Strinam Svabhava. Un esempio di misoginia al

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Strinam Svabhava. Un esempio di misoginia al
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STRĪṆĀM SVABHĀVA. UN ESEMPIO DI MISOGINIA
AL FEMMINILE.
MARIO RUSSO
La questione femminile nella cultura indiana offre innumerevoli
spunti di riflessione sui rapporti tra le diverse componenti del tessuto
sociale del subcontinente, dai tempi più antichi sino ai nostri giorni.
Il
ricchissimo
patrimonio
letterario
dell’India
permette,
fortunatamente, di definire quale fosse il ruolo della donna
nell’ambito della vita del villaggio, il grāma, e anche del
microcosmo familiare.
Possediamo, quindi, gli strumenti sufficienti per scrivere la storia di
una sconosciuta donna dell’India vedica e delle sue discendenti,
spaziando dalla vita domestica alla vita sociale, dal suo ruolo di
donna nel pieno dell’esistenza come figlia, sposa, madre, alla fine
della stessa, molto spesso come individuo indesiderato di cui la
società auspica la scomparsa.
Il tema centrale di questo studio, inserito nell’ampia tematica dello
studio delle passioni nel mondo indiano, è un aspetto apparentemente
ignoto all’animo femminile: la misoginia. Questa parola, che evoca
un’infinità di stereotipi e credenze ancestrali di cui la donna continua
ad essere vittima, è solitamente, e in tutte le culture del mondo,
esclusivo strumento degli uomini.
In realtà, non è difficile sentir dire, nella nostra società, frasi, o
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ISSN 1724-5230
Volume 8.1 (2010) – pagg. 159-193
M. Russo – “Str
Un esempio di misoginia al femminile”
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meglio luoghi comuni, come: ‘I peggiori nemici delle donne sono le
stesse donne’. Partendo proprio da quest’ultima affermazione, voglio
dimostrare come questo concetto si possa applicare anche all’antica
cultura indiana, la cui eredità è il fondamento dell’India moderna.
Prendendo spunto da un caso particolare, cercherò di definire in quali
termini e su quali comportamenti si basi l’opinione negativa delle
donne rispetto alle altre donne.
Lo spunto di riflessione sulla misoginia femminile è contenuto nello
Śivapurāṇa, nello specifico nel capitolo 24 della Umāsaṃhitā, dove
l’Apsaras bella e lasciva Pañcacūḍā, interrogata dal rigoroso saggio
Nārada, soddisfa le richieste del suo interlocutore e elenca i tanti
mali insiti nell’indole delle donne.
La passione smodata, vissuta o solamente anelata, che l’Apsaras
imputa alle donne, siano esse mogli o concubine, giovani o anziane,
costituirà il bersaglio principale della presunta immoralità femminile.
Non si può non partire, tuttavia, in una discussione su questo tema,
dal caso più famoso di una donna che esprime parole di biasimo
verso il suo stesso genere: la celeberrima frase che l’Apsaras Urvaśī
pronuncia in RV X, 95. Rivolgendosi al mortale Purūravas afferma:
ná vaí straíṇāni sakhyāni santi sālāvṛkāṇāṃ hṛdayāny etā: ‘È
proprio vero, non esistono amicizie con le donne: di iena sono i loro
cuori!’ (SANI 2000: 245).
Queste parole di consolazione per un amore ormai impossibile
suonano come una condanna definitiva. Vedremo come le parole che
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pronuncerà Pañcacūḍā nello Śivapurāṇa saranno molto più violente e
il paragone con le iene risuonerà come un amabile complimento.
La fonte del citato dialogo è collocata nel Mahābhārata, dove il tema
dei difetti delle donne e di come si debbano regolare i rapporti
familiari e sociali è lungamente illustrato nel cosiddetto strīdharma,
il quale occupa molta parte dell’Anuśāsanaparvan. In esso è dato
poco spazio, come ben si può immaginare, ai meno numerosi pregi
femminili.
Yudhiṣṭhira interroga Bhiṣma sulla natura delle donne e se è vero che
esse sono la radice di tutti i mali. Il saggio, perciò, rispondendo
all’eroe, riporta quello che lui definisce “l’antica storia del discorso
tra Nārada e Pañcacū ḍā”, la stessa che ritroviamo complessivamente
identica nello Śivapurāṇa.
Nel Mahābhārata, l’Apsaras inizialmente ammette la sua incapacità
di descrivere l’indole femminile e dice: “Non sono capace, essendo
io stessa una donna, di parlare male delle donne”. Ma questa
premessa verrà ampiamente smentita.
La scelta di soffermarsi sullo Śivapurāṇa e non sul più importante
Mahābhārata è nata dalla riflessione sulla definizione stessa di
Purāṇa e dei destinatari di questo cospicuo numero di opere; come è
noto, il Purāṇa è lo strumento che permette alle donne e agli Śūdra
di conseguire la conoscenza del dharma e del Brahman, essendo
entrambe le categorie umane escluse dallo studio dei sacri Veda
(BOCCALI, PIANO, SANI 2000: 219).
Generazioni di indiane e indiani delle classi inferiori, quindi, hanno
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costruito o consolidato il loro bagaglio culturale leggendo testi che
riportavano in modo eterogeneo e sintetico un’enormità di nozioni,
leggende, ecc., altrimenti contenute in opere sacre e monumentali a
loro inaccessibili.
I Purāṇa hanno diffuso nella società indiana, in maniera molto
capillare, un patrimonio che, sin dall’inizio, era una prerogativa
esclusiva delle classi alte.
È interessante pensare, dunque, alla vastità dei fruitori delle parole di
Pañcacūḍā, alle tante donne che hanno letto di loro, hanno trovato un
riscontro quasi divino alle idee che circondavano le loro vite. Quante
donne ferite o tradite da altre donne, inoltre, avranno creduto a quelle
parole e avuto la prova di quanto affermato dall’Apsaras.
Poche, probabilmente, avranno avuto il sospetto che a reggere i fili
della feroce ninfa ci potesse essere un astuto Brahmano, convinto
assertore e sostenitore di antichi pregiudizi.
Ciononostante, il contributo dei Purāṇa al consolidamento di un
intero sistema di valori fondanti della vita di un Hindū non deve
essere stato marginale. E certo il sospetto o l’astio verso le donne
non è un aspetto secondario di molta parte di questa cultura.
Nella classificazione del corpus purāṇico, lo Śivapurāṇa si colloca
nel gruppo dei Mahāpurāṇa, i quali sono in numero di diciotto,
distinti da un secondo gruppo di opere, dette Upapurāṇa.
Come lo stesso titolo dichiara, lo Śivapurāṇa appartiene alla corrente
settaria śaiva, e in molte liste riportanti i Purāṇa, esso è sostituito dal
Vayupurāṇa, allo stesso modo dedicato al culto del dio Śiva.
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L’opera è suddivisa in sette saṃhitā contenenti materiali di natura
eterogenea.
Questi riguardano in gran parte il culto śivaita e, in particolare, la
venerazione del liṅga, la potenza di Śiva e la sua corrispondenza con
il divino Brahman, le storie legate alle diverse manifestazioni della
Śakti del dio, prima tra tutte il sacrificio di Satī.
Segue una parte dedicata alle imprese belliche di Śiva: si narra,
infatti, della distruzione della città degli Asura, Tripura, o delle
numerose lotte che il dio ha intrapreso per sconfiggere i demoni.
Nella Umāsaṃhitā, una delle parti più interessanti dell’opera intera,
si narra dell’incontro sul monte Kailāsa tra Kṛṣṇa e Upamanyu, i
quali contemplano la potenza di Śiva e denunciano i peccati e le
punizioni che spettano agli uomini. Nella seconda parte della
raccolta, invece, è presente una descrizione dell’universo e dei sette
continenti. Si analizzano la condotta morale dell’umanità e gli aspetti
legati al corpo, alla sua origine e formazione, e i concetti di purezza e
impurità. In questa cornice si colloca il dialogo sulla natura delle
donne, origine di tutti i mali e le calamità della vita di un uomo,
offrendo, tuttavia, la ricetta per attenuarne le conseguenze più
nefaste.
L’opera si conclude con istruzioni su come istituire i vari tipi di
sacrificio e le diverse occasioni in cui eseguirli e con un’ulteriore
descrizione della potenza di Śiva e della grandezza di alcune delle
sue imprese.
Una questione su cui non mi pare opportuno soffermarsi in questo
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lavoro è il problema della datazione dell’opera. Ciò non riguarda
solo lo Śivapurāṇa, ma l’intero corpus purāṇico.
La varietà dei materiali in essi contenuti, alcuni antichissimi e
risalenti alla tradizione vedica, altri invece testimonianze degli
sviluppi settari del pensiero hindū, rendono ardui i tentativi di
attribuzione cronologica di ciascun Purāṇa. A questo proposito,
Winternitz dichiara: “…the Purāṇas undoubtedly reach back to great
antiquity and are rooted in Vedic literature; many a legend, already
familiar from Ṛgvedic hymns and from the Brāhmaṇas, reappears in
the Purāṇas; but, just as undoubtedly, those works which have come
down to us under the title of ‘Purāṇa’ are of a later date”...
(WINTERNITZ 1963: 518).
È, dunque, altrettanto difficile stabilire quale sia la possibile
cronologia del dialogo preso in esame. È certa solo l’antichità che già
nel Mahābhārata era ad esso riconosciuta.
Passiamo dunque alle parole di Pañcacūḍā. Il dialogo è introdotto
brevemente dalla richiesta che Vyāsa, autore del Purāṇa, fa al saggio
Sanatkumāra:
vyāsa uvāca / kutsitaṃ yoṣidartham yatsaṃproktam pañcacū ḍayā /
tanme brūhi samāsena yadi tuṣṭo’si me mune \1\
Vyāsa disse: O Saggio, se sei soddisfatto di me, raccontami in breve
quanto fu detto da Pañcacūḍā riguardo la deprecabile “sostanza”
delle donne.
sanatkumāra uvāca / strīṇāṃ svabhāvaṃ vakṣyāmi śṛṇu vipra
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yathātatham / yasya śravaṇamātreṇa bhavedvairāgyamuttama \2\
Sanatkumāra disse: Ascolta, o Saggio, ti parlerò della natura delle
donne in modo appropriato; proverai grande disgusto dopo avere
ascoltato.
Come si può notare, la stessa premessa anticipa sostanzialmente i
toni che la discussione assumerà con l’ingresso della ninfa. Ma sulla
bocca di due uomini queste frasi non destano stupore. Vyāsa utilizza
l’espressione kutsitam yoṣidartham, che ho voluto di proposito
tradurre con ‘sostanza deprecabile delle donne’. Questo per dare al
termine artha un valore di ‘essenza più profonda’, quasi come se il
narratore si chiedesse il motivo stesso dell’esistenza del genere
femminile, oltre che della sua utilità nel mondo.
A mio parere, inoltre, la scelta di porre all’inizio del racconto il
termine yoṣit non è casuale (MACDONELL, KEITH 1982: 485);
esso ha una chiara valenza morale, indicando una donna né troppo
giovane né troppo vecchia, ma una ragazza nubile pronta per il
matrimonio, dotata quindi delle armi di seduzione ritenute lesive del
maschio, se non frenate da un attento controllo familiare e sociale.
Sanatkumāra adotta, al contrario, un registro più ‘ecumenico’,
annunciando che egli soddisferà le richieste a lui rivolte e, quindi,
parlerà dello strīṇām svabhāva, la natura di tutte donne, senza
distinzione di età. Egli, perciò, utilizza il più comune strī, il quale
non fa distinzioni in base allo status sociale o comportamentale della
donna.
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Il sapiente conclude annunciando l’esito della loro conversazione, un
vairāgya uttama, ‘profondo, estremo disgusto’, che farà impallidire
l’assennato Vyāsa.
striyo mūlaṃ hi doṣāṇāṃ laghucittāḥ sadā mune / tadāsaktirna
kartavyā mokṣepsubhiratandritaiḥ \3\
O saggio, da sempre le donne hanno “poco cervello”, sono la radice
dei mali. Coloro i quali stanno in guardia e desiderano ottenere la
liberazione non devono provare devozione (per loro).
Benché fosse più corretto tradurre l’attributo laghucitta rivolto da
Sanatkumāra
al
genere
femminile
con
un
aggettivo
che
esemplificasse la sua leggerezza di mente e spirito, ho pensato di
renderlo con un’espressione colloquiale e molto spesso abusata in
italiano,
ossia
‘poco
cervello’.
Ho
trovato
esilarante
la
corrispondenza di un luogo comune così radicato anche in una
cultura tanto lontana dalla nostra e in un testo tanto remoto
cronologicamente.
La seconda parte dell’affermazione del saggio ribadisce un concetto
già presente in un altro brano della Umāsaṃhitā, precisamente nel
capitolo 6, dove sono elencati i diversi tipi di peccati, tra cui si cita
‘la servitù alle donne o l’intrattenersi con esse con mezzi
fraudolenti’.
L’uomo che intenda perseguire il mokṣa dovrà seguire delle regole
morali e certo la compagnia delle donne ne pregiudica l’ottenimento.
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Nei tre brevi scambi che abbiamo analizzato sono già presenti
numerosissimi elementi che, se nessuno conoscesse anche in parte la
condizione antica e moderna della donna in India, basterebbero a
delinearne un quadro preciso.
A questo punto, però, entra in scena la protagonista Pañcacūḍā,
definita dal narratore puṃścalī, la ‘prostituta’ che ronza intorno agli
uomini, colei che stigmatizzerà i torti delle donne.
Nārada, suo interlocutore, si trova di fronte una donna bellissima, lo
stereotipo della ninfa celeste diffuso in tutta la letteratura indiana.
Ella possiede i classici attributi delle Apsaras, è detta bālā e
anuttamā ‘giovane e insuperabile in bellezza’, da sempre strumento
di perdizione per dèi, saggi e comuni mortali.
In tutta la tradizione letteraria indiana, le Apsaras sono l’oggetto
della passione più carnale, quasi costrette nel ruolo di seduttrici dalla
bellezza irresistibile. Esse sono l’emblema delle donne dai poteri
oscuri, il loro scopo, in molti casi, è il plagio dell’uomo e
l’appagamento del desiderio.
Se da un lato i grandi saggi e gli dèi stessi invitano l’uomo all’ascesi
e alla ricerca della liberazione finale, dall’altro, nel timore che la
potenza da loro ottenuta con una condotta ferrea e di rinuncia sia una
minaccia, utilizzano le ninfe come arma di distrazione.
Di fronte alla ritrosia di Pañcacūḍā, convinta di non essere adatta a
descrivere la natura delle donne, Nārada insiste e la cortigiana cos
ì
esordisce:
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pañcacūḍovāca / mune śṛṇu na śakyā strī satī vai nindituṃ striyā /
viditāste striyo yāśca yādṛśyaśca svabhāvataḥ \10\
Pañcacūḍā disse: O saggio, ascolta. Poiché io sono una donna, non
certo posso censurare le donne. Tu sei a conoscenza di quale sia la
loro natura.
na mām arhasi devarṣe niyoktuṃ praśnamīdṛśam / ityuktvā
sā’bhavastūṣṇīṃ pañcacūḍāpsarovarā \11\
O Devarṣi, non è giusto che risponda io a questo quesito. Dopo avere
così parlato, la bellissima Apsaras Pañcacūḍā rimase in silenzio.
na śakyā strī satī vai nindituṃ striyā: queste parole hanno due
possibili interpretazioni, certo opposte, ma entrambe coerenti con il
tono del dialogo. Se pensiamo alla ninfa nella sua immagine più
classica, ossia come donna dal destino già stabilito e come strumento
divino di corruzione dell’uomo, il ribadire la sua natura appare come
una tacita rassegnazione a ciò che è immutabile. La seconda
interpretazione, a parer mio, nasconderebbe una sottile ironia nonché
la consapevolezza di Pañcacūḍā di essere migliore delle altre donne.
La modestia e la presunta incapacità di parlare di un argomento così
noto al genere maschile sono solo un espediente che renderà ancora
più efficace la forza delle sue parole. Ella si definisce strī satī;
benché satī possa non riferirsi, in questo contesto, alla pratica del
suicidio della vedova, esso richiama involontariamente un concetto
ritenuto di altissimo valore morale.
La ninfa è, in questo caso, l’immagine simbolica di come l’uomo
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vorrebbe la donna. Questo rende ovvia l’idea che questa Apsaras non
sia nient’altro che la voce di un uomo, il quale regge i fili della
marionetta- Pañcacūḍā, in un’ipotetica rappresentazione di un genere
teatrale tanto famoso e amato in India.
L’infinito ninditum rende ancora più subdolo l’intento del discorso.
Con esso si può censurare o, in un altro senso, ridicolizzare la natura
delle donne. I contenuti del dialogo consentono di giustificare
entrambe le ipotesi.
Sempre nella nostra ipotetica rappresentazione teatrale l’effetto delle
parole dette avrebbe suscitato nel pubblico una folta gamma di
sentimenti. Senza tralasciare la severa censura suggerita dalla statura
morale dei personaggi, il gusto del ridicolo non sarebbe certo
mancato.
Vinti i dubbi dell’interlocutrice, la discussione prosegue:
nārada uvāca / mṛṣāvāde bhaveddoṣassatye doṣo na vidyate / iti jānī
hi satyaṃ tvaṃ vadātastatsumadhyame \13\
Nārada disse: Nel dire il falso c’è il male, non nel dire la verità.
Perciò, o donna dai bei fianchi, dì la verità.
sanatkumāra uvāca / ityuktā sā kṛtamatī rabhasā cārūhāsinī /
strīdoṣāñśāśvatānsatyān bhāṣitum saṃpracakrame \14\
Sanatkumāra disse: Cos
ì detto, risoluta e con impeto, sorridendo
dolcemente iniziò a dire i veri eterni mali delle donne.
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L’ambivalenza di Pañcacūḍā è su due piani: caratteriale e fisico.
Nello stesso tempo è descritta come kṛtamatī e rabhasā,
interiormente risoluta e presa dal fervore delle sue convinzioni, in
una cornice fisica di leggiadria e dolcezza.
Colpisce il termine con cui Nārada apostrofa la ninfa; egli la
definisce jānī, non semplicemente donna, ma anche madre.
Probabilmente, questo attributo rientra in un tentativo di ingraziarsi
la donna per farle esprimere le sue idee. L’obiettivo è raggiunto e
Pañcacūḍā è pronta a elencare le tante
‘qualità’ del genere
femminile, i veri, eterni mali delle donne, gli strīdoṣāñśāśvatānsatya.
pañcacūḍovāca / kulīnā nāthavantyaśca rūpavantyaśca yoṣitaḥ /
maryādāsu na tiṣṭhanti sa doṣaḥ strīṣu nārada \15\
Pañcacūḍā disse: O Nārada, né le donne nobili, né quelle che hanno
un marito, né quelle che hanno un bell’aspetto, si mantengono nei
limiti della moralità: questo è il male delle donne.
na strībhyaḥ kiṃcidanyadvai pāpīyastaramasti hi / striyo mūlaṃ hi
pāpānāṃ tatha tvamapi vettha ha \16\
Non c’è nient’altro di peggiore delle donne. Certo tu sai che le donne
sono la radice dei mali.
Il bersaglio principale è subito individuato: la morale sessuale, o
meglio l’immoralità. Torna nuovamente il termine yoṣit, e gli
attributi della fanciulla giovane e bella, facilmente vista come
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strumento di perdizione, completano il quadro.
I limiti della moralità sono travalicati, innanzitutto, dalle più
fortunate, le kulīnā, nāthavatī, rūpavatī, ossia le nobili, le maritate e
le belle, senza dubbio quelle che prime tra tutte possono agevolmente
trasgredire.
E, dicendosi certa della assennatezza del saggio Nārada, la ninfa
sintetizza il suo pensiero definendo le donne mūla pāpānām, ‘radice
dei mali’.
Da questo punto in poi sono passate in rassegna i tipi femminili
principali e i loro comportamenti. Si parla principalmente della
sposa; nella maggior parte dei casi si pone come termine di paragone
il marito, ossia l’atteggiamento che la moglie ha nei suoi confronti.
Si stigmatizza soprattutto la facilità dei tradimenti, con il corpo o
solo con la mente, ritenendo il secondo molto più grave del primo.
samājñātān
arthavataḥ
pratirūpān
yathepsitān
/
yatīn
antaramāsādyanālaṃ nāryyaḥ pratīkṣitum \17\
Se hanno un’opportunità, pur avendo mariti devoti, gradevoli,
bellissimi e conosciuti per le loro ricchezze, le donne non sono in
grado di guardare con indifferenza (altri uomini).
asaddharmastvayam strīṇāṃasmākam bhavati prabho / pāpīyaso
narān yadvai lajjām tyaktvā bhajāmahe \18\
O signore, questo è dunque il cattivo costume di noi donne:
abbandonando la vergogna, ci concediamo agli uomini peggiori.
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Curiosamente, in queste due strofe ritroviamo imputato alle donne un
comportamento ritenuto generalmente maschile. Qui, infatti, la
donna diventa la predatrice che non si lascia sfuggire qualsiasi
occasione le si presenti, lasciando anche il marito più bello e ricco
tradito in un angolo. Come se non bastasse, esse vengono dipinte
come delle avventurose libertine, protagoniste di torbide relazioni
con loschi figuri.
E questo atteggiamento maschile delle donne sembra volutamente
richiamato dal termine nārī (MACDONELL, KEITH 1982: 485) con
cui vengono indicate in questo passo. Una parola del tutto simile, nel
significato, al più comune strī, ma etimologicamente connesso con il
‘maschio’.
striyaṃ ca yaḥ prārthayate sannikarṣaṃ ca gacchati / īṣacca kurute
sevāṃ tamevecchanti yoṣitaḥ \19\
Le donne desiderano l’uomo che vuole un contatto con loro, che si
avvicina a loro o si mette un po’ a loro servizio.
anarthitvān manuṣyāṇāṃ bhayāt patijanasya ca / maryādāyām
amaryādāḥ striyas tiṣṭhanti bhartṛṣu \20\
Le donne non hanno limiti nella condotta morale: rimangono con i
mariti o per l’impossibilità di ricavare profitto dagli (altri) uomini o
per paura (degli stessi).
Da cacciatrice indomita, questi due śloka ci offrono un’immagine
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della donna nel suo microcosmo familiare. Non più pronta a cercare
la compagnia degli uomini peggiori, ma subdola sfruttatrice di
chiunque si metta al suo servizio. Il marito recupera lo status di
padrone, ora è detto pati e bhartṛ, colui che possiede e protegge la
donna e la casa, il signore del più antico concetto patriarcale vedico
della famiglia. Egli frena le aspirazioni femminili non perché la
moglie sia pia o casta, ma perché suscita il bhaya, la paura della
reazione.
È sempre presente, tuttavia, il pregiudizio palese nei confronti della
donna che si snoda in tutto quello che è detto. In questo passo
l’autore sottolinea come, nonostante i freni sociali e familiari che la
donna incontra, la sua natura infida sia sempre in agguato.
nāsāṃ kaścidamānyo’sti nāsāṃ vayasi niścayaḥ / surūpaṃ vā
kurūpaṃ vā pumāṃsam upabhuñjate \21\
Chiunque è degno di loro, e non si accertano dell’età (dell’uomo).
Divorano sia gli uomini di bell’aspetto, sia quelli brutti.
na bhayād atha vākrośānnārthahetoḥ kathaṃcana / naātijñ
kulasambandhā striyastiṣṭhanti bhartṛṣu \22\
Le donne di nobile origine rimangono unite ai mariti, non per paura
degli insulti, né tanto meno a causa del senso comune.
Con queste parole di profondo disprezzo Pañcacūḍā riduce la donna,
secondo la sua visione, a un animale dai tratti mostruosi, quasi una
demonessa che divora la carne delle sue vittime. Non a caso, ella
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sintetizza così il suo pensiero: sūrupaṃ vā kurūpaṃ vā pumāṃsam
upabhuñjate. Il pasto della demonessa non fa distinzione, gioisce
divorando belli e brutti, poiché, come aveva affermato in precedenza,
non si accontenta neppure del marito più bello o più ricco.
La strofa 22, al contrario, è ambigua e non è chiaro il senso di ciò
che viene detto. È plausibile che si sottintenda che le donne di nobili
natali rimangono con i mariti per non perdere i benefici della loro
condizione, più che per la paura di essere denigrate o per rispetto del
dharma.
yauvane
vartamānānāmiṣṭābharaṇavāsasām
/
nārīṇām
svairavṛttīnāṃ spṛhayanti kulastriyaḥ \23\
Le donne di nobili natali provano invidia per le donne sfrenate, le
quali indossano vestiti adorabili e in gioventù si muovono con
gentilezza.
yā hi śaśvadbahumatā rakṣyante dayitāḥ striyaḥ / api tāḥ
samprasajjante kubjāndhajaḍavāmane \24\
Anche le donne amate, grandemente stimate e continuamente
protette, anche quelle desiderano storpi, ciechi, stupidi e nani.
Sebbene non siano espressamente citate, entrano in scena le
cortigiane, le belle e colte intrattenitrici che tanta parte hanno in tutta
la letteratura indiana. Nei loro confronti sembra esserci un
atteggiamento di tolleranza, anzi, l’Apsaras, pur ricordando il loro
essere sfrenate, immediatamente dopo ricorda la grazia e l’eleganza
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di cui sono detentrici.
Sono messe a confronto la kulastrī, la ‘donna nobile’, e la nārī
svairavṛtti, ‘quella che non ha freni’; tuttavia, l’obiettivo non è la
fustigazione dei costumi della cortigiana, ma i desideri mal celati
della ricca signora. A parità di condizione, il palesamento di un
comportamento è meno grave di un altro solo ipotizzato o
fantasticato.
Le donne, ormai ritenute da Pañcacūḍā esseri irrazionali, in balia
delle forze oscure dentro di loro, si rivolgono agli uomini più infimi,
quasi a completamento di un disegno mostruoso della natura. Sono
elencati i principali tipi maschili da cui le donne sarebbero attratte:
kubja, andha, jaḍa e vāmana, rispettivamente ‘storpi, ciechi, stupidi
e nani’.
paṅguṣvapi ca devarṣe ye cānye kutsitā narāḥ / strīṇāṃagamyo
lokeṣu nāsti kaścin mahāmune \25\
O Devarṣi, insieme agli zoppi diventano persone vili. O grande
saggio, non c’è niente nei mondi da evitare più delle donne.
yadi puṃsāṃ gatirbrahmankathaṃcinnopapadyate / apyanyonyaṃ
pravartante na ca tiṣṭhanti bhartṛṣu \26\
Nel caso in cui, o Brahmano, non riescono ad ottenere gli uomini
(desiderati), certamente si tengono impegnate con un altro, e non
stanno con i mariti.
Certo non manca, dopo un elenco così lungo delle più basse attitudini
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femminili, un sunto del pensiero generale di questo dialogo, prima di
passare ad un’altra serie di denunce. La ninfa, infatti, ricorda al suo
interlocutore che in ciascuno dei mondi esistenti, nulla è da tenere
più lontano della donna: strīṇāṃ agamyo lokeṣu nāsti kaścit.
I mariti che proteggono e curano una moglie-mostro non sono mai
l’oggetto del desiderio femminile, al contrario, sono in ogni caso
sostituiti da un maschio anche privo di ogni qualità, fisica e psichica.
alābhāt puruṣāṇāṃ ca bhayāt parijanasya ca / vadhabandha
bhayāccaiva tābhagnāśā hi yoṣitaḥ \27\
Le speranze delle donne si infrangono per la mancanza di uomini,
per paura della servitù, per paura della morte e delle catene.
calasvabhāva duśceṣṭā durgāhyā bhavatas tathā / prājñasya
puruṣasyeha yathā ratiparigrahāt \28\
Poiché si intrattengono in rapporti sessuali, agli occhi dell’uomo
saggio e gentile esse diventano incomprensibili, portano il male e
sono di natura sfrenata.
Chi ha realmente in mente l’Apsaras mentre parla di sé e delle altre
donne? Sembra che non sia mai esistito il modello della moglie e
della madre indiana, tacita presenza all’interno delle pareti
domestiche.
Ci viene presentata come unicamente dedita al soddisfacimento dei
desideri carnali, abile calcolatrice, bhagnāśā, ossia frustrata nelle sue
speranze, sempre preda della paura, il bhaya che già in precedenza
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abbiamo incontrato. Ora, però, l’uomo, il marito non è il solo freno,
ma insorge la paura della privazione della libertà, della morte.
È ossessivo il ricordo del male insito nella radice stessa della natura
femminile, è, per così dire, un mantra ripetuto costantemente, in cui
gli elementi nuovi sono sempre meno di quelli più e più volte
ricordati.
Lo spettro della sessualità femminile si scontra con l’ascesi e
l’astinenza del saggio, il quale addirittura considera le donne
durgāhya, incomprensibili, e la loro essenza insondabile.
Sembra voluto, in questo passo, il riferimento alla terrificante dea
Durgā, la dea inaccessibile, moglie di Śiva, temutissima dai suoi
fedeli.
Quella delle donne è un calasvabhāva, una natura instabile e
fluttuante, la quale rimane un mistero anche per gli uomini più
avveduti.
nāgnistuṣyati kāṣṭhānāṃ nāpagānāṃ mahodadhiḥ / nāntakas
sarvabhūtānāṃ na puṃsāṃ vāmalocanāḥ \29\
Il fuoco non trae soddisfazione dai ciocchi di legna, il grande oceano
dai fiumi, Yama da tutte le creature, le donne dai begli occhi dagli
uomini.
idamanyacca devarṣe rahasyaṃ sarvayoṣitām / dṛṣṭvaiva puruṣaṃ
sadyo yoniḥ praklidyate striyāḥ \30\
O Devarṣi, questo è un altro segreto delle donne: nel momento stesso
in cui vedono un uomo, la vagina diventa umida.
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Lo śloka 29 mette in risalto la voracità e l’incapacità delle donne di
appagare i loro desideri, paragonandole addirittura all’insaziabilità
del dio della morte. Come Yama, infatti, divora gli esseri viventi
senza mai soddisfare il suo desiderio di vite, così la donna, detta qui
vāmalocanā, dallo sguardo dolce e apparentemente onesto, non si
accontenta mai degli uomini.
Come agni e mahodadhi, il fuoco e il grande oceano, che ricevono
legna e acqua, non smettono di volere altra materia, così le voglie
delle donne non si placano.
Nella strofa 30, l’Apsaras accenna soltanto quello che spiegherà con
più dettagli successivamente. Si limita ad affermare che alla vista di
un uomo yoniḥ praklidyate, ma va oltre e spiega meglio ciò che
intende.
susnātaṃ puruṣaṃ dṛṣṭvā sugandhaṃ malavarjitam / yoniḥ
praklidyate strīṇāṃ dṛteḥ pātrādivodakam \31\
Vedendo un uomo ben pulito dopo un bagno, privo di sporco e
profumato, la vagina delle donne diventa umida, come acqua (che
trasuda) da un vaso di pelle.
kāyānāmapi dātāraṃ karttāraṃ māna sāṃtvayoḥ / rakṣitāraṃ na
mṛṣyanti bhartāraṃ paramaṃ striyaḥ \32\
Le donne non tollerano affatto l’uomo che le sostiene, che le
protegge, che dà loro tutto e le rispetta con parole dolci.
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In questa parte conclusiva del dialogo, Pañcac
ū ḍā illustra a Nārada
gli effetti sul corpo femminile della vista di un uomo e, se in un
primo momento si era limitata a focalizzare l’attenzione sul
fenomeno in sé, ora aggiunge: susnātaṃ puruṣaṃ dṛṣṭvā sugandhaṃ
malavarjitam, yoniḥ praklidyate strīṇāṃ dṛteḥ pātrāt iva udakam
(31).
Ho voluto riportare interamente la strofa 31 per dare un’idea
dell’estrema chiarezza del concetto espresso dal testo sanscrito, di
cui non serve dare alcuna interpretazione.
All’aspetto razionale e intellettivo della tanto ricordata corruzione
femminile si unisce il lato fisico, con la minuziosa descrizione delle
manifestazioni corporali.
I piani caratteriale e fisico si intersecano nuovamente nella strofa 32,
dove si ribadisce la volubilità delle donne e l’estrema insofferenza
che provano verso l’uomo mite, soprattutto il marito, il bhartṛ.
na kāmabhogāt paramānnālaṃkārārthasaṃcayāt / tathā hitaṃ na
manyante yathā ratiparigrahāt \33\
Le donne pensano che niente, né una collezione di ricchezze né di
gioielli, né la più grande gratificazione dei desideri, valga più dei
rapporti sessuali.
antakaśśamano mṛtyuḥ pātālaṃ vaḍavāmukham / kṣuradhārā viṣaṃ
sarpo vahnirityekataḥ striyaḥ \34\
Le donne singolarmente sono il fuoco, il serpente, il veleno, il bordo
del rasoio, il fuoco sottomarino Pātāla, Mṛtyu, Yama, Antaka.
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Il ratiparigraha, ovvero la capacità di avere più rapporti sessuali
possibili, è il loro scopo primario. Nessun desiderio ha motivo di
essere appagato più della carne, l’unico dio che riconoscono è Kāma.
La rappresentazione finale che l’Apsaras dà del genere femminile è
emblematica. Come abbiamo visto in tutto il dialogo, o meglio nel
monologo di Pañcacūḍā, il passaggio dal piano fisico al piano morale
è quasi regolare.
Nelle battute finali, invece, la natura femminile è presentata come il
crogiolo degli elementi più pericolosi e mortali dell’universo.
Nello śloka 34, infatti, ogni singola donna è paragonata ad elementi
negativi, mostruosi o a divinità ferali. Sono parole che evocano
morte e rovina.
Il potere che si attribuisce alle donne è smisurato. Ciascuna di esse
può scatenare una potenza distruttiva paragonabile a quella delle
divinità degli inferi e del fuoco. Sono chiamati in causa Yama, il
serpente, il suo potente veleno.
Spesso, nelle parole dell’Apsaras, il confronto con il serpente è
sottinteso. In molti casi, infatti, ella aveva presentato la donna come
insinuante e strisciante, apparentemente innocua ma, in realtà,
sempre in agguato e abile tessitrice di trame.
yataśca bhūtāni mahānti pañca yataśca loko vihito vidhātrā / yata ḥ
pumāṃsaḥ pramadāśca nirmitāḥ sadaiva doṣaḥ pramadāsu nārada
\35\
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O Nārada, sebbene i cinque grandi elementi e il mondo siano stati
creati da Brahmā, e gli uomini e le donne siano stati da Lui creati, il
male è sempre nelle donne.
L’incontro dei due personaggi così si conclude. Brahmā stesso, nella
sua funzione di vidhātṛ, ossia creatore del mondo e del destino di
ogni essere, nulla ha potuto per rendere meno dannosa la stirpe delle
donne, pur sempre una sua creatura.
Ironicamente, nell’ultima strofa, e solo in questo caso, Pañcacūḍā
utilizza il termine pramadā, che sì ha il senso generale di donna, ma
che letteralmente indica ‘colei che dà il piacere, la gioia’, e anche
‘colei che rende folli, ebbri’.
La capacità di rendere folli, in primo luogo tramite la condotta
sessuale, rende il genere femminile, a detta proprio di una donna,
potente al punto che anche gli dèi non possono controllarla.
Il ritratto che emerge da questo brano dello Śivapurāṇa e
dall’omologo del Mahābhārata è senza dubbio raccapricciante.
Riassumendo, la donna è presentata come un animale, subdolo,
strisciante, pronto a divorare le sue vittime, senza alcuna moralità. Il
corpo risponde solo agli istinti più primordiali, la razionalità è usata
al solo scopo di trarre vantaggio da ogni situazione e il sentimento è
del tutto assente.
L’arma di seduzione, o meglio di conquista, sono gli occhi. La
sessualità qui descritta è principalmente visiva; infatti, alla reazione
della vista risponde quella degli organi sessuali, escludendo l’apporto
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degli altri sensi.
La ninfa insiste molto sulla mancanza di freni inibitori, non esiste
morale o paura in grado di arginare i comportamenti delle donne.
Quello che più stupisce leggendo questo brano, soprattutto ai nostri
occhi, è la facilità con cui si possono mutare i termini di paragone e
riferire le stesse identiche parole al comportamento maschile. Ciò
che la nostra protagonista imputa a sé e alle altre donne coincide con
un modello maschile di cui spesso sentiamo parlare nella nostra
società. Secondo gli stereotipi classici, è l’uomo che non si cura dei
sentimenti, colleziona prede una dopo l’altra, ha il solo scopo di
soddisfare i propri istinti.
Abbiamo letto di mariti infelici lasciati a casa da mogli in giro a
caccia di prede facili, ignari di avere accanto una persona senza
scrupoli. Certamente ci saremmo stupiti meno se avessimo letto il
contrario.
Questo emblematico caso di misoginia, per di più femminile, rimane,
tuttavia, un fatto isolato all’interno dello Śivapurāṇa, almeno nei
termini incontrati. La maggior parte delle storie con protagoniste
delle donne hanno tinte diverse e offrono anche esempi di grande
virtù, sebbene non manchino storie di perfide madri o mogli gelose o
assassine.
Riporto in sintesi qualche esempio delle numerose storie con
protagoniste
le
donne
distribuite
in
tutta
l’opera.
In
Śatarudrasaṃhitā 26 si narra la vicenda della bellissima e molto
devota prostituta Mahānandā, le cui àqualit
fisiche e morali
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deliziavano re e regine, umili e ricchi. Il suo amore per il dio Śiva la
spingeva a compiere quotidianamente i più rigorosi rituali, tra cui la
recita dei nomi del Signore, oltre a danze e canti in Suo onore.
Spinto dalla voglia di mettere alla prova le virtù della donna,Śiva si
incarnò in un mercante e si presentò alla sua porta. Accolto con i più
grandi onori e la massima riverenza, il mercante notò l’interesse
della prostituta per il bellissimo bracciale che egli portava al polso,
ricco di gemme.
Mahānandā espresse senza esitazione il desiderio di possedere quel
monile e Śiva, sotto mentite spoglie, le chiese quale prezzo avrebbe
pagato per impossessarsene.
Ella rispose che sarebbe stata sua moglie per tre giorni e per tre notti,
svolgendo tutte le mansioni che competono ad una legittima
consorte. Il mercante acconsentì e oltre al bracciale le consegnò una
immagine del fallo divino a cui dichiarò di essere molto legato.
La prostituta collocò il liṅga nel mezzo della sala dove eseguiva le
sue danze e andò a letto.
Durante la notte, l’immagine sacra si incendiò e tutto intorno fu
avvolto dalle fiamme. Colpito da una grande paura per l’evento e
interpretandolo come un segno divino, il mercante-Śiva annunciò
alla moglie che desiderava morire tra le fiamme di una pira che
avrebbe dovuto far costruire fuori dalla casa.
Alla notizia Mahānandā prov
ò un profondo dolore e maturò la
decisione di accompagnare il marito nella morte, come si addice ad
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una pia moglie. Sebbene le loro nozze fossero avvenute in una
maniera insolita e solo per tre giorni, sentiva il dovere di seguire la
sorte del marito. Impressionato dalla risoluzione della donna, Śiva
infine si manifestò nella sua forma universale e chiese alla devota
cosa desiderasse come ricompensa. Ella disse che non avrebbe
desiderato altro che essere condotta insieme al suo seguito nelle
regioni celesti e evitare il ciclo delle rinascite. Il dio acconsentì.
In questo episodio si nota nuovamente l’atteggiamento di tolleranza
nei confronti delle prostitute, di cui addirittura si elogiano la
devozione religiosa e la dedizione matrimoniale tipiche della sposa e
della madre, in contrasto con le demoniache donne, apparentemente
nobili e caste, descritte da Pañcacūḍā.
Nei capitoli 3 e 4 della Koṭirudrasaṃhitā, è presentata la storia della
casta Anasūyā, moglie devota di Śiva e del marito Atri. Essi
vivevano nella foresta Kāmada sulla quale imperversava un vento
fortissimo che rendeva impossibile la vita di tutti gli esseri. La
coppia praticava una severissima ascesi; entrambi erano devoti di
Śiva e non risparmiavano nessuna energia pur di venerarlo. La
moglie, in realtà, superava il marito in dedizione e purezza. Erano
diventati l’esempio della perfetta ascesi. Un giorno Atri le chiese
dell’acqua, ma Anasūyā, non sapendo dove procurarsela cadde nella
disperazione.
Mentre vagava per la foresta, incontrò una bellissima fanciulla sotto
le cui sembianze si celava la dea Gaṅgā, compiaciuta della santità di
quella donna. La dea le concesse dell’acqua e Anasūyā la port
ò ad
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Atri, il quale immediatamente ne riconobbe il potere divino. La
donna raccontò l’evento al marito, ma egli, incredulo, volle verificare
di persona quanto ascoltato. La moglie lo accompagnò nel luogo
dell’incontro con la dea ed essi trovarono Gaṅgā ancora ìl che li
attendeva. Quell’acqua, disse la dea, era la ricompensa per la grande
castità di Anasūyā, una dote che Ella apprezza più di ogni altra.
Meno positivo è l’episodio narrato in Koṭirudrasaṃhitā 32-33, i cui
protagonisti sono il Brahmano Sudharman e sua moglie Sudehā. Pur
essendo entrambi fervidi devoti di Śiva, la loro dedizione al dio non
era stata premiata dalla nascita di un figlio, mancanza che rendeva
triste principalmente la vita della donna. Duramente attaccata da una
vicina di casa proprio per la sua sterilità, āSudeh
cadde in un
profondo sconforto, tanto da accettare che il marito prendesse una
seconda moglie che certamente avrebbe concepito un figlio. Fu così
che spinse Sudharman a sposare la sorella minore, Ghuśmā, dalla
quale nacque il tanto atteso figlio, bellissimo e pieno di tutte le
qualità. Nel cuore di Sudehā, tuttavia, cresceva l’odio e l’invidia per
la sorella e il bambino, per l’amore di Sudharman verso la nuova
moglie.
Offuscata da tutti questi sentimenti, Sudehā si reca nella stanza del
figliastro e lo uccide, facendo a pezzi il corpo e lanciandolo nel lago
vicino casa. Grande fu lo stupore quando si scoprì il delitto, sebbene
i genitori, nella piena devozione e contemplazione di Śiva, non
ebbero eccessive reazioni di dolore. Mentre la povera madre si
recava sulle sponde del lago dove era stato gettato il corpo del figlio,
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ella lo vide vivo, seduto sulla riva, e nello stesso tempo ebbe una
visione di Śiva che le ònarr
tutto quanto accaduto e il nome
dell’assassino. La donna, tuttavia, chiese al dio di risparmiare la vita
della sorella maggiore, e di avere come ricompensa del dono della
vita del figlio la presenza costante del dio in quel luogo con il suo
nome. Fu così che
Śiva assunse la forma fallica denominata
Ghuśmeśa, che avrebbe garantito felicit
à e ricchezze a molte
generazioni.
Sudehā e Ghuśmā incarnano i due opposti modelli femminili sin qui
incontrati: la prima in apparenza moglie devota e molto religiosa, ma
in realtà rancorosa e piena di odio, l’altra perfetto esempio di tutte le
migliori qualità, tra cui il perdono.
Non bisogna tralasciare, inoltre, la grande importanza data nell’opera
all’elemento femminile di Śiva, spesso presentato nel suo aspetto di
Ardhanārīśvara, ossia met
à uomo e metà donna. La sua parte
femminile è espressamente definita ‘l’elemento eccellente che
completa l’opera del Creatore’. Senza la divina Śivā, Śakti del dio
Supremo, la creazione fino a quel punto approntata da Brahmā era
resa vana dall’incapacità degli esseri di riprodursi. Sebbene il dio
sapesse di dover continuare la creazione per mezzo delle coppie, Egli
non era in grado di procedere. Con grande meditazione Brahmā
pensò a Śiva e alla sua Śakti, per mezzo della quale sarebbe potuta
esistere la copulazione.
Grazie alla sua ascesi ottenne dalla dea Śivā il potere di creare la
stirpe delle donne e mettere in atto la copulazione e la generazione.
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Bisogna sottolineare, tuttavia, come sin dal mito della creazione della
donna, l’immagine che se ne ha non è omogenea, ma parziale. Le
parole di Pañcac
ū ḍā appaiono come il risultato del fallimento
dell’immagine della madre feconda e fedele, suonano come la
vendetta di un principio patriarcale tradito, che vede nella sessualità
della donna la fonte dell’onore e del rispetto (ROSSELLA 2002: 1).
Nell’ottica del mito, la ‘femmina’ viene al mondo per completare il
‘maschio’, perché il maschio possa procreare.
A conferma di come tutto ciò sia vero non solo nel mito ma anche
nella vita reale, riporto la definizione della donna in Manusmṛti IX,
33: ‘La tradizione sacra dichiara che la donna è il terreno, l’uomo il
seme; la produzione di tutti gli esseri corporei ha luogo tramite
l’unione del seme con il terreno’. E prosegue nella strofa 35:
‘Confrontando il seme e il suo ricettacolo, il seme è considerato più
importante; la progenie di tutti gli esseri creati è marcata dalle
caratteristiche del seme’.
Nella Manusmṛti, e soprattutto nel capitolo IX, sono ribadite quasi
integralmente le convinzioni sulla donna espresse da Pañcacūḍā nello
Śivapurāṇa. In questo caso, tuttavia, la sacralità e l’importanza della
fonte rendono ancora più profondo il consolidamento di tali idee,
elevandole a livello di legge eterna.
In Manusmṛti IX si definiscono, tra le altre cose, le regole a cui si
devono attenere uomini e donne, specialmente un marito ed una
moglie, della quale si dice: ‘La donna deve dipendere dagli uomini
(della sua famiglia) giorno e notte…’. Non è prevista nessuna forma
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di indipendenza, al contrario, ogni età della donna deve avere un
tutore: il padre nell’infanzia, il marito nella giovinezza, i figli nella
vecchiaia.
Il padre ha il dovere di dare la figlia in matrimonio nel momento
opportuno. Il concetto di opportunità concerne anche il marito e il
figlio; il primo non cercherà di avvicinare sessualmente la moglie nei
periodi inadeguati, il secondo, invece, assicurerà alla madre la dovuta
assistenza e protezione dopo la morte del padre.
Le cattive inclinazioni femminili, tante volte sentite, sono ribadite in
Manusmṛti IX, 5: ‘Le donne devono essere sorvegliate soprattutto
contro le cattive inclinazioni, per quanto appaiano insignificanti.
Perché, se non si sorvegliano, esse causeranno dolore a due
famiglie’.
Sei sono dette essere le cause della rovina di una donna: il bere alcol,
la compagnia di persone malvagie, la separazione dal marito, il
girovagare, il dormire nelle ore inappropriate e il vivere nella casa di
altri uomini. Il loro carattere libertino ritorna. Ritroviamo anche la
libidine sfrenata e la mancanza di moralità. Si afferma, infatti, in
Manusmṛti IX, 14: ‘Le donne non si preoccupano della bellezza o
dell’età (degli uomini); (esse pensano) ‘è sufficiente che sia un
uomo’. Concedono se stesse ad uno bello e ad uno brutto’.
Se Pañcacū ḍā considerava se stessa e le altre donne un fallimento
della creazione di Brahmā, nel codice di leggi si attribuisce a Manu
stesso la scelta di instillare nella donna le peggiori qualità.
Manusmṛti X, 17 così recita: ‘Manu (nel momento della creazione)
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assegnò alle donne l’amore per il letto, per la sedia, per gli
ornamenti, i desideri impuri, l’ira, la disonestà, la malizia e la cattiva
condotta’.
La natura delle donne in Manu, a differenza dello Śivapurāṇa, è
priva, se così si può affermare, di quei tratti che la associavano alle
forze infernali, sottomarine e distruttive. Il piano è prettamente
terreno e gli effetti nefasti del contatto con la donna si ripercuotono,
se non debitamente controllati, sulla famiglia e sulla reputazione.
A differenza dell’immagine dell’uomo e del marito emersa dalle
parole della ninfa, nella Manusmṛti è ribadita la necessità dell’uomo
forte, del capofamiglia nel pieno delle sue funzioni di patriarca. Non
più maschi vittime dei giochi delle mogli o amanti, ma abili esecutori
di un controllo privato e sociale sulla donna, unica garanzia del
funzionamento delle dinamiche della vita quotidiana.
Sebbene la questione femminile sia tra i temi più analizzati e noti
della storia e della cultura indiana, essa non smette mai di stupire per
la molteplicità e, a volte, la contraddittorietà delle informazioni.
Dalla parziale ricostruzione qui svolta, dalla quale è stata esclusa una
consistente parte di fonti letterarie vediche e postvediche, è emerso, a
mio parere, l’aspetto peggiore della concezione della donna.
Sono stati evidenziati in particolare i toni di disprezzo e diffidenza
che rappresentano, probabilmente, la parte più arcaica e tradizionale
del pensiero indiano, eredità ancora ben visibile dell’antico uomo
vedico.
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L’esempio purāṇico e il breve accenno alla Manusmṛti hanno
permesso di stabilire alcuni punti fermi della misoginia in India,
valida, tuttavia, anche in altre culture.
La pericolosità delle donna è vista, principalmente, e direi
ovviamente, nella condotta sessuale. Sono stigmatizzate l’eccessiva
lussuria, la mancanza di dedizione totale al marito e il desiderio
smodato di tutto ciò che possa soddisfare i loro capricci.
Implicitamente si riconoscono alle donne doti quali una grande
intelligenza, astuzia, indipendenza di giudizio e autonomia
decisionale. È questo, probabilmente, il motivo che rende inevitabile
la sottomissione e il controllo serrato.
La paura di quanto una donna potrebbe fare rende ancora più forte il
disprezzo nei suoi confronti, come è bene esemplificato dalle
affermazioni dell’Apsaras Pañcacūḍā.
Non è possibile avere, nel caso della cultura indiana, un’idea che
sintetizzi i molteplici aspetti interiori ed esteriori di una donna. Di
essa si evidenziano solo aspetti parziali che non ne ricostruiscono un
quadro completo. Ciò riguarda la donna comune e la divinità
femminile. Le stesse dee hindū, infatti, sono la personificazione di
aspetti parziali delle forze della natura o dei valori della famiglia.
Sono venerate o per il loro aspetto terrifico o per la loro amorevole
figura materna, mai come totalità di vari aspetti.
MARIO RUSSO
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