sembrava contrario ad ogni ipotesi di tregua. Il leader dei palestinesi ha
in mente un progetto ancora più grande, quello di una «pace definitiva tra palestinesi e
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israeliani» e ieri sera lo ha presentato a un summit di tutte le fazioni palestinesi. Si basa
sul ritorno ai confini pre 1967, difficilmente Israele (e gli Usa) potranno accettarlo.
Dovrebbe essere un giorno di festeggiamenti anche per Israele e per quelle centinaia di
migliaia di persone che hanno vissuto per cinquanta giorni l’incubo delle sirene, dei
“cinque maledetti secondi” necessari a raggiungere i rifugi allestiti in ogni casa. Negli ultimi
tre giorni, dopo la morte del piccolo David in un kibbutz di frontiera e prima della tregua
annunciata ieri, a migliaia hanno lasciato le case nel sud. La maggioranza degli israeliani
tira un sospiro di sollievo, ma non sono pochi quelli che rimproverano a Netanyahu di non
aver portato a termine quello che aveva promesso, cioè la definitiva eliminazione della
minaccia Hamas. Metà del “gabinetto di sicurezza” questa tregua non la voleva, il premier
non ha messo la questione ai voti. Con una promessa: Israele non permetterà che a Gaza
usino il cessate-il-fuoco per riorganizzarsi, riarmarsi e ricostruire i tunnel.
Del 27/08/2014, pag. 1-7
GAZA OTTIENE LA TREGUA, NON LA
LIBERTÀ
Michele Giorgio
La notizia girava nell’aria da un paio di giorni. Il sì di Hamas e Jihad alla proposta egiziana
era ormai certo, si attendeva solo il via libera del governo Netanyahu. Poi ieri pomeriggio è
giunta la conferma dell’accordo per un cessate il fuoco illimitato che mette fine a 50 giorni
di offensiva militare israeliana “Margine Protettivo” e ai lanci di razzi e colpi di mortaio da
Gaza. Già prima dell’inizio della tregua, alle 18 italiane, centinaia di palestinesi, non solo
attivisti di Hamas, erano scesi in strada a festeggiare la fine del massacro, di immense
distruzioni. Poi a migliaia hanno attraversato città e villaggi della Striscia sorridendo, cantando, urlando la loro gioia. E’ finita, almeno per ora.
Un massacro così deve essere descritto e non come una “guerra” ciò che è avvenuto a
Gaza in questi ultimi due mesi. Un massacro che ha pagato la popolazione civile palestinese prima di chiunque altro. Certo, anche i razzi di Hamas hanno generato paura e tensione, specie nelle regioni meridionali di Israele dove hanno ucciso cinque civili, tra i quali
un bambino. E i combattenti di Ezzedin al Qassam hanno dato filo da torcere ai soldati
israeliani, 64 dei quali sono rimasti uccisi negli scontri. Ma è solo una frazione di quello
che ha pagato la Striscia di Gaza. Migliaia di attacchi aerei, terrestri e navali israeliani
hanno ucciso oltre 2.100 palestinesi — per almeno 2/3 civili innocenti tra i quali donne e
bambini — quasi 11mila i feriti (3mila bambini, centinaia rimarranno disabili), migliaia di
case completamente distrutte, altre migliaia danneggiate, infrastrutture civili devastate,
centinaia di fabbriche ed imprese ridotte in macerie o bruciate. L’elenco è lungo e conferma l’eccezionale durezza dell’attacco militare israeliano che negli ultimi giorni non ha
esito a polverizzare, ad evidente scopo intimidatorio, persino le torri residenziali che dominavano il capoluogo Gaza city. Un martellamento incessante che si è fermato lasciando
l’amaro in bocca a diversi ministri israeliani e agli abitanti del Neghev che accusano il premier Netanyahu, in netto calo nei sondaggi, di non aver saputo «risolvere il problema»,
ossia di non aver schiacciato Hamas e di non aver autorizzato una punizione ancora più
pesante per i palestinesi di Gaza, “colpevoli” di reclamare il diritto alla libertà e a una vita
dignitosa. Forse anche per questo Netanyahu e il resto del governo ieri sera hanno preferito la linea del basso profilo.
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Eppure Netanyahu, comunque si voglia leggere questo accordo di tregua, porta a casa
una vittoria ai punti. Certo, ha mancato l’obiettivo di annientare Hamas e quello altamente
velleitario di provocare una “sollevazione” dei palestinesi di Gaza contro il movimento islamico. Tuttavia ha ottenuto il cessate il fuoco illimitato e, di fatto, incondizionato che cercava. Alla fine Hamas ha avuto solo qualche cambiamento cosmetico che non modifica la
terribile condizione di Gaza sotto quel blocco israeliano che il movimento islamico aveva
promesso di scardinare in modo definitivo. Hamas ha annunciato e celebrato la fine delle
ostilità come una “vittoria” frutto della resistenza dei suoi combattenti. Il suo portavoce
Fawzi Barhoum, in una conferenza stampa improvvisata, ha illustrato i successi militari
ottenuti dal braccio armato del suo movimento e la sconfitta di Israele che non è riuscito
fermare in nessun momento «la resistenza». E di passo in avanti per Gaza ha parlato
anche il presidente dell’Anp Abu Mazen che, in un discorso televisivo da Ramallah, ha
anche annunciato la presentazione di un suo piano generale e definitivo per la fine del
conflitto con Israele.
A ben guardare ci si rende conto che dopo essere rimasti 50 giorni sotto bombardamenti
pesanti, i palestinesi non hanno ottenuto più di ciò che era stato stabilito nel 2012, con
l’accordo di cessate il fuoco firmato da Israele e Hamas al termine dell’operazione “Pilastro
di Difesa” (il secondo dei tre attacchi in cinque anni contro Gaza). Nell’immediato, hanno
fatto sapere gli egiziani, saranno riaperti i valichi per far passare gli aiuti umanitari per la
popolazione stremata e i materiali per la ricostruzione. L’area di pesca per gli abitanti di
Gaza tornerà ad essere di sei miglia marine. Solo fra un mese però inizieranno al Cairo i
negoziati sulle questioni vere e più complesse, quelle sulle quali per giorni e giorni le delegazioni palestinese e israeliana riunite nella capitale egiziana hanno cercato invano
un’intesa. A cominciare dalla richiesta palestinese di dotare la Striscia di un porto e di un
aeroporto per finire alla “smilitarizzazione” di Gaza invocata da Netanyahu. Invece di sventolare la bandiera della vittoria, i leader di Hamas dovrebbero ripensare alle promesse
fatte alla popolazione, alle linee rosse “invalicabili”, ai proclami di lotta fino al conseguimento di tutti gli obiettivi dichiarati. «Nessuna nazione araba ha resistito in questo modo
ad Israele e così a lungo», ha rimarcato ieri sera un esponente del movimento islamico.
Questo a Gaza, ai palestinesi, non basta più.
Del 27/08/2014, pag. 3
Per quasi due mesi il presidente egiziano ha tessuto la sua rete
diplomatica, facendo ritrovare al Cairo il ruolo di guida del Medio
Oriente perduto negli ultimi anni
La lunga mediazione del “Leone d’Egitto”
Così Al Sisi ha piegato i leader integralisti
Il personaggio
FABIO SCUTO
CINQUANTA giorni dopo la più grave distruzione delle numerose guerre che Gaza ha
subito, i leader islamisti nella Striscia sono usciti ieri dai loro bunker sotterranei, dai loro
rifugi, per «celebrare la vittoria» in questo inutile conflitto che ha lasciato sul campo quasi
2.200 morti, 11 mila feriti, 200 mila senza casa e distruzioni immani nelle infrastrutture
pubbliche. Questa “vittoria” che Hamas nella sua abituale riscrittura della Storia attribuisce
alla sua resistenza, è invece dovuta all’opera decisa e continuativa del presidente egiziano
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Abdel Fattah al Sisi, il peggior nemico del movimento islamista nella Striscia, il “vituperato”
generale che non solo ha spodestato con un golpe largamente sostenuto dalla
popolazione la Fratellanza musulmana dalla guida dell’Egitto lo scorso anno ma — con la
sua linea di “tolleranza zero” sul contrabbando tra il Sinai e la Gaza — ha tagliato alla
radice le fonti di finanziamento di Hamas che dal quel traffico guadagnava (in tasse) quasi
250 milioni di dollari al mese, larga parte dei quali usati per comprare armi e missili,
soprattutto dalla Libia. Armi che, generosamente vendute dalla Brigata di Misurata,
traversavano i cinquecento chilometri di costa egiziana grazie a mille complicità per
approdare a Rafah, pronte per passare nei tunnel sotto la sabbia e finire nei bunker di
lancio degli artiglieri islamisti. Gli oltre quattromila razzi sparati da Hamas contro Israele in
queste sette settimane di guerra hanno percorso tutti questa strada. Al Sisi da oltre un
anno tiene in piedi una vasta operazione militare nel Sinai, con il silenzioso assenso di
Israele, contro i gruppi islamisti e jihadisti egiziani che infestano la penisola desertica e
con i quali Hamas ha a lungo trescato e trafficato. La proposta egiziana — accettata da
tutti i leader integralisti della Striscia — in realtà è sempre stata la stessa da oltre un mese,
una cessazione delle ostilità consolidata almeno per un mese, riapertura del valico di
Rafah ma sotto il controllo delle forze dell’Anp del presidente Abu Mazen, allargamento
della zona di pesca consentita da 3 a 6 miglia. Il presidente egiziano l’aveva spiegato
chiaramente anche al nostro premier Matteo Renzi quando è passato per il Cairo lo scorso
8 agosto. Adesso queste condizioni che tre settimane fa erano state sdegnosamente
respinte da Hamas, che bollava al Sisi come troppo “pechant” verso Israele al punto da
chiamare sulla scena paesi considerati più “amici” dal movimento integralista come Qatar
e Turchia ma avversari dell’Egitto, improvvisamente sono diventate una «vittoria». Sono
scomparse però quelle richieste che Hamas giudicava essenziali come l’aeroporto, il
nuovo porto, la libera circolazione attraverso i valichi di frontiera con Israele e Egitto. Di
fatto Hamas e la Jihad islamica di Gaza hanno accettato le stesse identiche condizioni con
le quali si concluse l’ultima guerra di Gaza, quella del novembre 2012: dal valico di Rafah
e di Erez — quello con Israele — passeranno per ora solo aiuti umanitari umanitari e
materiali per la ricostruzione Il “Leone d’Egitto” strappa così il suo primo successo
diplomatico internazionale e sembra riportare il Cairo nel ruolo guida che ha sempre avuto
nel mondo arabo, a dispetto dei nuovi paesi “emergenti” nell’area. L’intesa per Gaza è
stata raggiunta grazie alla mediazione “indiretta” con il rivale Qatar — con il quale i
rapporti dopo l’estromissione della Fratellanza musulmana dal potere sono estremamente
tesi — che è stata portata avanti in questo caso dal presidente dell’Anp, Abu Mazen. Il
leader palestinese è volato al Cairo sabato scorso, dopo la missione a Doha dove aveva
incontrato l’emiro al-Thani e il leader di Hamas in esilio, Khaled Meshaal. Ma è nella
capitale egiziana che Abu Mazen ha messo a punto gli ultimi dettagli con al Sisi. Non c’è
però solo Gaza in cima ai pensieri del Cairo, che guarda con preoccupazione gli sviluppi
nella vicina Libia e sembra aver accolto i numerosi appelli della comunità internazionale,
Italia in testa, a giocare un ruolo di primo piano. Il Leone d’Egitto potrebbe avviare presto
altre importanti iniziative.
Del 27/08/2014, pag. 8
Gli Usa in volo sulla Siria
Siria/Iraq. Partite le ricognizioni al confine con l’Iraq, obiettivo stanare
l’Isis. Obama promette: non saranno inviati altri soldati e per ora non
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pioveranno bombe. In attesa di un compromesso con lo «stato
canaglia», l’America invia aiuti ai moderati siriani
Chiara Cruciati
L’autorizzazione del presidente Obama è arrivata: ieri sono cominciati i primi voli di ricognizione statunitensi sopra il territorio siriano. Per ora non pioveranno bombe, né
un’escalation dell’intervento militare Usa. Per quello si dovrà attendere che Washington
trovi un buon compromesso: sì a raid contro le postazioni Isis ma senza aiutare indirettamente il regime del nemico Assad. Ieri Obama ha ripetuto le minacce all’Isis: «L’America
non dimentica, giustizia sarà fatta anche se richiederà tempo».
Secondo fonti dell’intelligence, gli aerei — alcuni senza pilota, altri jet U2 — sorveglieranno le zone in mano ai jihadisti per raccogliere nformazioni necessarie a un eventuale
intervento, prospettato nei giorni scorsi dal capo di Stato maggiore Dempsey secondo il
quale sarebbe inutile colpire il gruppo di al-Baghdadi in Iraq se non lo si sradica anche
dalla vicina Siria. Quelli partiti ieri non sono i primi voli di ricognizione Usa nel paese: il
mese scorso jet militari avevano volato sul cielo siriano per mettere in piedi la missione —
poi fallita — di salvataggio degli ostaggi statunitensi in mano ai qaedisti. Proprio l’uccisione
di uno dei giornalisti rapiti, James Foley, ha fatto premere l’acceleratore per un potenziale
intervento. Ieri Washington ha fatto sapere che il terzo ostaggio statunitense in mano ai
jihadisti è una cooperante di 26 anni per la quale l’Isis avrebbe chiesto 6,6 milioni di
riscatto. Lunedì ad aprire ai raid Usa era stato lo stesso regime di Assad, che si era detto
pronto a collaborare con i governi occidentali. Ora Obama è chiamato ad orchestrare
un’azione che eviti di regalare un inatteso sostegno a Damasco. Per questo, dicono fonti
del Pentagono, si penserebbe a bombardamenti mirati lungo il poroso confine tra Siria
e Iraq, oggi controllato dall’Isis, e a omicidi di leader islamisti a partire dalla roccaforte di
Raqqa. Nessun intervento in profondità: «Non è il caso del ’nemico del mio nemico è mio
amico’ — ha precisato il vice consigliere alla sicurezza nazionale, Benjamin J. Rhodes —
Collaborare con Assad porterebbe all’alienazione della popolazione sunnita, necessaria
a sradicare l’Isil». Gli fa eco la Casa Bianca che fa sapere di non avere piani di coordinamento dell’intervento anti-Isis con il governo siriano che considera «minaccia terroristica».
Tale possibilità era stata già presa in considerazione dal ministro degli Esteri di Damasco,
Muallem, che lunedì aveva avvertito che raid non coordinati con il regime sarebbero stati
considerati aggressioni esterne. Preoccupati dai raid Usa restano le opposizioni moderate,
che temono di veder evaporare la possibilità di utilizzare il confine nord con la Turchia per
l’ingresso di armamenti e miliziani. La Casa Bianca rassicura: ai bombardamenti contro
l’Isis si potrebbero accompagnare nuovi aiuti ai gruppi moderati di opposizione, «un programma di addestramento e equipaggiamento per l’Esercito Libero Siriano», fa sapere
l’ufficio stampa del Pentagono. Un colpo al cerchio e uno alla botte, che a oggi ha solo
infiammato i settarismi regionali. Ieri, dall’altro lato della frontiera, l’ennesimo attentato terroristico ha bagnato di sangue le strade di Baghdad: un’autobomba è saltata in aria in mattinata in un trafficato incrocio della capitale, a Baghdad Jadida, uccidendo 15 persone
e ferendone almeno 37. Il giorno precedente, nella stessa zona, un attentatore suicida si
era fatto esplodere dentro una moschea sciita, uccidendo 11 civili.
I timori di una spartizione dell’Iraq — di cui avanzata dell’Isis e attacchi giornalieri sono
indice — preoccupa il vicino Iran che, pur continuando a negare di aver inviato uomini
a Baghdad, si muove dietro le quinte. Ieri il presidente kurdo Massud Barzani, in una conferenza stampa con il ministro degli Esteri iraniano Zarif, ha rivelato che Teheran «è stato
il primo paese a sostenere i peshmerga, fornendo loro armi e equipaggiamento». Dagli
Usa, invece, sono arrivati i raid con i droni, partiti — spiega il Washington Post — da tre
basi militari nel Golfo Persico, probabilmente in Qatar, Emirati Arabi e Kuwait. Washington
preferisce nascondere i dettagli sull’esatta posizione delle basi per non imbarazzare gli
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alleati: non è una novità che le petromonarchie ospitino l’esercito Usa, ma oggi appaiono
riluttanti nell’ammettere un ruolo nello sganciamento di bombe sull’Iraq, dopo il sostegno
fornito negli anni passati ai gruppi jihadisti che stanno mettendo a ferro e fuoco il paese.
Del 27/08/2014, pag. 8
Quando tra Assad e l’Isis correva buon
sangue
Siria. Dal maggio 2011 con lo scoppio delle prime rivolte e la liberazione
dei prigionieri
Giuseppe Acconcia
Dopo l’apertura del presidente siriano ai bombardamenti statunitensi, mirati e coordinati
con Damasco, contro i jihadisti dello Stato islamico (Isis) in Siria, il tanto odiato regime di
Assad è tornato a essere centrale per gli interessi Usa in Medio oriente. Non solo Stati
uniti e Siria stanno collaborando per fermare i combattenti radicali dell’Isis, hanno anche
qualcos’altro in comune: entrambi hanno contribuito alla nascita e all’ascesa del temibile
movimento jihadista. La logica di Assad è molto semplice e condivisa dalle élite militari di
altri stati del Medio oriente: in un contesto di rivolte, è sempre utile puntare sulla paura
generalizzata dell’ascesa di estremisti e terroristi. In questo modo gli islamisti moderati (i
Fratelli musulmani siriani per esempio), ma anche l’opposizione secolare, saranno facilmente messi in un angolo. Questo ha fatto l’esercito egiziano, attivando i movimenti salafiti
in occasione delle prime elezioni libere del 2012. Per poi accusare tutti gli islamisti di terrorismo ed avere le mani libere per reprimere i moderati Fratelli musulmani, lasciando fare ai
salafiti, diventati i principali alleati del generale Abdel Fattah al-Sisi.
Alti ufficiali vicini ad Assad hanno confermato questa ricostruzione. In altre parole, i terroristi dello Stato islamico (Isis) hanno decimato l’Esercito libero siriano (Els). «Se questi
gruppi si scontrano tra loro, il primo a beneficiarne è il governo siriano. Quando hai così
tanti nemici che si combattono tra di loro, puoi trarne beneficio», ha aggiunto la fonte.
Ai militari siriani hanno fatto eco gli Stati uniti. «Il regime di Assad ha giocato un ruolo
chiave nell’ascesa dell’Isis», ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Marie Harf.
Assad ha sempre negato di aver dato qualsiasi sostegno all’Isis. Eppure nel maggio del
2011, con lo scoppio delle prime rivolte in Siria, il governo di Damasco ha liberato dalla prigione militare di Sagnaya i principali detenuti accusati di terrorismo nella prima di una
serie di amnistie. Molti dei prigionieri liberati quel giorno sono ora arruolati nelle file
dell’Isis. Qualcosa del genere è avvenuto anche in Egitto il 28 gennaio del 2011, quando
con l’acqua alla gola per scioperi e manifestazioni di piazza, la polizia sparì dalle strade,
mentre decine di islamisti radicali e detenuti comuni lasciarono le carceri.
Il diplomatico siriano Bassam Barabandi ha spiegato in questo modo gli eventi del maggio
2011: «Il timore di una prolungata rivolta permise il rilascio dei prigionieri islamisti: sono
alternativi alla contestazione pacifica». Dal 2012 in poi, i gruppi radicali, con il sostegno
indiretto anche degli aiuti militari sauditi e occidentali, hanno proliferato in Siria: dal fronte
al-Nusra alla costola siriana di al-Qaeda fino allo Stato islamico (Isis). Quest’ultimo è chiaramente sfuggito dal controllo anche di Assad a tal punto che i jihadisti sono stati impegnati non solo in una guerra senza quartiere contro l’Els ma hanno creato quasi uno stato
nello stato. E così l’Isis ha inesorabilmente continuato la sua avanzata, prendendo la città
settentrionale di Raqqa. Il centro, dove molti degli stranieri rapiti negli ultimi mesi sono
scomparsi, è diventato il quartiere generale dei jihadisti. È qui che Abu Bakr al-Baghdadi
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ha dichiarato la fondazione del suo califfato. Qualcosa di simile è accaduto spesso anche
nella storia egiziana con il terrorismo islamista radicale innescato dalla connivenza con
l’intelligence militare (si veda il Sinai). Damasco e Washington da nemici tornano a essere
amici, questa volta contro una creatura «terribile» che hanno entrambi contribuito a far
crescere ma che è poi sfuggita al loro controllo.
Del 27/08/2014, pag. 5
E Hollande svolta più a destra
Francia. Il liberista Macron va all’Economia. Per la fronda socialista è
«una provocazione»
Anna Maria Merlo
La conferma della svolta liberista di Hollande: al posto del contestatore Arnaud Montebourg entra nel governo Valls II come responsabile dell’Economia e dell’Industria il giovane Emmanuel Macron (37 anni), tecnocrate uscito dall’Ena, ex consigliere economico
dell’Eliseo, che ha lavorato nella banca d’affari Rothschild. Una scelta che la «fronda» dei
deputati socialisti interpreta come una «provocazione». Macron affianca a Bercy Michel
Sapin, che viene riconfermato alle Finanze.
Il primo governo Valls è caduto sulla contestazione del rigore e la nuova compagine non
lascia nessun margine di incertezza sulla conferma delle scelte in campo economico.
Macron, che è stato per alcuni anni anche assistente del filosofo Paul Ricoeur, è un chiaro
difensore del «Patto di responsabilità», concluso con le imprese, a cui sono stati promessi
40 miliardi di sgravi fiscali. Macron è un messaggio inviato a Bruxelles e a Angela Merkel,
per confermare l’impegno di Parigi a rispettare il Fiscal Compact. «Un bruttissimo
segnale» per Pierre Laurent del Pcf. È il «dominio della finanza» per il Fronte di Le Pen.
All’Educazione nazionale, al posto di Benoît Hamon, viene promossa la giovane Najat
Vallaud-Belkacem, prima donna ad occupare questo ministero delicato. Ma già la destra
urla e accusa Vallaud-Belkacem di aver difeso, nel precedente governo dove era responsabile dei diritti delle donne, l’insegnamento nelle scuole elementari dell’«Abcd
dell’eguaglianza», accusato di veicolare «la teoria di genere», un’assurda ossessione nata
all’estrema destra ma ormai diffusa nella destra tradizionale. Alla cultura, la contestatrice
Aurélie Filippetti viene sostituita da Fleur Pellerin, che era stata nel governo Ayrault una
buona ministra dell’economia digitale. Dovrà lottare contro l’unica iniziativa di Hollande in
campo culturale: il taglio al bilancio. Valls ha rivendicato ieri sera la «coerenza», l’«atto di
autorità» diventato necessario di fronte alle prese di posizione dei ministri contestatori, in
un momento in cui la Francia è di fronte a varie «sfide del mondo»: jihad, Ucraina, crisi
economica. Hollande ha voluto un governo «di chiarezza, sulla linea e sui comportamenti». Valls si ritrova con una base ristretta, composta principalmente di fedelissimi di
Hollande: l’ala sinistra del Ps è e sclusa, a parte tre personalità vicine a Martine Aubry,
a cui sono stati dati posti di secondo piano, nella speranza di limitare la contestazione.
Europa Ecologia ha rifiutato di entrare al governo, dopo lunghe trattative nella giornata di
ieri, con alcune personalità. I Verdi avevano già messo le mani avanti: chi entra lo farà
a titolo personale. Ma non c’è stato nessun accordo possibile. «Non ci sono le condizioni
per l’entrata degli ecologisti» ha concluso nel pomeriggio il senatore Jean-François Placé,
che chiedeva l’abbandono della costruzione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes.
Robert Hue, ex Pcf, era stato contattato, ma ha rifiutato: «Né la linea politica proposta dal
nuovo governo né la sua composizione erano di natura tale di permettere la nostra partecipazione per agire nel senso di una inflessione sociale necessaria». Restano invece i Radi10
cali di sinistra, con Christiane Taubira confermata alla Giustizia, che resta una delle poche
cauzioni a sinistra. Il governo è paritario tra uomini e donne, e molte ministre – a cominciare da Ségolène Royal confermata all’Ecologia – salgono nell’ordine protocollare. Esteri,
Difesa, Lavoro, Affari sociali, Interni, Agricoltura confermano i ministri già in carica (Fabius,
Le Drian, Rebsamen, Touraine, Cazeneuve, Le Foll).
Da domani Valls avrà difficoltà ad avere una maggioranza, senza Verdi né l’ala sinistra
della sinistra, con la contestazione crescente nelle fila del Ps, con l’Appello dei 100 che
formerà il gruppo «Viva la sinistra» e già minaccia di votare contro la finanziaria in
autunno, primo grande ostacolo del nuovo governo (il Ps ha 290 deputati, i Radicali di sinistra 15, la maggioranza assoluta è di 289 voti, ma con una fronda di un centinaio
all’Assemblea non c’è più maggioranza). In prospettiva, c’è la minaccia di un voto di sfida
che potrebbe far cadere il governo e portare dritto ad elezioni anticipate (premessa di una
molto probabile coabitazione tra Hollande e un primo ministro di destra).
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INTERNI
Del 27/08/2014, pag. 10
LA GIORNATA
Enti locali, bilancio in rosso per una
partecipata su quattro
Niente fondi nello Sblocca-Italia
Lo studio del commissario alla Spending Review, Cottarelli
A costo zero le misure di venerdì. Slitta la Legge di Stabilità
VALENTINA CONTE
ROMA
Un lavoro chiuso. Per il ministero dell’Economia il decreto Sblocca-Italia è cosa fatta. E
soprattutto è a costo zero. Nessuna corsa alle coperture, perché risorse extra non ce ne
saranno. Il dossier è ora sul tavolo del premier Renzi che farà le sue scelte politiche su
norme e misure - quali includere e quali no - in vista del Consiglio dei ministri di venerdì.
Padoan e Lupi si vedranno domani, alla vigilia del Cdm, per sistemare gli ultimi dettagli e,
con ogni probabilità, far slittare ad ottobre il pacchetto casa, il più oneroso del decreto, con
il rinnovo dei bonus edilizi. «Tra Sblocca-Italia e legge di Stabilità - confermava ieri il
ministro delle Infrastrutture - saranno trovate le coperture. Ma non c’è divergenza di
opinioni tra me, Padoan e Renzi». Il ministro dell’Economia ha ieri riunito il suo staff per
impostare il lavoro d’autunno. Al centro del primo giro di tavolo c’è stata soprattutto la
legge di Stabilità. Con una novità: il suo possibile slittamento di qualche giorno dalla data
limite del 15 ottobre, a causa della nuova contabilità nazionale che l’Istat sta
predisponendo e che ha già fatto scalare la nota di aggiornamento del Def al primo
ottobre. In attesa del nuovo Pil e del possibile tesoretto su deficit e debito - non
trascurabile, a quanto trapela - si punta all’Ecofin di metà settembre, come primo banco di
prova dello scambio riformeflessibilità. E si ragiona sulla possibilità di usare il tesoretto
spread ( 2-2,5 miliardi di minore spesa per interessi) a riduzione del deficit anziché del
debito. Ieri il commissario Cottarelli ha reso pubblico lo studio sulle partecipate: 1.424
società pubbliche su 5.264 - una su quattro - sono in rosso, 1.075 non hanno ancora
pubblicato i bilanci 2012, 143 hanno zero capitale. Nello Sblocca-Italia potrebbe entrare
l’incentivo per gli enti locali che le privatizzano di trattenerne gli incassi, grazie a una
deroga al patto di stabilità. Norma ancora in bilico, però.
Del 27/08/2014, pag. 10
Dal Casinò di Venezia alla Fiera di Roma la
mappa delle inefficienze brucia-soldi
ROBERTO MANIA
I SOLDI si prendono dove ci sono e soprattutto dove si sprecano. Esclusi (ma bisognerà
aspettare come sempre fino all’ultimo minuto) interventi sui grandi capitoli della spesa
sociale (sanità, pensioni e pubblico impiego), non resta che il grande calderone della
spesa pubblica e in particolare di quella locale, cresciuta a dismisura come effetto
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collaterale di un federalismo mal concepito. Così il “Programma di razionalizzazione delle
partecipare locali” preparato dallo staff del commissario, nominato da Enrico Letta, sarà
sul tavolo del Consiglio dei ministri di venerdì. Una rivincita per l’ex economista del Fondo
monetario internazionale in quel di Washington. Lo stesso che quando all’inizio di questo
mese aveva espresso il suo disappunto, fino a minacciare la sua uscita dalla scena, per il
tentativo (avallato dal governo) di introdurre l’ennesima deroga alla legge Fornero sulle
pensioni per far andare in quiescenza gli insegnati della cosiddetta “quota 96”, si beccò dal
premier Matteo Renzi non proprio parole di cortesia: «Cottarelli faccia come vuole, la
spending review va avanti anche senza di lui». Perché il primato è della politica, non dei
tecnici. E invece — questa volta — la politica seguirà i suggerimenti del tecnico.
E allora il bisturi andrà usato con poche cautele nel corpaccione delle ottomila e passa
(forse diecimila) aziende municipalizzate, possedute, controllate o anche solo appena
partecipate con quote insignificanti dagli enti locali. Un capitalismo barocco nel quale
convivono le logiche del mercato e quelle del consenso bieco, dello scambio di favori,
delle assunzioni facili da parte dei ras locali, delle clientele politico- sindacali. La
quotazione a Piazza Affari, i report delle agenzie di rating, e Parentopoli come racconta la
clamorosa storia dell’Atac di Roma, l’azienda del trasporto che ha cumulato perdite per
oltre 150 milioni. Un mondo a sé. Che fa di tutto: gestisce autostrade, controlla farmacie,
banche di credito cooperativo, aeroporti, casinò, acque termali, fiere, i teatri stabili,
metropolitane, orchestre sinfoniche, prosciuttifici, pubblicità. E poi quello che ti aspetti: il
trasporto locale, i servizi per la fornitura del gas, dell’acqua, dell’energia; la gestione dei
rifiuti. Ma anche quel che non capisci: la promozione del tacchino alla Canzanese.
Perché? Carlo Cottarelli pensa che si possa passare da ottomila aziende a mille nell’arco
di un triennio. Con un risparmio a regime, per gli utenti, di 2-3 miliardi di euro. Molte di
queste società possono essere chiuse, molte possono essere fuse con altre. La Francia è
più grande dell’Italia ma di aziende partecipare ne ha circa un migliaio. Una su quattro tra
le aziende passate al setaccio ha i conti in rosso. Ce ne sono 143 che hanno ormai
bruciato il proprio capitale. Il primato spetta alla “Cmv spa” con sede a Venezia: ha un
buco patrimoniale di 20,3 milioni di euro. Ma cosa fa la “Cmv”? La missione sociale è
spiegata con sfarzo di dettagli nel sito aziendale: «La società ha per oggetto la
promozione e lo sviluppo di attività immobiliari ivi comprese l’edificazione in genere, la
costruzione, la compravendita, la permuta, la lottizzazione, il comodato, l’affitto, la
locazione, anche finanziaria, la conduzione di immobili di proprietà della società o da
queste detenuti a qualunque titolo». Peccato che la nostra “Cmv” (al 100 per cento
controllata dal Comune) gestisca in realtà il Casinò di Venezia. Che, poi, la Grande Crisi, o
una gestione sbagliata, ha trascinato nel baratro finanziario. Il Comune ha cercato di
venderlo ai russi e agli americani ma la relativa gara è andata deserta. Ora si sta tentando,
con qualche dubbio, la strada della privatizzazione per quanto il commissario cittadino
Vittorio Zappalorto, appunto, non escluda un tentativo di rilancio. Mentre si tagliano i posti
di lavoro e le retribuzioni. Si taglia anche alla Fiera di Roma. Adesso. Dopo che è stata
costruita (l’affare fu chiuso ai tempi della giunta Veltroni con il Gruppo Lamaro) su un’area
soggetta alla subsidenza. Vuol dire che un po’ alla volta il terreno cede. Ma di tracollo c’è
anche quello finanziario: un buco di 15,7 milioni. Resta un cattedrale nel deserto, senza
una missione, senza identità, senza interesse per potenziali acquirenti che pure sono stati
cercati. Un buco di 3,6 milioni ce l’ha anche il Comitato per le celebrazioni dei 150 anni
dell’Unità d’Italia, ma per fortuna non se ne costituirà un altro a breve. È un mondo a sé
quello delle municipalizzate. Ci sono quelle (circa metà delle partecipate comunali) che
hanno più membri seduti nei consigli di amministrazione che dipendenti. Altre che non
hanno affatto dipendenti, i due terzi delle quali presentano un fatturato inferiore a 100 mila
euro. Niente. Scatole vuote: ben tremila hanno meno di sei dipendenti. Un poltronificio: 37
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mila seggiole che muovono gli appetiti dei potentati locali, partiti, lobby, sindacati. Il costo
pro quota per il settore pubblico — scrive il commissario Cottarelli — è stimabile in circa
450 milioni. Ma c’è anche un risvolto sociale nell’operazione di ristrutturazione del
“capitalismo municipale” che propone Mr. Spending Review: molti degli attuali 500 mila
lavoratori diventeranno esuberi. E allora serviranno gli ammortizzatori: cassa integrazione
in deroga, propone Cottarelli, per quanto l’intenzione del governo con il Jobs Act sia quella
di superarla definitivamente. E poi la costituzione di fondi di solidarietà bilaterali, oppure il
contratto di ricollocazione già applicato per gli ultimi esuberi dell’Alitalia-Cai. Sigla, questa,
che appare nelle tabelle excel uscite dall’ufficio di Via XX settembre, con perdite che
superano il patrimonio. È proprio il settore aereo che non s’addice ai sindaci & company:
tutte le società che gestiscono gli aeroporti hanno i conti a terra: peggio di tutti si piazza
l’Aeroporto lombardo Gabriele D’Annunzio di Montichiari che conquista il Roe (return on
equity, l’indicatore di redditività di un’azienda) stellare di ben - 217,65 per cento. A
ciascuno — viene davvero da ricordare — il proprio mestiere.
Del 27/08/2014, pag. 17
Nel pacchetto del ministro Orlando anche il patteggiamento allargato ai
reati fino a 8 anni. E resta la legge Cirielli
Prescrizione congelata e meno ricorsi in
appello ecco la riforma della giustizia
LIANA MILELLA
ROMA .L’iceberg della riforma Orlando, quello che rischia di creare tensioni tra Pd e Ncd,
e di bruciare la luna di miele con Forza Italia, è pronto. Nuova prescrizione, processo
breve, stop alla possibilità di ricorrere, sempre e comunque com’è adesso, in Appello e in
Cassazione, patteggiamento allargato per reati fino a 8 anni ma solo se c’è la piena
confessione. La tanto deprecata legge ex Cirielli, che tagliò di un terzo i tempi della
prescrizione e favorì Berlusconi, resta al suo posto, e questo sicuramente lascia l’amaro in
bocca ai magistrati. Per giunta rientra in scena una fotocopia del processo breve, per non
scontentare gli alfaniani. Ma proprio Berlusconi, se dovesse entrare in vigore la riforma
Orlando, si vedrebbe preclusa la possibilità di ricorrere alla Suprema corte qualora
dovesse incassare una condanna identica sia in primo che in secondo grado. Un
esempio? Nel caso del processo Mediaset, dove Berlusconi è stato condannato nei primi
due gradi di giudizio, non avrebbe avuto la possibilità del ricorso in Cassazione, proprio
per via della famosa “doppia sentenza conforme”, in questo caso di condanna. In forza di
una legge come questa, molti imputati vedrebbero avvicinarsi la sentenza definitiva in
tempi molto più rapidi, con tutte le conseguenze che questo comporta.
Siamo dunque al più importante giro di boa della riforma della giustizia Renzi-Orlando che
approderà a palazzo Chigi tra due giorni. La parte penale. E come sempre, quando si
mette mano a questo capitolo, scattano i campanelli d’allarme. Una prima avvisaglia s’è
avuta ieri quando, da via Arenula, sono usciti con le facce scure sia l’Anm che le Camere
penali. Incontri che avrebbero dovuto essere “segreti”, ma soprattutto gli avvocati non si
sono tenuti niente perché di questa riforma a loro non piace nulla. A cominciare dalle
intercettazioni, dove la stretta, seppur rinviata nel tempo, prevede che i testi siano dati solo
per riassunto, soprattutto nel caso dei terzi coinvolti ma non indagati.
Ma è su prescrizione e processo breve che oggi il Guardasigilli Andrea Orlando dovrà
convincere prima la maggioranza e poi l’opposizione. Anticipiamo che cosa racconterà. A
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partire dalla prescrizione, l’osso duro con cui non è riuscita a misurarsi neppure l’ex
ministro Paola Severino, una “prof” di diritto penale. Il meccanismo ideato è il seguente:
non si cambia la legge ex Cirielli, e questo già scontenta l’Anm, perché continueranno a
esserci reati gravi come la corruzione che hanno una prescrizione corta. In compenso, le
lancette dei tempi consentiti per esercitare l’azione penale si fermano con il primo grado,
se l’imputato viene condannato. Ma per evitare che il dibattimento duri all’infinito, ecco
riapparire il famoso processo breve di berlusconiana memoria. Lui l’avrebbe voluto per far
scadere i suoi processi che erano durati molto a lungo, Orlando lo propone come
contraltare a una prescrizione che si ferma. Ci saranno due anni di tempo per fare
l’appello, dopo ripartirà la prescrizione. In pratica, spiegano i tecnici, è come se i tempi
attuali si allungassero di due anni. Un intervento che Orlando considera importante
comporta una rivoluzione del processo. Entrano in scena i filtri sia per l’Appello che per la
Cassazione. Non saranno più liberi, come prevede attualmente il codice: sia il condannato
che il pm non potranno appellarsi sempre e comunque. Questo ovviamente farà diminuire
il numero dei processi e il loro tempo. A Ncd l’ipotesi non piace, perché, come dice il vice
ministro della Giustizia Enrico Costa, «il 36-37% delle sentenze viene riformato proprio in
appello. Siamo scettici, ma c’è tempo per raggiungere un equilibrio». La richiesta, visto
che le intercettazioni sono ferme, è di rinviare anche la parte penale. Una sezione dei
famosi 12 punti decisamente ricca di sorprese. Basti pensare al filtro anche in Cassazione,
con il blocco in caso di “doppia conforme”, una modifica radicale di cui si parla da anni, ma
che non si è mai riusciti a realizzare nonostante la Suprema corte scoppi. Faranno
discutere anche le novità sul patteggiamento, che diventerà possibile per i reati fino a 3
anni, dai 2 attuali. Ritorna la possibilità di patteggiare in appello, ma soprattutto il
cosiddetto “patteggiamento allargato” diventa possibile per reati puniti fino a 8 anni, ma
soltanto se l’imputato accede a una confessione piena. Considerando che lo sconto è di
un terzo della pena, è evidente che il vantaggio per l’imputato è notevole.
Del 27/08/2014, pag. 3
Jobs Act, il parlamento fuori gioco
di Piergiovanni Alleva
Le uscite estive dell’onorevole Alfano e del Presidente della Bce, Mario Draghi, hanno
comportato una accelerazione improvvisa del procedimento di approvazione del Jobs Act,
che si traduce in un attacco di gravità senza precedenti contro i residui diritti dei lavoratori,
non solo per i contenuti, ma anche per il metodo che rappresenta una vera e propria negazione della democrazia parlamentare. E’ facile spiegare le ragioni di questo drastico giudizio: ciò che i media chiamano seconda parte del Jobs Act è, tecnicamente, un progetto di
legge-delega (il n. 1428 del 14/04/2014 ) composto in tutto di sei articoli. Il più importante è
l’art. 4 il quale affida al Governo una “delega in bianco” per riscrivere, in sostanza, l’intero
diritto del lavoro, senza che i parlamentari, una volta approvata la delega sotto il solito
ricatto del voto di fiducia, possano più dire una parola o esprimere un voto sul merito della
nuova regolamentazione. L’esautorazione del Parlamento sta diventando un vero costume
autocratico dell’era Renzi. Sarà infatti solo il Governo, con i suoi “esperti” (tutti notoriamente di parte data datoriale) a scrivere i conseguenti decreti delegati che i parlamentari
conosceranno solo a cose fatte. E’ un programma quanto mai preoccupante per la nostra
democrazia, ma riteniamo anche incostituzionale e proprio sulla incostituzionalità di siffatti
decreti, derivanti da una delega in bianco, ci si deve soffermare prima ancora di qualche
considerazione sui loro probabili contenuti. Ricordiamo che l’art.76 della Costituzione pre15
vede che il Parlamento possa delegare il Governo ad emanare atti aventi forza di legge
ordinaria (decreti legislativi), ma sulla base e con l’osservanza di “principi e criteri direttivi”
fissati nella stessa legge-delega.
Normalmente si tratta di criteri piuttosto stringenti, proprio perché poi il Parlamento perde il
controllo del processo legislativo, non per nulla anche la legge-delega n. 30/2001– meglio
nota come legge Biagi– conteneva criteri direttivi molto dettagliati. Il progetto di leggedelega n.1428, invece, nel suo vero cuore, mirante al completo rifacimento del diritto del
lavoro, che è l’art 4 lett. b, così configura la delega al Governo: «Redazione di un testo
organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro semplificato, secondo
quanto indicato nella lett.a», (ossia previa ricognizione e valutazione delle tipologie esistente). Si vede bene che l’espressione «testo organico di disciplina dei rapporti» comprende tutto il diritto del lavoro dalla A alla Z, ovvero dalle assunzioni al licenziamento.
Si vede, altrettanto bene, che quella espressione designa, in termini quanto mai generali,
l’oggetto della delega, ma non costituisce un insieme di criteri direttivi che, appunto, indichino in quale direzione le nuove regole si debbano sviluppare. Se ad es. in quella della
conservazione della reintegra nel posto di lavoro, in caso di licenziamenti ingiustificati, o,
invece, in quella di eliminarla o modificarla e lo stesso dicasi per il divieto di demansionamento e così per tanti altri istituti che compongono il diritto del lavoro. Sarebbe come se il
Parlamento delegasse il Governo a regolare nuovamente le imposte dirette senza specificare ad es. se l’Iva vada mantenuta, diminuita o aumentata e su quali generi e similmente
per le imposte di registro e di fabbricazione. In verità in una legge-delega l’indicazione
dell’oggetto non può mai mancare, ma se sta da sola come unica espressione di volontà
del legislatore delegante, comporta che l ‘unico criterio direttivo per la normazione su
quell’oggetto sarebbe il libero apprezzamento del Governo. Proprio un simile assetto è
stato però dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale 8/10/2007
n.340 secondo cui «il libero apprezzamento del legislatore delegato non può mai assurgere a principio o criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata,
quale è, per definizione, la legislazione su delega».
Per conseguenza l’incostituzionalità, per contrarietà all’art. 76 Cost., della legge-delega
prevista dal Jobs Act si estenderebbe anche ai successivi decreti attuativi che potrebbero
sistematicamente essere contestati e annullati.
Quanto infine ai possibili contenuti di quei decreti è difficile fare previsioni proprio perché è
il progetto di legge-delega è in bianco, ma per chi è “del mestiere”, il riferimento contenuto
nell’art. 4 lett b ad un testo unico “semplificato” costituisce un segnale inequivocabile.
I decreti legislativi dovrebbero recepire, più o meno, la proposta di un codice del lavoro
notoriamente etichettato come “semplificato”, che è stato redatto in varie versioni da un
noto giuslavorista e avvocato datoriale, al momento parlamentare di Scelta Civica, dopo
esserlo stato del Pd. Si tratta di un testo, che, a nostro giudizio, al di là di molte belle e
vane parole contiene il peggio del peggio quanto a distruzione dei capisaldi di tutela dei
lavoratori. Solo per fare alcuni es. l’abolizione, in primo luogo dell’art.18 dello Statuto, ma
anche dell’art.13 con l’ammissione di patti di demansionamento e di trasferimenti di sede
sotto minaccia di licenziamento; previsione di appalti di mera mano d’opera, ulteriore allargamento della precarietà e così via. La domanda angosciosa è allora cosa stiano facendo,
alla vigilia, di un simile disastro, le organizzazioni sindacali, il movimento 5 Stelle, la sinistra politica, compresa quella, se ancora esiste, del Partito democratico. Basterebbe poco,
a nostro avviso, per fermare sul nascere la frana, basterebbe dire di no, ma in modo fermo
e a voce ben alta, alla legge delega in bianco e rivendicare l’effettiva centralità del Parlamento e una discussione parlamentare di assoluta trasparenza su tematiche tanto vitali.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 27/08/2014, pag. 5
1900 morti dall’inizio dell’anno
Immigrati. L’Onu: «Serve un intervento internazionale». Oggi il vertice
Alfano-Malmstrom
Carlo Lania
Diciotto morti al giorno negli ultimi tre mesi scarsi, per un totale 1.600 morti. Che diventano
1.889 se si comincia a contare dall’inizio dell’anno. Sono i migranti che hanno perso la vita
nel Mediterraneo nel tentativo disperato di arrivare in Europa. Vittime della violenza degli
scafisti, ma anche del maltempo o semplicemente della poca affidabilità dei rottami sui
quali sono costretti a viaggiare ammassati all’inverosimile. A fronte di questa strage silenziosa, ci sono i 113mila disperati che nelle stesse acque e nello stesso periodo di tempo
l’operazione Mare nostrum ha tratto in salvo, arrivando a prenderli quasi ai confini con le
acque territoriali libiche. A ricordare i dati è stata ieri da Ginevra Melissa Fleming, portavoce dell’Unhcr, l’alto commissariato della Nazioni unite per i rifugiati, per la quale un intervento comune dei Paesi dell’Unione europea per far fonte alla crisi dettata
dall’immigrazione dal nord Africa ormai non è più rinviabile. E a sottolineare l’urgenza del
momento, da New York le ha fatto eco un portavoce dell’Onu invocando anche lui «un
intervento internazionale». Cifre e sollecitazioni che arrivano praticamente nelle stesse ore
in cui a Roma, nella sede della direzione centrale dell’immigrazione e delle polizia di frontiera, tecnici del governo italiano si confrontano con rappresentanti della commissione
europea e di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, alla ricerca di una
soluzione che consenta all’Italia di non ritrovarsi più da sola nel soccorrere ogni giorno
migliaia di uomini, donne e bambini in fuga da fame, violenze e guerre. Un vertice tecnico
pensato per mettere a punto una serie di possibili soluzioni che oggi il ministro Alfano
discuterà a Bruxelles con il commissario agli affari interni dell’Ue Cecilia Malmstrom. Sempre che si sia riusciti davvero a colmare le distanze esistite finora tra i desiderata del
governo italiano e la volontà (poca) dimostrata dall’Ue di non lasciare sola la nostra marina
militare nelle operazioni di soccorso nel canale di Sicilia.
Che l’Europa debba fare di più non ci sono dubbi. Lo sa anche Cecilia Malmstrom che
all’indomani di ogni tragedia del mare promette interventi che finora però non si sono visti.
Il problema vero è che quando nel 2004 venne fondata Frontex — che oggi Alfano vorrebbe sostituire a Mare nostrum — l’agenzia fu pensata solo per operazioni di controllo
delle frontiere e oggi è del tutto inadatta per interventi come quelli che da undici mesi conduce la nostra marina. Quindi andrebbe ripensata completamente, rafforzandola con maggiori mezzi e finanziamenti. Basti pensare che il budget per il 2014 di Frontex ammonta
a poco più di 89 milioni di euro, dei quali solo 21 destinati alle operazioni in mare, contro
i 9 milioni e mezzo di euro al mese di Mare nostrum (soldi totalmente presi dal bilancio
della Marina militare). E’ chiaro che stando così le cose, il desiderio di Alfano di vedere le
navi dell’agenzia europea sostituire quelle italiane, è destinato a rimanere per l’appunto
solo un desiderio. Al ministro i tecnici della commissione europea hanno spiegato che
un’ipotesi sulla quale lavorare più concretamente riguarda invece la possibilità di affiancare alle navi della nostra marina quelle di Frontex, rafforzata con mezzi aerei e navali in
più messi a disposizione da altri Paesi europei e magari dividendo le aree di intervento in
modo da non lasciare più tutto il carico di lavoro solo all’Italia. Resta però ancora da trovare risposta a un’incognita non da poco. Le navi non italiane che interverranno in futuro in
operazioni di salvataggio, dove porteranno i profughi raccolti in mare? Finora nessun
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Paese si è detto disponibile ad accogliere nuovi migranti, che quindi continuerebbero
a sbarcare nei nostri porti, obbligati poi dai regolamenti europei a restare in Italia nonostante Alfano abbia chiesto più volte la possibilità per i profughi di potersi trasferire in Nord
Europa, vera destinazione per la stragrande maggioranza di loro. La parola passa adesso
alla politica, quando alle quattro di oggi pomeriggio Alfano incontrerà la commissaria
Malmstrom. Di sicuro un’eventuale soluzione al problema non sarà di immediata attuazione. Intanto perché Mare nostrum non si può interrompere senza rendersi complici di
nuovi e più pesanti stragi nel Mediterraneo.E poi perché un eventuale accordo tra Alfano
e Malmstrom richiede comunque tempi tecnici di attuazione lunghi, al punto che il parziale
disimpegno italiano non potrebbe cominciare prima di quattro mesi. Prima tappa il prossimo consiglio dei ministri degli Interni Ue in programma per il 9 e 10 ottobre prossimi,
dove Alfano porterebbe il pacchetto di proposte messe a punto in questi giorni e che
devono essere approvate. Dopo di che ci vorrebbero ancora almeno altri tre mesi per dare
avvio alle operazioni.
Del 27/08/2014, pag. 8
L’Onu: strage di migranti, aiutate Roma
Oggi il vertice Ue, ma Berlino frena In soli tre mesi 1.600 vittime. Il
Quirinale sostiene le proposte di Alfano
ROMA — Poco meno di 1.900 morti dall’inizio dell’anno, 1.600 negli ultimi 3 mesi. Cresce
il macabro ritmo delle stragi del mare: da inizio anno 8 al giorno, da fine maggio più di 17.
Lo ha reso noto ieri l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), mentre
a Roma si discuteva di chi debba farsi carico dei sopravvissuti recuperati in mare. Una
riunione tecnica di preparazione della resa dei conti che si terrà oggi a Bruxelles tra l’Italia
e il resto d’Europa. Alla vigilia del faccia a faccia con il commissario per gli affari interni
dell’Unione Europea, Cecilia Malmström, ieri, il ministro dell’Interno Angelino Alfano è
stato ricevuto al Quirinale per illustrare le «proposte sul crescente flusso migratorio verso
l’Europa». E ne ha ricevuto il «vivo apprezzamento» del capo dello Stato, Giorgio
Napolitano. Sul vertice di oggi peseranno, altri due segnali importanti arrivati ieri.
L’appello dell’Onu a non lasciare sola l’Italia: «Non si può lasciare a un solo Paese il
compito di far fronte al massiccio flusso di migranti» ha detto il portavoce, Stephane
Dujarric. E il «no» del governo tedesco alla richiesta italiana di rendere gli sbarchi una
questione europea e non solo nostra: «In base al Trattato di Dublino su chi deve occuparsi
di chi fa richiesta di asilo politico, la responsabilità è in questo momento e in questo caso
solo dell’Italia in termini di verifica, controllo e protezione dei migranti», ha sottolineato ieri
Harald Neymanns, portavoce del ministero dell’Interno di Berlino.
La giornata più lunga del ministro Alfano si apre così. Dopo l’escalation di proteste e di
richieste vibrate all’Europa, inclusa la minaccia della la sospensione della missione di
soccorso Mare Nostrum, il ministro dell’Ncd, nella trattativa di oggi gioca una partita
delicata con le spalle coperte dal placet del Colle. Per questo nella riunione Frontex, a
porte chiuse, ieri si sono esplorate tutte le vie possibili per un’intesa. Incluso l’arretramento
delle frontiere di intervento e i pattugliamenti misti, da realizzare almeno con i Paesi più
collaborativi, come la Francia. Prove tecniche di un accordo che sarà politico, ma che ora
potrà essere raggiunto alla luce di tutte le «criticità» delle varie soluzioni. Quella politica,
contenuta nell’ipotesi di dare il via a pattugliamenti misti. Invisa non solo alla Germania,
ma anche all’Olanda e ai paesi del Nord Europa, oltre alla Gran Bretagna, giacché la gran
parte dei rifugiati, attratti dal welfare funzionante e dai ricongiungimenti familiari, è diretta
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proprio lì. Ma la task force multinazionale, magari a guida italiana, composta da varie navi
europee, auspicata dal capo di Stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi,
potrebbe esser condivisa con i Paesi europei che sono meno ostili all’idea. Prima fra tutte
la Francia. Non a caso oggi il ministro Alfano incontrerà anche il ministro dell’Interno
francese, strategico per costruire il consenso attorno alle nostre proposte.
L’alternativa sulla quale i Paesi Ue discutono è quella di un arretramento della linea di
intervento, attualmente di fronte alle coste di Tripoli. Troppo vicina, secondo alcuni partner
europei, che ci accusano di aver aumentato, involontariamente, il flusso dei clandestini
convinti di essere subito ripescati dalle nostre navi. Allontanarsi dalle coste sarebbe, a loro
giudizio, dissuasivo. A sconsigliarlo sarebbe però l’aumento delle vittime. Solo da venerdì
a domenica si sono contati tre naufragi. E ieri mentre si discuteva di «Frontex plus» sono
finiti in cella frigorifera le ultime 24 salme. Inclusa quella di un neonato.
Virginia Piccolillo
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INFORMAZIONE
Del 27/08/2014, pag. 1-15
Sotto la cappa del nuovo potere
Informazione. Una concordia asfissiante. Dall’inizio delle larghe intese, la stampa e
la tv italiane hanno cambiato pelle acconciandosi alla funzione assai poco
onorevole del portavoce zelante delle verità del governo
Alberto Burgio
Siamo proprio sicuri che lo stato (desolante) dell’informazione politica in Italia rientri nella
normalità, che assegna alla «struttura materiale dell’ideologia» la funzione di proteggere
e consolidare l’establishment? Fosse così, non ci rassegneremmo, ma nemmeno
avremmo la percezione di una situazione patologica.
In tutti i paesi del mondo, sotto qualsiasi regime, la «grande stampa» aiuta il potere. Riconoscerlo non implica equiparare sistemi totalitari e pluralistici. Né ignorare la rilevanza dei
diritti di libertà e l’importanza della funzione svolta, nei sistemi pluralistici, dalla stampa
indipendente e di opposizione. Resta che ovunque tra stampa e potere intercorrono rapporti di mutuo soccorso. Che il mondo dell’informazione è dappertutto contiguo ai luoghi
del potere economico e politico. Che spesso il confine tra informazione e propaganda
è labile e di difficile demarcazione. Ma c’è un ma.
O un limite, se si preferisce. Di norma la cooperazione tra stampa e potere non impedisce
agli organi di informazione di operare anche come fattori costitutivi dell’opinione pubblica
e suoi portavoce. Né preclude alla grande stampa una funzione di controllo e di stimolo –
talora di denuncia – nei confronti delle altre istanze del potere. Si pensi, per esempio, al
giornalismo d’inchiesta, ancora vivo in Germania e nel mondo anglosassone, e non
appannaggio delle testate di opposizione.
Cooperazione e critica: in questo binomio contraddittorio si condensa la relazione tradizionale tra stampa e potere in democrazia. Il che vale a preservare una qualche funzione
terza dell’informazione anche in tempi di pensiero unico imperante. Accade lo stesso oggi
in Italia? Si può dire che anche nel nostro paese le maggiori testate della carta stampata
e del giornalismo televisivo pubblico e privato mantengono un equilibrio tra prossimità
e alterità al potere che permetta loro di assolvere almeno in parte il compito di informare
senza troppo deformare? Decisamente no. Da tempo – almeno dall’inizio dell’infausta stagione delle larghe intese, più probabilmente da quando la crisi economica imperversa – la
stampa italiana (fatte le debite eccezioni) ha cambiato registro. Se ancora all’epoca della
rissa bipolare tra centrosinistra e destra era possibile imbattersi in qualche analisi spregiudicata e cogliere frammenti di verità tra le righe di commenti o resoconti (purché, beninteso, non si trattasse della santa alleanza con gli Stati uniti e delle guerre scatenate nel
nome della democrazia e dei diritti umani), oggi regna invece un’asfissiante concordia.
Intorno ai feticci della governance neoliberale – le “riforme” in primis, evocate ossessivamente come una panacea per tutti i mali. Intorno alle figure che la incarnano – dal capo
dello Stato al presidente del Consiglio in carica, passando per il presidente della Bce.
Intorno alle politiche per mezzo delle quali viene compiendosi la metamorfosi americanista
della società, il suo rapido regredire verso assetti postdemocratici, autoritari e oligarchici.
Documentarlo sarebbe sin troppo agevole. Basti un banale esperimento. L’attuale premier
si è accreditato come l’uomo del cambiamento e, appunto, delle riforme. È un ruolo che
sta a pennello a un yuppie della politica, venuto su col logo del rottamatore. Ma questa
è una scelta d’immagine, è la sua autorappresentazione. Non dovrebbe costituire il contenuto dell’informazione, la quale avrebbe invece il dovere di entrare nel merito delle sedi20
centi riforme, parola magica che da vent’anni designa i misfatti dei governi nel nome del
risanamento. Bene, provate a vedere che succede in proposito, se mai un giornalista,
intervistando Renzi o commentandone le debordanti dichiarazioni in schietto stile nientalista, si prende la briga di discutere il criterio in base al quale un provvedimento può definirsi
“riforma” e si distingue da un altro che non ne è degno. Riforme erano dette anche quelle
del fascismo, che di cose ne cambiò effettivamente molte e in profondità. Non sarebbe
allora il caso di costringere chi governa a uscire dalla propaganda e a dichiarare i propri
reali intendimenti? Non sarebbe un gesto di rispetto verso lettori e telespettatori incalzarlo,
fargli presenti i costi sociali delle sue decisioni oltre che i loro vantati benefici? Non
sarebbe questa un’elementare clausola di dignità per chi, facendo il giornalista, non
dovrebbe accettare di degradarsi a velinaro, a supino amplificatore della voce del padrone
di turno? Ma, parole magiche a parte, il discorso ha una portata ben più vasta. E i possibili
esempi si sprecano. È mai possibile che nessuno trovi da ridire quando un membro del
governo o del Pd recita la giaculatoria del «40 per cento degli italiani che ci chiedono le
riforme»? È decente fingere di non ricordare che in maggio si votò per le europee con la
fondata paura della marea fascista, e che a nessun elettore italiano venne in mente allora
di concedere al governo cambiali in bianco per sfasciare la Costituzione, fare nuovamente
cassa con le pensioni o stravolgere lo stato giuridico del pubblico impiego?
Un caso paradigmatico è l’evasione fiscale. Giornali e telegiornali ne parlano, inevitabilmente, quando la Corte dei conti o l’Agenzia delle entrate dirama le solite scandalose cifre
che non hanno eguali al mondo. Per la cronaca siamo poco sotto i 190 miliardi di euro sottratti ogni anno alle finanze pubbliche. Visto che i numeri hanno una loro oggettività, il dato
dovrebbe dominare la pagina economica. All’opinione pubblica – ammesso che in Italia ne
esista ancora una – sarebbe doveroso spiegare quali nessi sussistono tra questo gigantesco ammanco e la drammatica fame di risorse nei bilanci delle pubbliche amministrazioni
e delle famiglie dei lavoratori dipendenti. Si dovrebbe chiarire come non sia casuale che,
vantando questo record, l’Italia sia anche in cima alle classifiche del debito pubblico, della
disoccupazione e della pressione fiscale sul lavoro. Niente di niente, invece. Il tema
è tabù. I cittadini debbono restare inerti sotto il bombardamento della narrazione ufficiale
della crisi. E così via esemplificando. Nel Mediterraneo si consuma ogni giorno la strage
dei migranti. C’è mai qualcuno che, commentando gli spropositi di un ministro o del leghista di turno, rammenti che i migranti non chiedono benevolenza: esercitano un diritto inviolabile? Che a quanti di loro fuggono da guerre e persecuzioni nessuno può legittimamente
rifiutare asilo? E che gli Stati che non li accolgono violano norme fondamentali del diritto
internazionale? Quanto al terrorismo, largo alle strumentalizzazioni di chi blocca sul
nascere ogni discussione al riguardo. Non sia mai che ci si interroghi sulle responsabilità
occidentali nella catastrofe mediorientale. E che, di terrorista in terrorista, a qualcuno
venga in mente di chiedere conto anche a Netanyahu. Francamente dispiace che la
recente polemica tra Grillo e il Tg1 sia stata liquidata anche a sinistra come l’ennesima
aggressione di un energumeno. I modi offendono, ma la sostanza resta e meriterebbe ben
altra considerazione. Sotto la cappa del potere finanziario transnazionale, amministrato
dalla tecno-burocrazia europea e dai suoi proconsoli nostrani, il giornalismo italiano ha
perlopiù mutato pelle, acconciandosi alla funzione assai poco onorevole del portavoce
zelante. Che divulga e accredita le verità dispensate dall’alto, e con ciò impedisce la formazione di un’opinione pubblica documentata e critica. E non si creda che il riferimento al
quadro dei poteri dominanti attesti un nesso cogente. Non vi è alcuna necessità in tale
connessione, né vi opera una forza incoercibile. Sono in gioco, al contrario, la libera scelta
di ciascuno e la sua responsabilità intellettuale e morale. La patologia di un giornalismo
asservito è parte integrante della più grave questione all’ordine del giorno, quella del proliferare delle caste e della corruzione in esse dilagante.
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CULTURA E SCUOLA
Del 27/08/2014, pag. 2
Che impresa, la scuola di Renzi-Giannini!
Riforme strutturali. Venerdì scatta l’ora X. Il governo presenterà 29 «linee guida»
sull'istruzione. Il Pd: «Non sarà un provvedimento dall’alto». Allarme rosso tra
sindacati e studenti. Nella valanga di annunci spuntano i capitoli sulla meritocrazia,
stage in azienda e privati tra i banchi, abolizione del precariato dal 2017. La
«visione» del governo non produrrà provvedimenti legislativi subito e verrà
sottoposta a una consultazione fino a novembre
Roberto Ciccarelli
La olla mediatica prodotta dagli annunci è riesplosa lunedì al meeting di Cl a Rimini
quando il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha ripetuto, senza confermare nulla,
che il governo presenterà venerdì prossimo «29 linee guida», una «visione» sulla scuola
da oggi fino al «2038». L’autostima dell’esecutivo rischia tuttavia di deludere più di qualcuno. Venerdì non verranno presentati provvedimenti legislativi, ma proposte per una consultazione pubblica e online da svolgere entro novembre. Giusto in tempo per ingrossare
la contestazione di piazza da parte di studenti e sindacati. L’Unicobas ha preannunciato
uno sciopero il 17 settembre, gli studenti manifesteranno il 10 ottobre e il 14 novembre. La
Flc-Cgil convocherà assemblee in tutti gli istituti, com’è avvenuto contro la riforma Gelmini
nel 2008, poi nel 2010, infine contro la legge Aprea nel 2012. Lo spartito diventa ogni
giorno più chiaro: Renzi liquiderà le mobilitazioni con una battuta sprezzante e tirerà la
corda di una riforma dal sapore gelminiano a cui ha aggiunto il vezzo di un cancelletto su
twitter.
IL RUOLO DEL PD
I due mesi previsti per la consultazione finiranno per acuire le tensioni. Ad oggi è prevedibile anche la strategia che seguirà il Pd, il partito che coprirà politicamente l’operazione
gestita da Giannini che, dopo le europee, si è dimessa da Scelta Civica, un partito che non
esiste più. «Non sarà una riforma calata dall’alto – ha detto ieri la vice presidente della
Camera Marina Sereni – coinvolgerà i soggetti che operano nella scuola. Il governo riparte
dalla necessità di un nuovo rapporto tra scuola e lavoro, tra scuola e cultura». L’appello
all’unanimismo del Pd dovrà affrontare un imprevisto: Flc-Cgil ha rifiutato di partecipare
alla consultazione. Segno che gli eventi potrebbero seguire un altro corso.
«ABOLIRE IL PRECARIATO»
[L’esigenza del governo è trovare una soluzione prima dell’annunciata sentenza della
Corte di Strasburgo che comminerà al nostro paese una multa colossale contro lo sfruttamento dei 160 mila docenti precari. Per questo vuole «abolire il precariato», cioè le supplenze brevi dalle graduatorie di istituto, «senza eliminare fisicamente i precari». Una battuta infelice, quella del ministro Giannini, ma che si ridurrà ad un annuncio. L’esaurimento
delle graduatorie dovrebbe avvenire attraverso un piano di immissioni in ruolo straordinario e pluriennale per 100 mila persone a partire dal 2017 fino al 2022, cioè dopo
l’esaurimento del piano di immissione in ruolo vigente.
L’«estinzione» delle graduatorie d’istituto inizierà tra tre anni e avrà tempi a dir poco incerti
considerati i numeri e le risorse. Partirà anche una riforma del reclutamento sin
dall’università. Per il 2015 si parla di un nuovo «concorsone» che sarà ripetuto ogni due
anni, come voleva l’ex ministro Profumo. Sarà una nuova occasione per creare disparità
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e ingiustizie tra i precari nelle graduatorie e i vincitori del concorso. Sempre che poi si trovino i soldi per assumerli, spalmandoli su più anni com’è accaduto per quello precedente.
Tra i progetti dell’esecutivo rientra la creazione di un «organico funzionale» e una «banca
del tempo» gestiti da reti di scuole. L’esempio è quello realizzato nella provincia di Bolzano. Ai neo-immessi in ruolo non dovrebbe essere assegnata una cattedra fissa. Per un
anno risponderanno «just-in-time» alle chiamate dei dirigenti scolastici per riempire i
«buchi» delle supplenze nelle scuole del territorio. Anche per loro lo stipendio potrebbe
restare bloccato per i primi 9 anni di carriera.
VALUTARE E PUNIRE
Si moltiplicano le voci sulla creazione di un sistema di valutazione nazionale delle scuole
per settembre 2015 e sull’estensione delle prove Invalsi fino alla maturità. Un progetto perseguito da Francesco Profumo e da Maria Chiara Carrozza e contenuto in uno dei 37 punti
della lettera della Commissione Ue al governo Berlusconi nel 2011. Si vuole così chiudere
il cerchio con la riforma dell’università. Agli istituti scolastici «eccellenti» andranno più
soldi, a quelli che non lo sono verranno tagliati. C’è tuttavia un’incognita: l’Invalsi potrà
sostenere questa impresa colossale o il Miur potrà assumere un esercito di ispettori?
Improbabile, in tempi di tagli e blocco del turn-over.
Un’altra partita riguarda il «modello tedesco», l’alternanza scuola-lavoro, da introdurre dal
quarto anno dei tecnici e dei professionali con stage o apprendistato. Un’idea già presente
nel «decreto del fare» del governo Letta sottoforma di «sperimentazione» e non lontana
dal decreto Poletti che precarizza contratti a termine e apprendistato (sottopagato fino al
60% rispetto ai lavoratori pari grado). Si parla anche di «bonus» per le aziende e finanziamenti privati per i laboratori.
C’è poi l’idea di legare gli stipendi dei docenti di ruolo alla loro «produttività». Chi compete
guadagnerà di più secondo una tripartizione stipendiale tra docenti ordinari, esperti
e senior che dovrebbe sostituire il meccanismo degli scatti stipendiali e del contratto nazionale non rinnovato dal 2009. I «meno bravi», cioè coloro che non avranno accumulato
punteggi e «meriti» verranno «puniti». Un’idea che per i sindacati della scuola è come
il nefas della tragedia greca.
«IL MERCATO GLOBALE»
Chiara è un’altra aspirazione ideologica: riformare la legge sulla parità scolastica approvata nel 2000 dal centro-sinistra con Luigi Berlinguer, non in direzione di un rafforzamento
della scuola pubblica, ma verso quella opposta: la detassazione per istituti privati e confessionali. «La legge del 2001 non è stata applicata e va ripensata per rispondere a un
sistema educativo globale – ha detto Giannini — Il rapporto con le paritarie si risolve
insieme senza pregiudizi ideologici». In questa visione, pubblico e privato competono
«senza ideologie» come le imprese e il loro rendimento sul mercato «globale» verrà misurato dalle classifiche internazionali.
Del 27/08/2014, pag. 7
Chi lavora di più prenderà più soldi
rivoluzione del merito ecco come funzionerà
SALVO INTRAVAIA
ROMA «Chi fa di più prende più soldi». Ecco in estrema sintesi il progetto che sta
elaborando la coppia Renzi-Giannini per premiare gli insegnanti che si dedicano di più alla
scuola. Il nuovo corso annunciato ieri al meeting di Rimini dal ministro dell’Istruzione
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Stefania Giannini si basa su un concetto semplice: più soldi alla scuola, ma solo a favore
dei docenti e del personale che lavorerà più ore. La “rivoluzione” di cui ha parlato un paio
di settimane fa il premier Matteo Renzi su Twitter passa quindi anche per una forma
piuttosto blanda di meritocrazia. Meglio che niente, considerato che nella scuola italiana il
merito (fra i docenti) non è stato ancora sdoganato. Il motivo è semplice: la normativa
attuale ingessa l’intero comparto, ma tra gli addetti ai lavori c’è anche la consapevolezza
che ancora nessuno — neppure gli ispettori di fresca nomina — saprebbero dove mettere
le mani per assegnare premi “oggettivi” ai migliori insegnanti della scuola. E nessuno si
sognerebbe neppure di affidare la patata bollente ai dirigenti scolastici, con “note di
qualifica” magari appese a criteri soggettivi. Al momento, il parametro più gettonato per
misurare il merito pare sia soltanto quello quantitativo. Per affiancare alla quantità di
tempo speso a scuola dagli insegnanti anche la qualità occorrerà aspettare. Il documento
di sei pagine che Renzi illustrerà agli italiani venerdì conterrà quindi anche le linee-guida
per premiare i docenti. Ma quale potrebbe essere la rivoluzione copernicana che attende i
docenti italiani? Non si parte da zero perché qualcosa di scritto c’è già. Il decreto sulle
Semplificazioni varato dal governo Monti due anni fa, a partire dall’anno scolastico
2013/2014, si proponeva di potenziare l’autonomia scolastica “anche attraverso
l’eventuale ridefinizione degli aspetti connessi ai trasferimenti delle risorse alle medesime,
previo avvio di apposito progetto sperimentale”. In che modo? «Potenziandone
l’autonomia gestionale secondo criteri di flessibilità e valorizzando la responsabilità e la
professionalità del personale della scuola». Ma poi, l’Economia bloccò tutto per mancanza
di coperture. In altre parole, alle scuole verrebbero assegnate più risorse che le stesse
possono gestire con meno vincoli per migliorare la qualità dell’offerta formativa. I parametri
per assegnare le risorse ai docenti esistono già: 50 euro l’ora per i corsi di recupero; 35
per le ore di insegnamento aggiuntive e 17,5 euro per le ore, non di insegnamento,
dedicate ad attività di organizzazione e gestione della vita scolastica.
Le scuole, nel 2014/2015 riceveranno 689 milioni di euro per le attività destinate al
Miglioramento dell’offerta formativa (il Mof), stipendi degli insegnanti esclusi. Così, se una
parte del miliardo di euro promesso da Renzi a sostegno del Piano-scuola confluirà nel
Mof, un docente che si impegnasse per 100 ore complessive — 3 ore a settimana — tra
corsi di recupero, ore di insegnamento aggiuntive e altre attività, dal 2015/2016, potrebbe
portare a casa a fine anno un bel gruzzolo: oltre 3mila euro lordi che equivalgono a circa
200 euro netti di stipendio in più al mese. E chi più farà più guadagnerà. Ma chi
controllerà? A settembre, per tutte le scuole italiane partirà Vales: il progetto che si
propone di individuare «criteri, strumenti e metodologie per la valutazione esterna delle
scuole e dei dirigenti scolastici». E dal prossimo anno controllare che i fondi vengano
effettivamente spesi per migliorare il servizio scolastico contribuirà proprio Vales, che
sfrutterà anche i risultati dei test Invalsi.
Del 27/08/2014, pag. 2
10 ottobre, studenti in piazza contro una
riforma «gelminiana»
Riforme strutturali. Uds e Rete degli Studenti confermano la
mobilitazione contro il "pacchetto scuola" Renzi-Giannini che verrà
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presentato venerdì in Cmd. Reazione veemente contro l'ingresso dei
privati, il "modello tedesco" e la gestione aziendalistica del pubblico
Roberto Ciccarelli
La sottile linea rossa che collega la legge Aprea e il «piano scuola» del governo Renzi
provoca una reazione veemente tra le organizzazioni studentesche strutturate: l’Unione
degli Studenti (Uds) e la Rete degli Studenti. Loro se lo ricordano bene il Dl Aprea che
vide la luce insieme alla riforma Gelmini dell’università nel 2008 e produsse l’indignazione
del mondo della scuola con milioni di persone in piazza.
Il governo Monti provò a ripescarlo nel 2012, ma fu costretto a ritirarlo grazie ad una nuova
mobilitazione degli studenti medi. Stando agli annunci agostani, venerdì l’esecutivo tornerà
a riproporre alcune linee caratterizzanti del provvedimento che portava il nome di Valentina Aprea, oggi assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro alla regione Lombardia.
Non è passato inosservato l’appoggio di Comunione e Liberazione agli annunci, ancora
senza contenuto, del ministro Giannini.
Privati a scuola, riforma degli organi collegiali, ruolo manageriale per i dirigenti scolastici.
Tanto basta per confermare le manifestazioni in decine di città il 10 ottobre. «Sconcertanti» definisce le dichiarazioni del ministro Danilo Lampis, coordinatore nazionale
dell’Unione degli Studenti: «Sembrano voler portare a termine le idee degli ultimi governi
Berlusconi sulla scuola pubblica».
Per l’Uds è «inaccettabile procedere a nuove agevolazioni sulle scuole private, proprio
mentre la scuola pubblica paga le conseguenze peggiori dopo anni di tagli». Si parla di un
miliardo di euro per l’edilizia scolastica, solo la metà è disponibile, mentre nemmeno un
euro è stato ad oggi speso. «Risorse che non sono nulla rispetto alle reali esigenze –
risponde Lampis — non pensino di abbindolare il mondo della scuola e il Paese con piccole concessioni». Il pensiero va agli 8,4 miliardi di euro tagliati da Tremonti-GelminiBerlusconi, mai più rifinanziati dal 2008. «La scuola non può essere un ambiente competitivo, dove va avanti il più forte, ma cooperativo, dove si va avanti assieme. Giannini si
rileggesse Don Milani, invece di citarlo senza comprenderlo». L’opposizione è la riduzione
della scuola a agenzia di collocamento: «Si attribuisce all’istruzione la responsabilità della
mancanza di occupazione – continua Lampis — svilendo la sua funzione pedagogica in
favore di uno sterile insegnamento di mestieri». Per Alberto Irone, portavoce nazionale
della Rete degli Studenti medi, negli annunci ci sono aspetti «potenzialmente positivi»:
nuove assunzioni di docenti, alcune novità sulla didattica e sugli strumenti digitali, un più
equo rapporto tra studenti disabili e insegnanti di sostegno. Quello che lo lascia «perplesso» è la necessità «di far convivere scuola pubblica e paritarie come due mondi indispensabili l’uno all’altro, quando però la pubblica è stata massacrata negli ultimi anni». Il
rischio è di esasperare «la differenza tra formazione accademica e formazione professionale», assecondando una divisione del lavoro che precarizza sia i saperi professionali che
quelli «cognitivi».Quanto all’arrivo dei privati per finanziare scuole e laboratori Irone
osserva: «Chi ci garantisce che questi finanziamenti non siano poi vincolati in qualche
modo alla volontà esclusiva del finanziatore?».
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