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RASSEGNA STAMPA Mercoledì 27 agosto 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Repubblica Firenze del 23/08/2014, pag. 2 Patrizia Marocchi di Un ponte per è ora a Erbil: Assisto all’avanzata dei miliziani dell’Isis, ma per adesso siamo tranquilli Parlano cooperanti e medici andati in Iraq e Siria dalla nostra regione Mario Messina, chirurgo: Dovevo ripartire a novembre, non andrò I RACCONTI MICHELE BOCCI MASSIMO MUGNAINI DI SOLITO Messina si reca in Iraq con un aiuto e uno specializzando. «Poi, due volte all’anno, ci inviano dei bambini da operare a Siena. Ma quest’anno i viaggi non si faranno» sottolinea mestamente. Chi invece a Erbil si trova da maggio è Patrizia Marocchi, cooperante di «Un ponte per» che partecipa a un progetto di sviluppo finanziato dalla Ue e promosso da Arci Toscana, nel Kurdistan iracheno, che mira ad aprire nel giro di tre anni alcuni centri giovanili per le minoranze religiose Yazidi, Kakay e Shabak nel paese. «Sto assistendo all’avanzata dell’Is - racconta - ma non temo di venire rapita e presa in ostaggio» dice, anche se poi ammette: «certo, il pericolo esiste». E ne spiega il perché: «Dieci giorni fa i miliziani islamici hanno attaccato alcune città cristiane del nord dell’Iraq e adesso ci sono 15 mila profughi che si stanno riversando nel quartiere di Ainkawa a Erbil». Con l’emergenza umanitaria in atto, però, «non c’è molto tempo per pensare alla sicurezza personale». Molto tempo magari no, ma un po’ forse sì: «In effetti gli islamisti si trovano a soli 40 chilometri da qui..» riflette. Poi caccia subito l’istinto con la geopolitica: «Però l’Is vuole creare lo Stato Islamico in Siria e Iraq, non nel Kurdistan..». Conclusione: «sia come sia, resterò in Iraq fino al maggio 2015 come prevede il progetto». Di diverso avviso Fabiola Podda, 48 anni, che tra l’ottobre 2008 e il dicembre 2011 ha partecipato a due programmi di cooperazione promossi da Arci Toscana e ministero degli Esteri in Siria e Libano, presso l’ambasciata italiana a Damasco. «Tra i cooperanti italiani ancora presenti in Siria e Iraq la paura dei rapimenti è concreta, per questo le varie ong consigliano di lasciare il paese: il rischio è troppo alto» esordisce. «Ho assistito alle prime manifestazioni di piazza, c’era la classe media laica a protestare contro il regime di Assad» racconta. «Poi però si è insinuato qualcos’altro in quelle manifestazioni, gli islamisti hanno preso sempre più piede e adesso ci ritroviamo in questa situazione drammatica e pericolosa per gli occidentali». Nella capitale siriana, Podda lavorava insieme a tre cooperanti italiani sull’emergenza profughi provenienti dall’Iraq. «La catastrofe umanitaria in atto non ci ha permesso di vedere l’evolversi reale della situazione. Adesso che il vaso di Pandora si è scoperchiato, siamo di fronte a una situazione di non ritorno». Il vaso di Pandora è l’irresistibile avanzata dell’Is, i miliziani dello Stato Islamico che propugnano rapimenti a scopo di riscatto ed esecuzioni sommarie di occidentali. Secondo la cooperante «gli islamisti hanno lavorato sotto traccia a lungo aspettando le condizioni più favorevoli». Adesso che sono arrivate la tensione tra gli occidentali in Siria è altissima. «Ecco perché se me lo chiedessero oggi non ci tornerei, 2 anche se mi piacerebbe molto. Dobbiamo andare là dove c’è bisogno di aiuto ma non possiamo diventare noi stessi un problema da risolvere. L’avventatezza è un lusso che non possiamo permetterci ». D’avviso opposto Irene Zanella, 38 anni, fiorentina, di «Un ponte per». Zanella collabora a un progetto di cooperazione culturale a Baghdad ed Erbil, nel Kurdistan iracheno. Il programma, promosso da Comune di Firenze e Biblioteca Nazionale, mira a formare bibliotecari e archivisti per la biblioteca della capitale irachena e per la Cittadella di Erbil. E a salvare i testi delle minoranze cristiane e sciite che vi abitano. Irene è tornata a Firenze da Erbil tre settimane fa. «La situazione si è fatta drammatica sia sotto il profilo umanitario che della sicurezza» racconta. Al contrario di Fabiola, però, lei in Iraq tornerebbe anche domattina. «E’ proprio in momenti come questi, in cui c’è più bisogno di aiuto, che dobbiamo essere presenti». Anche se c’è il rischio di finire ostaggi, com’è accaduto alle due giovani cooperanti Vanessa e Greta. «Però bisogna stare più attente » commenta. «Io tornerei in Iraq perché la mia ong ha protocolli di sicurezza rigidissimi per i suoi cooperanti». 3 ESTERI Del 27/08/2014, pag. 2 Gaza, è tregua permanente Tra Israele e Hamas accordo dopo 50 giorni di guerra Palestinesi in festa. I miliziani: “Abbiamo vinto noi” Netanyahu: “Pronti a colpire se ci attaccheranno” ALBERTO FLORES D’ARCAIS GERUSALEMME L’accordo arriva al tramonto del cinquantesimo giorno di guerra. Israeliani e palestinesi siglano una tregua “permanente”, alle sette della sera le armi tacciono, le frontiere sono pronte a riaprire e il sanguinoso conflitto che ha sconvolto l’estate di Israele e Gaza sembra finalmente placarsi. Ci sono volute sette settimane di guerra vera e di instabili cessate-il-fuoco (tutti e undici violati da Hamas), ci sono voluti 4.450 razzi sparati dalla Striscia e 5.526 bombe sganciate dai caccia di Gerusalemme su Gaza, ci sono voluti purtroppo oltre duemila morti palestinesi (2.126 l’ultimo calcolo aggiornato, tra cui oltre 400 bambini) e settanta morti israeliani (cinque civili, l’ultimo poche ore prima della tregua). Tutto senza che nulla di definivo sia cambiato, se non un odio che cinquanta lunghe giornate di morte e vendette non faranno che aumentare. All’annuncio della tregua Hamas canta vittoria. Le sette sono passate da poco, qualche ultimo razzo viene sparato ugualmente a scopo intimidatorio sui kibbutz e sulle città del sud mentre a Gaza risuonano i colpi di proiettile, ma questa volta in segno di giubilo. Gli uomini mascherati con le divise nere e verdi di Hamas sparano in aria con i kalashnikov, è già pronto — preparato chissà da quanto — il disegno-grafico da far girare sui media: «Così Gaza ha trionfato», dice il manifesto in cui tre uomini armati (uno con la divisa di Hamas, altri con divise di differenti fazioni palestinesi) catturano un soldato israeliano con la bandiera bianca alzata e una stella di David marchiata sulla schiena nuda. Un canto di trionfo, quello di Hamas, che ha il chiaro sapore della propaganda ed è rivolto in primo luogo a quel milione e mezzo di abitanti della Striscia che sono state le vere vittime — consapevoli o costrette ad esserlo come in tanti casi di “scudi umani” — di questo lungo conflitto nella parte palestinese del campo di battaglia. Sul piano politicodiplomatico poco avrebbe da festeggiare, hanno dovuto accettare le condizioni che finora avevano rifiutato, quelle mediate dall’Egitto del nuovo alleato di Israele Al-Sisi: l’apertura dei valichi di frontiera sia dalla parte israeliana che da quella egiziana per consentire “da subito” il passaggio di aiuti umanitari e di materiale per la ricostruzione; l’estensione della zona di pesca da tre a sei miglia; il proseguimento di negoziati sugli altri punti (porto commerciale e aeroporto, come vuole Hamas, demilitarizzazione della Striscia come chiede Israele) nel giro di un mese. Celebra una vittoria (anche personale) Abu Mazen, che come primo atto ha voluto ringraziare l’Egitto per «avere fermato l’aggressione, il bagno di sangue e l’uccisione di bambini». Era stato lui, mentre razzi di Hamas venivano lanciati ad una cadenza mai vista (150 in poche ore, uno ha raggiunto Tel Aviv), ad annunciare al mondo intero: «La leadership palestinese ha accettato l’appello dell’Egitto per una tregua permanente a partire dalle 19 di oggi». Abu Mazen si fa garante di questo cessate-il-fuoco “generale”, che ha probabilmente trattato — nel suo burrascoso colloquio in Qatar dei giorni scorsi — anche con Khaled Meshal, il capo politico di Hamas, che (almeno fino a ieri) sembrava contrario ad ogni ipotesi di tregua. Il leader dei palestinesi ha in mente un progetto ancora più grande, quello di una «pace definitiva tra palestinesi e 4 israeliani» e ieri sera lo ha presentato a un summit di tutte le fazioni palestinesi. Si basa sul ritorno ai confini pre 1967, difficilmente Israele (e gli Usa) potranno accettarlo. Dovrebbe essere un giorno di festeggiamenti anche per Israele e per quelle centinaia di migliaia di persone che hanno vissuto per cinquanta giorni l’incubo delle sirene, dei “cinque maledetti secondi” necessari a raggiungere i rifugi allestiti in ogni casa. Negli ultimi tre giorni, dopo la morte del piccolo David in un kibbutz di frontiera e prima della tregua annunciata ieri, a migliaia hanno lasciato le case nel sud. La maggioranza degli israeliani tira un sospiro di sollievo, ma non sono pochi quelli che rimproverano a Netanyahu di non aver portato a termine quello che aveva promesso, cioè la definitiva eliminazione della minaccia Hamas. Metà del “gabinetto di sicurezza” questa tregua non la voleva, il premier non ha messo la questione ai voti. Con una promessa: Israele non permetterà che a Gaza usino il cessate-il-fuoco per riorganizzarsi, riarmarsi e ricostruire i tunnel. Del 27/08/2014, pag. 1-7 GAZA OTTIENE LA TREGUA, NON LA LIBERTÀ Michele Giorgio La notizia girava nell’aria da un paio di giorni. Il sì di Hamas e Jihad alla proposta egiziana era ormai certo, si attendeva solo il via libera del governo Netanyahu. Poi ieri pomeriggio è giunta la conferma dell’accordo per un cessate il fuoco illimitato che mette fine a 50 giorni di offensiva militare israeliana “Margine Protettivo” e ai lanci di razzi e colpi di mortaio da Gaza. Già prima dell’inizio della tregua, alle 18 italiane, centinaia di palestinesi, non solo attivisti di Hamas, erano scesi in strada a festeggiare la fine del massacro, di immense distruzioni. Poi a migliaia hanno attraversato città e villaggi della Striscia sorridendo, cantando, urlando la loro gioia. E’ finita, almeno per ora. Un massacro così deve essere descritto e non come una “guerra” ciò che è avvenuto a Gaza in questi ultimi due mesi. Un massacro che ha pagato la popolazione civile palestinese prima di chiunque altro. Certo, anche i razzi di Hamas hanno generato paura e tensione, specie nelle regioni meridionali di Israele dove hanno ucciso cinque civili, tra i quali un bambino. E i combattenti di Ezzedin al Qassam hanno dato filo da torcere ai soldati israeliani, 64 dei quali sono rimasti uccisi negli scontri. Ma è solo una frazione di quello che ha pagato la Striscia di Gaza. Migliaia di attacchi aerei, terrestri e navali israeliani hanno ucciso oltre 2.100 palestinesi — per almeno 2/3 civili innocenti tra i quali donne e bambini — quasi 11mila i feriti (3mila bambini, centinaia rimarranno disabili), migliaia di case completamente distrutte, altre migliaia danneggiate, infrastrutture civili devastate, centinaia di fabbriche ed imprese ridotte in macerie o bruciate. L’elenco è lungo e conferma l’eccezionale durezza dell’attacco militare israeliano che negli ultimi giorni non ha esito a polverizzare, ad evidente scopo intimidatorio, persino le torri residenziali che dominavano il capoluogo Gaza city. Un martellamento incessante che si è fermato lasciando l’amaro in bocca a diversi ministri israeliani e agli abitanti del Neghev che accusano il premier Netanyahu, in netto calo nei sondaggi, di non aver saputo «risolvere il problema», ossia di non aver schiacciato Hamas e di non aver autorizzato una punizione ancora più pesante per i palestinesi di Gaza, “colpevoli” di reclamare il diritto alla libertà e a una vita dignitosa. Forse anche per questo Netanyahu e il resto del governo ieri sera hanno preferito la linea del basso profilo. 5 Eppure Netanyahu, comunque si voglia leggere questo accordo di tregua, porta a casa una vittoria ai punti. Certo, ha mancato l’obiettivo di annientare Hamas e quello altamente velleitario di provocare una “sollevazione” dei palestinesi di Gaza contro il movimento islamico. Tuttavia ha ottenuto il cessate il fuoco illimitato e, di fatto, incondizionato che cercava. Alla fine Hamas ha avuto solo qualche cambiamento cosmetico che non modifica la terribile condizione di Gaza sotto quel blocco israeliano che il movimento islamico aveva promesso di scardinare in modo definitivo. Hamas ha annunciato e celebrato la fine delle ostilità come una “vittoria” frutto della resistenza dei suoi combattenti. Il suo portavoce Fawzi Barhoum, in una conferenza stampa improvvisata, ha illustrato i successi militari ottenuti dal braccio armato del suo movimento e la sconfitta di Israele che non è riuscito fermare in nessun momento «la resistenza». E di passo in avanti per Gaza ha parlato anche il presidente dell’Anp Abu Mazen che, in un discorso televisivo da Ramallah, ha anche annunciato la presentazione di un suo piano generale e definitivo per la fine del conflitto con Israele. A ben guardare ci si rende conto che dopo essere rimasti 50 giorni sotto bombardamenti pesanti, i palestinesi non hanno ottenuto più di ciò che era stato stabilito nel 2012, con l’accordo di cessate il fuoco firmato da Israele e Hamas al termine dell’operazione “Pilastro di Difesa” (il secondo dei tre attacchi in cinque anni contro Gaza). Nell’immediato, hanno fatto sapere gli egiziani, saranno riaperti i valichi per far passare gli aiuti umanitari per la popolazione stremata e i materiali per la ricostruzione. L’area di pesca per gli abitanti di Gaza tornerà ad essere di sei miglia marine. Solo fra un mese però inizieranno al Cairo i negoziati sulle questioni vere e più complesse, quelle sulle quali per giorni e giorni le delegazioni palestinese e israeliana riunite nella capitale egiziana hanno cercato invano un’intesa. A cominciare dalla richiesta palestinese di dotare la Striscia di un porto e di un aeroporto per finire alla “smilitarizzazione” di Gaza invocata da Netanyahu. Invece di sventolare la bandiera della vittoria, i leader di Hamas dovrebbero ripensare alle promesse fatte alla popolazione, alle linee rosse “invalicabili”, ai proclami di lotta fino al conseguimento di tutti gli obiettivi dichiarati. «Nessuna nazione araba ha resistito in questo modo ad Israele e così a lungo», ha rimarcato ieri sera un esponente del movimento islamico. Questo a Gaza, ai palestinesi, non basta più. Del 27/08/2014, pag. 3 Per quasi due mesi il presidente egiziano ha tessuto la sua rete diplomatica, facendo ritrovare al Cairo il ruolo di guida del Medio Oriente perduto negli ultimi anni La lunga mediazione del “Leone d’Egitto” Così Al Sisi ha piegato i leader integralisti Il personaggio FABIO SCUTO CINQUANTA giorni dopo la più grave distruzione delle numerose guerre che Gaza ha subito, i leader islamisti nella Striscia sono usciti ieri dai loro bunker sotterranei, dai loro rifugi, per «celebrare la vittoria» in questo inutile conflitto che ha lasciato sul campo quasi 2.200 morti, 11 mila feriti, 200 mila senza casa e distruzioni immani nelle infrastrutture pubbliche. Questa “vittoria” che Hamas nella sua abituale riscrittura della Storia attribuisce alla sua resistenza, è invece dovuta all’opera decisa e continuativa del presidente egiziano 6 Abdel Fattah al Sisi, il peggior nemico del movimento islamista nella Striscia, il “vituperato” generale che non solo ha spodestato con un golpe largamente sostenuto dalla popolazione la Fratellanza musulmana dalla guida dell’Egitto lo scorso anno ma — con la sua linea di “tolleranza zero” sul contrabbando tra il Sinai e la Gaza — ha tagliato alla radice le fonti di finanziamento di Hamas che dal quel traffico guadagnava (in tasse) quasi 250 milioni di dollari al mese, larga parte dei quali usati per comprare armi e missili, soprattutto dalla Libia. Armi che, generosamente vendute dalla Brigata di Misurata, traversavano i cinquecento chilometri di costa egiziana grazie a mille complicità per approdare a Rafah, pronte per passare nei tunnel sotto la sabbia e finire nei bunker di lancio degli artiglieri islamisti. Gli oltre quattromila razzi sparati da Hamas contro Israele in queste sette settimane di guerra hanno percorso tutti questa strada. Al Sisi da oltre un anno tiene in piedi una vasta operazione militare nel Sinai, con il silenzioso assenso di Israele, contro i gruppi islamisti e jihadisti egiziani che infestano la penisola desertica e con i quali Hamas ha a lungo trescato e trafficato. La proposta egiziana — accettata da tutti i leader integralisti della Striscia — in realtà è sempre stata la stessa da oltre un mese, una cessazione delle ostilità consolidata almeno per un mese, riapertura del valico di Rafah ma sotto il controllo delle forze dell’Anp del presidente Abu Mazen, allargamento della zona di pesca consentita da 3 a 6 miglia. Il presidente egiziano l’aveva spiegato chiaramente anche al nostro premier Matteo Renzi quando è passato per il Cairo lo scorso 8 agosto. Adesso queste condizioni che tre settimane fa erano state sdegnosamente respinte da Hamas, che bollava al Sisi come troppo “pechant” verso Israele al punto da chiamare sulla scena paesi considerati più “amici” dal movimento integralista come Qatar e Turchia ma avversari dell’Egitto, improvvisamente sono diventate una «vittoria». Sono scomparse però quelle richieste che Hamas giudicava essenziali come l’aeroporto, il nuovo porto, la libera circolazione attraverso i valichi di frontiera con Israele e Egitto. Di fatto Hamas e la Jihad islamica di Gaza hanno accettato le stesse identiche condizioni con le quali si concluse l’ultima guerra di Gaza, quella del novembre 2012: dal valico di Rafah e di Erez — quello con Israele — passeranno per ora solo aiuti umanitari umanitari e materiali per la ricostruzione Il “Leone d’Egitto” strappa così il suo primo successo diplomatico internazionale e sembra riportare il Cairo nel ruolo guida che ha sempre avuto nel mondo arabo, a dispetto dei nuovi paesi “emergenti” nell’area. L’intesa per Gaza è stata raggiunta grazie alla mediazione “indiretta” con il rivale Qatar — con il quale i rapporti dopo l’estromissione della Fratellanza musulmana dal potere sono estremamente tesi — che è stata portata avanti in questo caso dal presidente dell’Anp, Abu Mazen. Il leader palestinese è volato al Cairo sabato scorso, dopo la missione a Doha dove aveva incontrato l’emiro al-Thani e il leader di Hamas in esilio, Khaled Meshaal. Ma è nella capitale egiziana che Abu Mazen ha messo a punto gli ultimi dettagli con al Sisi. Non c’è però solo Gaza in cima ai pensieri del Cairo, che guarda con preoccupazione gli sviluppi nella vicina Libia e sembra aver accolto i numerosi appelli della comunità internazionale, Italia in testa, a giocare un ruolo di primo piano. Il Leone d’Egitto potrebbe avviare presto altre importanti iniziative. Del 27/08/2014, pag. 8 Gli Usa in volo sulla Siria Siria/Iraq. Partite le ricognizioni al confine con l’Iraq, obiettivo stanare l’Isis. Obama promette: non saranno inviati altri soldati e per ora non 7 pioveranno bombe. In attesa di un compromesso con lo «stato canaglia», l’America invia aiuti ai moderati siriani Chiara Cruciati L’autorizzazione del presidente Obama è arrivata: ieri sono cominciati i primi voli di ricognizione statunitensi sopra il territorio siriano. Per ora non pioveranno bombe, né un’escalation dell’intervento militare Usa. Per quello si dovrà attendere che Washington trovi un buon compromesso: sì a raid contro le postazioni Isis ma senza aiutare indirettamente il regime del nemico Assad. Ieri Obama ha ripetuto le minacce all’Isis: «L’America non dimentica, giustizia sarà fatta anche se richiederà tempo». Secondo fonti dell’intelligence, gli aerei — alcuni senza pilota, altri jet U2 — sorveglieranno le zone in mano ai jihadisti per raccogliere nformazioni necessarie a un eventuale intervento, prospettato nei giorni scorsi dal capo di Stato maggiore Dempsey secondo il quale sarebbe inutile colpire il gruppo di al-Baghdadi in Iraq se non lo si sradica anche dalla vicina Siria. Quelli partiti ieri non sono i primi voli di ricognizione Usa nel paese: il mese scorso jet militari avevano volato sul cielo siriano per mettere in piedi la missione — poi fallita — di salvataggio degli ostaggi statunitensi in mano ai qaedisti. Proprio l’uccisione di uno dei giornalisti rapiti, James Foley, ha fatto premere l’acceleratore per un potenziale intervento. Ieri Washington ha fatto sapere che il terzo ostaggio statunitense in mano ai jihadisti è una cooperante di 26 anni per la quale l’Isis avrebbe chiesto 6,6 milioni di riscatto. Lunedì ad aprire ai raid Usa era stato lo stesso regime di Assad, che si era detto pronto a collaborare con i governi occidentali. Ora Obama è chiamato ad orchestrare un’azione che eviti di regalare un inatteso sostegno a Damasco. Per questo, dicono fonti del Pentagono, si penserebbe a bombardamenti mirati lungo il poroso confine tra Siria e Iraq, oggi controllato dall’Isis, e a omicidi di leader islamisti a partire dalla roccaforte di Raqqa. Nessun intervento in profondità: «Non è il caso del ’nemico del mio nemico è mio amico’ — ha precisato il vice consigliere alla sicurezza nazionale, Benjamin J. Rhodes — Collaborare con Assad porterebbe all’alienazione della popolazione sunnita, necessaria a sradicare l’Isil». Gli fa eco la Casa Bianca che fa sapere di non avere piani di coordinamento dell’intervento anti-Isis con il governo siriano che considera «minaccia terroristica». Tale possibilità era stata già presa in considerazione dal ministro degli Esteri di Damasco, Muallem, che lunedì aveva avvertito che raid non coordinati con il regime sarebbero stati considerati aggressioni esterne. Preoccupati dai raid Usa restano le opposizioni moderate, che temono di veder evaporare la possibilità di utilizzare il confine nord con la Turchia per l’ingresso di armamenti e miliziani. La Casa Bianca rassicura: ai bombardamenti contro l’Isis si potrebbero accompagnare nuovi aiuti ai gruppi moderati di opposizione, «un programma di addestramento e equipaggiamento per l’Esercito Libero Siriano», fa sapere l’ufficio stampa del Pentagono. Un colpo al cerchio e uno alla botte, che a oggi ha solo infiammato i settarismi regionali. Ieri, dall’altro lato della frontiera, l’ennesimo attentato terroristico ha bagnato di sangue le strade di Baghdad: un’autobomba è saltata in aria in mattinata in un trafficato incrocio della capitale, a Baghdad Jadida, uccidendo 15 persone e ferendone almeno 37. Il giorno precedente, nella stessa zona, un attentatore suicida si era fatto esplodere dentro una moschea sciita, uccidendo 11 civili. I timori di una spartizione dell’Iraq — di cui avanzata dell’Isis e attacchi giornalieri sono indice — preoccupa il vicino Iran che, pur continuando a negare di aver inviato uomini a Baghdad, si muove dietro le quinte. Ieri il presidente kurdo Massud Barzani, in una conferenza stampa con il ministro degli Esteri iraniano Zarif, ha rivelato che Teheran «è stato il primo paese a sostenere i peshmerga, fornendo loro armi e equipaggiamento». Dagli Usa, invece, sono arrivati i raid con i droni, partiti — spiega il Washington Post — da tre basi militari nel Golfo Persico, probabilmente in Qatar, Emirati Arabi e Kuwait. Washington preferisce nascondere i dettagli sull’esatta posizione delle basi per non imbarazzare gli 8 alleati: non è una novità che le petromonarchie ospitino l’esercito Usa, ma oggi appaiono riluttanti nell’ammettere un ruolo nello sganciamento di bombe sull’Iraq, dopo il sostegno fornito negli anni passati ai gruppi jihadisti che stanno mettendo a ferro e fuoco il paese. Del 27/08/2014, pag. 8 Quando tra Assad e l’Isis correva buon sangue Siria. Dal maggio 2011 con lo scoppio delle prime rivolte e la liberazione dei prigionieri Giuseppe Acconcia Dopo l’apertura del presidente siriano ai bombardamenti statunitensi, mirati e coordinati con Damasco, contro i jihadisti dello Stato islamico (Isis) in Siria, il tanto odiato regime di Assad è tornato a essere centrale per gli interessi Usa in Medio oriente. Non solo Stati uniti e Siria stanno collaborando per fermare i combattenti radicali dell’Isis, hanno anche qualcos’altro in comune: entrambi hanno contribuito alla nascita e all’ascesa del temibile movimento jihadista. La logica di Assad è molto semplice e condivisa dalle élite militari di altri stati del Medio oriente: in un contesto di rivolte, è sempre utile puntare sulla paura generalizzata dell’ascesa di estremisti e terroristi. In questo modo gli islamisti moderati (i Fratelli musulmani siriani per esempio), ma anche l’opposizione secolare, saranno facilmente messi in un angolo. Questo ha fatto l’esercito egiziano, attivando i movimenti salafiti in occasione delle prime elezioni libere del 2012. Per poi accusare tutti gli islamisti di terrorismo ed avere le mani libere per reprimere i moderati Fratelli musulmani, lasciando fare ai salafiti, diventati i principali alleati del generale Abdel Fattah al-Sisi. Alti ufficiali vicini ad Assad hanno confermato questa ricostruzione. In altre parole, i terroristi dello Stato islamico (Isis) hanno decimato l’Esercito libero siriano (Els). «Se questi gruppi si scontrano tra loro, il primo a beneficiarne è il governo siriano. Quando hai così tanti nemici che si combattono tra di loro, puoi trarne beneficio», ha aggiunto la fonte. Ai militari siriani hanno fatto eco gli Stati uniti. «Il regime di Assad ha giocato un ruolo chiave nell’ascesa dell’Isis», ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Marie Harf. Assad ha sempre negato di aver dato qualsiasi sostegno all’Isis. Eppure nel maggio del 2011, con lo scoppio delle prime rivolte in Siria, il governo di Damasco ha liberato dalla prigione militare di Sagnaya i principali detenuti accusati di terrorismo nella prima di una serie di amnistie. Molti dei prigionieri liberati quel giorno sono ora arruolati nelle file dell’Isis. Qualcosa del genere è avvenuto anche in Egitto il 28 gennaio del 2011, quando con l’acqua alla gola per scioperi e manifestazioni di piazza, la polizia sparì dalle strade, mentre decine di islamisti radicali e detenuti comuni lasciarono le carceri. Il diplomatico siriano Bassam Barabandi ha spiegato in questo modo gli eventi del maggio 2011: «Il timore di una prolungata rivolta permise il rilascio dei prigionieri islamisti: sono alternativi alla contestazione pacifica». Dal 2012 in poi, i gruppi radicali, con il sostegno indiretto anche degli aiuti militari sauditi e occidentali, hanno proliferato in Siria: dal fronte al-Nusra alla costola siriana di al-Qaeda fino allo Stato islamico (Isis). Quest’ultimo è chiaramente sfuggito dal controllo anche di Assad a tal punto che i jihadisti sono stati impegnati non solo in una guerra senza quartiere contro l’Els ma hanno creato quasi uno stato nello stato. E così l’Isis ha inesorabilmente continuato la sua avanzata, prendendo la città settentrionale di Raqqa. Il centro, dove molti degli stranieri rapiti negli ultimi mesi sono scomparsi, è diventato il quartiere generale dei jihadisti. È qui che Abu Bakr al-Baghdadi 9 ha dichiarato la fondazione del suo califfato. Qualcosa di simile è accaduto spesso anche nella storia egiziana con il terrorismo islamista radicale innescato dalla connivenza con l’intelligence militare (si veda il Sinai). Damasco e Washington da nemici tornano a essere amici, questa volta contro una creatura «terribile» che hanno entrambi contribuito a far crescere ma che è poi sfuggita al loro controllo. Del 27/08/2014, pag. 5 E Hollande svolta più a destra Francia. Il liberista Macron va all’Economia. Per la fronda socialista è «una provocazione» Anna Maria Merlo La conferma della svolta liberista di Hollande: al posto del contestatore Arnaud Montebourg entra nel governo Valls II come responsabile dell’Economia e dell’Industria il giovane Emmanuel Macron (37 anni), tecnocrate uscito dall’Ena, ex consigliere economico dell’Eliseo, che ha lavorato nella banca d’affari Rothschild. Una scelta che la «fronda» dei deputati socialisti interpreta come una «provocazione». Macron affianca a Bercy Michel Sapin, che viene riconfermato alle Finanze. Il primo governo Valls è caduto sulla contestazione del rigore e la nuova compagine non lascia nessun margine di incertezza sulla conferma delle scelte in campo economico. Macron, che è stato per alcuni anni anche assistente del filosofo Paul Ricoeur, è un chiaro difensore del «Patto di responsabilità», concluso con le imprese, a cui sono stati promessi 40 miliardi di sgravi fiscali. Macron è un messaggio inviato a Bruxelles e a Angela Merkel, per confermare l’impegno di Parigi a rispettare il Fiscal Compact. «Un bruttissimo segnale» per Pierre Laurent del Pcf. È il «dominio della finanza» per il Fronte di Le Pen. All’Educazione nazionale, al posto di Benoît Hamon, viene promossa la giovane Najat Vallaud-Belkacem, prima donna ad occupare questo ministero delicato. Ma già la destra urla e accusa Vallaud-Belkacem di aver difeso, nel precedente governo dove era responsabile dei diritti delle donne, l’insegnamento nelle scuole elementari dell’«Abcd dell’eguaglianza», accusato di veicolare «la teoria di genere», un’assurda ossessione nata all’estrema destra ma ormai diffusa nella destra tradizionale. Alla cultura, la contestatrice Aurélie Filippetti viene sostituita da Fleur Pellerin, che era stata nel governo Ayrault una buona ministra dell’economia digitale. Dovrà lottare contro l’unica iniziativa di Hollande in campo culturale: il taglio al bilancio. Valls ha rivendicato ieri sera la «coerenza», l’«atto di autorità» diventato necessario di fronte alle prese di posizione dei ministri contestatori, in un momento in cui la Francia è di fronte a varie «sfide del mondo»: jihad, Ucraina, crisi economica. Hollande ha voluto un governo «di chiarezza, sulla linea e sui comportamenti». Valls si ritrova con una base ristretta, composta principalmente di fedelissimi di Hollande: l’ala sinistra del Ps è e sclusa, a parte tre personalità vicine a Martine Aubry, a cui sono stati dati posti di secondo piano, nella speranza di limitare la contestazione. Europa Ecologia ha rifiutato di entrare al governo, dopo lunghe trattative nella giornata di ieri, con alcune personalità. I Verdi avevano già messo le mani avanti: chi entra lo farà a titolo personale. Ma non c’è stato nessun accordo possibile. «Non ci sono le condizioni per l’entrata degli ecologisti» ha concluso nel pomeriggio il senatore Jean-François Placé, che chiedeva l’abbandono della costruzione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes. Robert Hue, ex Pcf, era stato contattato, ma ha rifiutato: «Né la linea politica proposta dal nuovo governo né la sua composizione erano di natura tale di permettere la nostra partecipazione per agire nel senso di una inflessione sociale necessaria». Restano invece i Radi10 cali di sinistra, con Christiane Taubira confermata alla Giustizia, che resta una delle poche cauzioni a sinistra. Il governo è paritario tra uomini e donne, e molte ministre – a cominciare da Ségolène Royal confermata all’Ecologia – salgono nell’ordine protocollare. Esteri, Difesa, Lavoro, Affari sociali, Interni, Agricoltura confermano i ministri già in carica (Fabius, Le Drian, Rebsamen, Touraine, Cazeneuve, Le Foll). Da domani Valls avrà difficoltà ad avere una maggioranza, senza Verdi né l’ala sinistra della sinistra, con la contestazione crescente nelle fila del Ps, con l’Appello dei 100 che formerà il gruppo «Viva la sinistra» e già minaccia di votare contro la finanziaria in autunno, primo grande ostacolo del nuovo governo (il Ps ha 290 deputati, i Radicali di sinistra 15, la maggioranza assoluta è di 289 voti, ma con una fronda di un centinaio all’Assemblea non c’è più maggioranza). In prospettiva, c’è la minaccia di un voto di sfida che potrebbe far cadere il governo e portare dritto ad elezioni anticipate (premessa di una molto probabile coabitazione tra Hollande e un primo ministro di destra). 11 INTERNI Del 27/08/2014, pag. 10 LA GIORNATA Enti locali, bilancio in rosso per una partecipata su quattro Niente fondi nello Sblocca-Italia Lo studio del commissario alla Spending Review, Cottarelli A costo zero le misure di venerdì. Slitta la Legge di Stabilità VALENTINA CONTE ROMA Un lavoro chiuso. Per il ministero dell’Economia il decreto Sblocca-Italia è cosa fatta. E soprattutto è a costo zero. Nessuna corsa alle coperture, perché risorse extra non ce ne saranno. Il dossier è ora sul tavolo del premier Renzi che farà le sue scelte politiche su norme e misure - quali includere e quali no - in vista del Consiglio dei ministri di venerdì. Padoan e Lupi si vedranno domani, alla vigilia del Cdm, per sistemare gli ultimi dettagli e, con ogni probabilità, far slittare ad ottobre il pacchetto casa, il più oneroso del decreto, con il rinnovo dei bonus edilizi. «Tra Sblocca-Italia e legge di Stabilità - confermava ieri il ministro delle Infrastrutture - saranno trovate le coperture. Ma non c’è divergenza di opinioni tra me, Padoan e Renzi». Il ministro dell’Economia ha ieri riunito il suo staff per impostare il lavoro d’autunno. Al centro del primo giro di tavolo c’è stata soprattutto la legge di Stabilità. Con una novità: il suo possibile slittamento di qualche giorno dalla data limite del 15 ottobre, a causa della nuova contabilità nazionale che l’Istat sta predisponendo e che ha già fatto scalare la nota di aggiornamento del Def al primo ottobre. In attesa del nuovo Pil e del possibile tesoretto su deficit e debito - non trascurabile, a quanto trapela - si punta all’Ecofin di metà settembre, come primo banco di prova dello scambio riformeflessibilità. E si ragiona sulla possibilità di usare il tesoretto spread ( 2-2,5 miliardi di minore spesa per interessi) a riduzione del deficit anziché del debito. Ieri il commissario Cottarelli ha reso pubblico lo studio sulle partecipate: 1.424 società pubbliche su 5.264 - una su quattro - sono in rosso, 1.075 non hanno ancora pubblicato i bilanci 2012, 143 hanno zero capitale. Nello Sblocca-Italia potrebbe entrare l’incentivo per gli enti locali che le privatizzano di trattenerne gli incassi, grazie a una deroga al patto di stabilità. Norma ancora in bilico, però. Del 27/08/2014, pag. 10 Dal Casinò di Venezia alla Fiera di Roma la mappa delle inefficienze brucia-soldi ROBERTO MANIA I SOLDI si prendono dove ci sono e soprattutto dove si sprecano. Esclusi (ma bisognerà aspettare come sempre fino all’ultimo minuto) interventi sui grandi capitoli della spesa sociale (sanità, pensioni e pubblico impiego), non resta che il grande calderone della spesa pubblica e in particolare di quella locale, cresciuta a dismisura come effetto 12 collaterale di un federalismo mal concepito. Così il “Programma di razionalizzazione delle partecipare locali” preparato dallo staff del commissario, nominato da Enrico Letta, sarà sul tavolo del Consiglio dei ministri di venerdì. Una rivincita per l’ex economista del Fondo monetario internazionale in quel di Washington. Lo stesso che quando all’inizio di questo mese aveva espresso il suo disappunto, fino a minacciare la sua uscita dalla scena, per il tentativo (avallato dal governo) di introdurre l’ennesima deroga alla legge Fornero sulle pensioni per far andare in quiescenza gli insegnati della cosiddetta “quota 96”, si beccò dal premier Matteo Renzi non proprio parole di cortesia: «Cottarelli faccia come vuole, la spending review va avanti anche senza di lui». Perché il primato è della politica, non dei tecnici. E invece — questa volta — la politica seguirà i suggerimenti del tecnico. E allora il bisturi andrà usato con poche cautele nel corpaccione delle ottomila e passa (forse diecimila) aziende municipalizzate, possedute, controllate o anche solo appena partecipate con quote insignificanti dagli enti locali. Un capitalismo barocco nel quale convivono le logiche del mercato e quelle del consenso bieco, dello scambio di favori, delle assunzioni facili da parte dei ras locali, delle clientele politico- sindacali. La quotazione a Piazza Affari, i report delle agenzie di rating, e Parentopoli come racconta la clamorosa storia dell’Atac di Roma, l’azienda del trasporto che ha cumulato perdite per oltre 150 milioni. Un mondo a sé. Che fa di tutto: gestisce autostrade, controlla farmacie, banche di credito cooperativo, aeroporti, casinò, acque termali, fiere, i teatri stabili, metropolitane, orchestre sinfoniche, prosciuttifici, pubblicità. E poi quello che ti aspetti: il trasporto locale, i servizi per la fornitura del gas, dell’acqua, dell’energia; la gestione dei rifiuti. Ma anche quel che non capisci: la promozione del tacchino alla Canzanese. Perché? Carlo Cottarelli pensa che si possa passare da ottomila aziende a mille nell’arco di un triennio. Con un risparmio a regime, per gli utenti, di 2-3 miliardi di euro. Molte di queste società possono essere chiuse, molte possono essere fuse con altre. La Francia è più grande dell’Italia ma di aziende partecipare ne ha circa un migliaio. Una su quattro tra le aziende passate al setaccio ha i conti in rosso. Ce ne sono 143 che hanno ormai bruciato il proprio capitale. Il primato spetta alla “Cmv spa” con sede a Venezia: ha un buco patrimoniale di 20,3 milioni di euro. Ma cosa fa la “Cmv”? La missione sociale è spiegata con sfarzo di dettagli nel sito aziendale: «La società ha per oggetto la promozione e lo sviluppo di attività immobiliari ivi comprese l’edificazione in genere, la costruzione, la compravendita, la permuta, la lottizzazione, il comodato, l’affitto, la locazione, anche finanziaria, la conduzione di immobili di proprietà della società o da queste detenuti a qualunque titolo». Peccato che la nostra “Cmv” (al 100 per cento controllata dal Comune) gestisca in realtà il Casinò di Venezia. Che, poi, la Grande Crisi, o una gestione sbagliata, ha trascinato nel baratro finanziario. Il Comune ha cercato di venderlo ai russi e agli americani ma la relativa gara è andata deserta. Ora si sta tentando, con qualche dubbio, la strada della privatizzazione per quanto il commissario cittadino Vittorio Zappalorto, appunto, non escluda un tentativo di rilancio. Mentre si tagliano i posti di lavoro e le retribuzioni. Si taglia anche alla Fiera di Roma. Adesso. Dopo che è stata costruita (l’affare fu chiuso ai tempi della giunta Veltroni con il Gruppo Lamaro) su un’area soggetta alla subsidenza. Vuol dire che un po’ alla volta il terreno cede. Ma di tracollo c’è anche quello finanziario: un buco di 15,7 milioni. Resta un cattedrale nel deserto, senza una missione, senza identità, senza interesse per potenziali acquirenti che pure sono stati cercati. Un buco di 3,6 milioni ce l’ha anche il Comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ma per fortuna non se ne costituirà un altro a breve. È un mondo a sé quello delle municipalizzate. Ci sono quelle (circa metà delle partecipate comunali) che hanno più membri seduti nei consigli di amministrazione che dipendenti. Altre che non hanno affatto dipendenti, i due terzi delle quali presentano un fatturato inferiore a 100 mila euro. Niente. Scatole vuote: ben tremila hanno meno di sei dipendenti. Un poltronificio: 37 13 mila seggiole che muovono gli appetiti dei potentati locali, partiti, lobby, sindacati. Il costo pro quota per il settore pubblico — scrive il commissario Cottarelli — è stimabile in circa 450 milioni. Ma c’è anche un risvolto sociale nell’operazione di ristrutturazione del “capitalismo municipale” che propone Mr. Spending Review: molti degli attuali 500 mila lavoratori diventeranno esuberi. E allora serviranno gli ammortizzatori: cassa integrazione in deroga, propone Cottarelli, per quanto l’intenzione del governo con il Jobs Act sia quella di superarla definitivamente. E poi la costituzione di fondi di solidarietà bilaterali, oppure il contratto di ricollocazione già applicato per gli ultimi esuberi dell’Alitalia-Cai. Sigla, questa, che appare nelle tabelle excel uscite dall’ufficio di Via XX settembre, con perdite che superano il patrimonio. È proprio il settore aereo che non s’addice ai sindaci & company: tutte le società che gestiscono gli aeroporti hanno i conti a terra: peggio di tutti si piazza l’Aeroporto lombardo Gabriele D’Annunzio di Montichiari che conquista il Roe (return on equity, l’indicatore di redditività di un’azienda) stellare di ben - 217,65 per cento. A ciascuno — viene davvero da ricordare — il proprio mestiere. Del 27/08/2014, pag. 17 Nel pacchetto del ministro Orlando anche il patteggiamento allargato ai reati fino a 8 anni. E resta la legge Cirielli Prescrizione congelata e meno ricorsi in appello ecco la riforma della giustizia LIANA MILELLA ROMA .L’iceberg della riforma Orlando, quello che rischia di creare tensioni tra Pd e Ncd, e di bruciare la luna di miele con Forza Italia, è pronto. Nuova prescrizione, processo breve, stop alla possibilità di ricorrere, sempre e comunque com’è adesso, in Appello e in Cassazione, patteggiamento allargato per reati fino a 8 anni ma solo se c’è la piena confessione. La tanto deprecata legge ex Cirielli, che tagliò di un terzo i tempi della prescrizione e favorì Berlusconi, resta al suo posto, e questo sicuramente lascia l’amaro in bocca ai magistrati. Per giunta rientra in scena una fotocopia del processo breve, per non scontentare gli alfaniani. Ma proprio Berlusconi, se dovesse entrare in vigore la riforma Orlando, si vedrebbe preclusa la possibilità di ricorrere alla Suprema corte qualora dovesse incassare una condanna identica sia in primo che in secondo grado. Un esempio? Nel caso del processo Mediaset, dove Berlusconi è stato condannato nei primi due gradi di giudizio, non avrebbe avuto la possibilità del ricorso in Cassazione, proprio per via della famosa “doppia sentenza conforme”, in questo caso di condanna. In forza di una legge come questa, molti imputati vedrebbero avvicinarsi la sentenza definitiva in tempi molto più rapidi, con tutte le conseguenze che questo comporta. Siamo dunque al più importante giro di boa della riforma della giustizia Renzi-Orlando che approderà a palazzo Chigi tra due giorni. La parte penale. E come sempre, quando si mette mano a questo capitolo, scattano i campanelli d’allarme. Una prima avvisaglia s’è avuta ieri quando, da via Arenula, sono usciti con le facce scure sia l’Anm che le Camere penali. Incontri che avrebbero dovuto essere “segreti”, ma soprattutto gli avvocati non si sono tenuti niente perché di questa riforma a loro non piace nulla. A cominciare dalle intercettazioni, dove la stretta, seppur rinviata nel tempo, prevede che i testi siano dati solo per riassunto, soprattutto nel caso dei terzi coinvolti ma non indagati. Ma è su prescrizione e processo breve che oggi il Guardasigilli Andrea Orlando dovrà convincere prima la maggioranza e poi l’opposizione. Anticipiamo che cosa racconterà. A 14 partire dalla prescrizione, l’osso duro con cui non è riuscita a misurarsi neppure l’ex ministro Paola Severino, una “prof” di diritto penale. Il meccanismo ideato è il seguente: non si cambia la legge ex Cirielli, e questo già scontenta l’Anm, perché continueranno a esserci reati gravi come la corruzione che hanno una prescrizione corta. In compenso, le lancette dei tempi consentiti per esercitare l’azione penale si fermano con il primo grado, se l’imputato viene condannato. Ma per evitare che il dibattimento duri all’infinito, ecco riapparire il famoso processo breve di berlusconiana memoria. Lui l’avrebbe voluto per far scadere i suoi processi che erano durati molto a lungo, Orlando lo propone come contraltare a una prescrizione che si ferma. Ci saranno due anni di tempo per fare l’appello, dopo ripartirà la prescrizione. In pratica, spiegano i tecnici, è come se i tempi attuali si allungassero di due anni. Un intervento che Orlando considera importante comporta una rivoluzione del processo. Entrano in scena i filtri sia per l’Appello che per la Cassazione. Non saranno più liberi, come prevede attualmente il codice: sia il condannato che il pm non potranno appellarsi sempre e comunque. Questo ovviamente farà diminuire il numero dei processi e il loro tempo. A Ncd l’ipotesi non piace, perché, come dice il vice ministro della Giustizia Enrico Costa, «il 36-37% delle sentenze viene riformato proprio in appello. Siamo scettici, ma c’è tempo per raggiungere un equilibrio». La richiesta, visto che le intercettazioni sono ferme, è di rinviare anche la parte penale. Una sezione dei famosi 12 punti decisamente ricca di sorprese. Basti pensare al filtro anche in Cassazione, con il blocco in caso di “doppia conforme”, una modifica radicale di cui si parla da anni, ma che non si è mai riusciti a realizzare nonostante la Suprema corte scoppi. Faranno discutere anche le novità sul patteggiamento, che diventerà possibile per i reati fino a 3 anni, dai 2 attuali. Ritorna la possibilità di patteggiare in appello, ma soprattutto il cosiddetto “patteggiamento allargato” diventa possibile per reati puniti fino a 8 anni, ma soltanto se l’imputato accede a una confessione piena. Considerando che lo sconto è di un terzo della pena, è evidente che il vantaggio per l’imputato è notevole. Del 27/08/2014, pag. 3 Jobs Act, il parlamento fuori gioco di Piergiovanni Alleva Le uscite estive dell’onorevole Alfano e del Presidente della Bce, Mario Draghi, hanno comportato una accelerazione improvvisa del procedimento di approvazione del Jobs Act, che si traduce in un attacco di gravità senza precedenti contro i residui diritti dei lavoratori, non solo per i contenuti, ma anche per il metodo che rappresenta una vera e propria negazione della democrazia parlamentare. E’ facile spiegare le ragioni di questo drastico giudizio: ciò che i media chiamano seconda parte del Jobs Act è, tecnicamente, un progetto di legge-delega (il n. 1428 del 14/04/2014 ) composto in tutto di sei articoli. Il più importante è l’art. 4 il quale affida al Governo una “delega in bianco” per riscrivere, in sostanza, l’intero diritto del lavoro, senza che i parlamentari, una volta approvata la delega sotto il solito ricatto del voto di fiducia, possano più dire una parola o esprimere un voto sul merito della nuova regolamentazione. L’esautorazione del Parlamento sta diventando un vero costume autocratico dell’era Renzi. Sarà infatti solo il Governo, con i suoi “esperti” (tutti notoriamente di parte data datoriale) a scrivere i conseguenti decreti delegati che i parlamentari conosceranno solo a cose fatte. E’ un programma quanto mai preoccupante per la nostra democrazia, ma riteniamo anche incostituzionale e proprio sulla incostituzionalità di siffatti decreti, derivanti da una delega in bianco, ci si deve soffermare prima ancora di qualche considerazione sui loro probabili contenuti. Ricordiamo che l’art.76 della Costituzione pre15 vede che il Parlamento possa delegare il Governo ad emanare atti aventi forza di legge ordinaria (decreti legislativi), ma sulla base e con l’osservanza di “principi e criteri direttivi” fissati nella stessa legge-delega. Normalmente si tratta di criteri piuttosto stringenti, proprio perché poi il Parlamento perde il controllo del processo legislativo, non per nulla anche la legge-delega n. 30/2001– meglio nota come legge Biagi– conteneva criteri direttivi molto dettagliati. Il progetto di leggedelega n.1428, invece, nel suo vero cuore, mirante al completo rifacimento del diritto del lavoro, che è l’art 4 lett. b, così configura la delega al Governo: «Redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro semplificato, secondo quanto indicato nella lett.a», (ossia previa ricognizione e valutazione delle tipologie esistente). Si vede bene che l’espressione «testo organico di disciplina dei rapporti» comprende tutto il diritto del lavoro dalla A alla Z, ovvero dalle assunzioni al licenziamento. Si vede, altrettanto bene, che quella espressione designa, in termini quanto mai generali, l’oggetto della delega, ma non costituisce un insieme di criteri direttivi che, appunto, indichino in quale direzione le nuove regole si debbano sviluppare. Se ad es. in quella della conservazione della reintegra nel posto di lavoro, in caso di licenziamenti ingiustificati, o, invece, in quella di eliminarla o modificarla e lo stesso dicasi per il divieto di demansionamento e così per tanti altri istituti che compongono il diritto del lavoro. Sarebbe come se il Parlamento delegasse il Governo a regolare nuovamente le imposte dirette senza specificare ad es. se l’Iva vada mantenuta, diminuita o aumentata e su quali generi e similmente per le imposte di registro e di fabbricazione. In verità in una legge-delega l’indicazione dell’oggetto non può mai mancare, ma se sta da sola come unica espressione di volontà del legislatore delegante, comporta che l ‘unico criterio direttivo per la normazione su quell’oggetto sarebbe il libero apprezzamento del Governo. Proprio un simile assetto è stato però dichiarato incostituzionale dalla sentenza della Corte Costituzionale 8/10/2007 n.340 secondo cui «il libero apprezzamento del legislatore delegato non può mai assurgere a principio o criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega». Per conseguenza l’incostituzionalità, per contrarietà all’art. 76 Cost., della legge-delega prevista dal Jobs Act si estenderebbe anche ai successivi decreti attuativi che potrebbero sistematicamente essere contestati e annullati. Quanto infine ai possibili contenuti di quei decreti è difficile fare previsioni proprio perché è il progetto di legge-delega è in bianco, ma per chi è “del mestiere”, il riferimento contenuto nell’art. 4 lett b ad un testo unico “semplificato” costituisce un segnale inequivocabile. I decreti legislativi dovrebbero recepire, più o meno, la proposta di un codice del lavoro notoriamente etichettato come “semplificato”, che è stato redatto in varie versioni da un noto giuslavorista e avvocato datoriale, al momento parlamentare di Scelta Civica, dopo esserlo stato del Pd. Si tratta di un testo, che, a nostro giudizio, al di là di molte belle e vane parole contiene il peggio del peggio quanto a distruzione dei capisaldi di tutela dei lavoratori. Solo per fare alcuni es. l’abolizione, in primo luogo dell’art.18 dello Statuto, ma anche dell’art.13 con l’ammissione di patti di demansionamento e di trasferimenti di sede sotto minaccia di licenziamento; previsione di appalti di mera mano d’opera, ulteriore allargamento della precarietà e così via. La domanda angosciosa è allora cosa stiano facendo, alla vigilia, di un simile disastro, le organizzazioni sindacali, il movimento 5 Stelle, la sinistra politica, compresa quella, se ancora esiste, del Partito democratico. Basterebbe poco, a nostro avviso, per fermare sul nascere la frana, basterebbe dire di no, ma in modo fermo e a voce ben alta, alla legge delega in bianco e rivendicare l’effettiva centralità del Parlamento e una discussione parlamentare di assoluta trasparenza su tematiche tanto vitali. 16 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 27/08/2014, pag. 5 1900 morti dall’inizio dell’anno Immigrati. L’Onu: «Serve un intervento internazionale». Oggi il vertice Alfano-Malmstrom Carlo Lania Diciotto morti al giorno negli ultimi tre mesi scarsi, per un totale 1.600 morti. Che diventano 1.889 se si comincia a contare dall’inizio dell’anno. Sono i migranti che hanno perso la vita nel Mediterraneo nel tentativo disperato di arrivare in Europa. Vittime della violenza degli scafisti, ma anche del maltempo o semplicemente della poca affidabilità dei rottami sui quali sono costretti a viaggiare ammassati all’inverosimile. A fronte di questa strage silenziosa, ci sono i 113mila disperati che nelle stesse acque e nello stesso periodo di tempo l’operazione Mare nostrum ha tratto in salvo, arrivando a prenderli quasi ai confini con le acque territoriali libiche. A ricordare i dati è stata ieri da Ginevra Melissa Fleming, portavoce dell’Unhcr, l’alto commissariato della Nazioni unite per i rifugiati, per la quale un intervento comune dei Paesi dell’Unione europea per far fonte alla crisi dettata dall’immigrazione dal nord Africa ormai non è più rinviabile. E a sottolineare l’urgenza del momento, da New York le ha fatto eco un portavoce dell’Onu invocando anche lui «un intervento internazionale». Cifre e sollecitazioni che arrivano praticamente nelle stesse ore in cui a Roma, nella sede della direzione centrale dell’immigrazione e delle polizia di frontiera, tecnici del governo italiano si confrontano con rappresentanti della commissione europea e di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, alla ricerca di una soluzione che consenta all’Italia di non ritrovarsi più da sola nel soccorrere ogni giorno migliaia di uomini, donne e bambini in fuga da fame, violenze e guerre. Un vertice tecnico pensato per mettere a punto una serie di possibili soluzioni che oggi il ministro Alfano discuterà a Bruxelles con il commissario agli affari interni dell’Ue Cecilia Malmstrom. Sempre che si sia riusciti davvero a colmare le distanze esistite finora tra i desiderata del governo italiano e la volontà (poca) dimostrata dall’Ue di non lasciare sola la nostra marina militare nelle operazioni di soccorso nel canale di Sicilia. Che l’Europa debba fare di più non ci sono dubbi. Lo sa anche Cecilia Malmstrom che all’indomani di ogni tragedia del mare promette interventi che finora però non si sono visti. Il problema vero è che quando nel 2004 venne fondata Frontex — che oggi Alfano vorrebbe sostituire a Mare nostrum — l’agenzia fu pensata solo per operazioni di controllo delle frontiere e oggi è del tutto inadatta per interventi come quelli che da undici mesi conduce la nostra marina. Quindi andrebbe ripensata completamente, rafforzandola con maggiori mezzi e finanziamenti. Basti pensare che il budget per il 2014 di Frontex ammonta a poco più di 89 milioni di euro, dei quali solo 21 destinati alle operazioni in mare, contro i 9 milioni e mezzo di euro al mese di Mare nostrum (soldi totalmente presi dal bilancio della Marina militare). E’ chiaro che stando così le cose, il desiderio di Alfano di vedere le navi dell’agenzia europea sostituire quelle italiane, è destinato a rimanere per l’appunto solo un desiderio. Al ministro i tecnici della commissione europea hanno spiegato che un’ipotesi sulla quale lavorare più concretamente riguarda invece la possibilità di affiancare alle navi della nostra marina quelle di Frontex, rafforzata con mezzi aerei e navali in più messi a disposizione da altri Paesi europei e magari dividendo le aree di intervento in modo da non lasciare più tutto il carico di lavoro solo all’Italia. Resta però ancora da trovare risposta a un’incognita non da poco. Le navi non italiane che interverranno in futuro in operazioni di salvataggio, dove porteranno i profughi raccolti in mare? Finora nessun 17 Paese si è detto disponibile ad accogliere nuovi migranti, che quindi continuerebbero a sbarcare nei nostri porti, obbligati poi dai regolamenti europei a restare in Italia nonostante Alfano abbia chiesto più volte la possibilità per i profughi di potersi trasferire in Nord Europa, vera destinazione per la stragrande maggioranza di loro. La parola passa adesso alla politica, quando alle quattro di oggi pomeriggio Alfano incontrerà la commissaria Malmstrom. Di sicuro un’eventuale soluzione al problema non sarà di immediata attuazione. Intanto perché Mare nostrum non si può interrompere senza rendersi complici di nuovi e più pesanti stragi nel Mediterraneo.E poi perché un eventuale accordo tra Alfano e Malmstrom richiede comunque tempi tecnici di attuazione lunghi, al punto che il parziale disimpegno italiano non potrebbe cominciare prima di quattro mesi. Prima tappa il prossimo consiglio dei ministri degli Interni Ue in programma per il 9 e 10 ottobre prossimi, dove Alfano porterebbe il pacchetto di proposte messe a punto in questi giorni e che devono essere approvate. Dopo di che ci vorrebbero ancora almeno altri tre mesi per dare avvio alle operazioni. Del 27/08/2014, pag. 8 L’Onu: strage di migranti, aiutate Roma Oggi il vertice Ue, ma Berlino frena In soli tre mesi 1.600 vittime. Il Quirinale sostiene le proposte di Alfano ROMA — Poco meno di 1.900 morti dall’inizio dell’anno, 1.600 negli ultimi 3 mesi. Cresce il macabro ritmo delle stragi del mare: da inizio anno 8 al giorno, da fine maggio più di 17. Lo ha reso noto ieri l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), mentre a Roma si discuteva di chi debba farsi carico dei sopravvissuti recuperati in mare. Una riunione tecnica di preparazione della resa dei conti che si terrà oggi a Bruxelles tra l’Italia e il resto d’Europa. Alla vigilia del faccia a faccia con il commissario per gli affari interni dell’Unione Europea, Cecilia Malmström, ieri, il ministro dell’Interno Angelino Alfano è stato ricevuto al Quirinale per illustrare le «proposte sul crescente flusso migratorio verso l’Europa». E ne ha ricevuto il «vivo apprezzamento» del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Sul vertice di oggi peseranno, altri due segnali importanti arrivati ieri. L’appello dell’Onu a non lasciare sola l’Italia: «Non si può lasciare a un solo Paese il compito di far fronte al massiccio flusso di migranti» ha detto il portavoce, Stephane Dujarric. E il «no» del governo tedesco alla richiesta italiana di rendere gli sbarchi una questione europea e non solo nostra: «In base al Trattato di Dublino su chi deve occuparsi di chi fa richiesta di asilo politico, la responsabilità è in questo momento e in questo caso solo dell’Italia in termini di verifica, controllo e protezione dei migranti», ha sottolineato ieri Harald Neymanns, portavoce del ministero dell’Interno di Berlino. La giornata più lunga del ministro Alfano si apre così. Dopo l’escalation di proteste e di richieste vibrate all’Europa, inclusa la minaccia della la sospensione della missione di soccorso Mare Nostrum, il ministro dell’Ncd, nella trattativa di oggi gioca una partita delicata con le spalle coperte dal placet del Colle. Per questo nella riunione Frontex, a porte chiuse, ieri si sono esplorate tutte le vie possibili per un’intesa. Incluso l’arretramento delle frontiere di intervento e i pattugliamenti misti, da realizzare almeno con i Paesi più collaborativi, come la Francia. Prove tecniche di un accordo che sarà politico, ma che ora potrà essere raggiunto alla luce di tutte le «criticità» delle varie soluzioni. Quella politica, contenuta nell’ipotesi di dare il via a pattugliamenti misti. Invisa non solo alla Germania, ma anche all’Olanda e ai paesi del Nord Europa, oltre alla Gran Bretagna, giacché la gran parte dei rifugiati, attratti dal welfare funzionante e dai ricongiungimenti familiari, è diretta 18 proprio lì. Ma la task force multinazionale, magari a guida italiana, composta da varie navi europee, auspicata dal capo di Stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, potrebbe esser condivisa con i Paesi europei che sono meno ostili all’idea. Prima fra tutte la Francia. Non a caso oggi il ministro Alfano incontrerà anche il ministro dell’Interno francese, strategico per costruire il consenso attorno alle nostre proposte. L’alternativa sulla quale i Paesi Ue discutono è quella di un arretramento della linea di intervento, attualmente di fronte alle coste di Tripoli. Troppo vicina, secondo alcuni partner europei, che ci accusano di aver aumentato, involontariamente, il flusso dei clandestini convinti di essere subito ripescati dalle nostre navi. Allontanarsi dalle coste sarebbe, a loro giudizio, dissuasivo. A sconsigliarlo sarebbe però l’aumento delle vittime. Solo da venerdì a domenica si sono contati tre naufragi. E ieri mentre si discuteva di «Frontex plus» sono finiti in cella frigorifera le ultime 24 salme. Inclusa quella di un neonato. Virginia Piccolillo 19 INFORMAZIONE Del 27/08/2014, pag. 1-15 Sotto la cappa del nuovo potere Informazione. Una concordia asfissiante. Dall’inizio delle larghe intese, la stampa e la tv italiane hanno cambiato pelle acconciandosi alla funzione assai poco onorevole del portavoce zelante delle verità del governo Alberto Burgio Siamo proprio sicuri che lo stato (desolante) dell’informazione politica in Italia rientri nella normalità, che assegna alla «struttura materiale dell’ideologia» la funzione di proteggere e consolidare l’establishment? Fosse così, non ci rassegneremmo, ma nemmeno avremmo la percezione di una situazione patologica. In tutti i paesi del mondo, sotto qualsiasi regime, la «grande stampa» aiuta il potere. Riconoscerlo non implica equiparare sistemi totalitari e pluralistici. Né ignorare la rilevanza dei diritti di libertà e l’importanza della funzione svolta, nei sistemi pluralistici, dalla stampa indipendente e di opposizione. Resta che ovunque tra stampa e potere intercorrono rapporti di mutuo soccorso. Che il mondo dell’informazione è dappertutto contiguo ai luoghi del potere economico e politico. Che spesso il confine tra informazione e propaganda è labile e di difficile demarcazione. Ma c’è un ma. O un limite, se si preferisce. Di norma la cooperazione tra stampa e potere non impedisce agli organi di informazione di operare anche come fattori costitutivi dell’opinione pubblica e suoi portavoce. Né preclude alla grande stampa una funzione di controllo e di stimolo – talora di denuncia – nei confronti delle altre istanze del potere. Si pensi, per esempio, al giornalismo d’inchiesta, ancora vivo in Germania e nel mondo anglosassone, e non appannaggio delle testate di opposizione. Cooperazione e critica: in questo binomio contraddittorio si condensa la relazione tradizionale tra stampa e potere in democrazia. Il che vale a preservare una qualche funzione terza dell’informazione anche in tempi di pensiero unico imperante. Accade lo stesso oggi in Italia? Si può dire che anche nel nostro paese le maggiori testate della carta stampata e del giornalismo televisivo pubblico e privato mantengono un equilibrio tra prossimità e alterità al potere che permetta loro di assolvere almeno in parte il compito di informare senza troppo deformare? Decisamente no. Da tempo – almeno dall’inizio dell’infausta stagione delle larghe intese, più probabilmente da quando la crisi economica imperversa – la stampa italiana (fatte le debite eccezioni) ha cambiato registro. Se ancora all’epoca della rissa bipolare tra centrosinistra e destra era possibile imbattersi in qualche analisi spregiudicata e cogliere frammenti di verità tra le righe di commenti o resoconti (purché, beninteso, non si trattasse della santa alleanza con gli Stati uniti e delle guerre scatenate nel nome della democrazia e dei diritti umani), oggi regna invece un’asfissiante concordia. Intorno ai feticci della governance neoliberale – le “riforme” in primis, evocate ossessivamente come una panacea per tutti i mali. Intorno alle figure che la incarnano – dal capo dello Stato al presidente del Consiglio in carica, passando per il presidente della Bce. Intorno alle politiche per mezzo delle quali viene compiendosi la metamorfosi americanista della società, il suo rapido regredire verso assetti postdemocratici, autoritari e oligarchici. Documentarlo sarebbe sin troppo agevole. Basti un banale esperimento. L’attuale premier si è accreditato come l’uomo del cambiamento e, appunto, delle riforme. È un ruolo che sta a pennello a un yuppie della politica, venuto su col logo del rottamatore. Ma questa è una scelta d’immagine, è la sua autorappresentazione. Non dovrebbe costituire il contenuto dell’informazione, la quale avrebbe invece il dovere di entrare nel merito delle sedi20 centi riforme, parola magica che da vent’anni designa i misfatti dei governi nel nome del risanamento. Bene, provate a vedere che succede in proposito, se mai un giornalista, intervistando Renzi o commentandone le debordanti dichiarazioni in schietto stile nientalista, si prende la briga di discutere il criterio in base al quale un provvedimento può definirsi “riforma” e si distingue da un altro che non ne è degno. Riforme erano dette anche quelle del fascismo, che di cose ne cambiò effettivamente molte e in profondità. Non sarebbe allora il caso di costringere chi governa a uscire dalla propaganda e a dichiarare i propri reali intendimenti? Non sarebbe un gesto di rispetto verso lettori e telespettatori incalzarlo, fargli presenti i costi sociali delle sue decisioni oltre che i loro vantati benefici? Non sarebbe questa un’elementare clausola di dignità per chi, facendo il giornalista, non dovrebbe accettare di degradarsi a velinaro, a supino amplificatore della voce del padrone di turno? Ma, parole magiche a parte, il discorso ha una portata ben più vasta. E i possibili esempi si sprecano. È mai possibile che nessuno trovi da ridire quando un membro del governo o del Pd recita la giaculatoria del «40 per cento degli italiani che ci chiedono le riforme»? È decente fingere di non ricordare che in maggio si votò per le europee con la fondata paura della marea fascista, e che a nessun elettore italiano venne in mente allora di concedere al governo cambiali in bianco per sfasciare la Costituzione, fare nuovamente cassa con le pensioni o stravolgere lo stato giuridico del pubblico impiego? Un caso paradigmatico è l’evasione fiscale. Giornali e telegiornali ne parlano, inevitabilmente, quando la Corte dei conti o l’Agenzia delle entrate dirama le solite scandalose cifre che non hanno eguali al mondo. Per la cronaca siamo poco sotto i 190 miliardi di euro sottratti ogni anno alle finanze pubbliche. Visto che i numeri hanno una loro oggettività, il dato dovrebbe dominare la pagina economica. All’opinione pubblica – ammesso che in Italia ne esista ancora una – sarebbe doveroso spiegare quali nessi sussistono tra questo gigantesco ammanco e la drammatica fame di risorse nei bilanci delle pubbliche amministrazioni e delle famiglie dei lavoratori dipendenti. Si dovrebbe chiarire come non sia casuale che, vantando questo record, l’Italia sia anche in cima alle classifiche del debito pubblico, della disoccupazione e della pressione fiscale sul lavoro. Niente di niente, invece. Il tema è tabù. I cittadini debbono restare inerti sotto il bombardamento della narrazione ufficiale della crisi. E così via esemplificando. Nel Mediterraneo si consuma ogni giorno la strage dei migranti. C’è mai qualcuno che, commentando gli spropositi di un ministro o del leghista di turno, rammenti che i migranti non chiedono benevolenza: esercitano un diritto inviolabile? Che a quanti di loro fuggono da guerre e persecuzioni nessuno può legittimamente rifiutare asilo? E che gli Stati che non li accolgono violano norme fondamentali del diritto internazionale? Quanto al terrorismo, largo alle strumentalizzazioni di chi blocca sul nascere ogni discussione al riguardo. Non sia mai che ci si interroghi sulle responsabilità occidentali nella catastrofe mediorientale. E che, di terrorista in terrorista, a qualcuno venga in mente di chiedere conto anche a Netanyahu. Francamente dispiace che la recente polemica tra Grillo e il Tg1 sia stata liquidata anche a sinistra come l’ennesima aggressione di un energumeno. I modi offendono, ma la sostanza resta e meriterebbe ben altra considerazione. Sotto la cappa del potere finanziario transnazionale, amministrato dalla tecno-burocrazia europea e dai suoi proconsoli nostrani, il giornalismo italiano ha perlopiù mutato pelle, acconciandosi alla funzione assai poco onorevole del portavoce zelante. Che divulga e accredita le verità dispensate dall’alto, e con ciò impedisce la formazione di un’opinione pubblica documentata e critica. E non si creda che il riferimento al quadro dei poteri dominanti attesti un nesso cogente. Non vi è alcuna necessità in tale connessione, né vi opera una forza incoercibile. Sono in gioco, al contrario, la libera scelta di ciascuno e la sua responsabilità intellettuale e morale. La patologia di un giornalismo asservito è parte integrante della più grave questione all’ordine del giorno, quella del proliferare delle caste e della corruzione in esse dilagante. 21 CULTURA E SCUOLA Del 27/08/2014, pag. 2 Che impresa, la scuola di Renzi-Giannini! Riforme strutturali. Venerdì scatta l’ora X. Il governo presenterà 29 «linee guida» sull'istruzione. Il Pd: «Non sarà un provvedimento dall’alto». Allarme rosso tra sindacati e studenti. Nella valanga di annunci spuntano i capitoli sulla meritocrazia, stage in azienda e privati tra i banchi, abolizione del precariato dal 2017. La «visione» del governo non produrrà provvedimenti legislativi subito e verrà sottoposta a una consultazione fino a novembre Roberto Ciccarelli La olla mediatica prodotta dagli annunci è riesplosa lunedì al meeting di Cl a Rimini quando il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha ripetuto, senza confermare nulla, che il governo presenterà venerdì prossimo «29 linee guida», una «visione» sulla scuola da oggi fino al «2038». L’autostima dell’esecutivo rischia tuttavia di deludere più di qualcuno. Venerdì non verranno presentati provvedimenti legislativi, ma proposte per una consultazione pubblica e online da svolgere entro novembre. Giusto in tempo per ingrossare la contestazione di piazza da parte di studenti e sindacati. L’Unicobas ha preannunciato uno sciopero il 17 settembre, gli studenti manifesteranno il 10 ottobre e il 14 novembre. La Flc-Cgil convocherà assemblee in tutti gli istituti, com’è avvenuto contro la riforma Gelmini nel 2008, poi nel 2010, infine contro la legge Aprea nel 2012. Lo spartito diventa ogni giorno più chiaro: Renzi liquiderà le mobilitazioni con una battuta sprezzante e tirerà la corda di una riforma dal sapore gelminiano a cui ha aggiunto il vezzo di un cancelletto su twitter. IL RUOLO DEL PD I due mesi previsti per la consultazione finiranno per acuire le tensioni. Ad oggi è prevedibile anche la strategia che seguirà il Pd, il partito che coprirà politicamente l’operazione gestita da Giannini che, dopo le europee, si è dimessa da Scelta Civica, un partito che non esiste più. «Non sarà una riforma calata dall’alto – ha detto ieri la vice presidente della Camera Marina Sereni – coinvolgerà i soggetti che operano nella scuola. Il governo riparte dalla necessità di un nuovo rapporto tra scuola e lavoro, tra scuola e cultura». L’appello all’unanimismo del Pd dovrà affrontare un imprevisto: Flc-Cgil ha rifiutato di partecipare alla consultazione. Segno che gli eventi potrebbero seguire un altro corso. «ABOLIRE IL PRECARIATO» [L’esigenza del governo è trovare una soluzione prima dell’annunciata sentenza della Corte di Strasburgo che comminerà al nostro paese una multa colossale contro lo sfruttamento dei 160 mila docenti precari. Per questo vuole «abolire il precariato», cioè le supplenze brevi dalle graduatorie di istituto, «senza eliminare fisicamente i precari». Una battuta infelice, quella del ministro Giannini, ma che si ridurrà ad un annuncio. L’esaurimento delle graduatorie dovrebbe avvenire attraverso un piano di immissioni in ruolo straordinario e pluriennale per 100 mila persone a partire dal 2017 fino al 2022, cioè dopo l’esaurimento del piano di immissione in ruolo vigente. L’«estinzione» delle graduatorie d’istituto inizierà tra tre anni e avrà tempi a dir poco incerti considerati i numeri e le risorse. Partirà anche una riforma del reclutamento sin dall’università. Per il 2015 si parla di un nuovo «concorsone» che sarà ripetuto ogni due anni, come voleva l’ex ministro Profumo. Sarà una nuova occasione per creare disparità 22 e ingiustizie tra i precari nelle graduatorie e i vincitori del concorso. Sempre che poi si trovino i soldi per assumerli, spalmandoli su più anni com’è accaduto per quello precedente. Tra i progetti dell’esecutivo rientra la creazione di un «organico funzionale» e una «banca del tempo» gestiti da reti di scuole. L’esempio è quello realizzato nella provincia di Bolzano. Ai neo-immessi in ruolo non dovrebbe essere assegnata una cattedra fissa. Per un anno risponderanno «just-in-time» alle chiamate dei dirigenti scolastici per riempire i «buchi» delle supplenze nelle scuole del territorio. Anche per loro lo stipendio potrebbe restare bloccato per i primi 9 anni di carriera. VALUTARE E PUNIRE Si moltiplicano le voci sulla creazione di un sistema di valutazione nazionale delle scuole per settembre 2015 e sull’estensione delle prove Invalsi fino alla maturità. Un progetto perseguito da Francesco Profumo e da Maria Chiara Carrozza e contenuto in uno dei 37 punti della lettera della Commissione Ue al governo Berlusconi nel 2011. Si vuole così chiudere il cerchio con la riforma dell’università. Agli istituti scolastici «eccellenti» andranno più soldi, a quelli che non lo sono verranno tagliati. C’è tuttavia un’incognita: l’Invalsi potrà sostenere questa impresa colossale o il Miur potrà assumere un esercito di ispettori? Improbabile, in tempi di tagli e blocco del turn-over. Un’altra partita riguarda il «modello tedesco», l’alternanza scuola-lavoro, da introdurre dal quarto anno dei tecnici e dei professionali con stage o apprendistato. Un’idea già presente nel «decreto del fare» del governo Letta sottoforma di «sperimentazione» e non lontana dal decreto Poletti che precarizza contratti a termine e apprendistato (sottopagato fino al 60% rispetto ai lavoratori pari grado). Si parla anche di «bonus» per le aziende e finanziamenti privati per i laboratori. C’è poi l’idea di legare gli stipendi dei docenti di ruolo alla loro «produttività». Chi compete guadagnerà di più secondo una tripartizione stipendiale tra docenti ordinari, esperti e senior che dovrebbe sostituire il meccanismo degli scatti stipendiali e del contratto nazionale non rinnovato dal 2009. I «meno bravi», cioè coloro che non avranno accumulato punteggi e «meriti» verranno «puniti». Un’idea che per i sindacati della scuola è come il nefas della tragedia greca. «IL MERCATO GLOBALE» Chiara è un’altra aspirazione ideologica: riformare la legge sulla parità scolastica approvata nel 2000 dal centro-sinistra con Luigi Berlinguer, non in direzione di un rafforzamento della scuola pubblica, ma verso quella opposta: la detassazione per istituti privati e confessionali. «La legge del 2001 non è stata applicata e va ripensata per rispondere a un sistema educativo globale – ha detto Giannini — Il rapporto con le paritarie si risolve insieme senza pregiudizi ideologici». In questa visione, pubblico e privato competono «senza ideologie» come le imprese e il loro rendimento sul mercato «globale» verrà misurato dalle classifiche internazionali. Del 27/08/2014, pag. 7 Chi lavora di più prenderà più soldi rivoluzione del merito ecco come funzionerà SALVO INTRAVAIA ROMA «Chi fa di più prende più soldi». Ecco in estrema sintesi il progetto che sta elaborando la coppia Renzi-Giannini per premiare gli insegnanti che si dedicano di più alla scuola. Il nuovo corso annunciato ieri al meeting di Rimini dal ministro dell’Istruzione 23 Stefania Giannini si basa su un concetto semplice: più soldi alla scuola, ma solo a favore dei docenti e del personale che lavorerà più ore. La “rivoluzione” di cui ha parlato un paio di settimane fa il premier Matteo Renzi su Twitter passa quindi anche per una forma piuttosto blanda di meritocrazia. Meglio che niente, considerato che nella scuola italiana il merito (fra i docenti) non è stato ancora sdoganato. Il motivo è semplice: la normativa attuale ingessa l’intero comparto, ma tra gli addetti ai lavori c’è anche la consapevolezza che ancora nessuno — neppure gli ispettori di fresca nomina — saprebbero dove mettere le mani per assegnare premi “oggettivi” ai migliori insegnanti della scuola. E nessuno si sognerebbe neppure di affidare la patata bollente ai dirigenti scolastici, con “note di qualifica” magari appese a criteri soggettivi. Al momento, il parametro più gettonato per misurare il merito pare sia soltanto quello quantitativo. Per affiancare alla quantità di tempo speso a scuola dagli insegnanti anche la qualità occorrerà aspettare. Il documento di sei pagine che Renzi illustrerà agli italiani venerdì conterrà quindi anche le linee-guida per premiare i docenti. Ma quale potrebbe essere la rivoluzione copernicana che attende i docenti italiani? Non si parte da zero perché qualcosa di scritto c’è già. Il decreto sulle Semplificazioni varato dal governo Monti due anni fa, a partire dall’anno scolastico 2013/2014, si proponeva di potenziare l’autonomia scolastica “anche attraverso l’eventuale ridefinizione degli aspetti connessi ai trasferimenti delle risorse alle medesime, previo avvio di apposito progetto sperimentale”. In che modo? «Potenziandone l’autonomia gestionale secondo criteri di flessibilità e valorizzando la responsabilità e la professionalità del personale della scuola». Ma poi, l’Economia bloccò tutto per mancanza di coperture. In altre parole, alle scuole verrebbero assegnate più risorse che le stesse possono gestire con meno vincoli per migliorare la qualità dell’offerta formativa. I parametri per assegnare le risorse ai docenti esistono già: 50 euro l’ora per i corsi di recupero; 35 per le ore di insegnamento aggiuntive e 17,5 euro per le ore, non di insegnamento, dedicate ad attività di organizzazione e gestione della vita scolastica. Le scuole, nel 2014/2015 riceveranno 689 milioni di euro per le attività destinate al Miglioramento dell’offerta formativa (il Mof), stipendi degli insegnanti esclusi. Così, se una parte del miliardo di euro promesso da Renzi a sostegno del Piano-scuola confluirà nel Mof, un docente che si impegnasse per 100 ore complessive — 3 ore a settimana — tra corsi di recupero, ore di insegnamento aggiuntive e altre attività, dal 2015/2016, potrebbe portare a casa a fine anno un bel gruzzolo: oltre 3mila euro lordi che equivalgono a circa 200 euro netti di stipendio in più al mese. E chi più farà più guadagnerà. Ma chi controllerà? A settembre, per tutte le scuole italiane partirà Vales: il progetto che si propone di individuare «criteri, strumenti e metodologie per la valutazione esterna delle scuole e dei dirigenti scolastici». E dal prossimo anno controllare che i fondi vengano effettivamente spesi per migliorare il servizio scolastico contribuirà proprio Vales, che sfrutterà anche i risultati dei test Invalsi. Del 27/08/2014, pag. 2 10 ottobre, studenti in piazza contro una riforma «gelminiana» Riforme strutturali. Uds e Rete degli Studenti confermano la mobilitazione contro il "pacchetto scuola" Renzi-Giannini che verrà 24 presentato venerdì in Cmd. Reazione veemente contro l'ingresso dei privati, il "modello tedesco" e la gestione aziendalistica del pubblico Roberto Ciccarelli La sottile linea rossa che collega la legge Aprea e il «piano scuola» del governo Renzi provoca una reazione veemente tra le organizzazioni studentesche strutturate: l’Unione degli Studenti (Uds) e la Rete degli Studenti. Loro se lo ricordano bene il Dl Aprea che vide la luce insieme alla riforma Gelmini dell’università nel 2008 e produsse l’indignazione del mondo della scuola con milioni di persone in piazza. Il governo Monti provò a ripescarlo nel 2012, ma fu costretto a ritirarlo grazie ad una nuova mobilitazione degli studenti medi. Stando agli annunci agostani, venerdì l’esecutivo tornerà a riproporre alcune linee caratterizzanti del provvedimento che portava il nome di Valentina Aprea, oggi assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro alla regione Lombardia. Non è passato inosservato l’appoggio di Comunione e Liberazione agli annunci, ancora senza contenuto, del ministro Giannini. Privati a scuola, riforma degli organi collegiali, ruolo manageriale per i dirigenti scolastici. Tanto basta per confermare le manifestazioni in decine di città il 10 ottobre. «Sconcertanti» definisce le dichiarazioni del ministro Danilo Lampis, coordinatore nazionale dell’Unione degli Studenti: «Sembrano voler portare a termine le idee degli ultimi governi Berlusconi sulla scuola pubblica». Per l’Uds è «inaccettabile procedere a nuove agevolazioni sulle scuole private, proprio mentre la scuola pubblica paga le conseguenze peggiori dopo anni di tagli». Si parla di un miliardo di euro per l’edilizia scolastica, solo la metà è disponibile, mentre nemmeno un euro è stato ad oggi speso. «Risorse che non sono nulla rispetto alle reali esigenze – risponde Lampis — non pensino di abbindolare il mondo della scuola e il Paese con piccole concessioni». Il pensiero va agli 8,4 miliardi di euro tagliati da Tremonti-GelminiBerlusconi, mai più rifinanziati dal 2008. «La scuola non può essere un ambiente competitivo, dove va avanti il più forte, ma cooperativo, dove si va avanti assieme. Giannini si rileggesse Don Milani, invece di citarlo senza comprenderlo». L’opposizione è la riduzione della scuola a agenzia di collocamento: «Si attribuisce all’istruzione la responsabilità della mancanza di occupazione – continua Lampis — svilendo la sua funzione pedagogica in favore di uno sterile insegnamento di mestieri». Per Alberto Irone, portavoce nazionale della Rete degli Studenti medi, negli annunci ci sono aspetti «potenzialmente positivi»: nuove assunzioni di docenti, alcune novità sulla didattica e sugli strumenti digitali, un più equo rapporto tra studenti disabili e insegnanti di sostegno. Quello che lo lascia «perplesso» è la necessità «di far convivere scuola pubblica e paritarie come due mondi indispensabili l’uno all’altro, quando però la pubblica è stata massacrata negli ultimi anni». Il rischio è di esasperare «la differenza tra formazione accademica e formazione professionale», assecondando una divisione del lavoro che precarizza sia i saperi professionali che quelli «cognitivi».Quanto all’arrivo dei privati per finanziare scuole e laboratori Irone osserva: «Chi ci garantisce che questi finanziamenti non siano poi vincolati in qualche modo alla volontà esclusiva del finanziatore?». 25